Brano: IL « MARCHESI » DI ANTONIO LA PENNA
1. Marchesi, la filologia tedesca, il marxismo. — Nel maggio del 1979, in un convegno per il centenario della nascita di Concetto Marchesi e di Manara Valgimigli, Antonio La Penna lesse una relazione sulla formazione di Marchesi come critico letterario. Ora la relazione, rielaborata e molto ampliata, è divenuta un saggio d'insieme su Marchesi: un saggio denso ed essenziale, che per la prima volta ci dà un'immagine complessiva e convincente di una personalità cosí tormentata, cosí ricca di fascino e di aspetti sconcertanti.
Precedenti autori di libri e articoli su Marchesi hanno creduto di metterne in piú viva luce il[...]
[...]e come creazione assolutamente individuale; angosciato dal dubbio esistenziale, dal « mistero », da un bisogno di fede religiosa sempre insoddisfatto e sempre perdurante, eppure non toccato da alcun dubbio di fronte alle atrocità staliniane, nemmeno quando esse, troppo tardi e troppo poco, furono sconfessate dal comunismo « ufficiale »; ostile all'aridità del « filologismo », eppure, quando si dedicava a lavori filologici, seguace proprio di una filologia « arida », senza ricerca di connessioni con la storia politicoculturale e la critica letteraria. Giustamente il La Penna ritiene (p. 93 s.) che queste ed altre contraddizioni, se devono essere francamente messe in rilievo e criticate, non per questo inducano a un giudizio svalutativo su Marchesi:
Ci sono personalità coerenti, in cui la coerenza è facilitata dalla povertà spirituale; ce ne sono altre ricche e incoerenti, in cui l'incoerenza è aggravata dalla ricchezza stessa: Marchesi è tra queste ultime [...] Sarebbe strano che noi dovessimo ricorrere a forzature unitarie proprio nell'interp[...]
[...]namenti importanti, abbia arricchito la nostra cultura e la nostra umanità.
A prima vista, chi conosca Antonio La Penna considererà forse piú ovvio e comprensibile il distacco nei riguardi di Marchesi che la capacità di adesione e di valutazione positiva. Gran parte dell'opera di La Penna come studioso della poesia, della cultura, della società antica nasce da una sintesi (sintesi creativa e originale, non eclettismo né giustapposizione) tra la filologia di Wilamowitz, Leo, Norden, Pasquali, mirante a riimmergere l'opera letteraria nell'ambiente e nella tradizione culturale da cui trasse impulso e alimento, di intendere storicamente, non come pure « illuminazioni » prive di antecedenti, anche i valori stilistici, formali della poesia, e l'esigenza marxista di collegare i fatti letterarioculturali e ideologici con la struttura economicosociale e con le istituzioni e le vicende politiche (un marxismo, quello del La Penna, tendente a ridurre al minimo l'eredità hegeliana, ad accentuare l'istanza empirica, senza tuttavia cadere in un empirismo di[...]
[...] col marxismo (cfr. La Penna, p. 13). Ancor maggiore è l'estraneità a quell'indirizzo filologico « wilamowitziano » a cui abbiamo accennato poc'anzi. In Marchesi il fatto poetico ha i propri antecedenti solo nell'esperienza sentimentale, nella psicologia e nella biografia del poeta, non nella lettura di poeti precedenti, nella tradizione culturale a cui il poeta appartiene (La Penna, pp. 37, 55 s., 73 s., 93).
Nella prolusione padovana del 1923 Filologia e filologismo (in Scritti minori, Firenze 1978, rii, p. 1233 ss.: d'ora innanzi indicherò, seguendo il La Penna, questa silloge con SM), al cui esame il La Penna dedica il cap. viii, uno dei piú penetranti del suo libro, Marchesi conduce contro lo « studio delle
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fonti » una polemica che, in ciò che ha di giusto, è una battaglia di retroguardia, perché critica un metodo di scomposizione meccanica dell'opera d'arte e di riduzione del poeta a imitatore passivo dei suoi antecessori, che non era stato proprio nemmeno di tutta la filologia positivistica (a[...]
[...]loge con SM), al cui esame il La Penna dedica il cap. viii, uno dei piú penetranti del suo libro, Marchesi conduce contro lo « studio delle
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fonti » una polemica che, in ciò che ha di giusto, è una battaglia di retroguardia, perché critica un metodo di scomposizione meccanica dell'opera d'arte e di riduzione del poeta a imitatore passivo dei suoi antecessori, che non era stato proprio nemmeno di tutta la filologia positivistica (anche il positivismo aveva avuto, nelle scienze naturali e umane piú ancora che nella filosofia, i suoi uomini d'ingegno e di genio) e che, comunque, era stato già superato proprio dalla migliore filologia tedesca (se con qualche seria ricaduta in un discutibile neoumanesimo e nazionalismo, non importa qui discutere). Di quel ben piú complesso e raffinato modo di porre il problema del rapporto tra l'opera poetica e i suoi antecedenti, che aveva prodotto già esempi insigni nel commento del Wilamowitz all'Eracle di Euripide o nella Kunstprosa e in altre opere di Norden o in lavori, pur discutibili per altri lati, di R. Heinze, Marchesi non avverte la novità e la fecondità. Accenna, è vero, a una distinzione che ha notevole importanza, tra fonti, per cosí dire, meramente « contenutistiche » e anal[...]
[...]co piú che un elenco arido »; migliore è qualche altra ricerca (La Penna, p. 23 s.); ma Marchesi, critico pur non privo di senso stilistico, era piú capace di caratterizzare globalmente lo stile di uno scrittore che di analizzarlo puntualmente (egli cita quasi sempre passi tradotti, non testi in latino; e quanto anche la piú bella traduzione sia inadeguata a sostituire l'interpretazione non fu mai del tutto chiaro a lui, mentre fu chiaro, fin da Filologia e storia, a Giorgio Pasquali)1; e quindi era poco sensibile a quel rapporto di zêlos, di « citazioneemulazione », che piú tardi Pasquali teorizzerà con la massima limpidezza nel saggio Arte allusiva del 1942, ma che aveva già attratto l'attenzione e lo studio di filologi tedeschi dell'ultimo Ottocento e del primo Novecento, e di Pasquali stesso nell'Orazio lirico. Pasquali fu sempre ostentatamente ignorato da Marchesi, e tra i due studiosi ci fu sempre reciproca
I G. PASQUALI, Filologia e storia (1920), nuova ed. a cura di A. Ronconi, Firenze 1964, capp. vvi. Ma già Moriz Haupt aveva sentenz[...]
[...] quindi era poco sensibile a quel rapporto di zêlos, di « citazioneemulazione », che piú tardi Pasquali teorizzerà con la massima limpidezza nel saggio Arte allusiva del 1942, ma che aveva già attratto l'attenzione e lo studio di filologi tedeschi dell'ultimo Ottocento e del primo Novecento, e di Pasquali stesso nell'Orazio lirico. Pasquali fu sempre ostentatamente ignorato da Marchesi, e tra i due studiosi ci fu sempre reciproca
I G. PASQUALI, Filologia e storia (1920), nuova ed. a cura di A. Ronconi, Firenze 1964, capp. vvi. Ma già Moriz Haupt aveva sentenziato con ragione, benché con una certa paradossalità: « Das Ubersetzen ist der Tod des Verständnisses » (in Ch. BELGER, M. Haupt als akademischer Lehrer, Berlin 1879, p. 248). Anche nei commenti scolastici a classici latini — pur pregevoli per molti aspetti: cfr. LA PENNA, p. 82 — una manchevolezza, secondo me, è costituita dal fatto che Marchesi si limita per lo piú a tradurre singole parole o brevi frasi, mentre è molto avaro di altre delucidazioni (questo suo modo di commentare è da lu[...]
[...] traduzione dei classici a Padova, Padova, Antenore, 1976, p. 23 ss. Fra le poche traduzioni in versi riuscite, giustamente il Pianezzola (pp. 3638) cita e riporta la monodia di Tieste nell'omonima tragedia di Seneca e una parte del coro delle Troades sulla morte come annullamento.
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incomprensione, credo anche antipatia personale. Forse l'unica allusione a Pasquali (finora, che io sappia, non notata) si trova appunto in Filologia e filologismo, e riguarda ancora quella che a Marchesi sembrava una stortura nella moderna ricerca delle fonti, il voler rintracciare fonti diverse dalle poche dichiarate e confessate dagli stessi autori antichi: « Cosí non è creduto Orazio quando dichiara che i suoi ispiratori sono fra i lirici classici della Grecia » (SM, III, p. 1236). L'Orazio lirico era uscito appena tre anni prima della prolusione di Marchesi: mi pare indubbio che Marchesi voglia colpire la tesi, effettivamente, piú discutibile (anche se non liquidabile senz'altro) del libro pasqualiano: la derivazione della lirica oraz[...]
[...]ichi: « Cosí non è creduto Orazio quando dichiara che i suoi ispiratori sono fra i lirici classici della Grecia » (SM, III, p. 1236). L'Orazio lirico era uscito appena tre anni prima della prolusione di Marchesi: mi pare indubbio che Marchesi voglia colpire la tesi, effettivamente, piú discutibile (anche se non liquidabile senz'altro) del libro pasqualiano: la derivazione della lirica oraziana dalla lirica ellenistica.
Di un'opera della « nuova filologia » tedesca, tuttavia, Marchesi giunse a intendere almeno in parte il valore e la novità: il primo volume (purtroppo, come è noto, l'unico uscito) della Geschichte der römischen Literatur di Friedrich Leo. La recensione che ne pubblicò al suo apparire (ora in SM, III, pp. 11071109) è, come la maggior parte delle recensioni di Marchesi, troppo frettolosa, e rivela una lettura non sempre attenta. Tuttavia è affermato giustamente con forza il carattere non manualistico dell'opera, il « vigore d'ingegno » che essa rivela: Marchesi tende addirittura a forzarne il carattere antierudito, ad affermare [...]
[...]i Marchesi, troppo frettolosa, e rivela una lettura non sempre attenta. Tuttavia è affermato giustamente con forza il carattere non manualistico dell'opera, il « vigore d'ingegno » che essa rivela: Marchesi tende addirittura a forzarne il carattere antierudito, ad affermare che si tratta di « un'opera, piú che critica, artistica », il che è conforme piú agli ideali di Marchesi stesso che alle intenzioni e alla realtà del volume del Leo. Anche in Filologia e filologismo (SM, III, p. 1241), fra tante riserve e censure riguardo alla filologia tedesca, spicca un alto riconoscimento del valore del Leo. Osserva il La Penna (p. 55) che questa « è un'eccezione che non incide troppo sull'atteggiamento generale », ed è vero. Ma su un punto la lettura del Leo influí positivamente su Marchesi: sulla valutazione di Plauto, poeta di grande originalità, ma non popolaresco in senso immediato e triviale, bensí dotato di cultura, di raffinato senso ritmico, esprimentesi in una lingua piena di espressività e di forza vitale, ma non « volgare ». Si confronti l'accenno a Plauto nella recensione già citata al Leo (SM, in, p.. 1108) con ciò che nella[...]
[...]non era stato finora notato con tanta lucidità.
2. Il criticoartista. — Abbiamo accennato che meno ovvi possono apparire i motivi per cui, nonostante le forti differenze di impostazione metodologica (a cui si aggiungono diversità non meno notevoli di idee politiche e di Weltanschauung), La Penna è portato a simpatizzare con certi aspetti assai significativi della critica letteraria di Marchesi. Ma bisogna tener conto del fatto che la sintesi di filologia tedesca e di marxismo (o, come da qualche tempo egli preferisce dire, di « empiriomaterialismo ») non esaurisce il compito che La Penna si prefigge in quanto studioso del mondo antico (e non di esso soltanto). Egli ritiene che dovere del critico sia anche esprimere giudizi di valore sull'opera d'arte, contribuire a far partecipi gli altri di quella felicità (la felicità, secondo lui, più profonda e intensa concessa all'uomo) che è data appunto dall'arte, pur con la certezza che il giudizio estetico, come tutti i giudizi di valore, è soggettivo e che ufficio del critico non può essere, quando [...]
[...]cca e affascinante dei miti e delle mistificazioni (p. 96: è la chiusa del saggio).
L'esortazione alla « misura » e al « rispetto della verità » non si riferisce soltanto, credo, alla mancanza di interesse storicoculturale e al misticismo estetico a cui abbiamo già accennato. Si riferisce anche, suppongo (e ciò, forse, andava piú messo in rilievo) alla sicurezza assoluta di giudizio che Marchesi ha sempre mostrato nella sua opera di critico. In Filologia e filologismo (SM, III, p. 1235; cfr. II, p. 544) Marchesi afferma drasticamente: « Noi sappiamo che se i gusti sono tanti, il buon gusto è uno solo » (sua è la sottolineatura). Croce credeva di sfuggire al relativismo del giudizio estetico con la famigerata teoria dell'identità di genio e gusto (Estetica, cap. xvi): dell'atto del giudizio non è protagonista il critico in quanto « individuo empirico », ma il Soggetto assoluto che opera in lui, e che è anche (esso, e non il poeta in quanto altro individuo empirico) il creatore dell'opera d'arte. Marchesi non aveva dimestichezza con questi filo[...]
[...]ppresentare il dramma umano e di consolare (parzialmente) dall'infelicità. Chiamerei estetizzanti solo alcune prose meno felici di Marchesi, quelle (frequenti soprattutto nel Libro di Tersite) in cui l'autore si rivolge a una non meglio identificata signora, con un tono fra il galante e lo gnomico. Ma queste pagine non aggiungono alla figura di Marchesi nessun tratto importante.
Anche la dicotomia, ben osservata dal La Penna (p. 55 s.), tra una filologia strettamente e un po' aridamente tecnica (quante pure e semplici collazioni di codici, ora raccolte in SM, nel primo quindicennio di attività!)
e una critica letteraria aliena da ogni filologia va messa in rapporto, a mio avviso, con una pratica di lavoro frequente in molti filologi classici o, ancor piú, italianisti o romanisti della « scuola storica », che alternavano a un'erudizione troppo arida una saggistica fin troppo divulgativa, con tendenza allo psicologismo e al « bello scrivere », spesso anche alla retorica. Naturalmente si sottraggono a tale caratterizzazione capolavori come il Virgilio nel Medio Evo del Comparetti; ma non vi si sottrae del tutto il Carducci (a
9 Specialmente negli ultimi anni, e in scritti di argomento estraneo alla letteratura latina, l'accenno ai « t[...]
[...]artista e troppo psicologista come critico letterario. Il Graf è figura ancora poco studiata; quando uscirà il saggio a lui dedicato da Girolamo de Liguori (di cui ho potuto leggere una parte ancora inedita), anche certe caratteristiche e certe contraddizioni di Marchesi ne usciranno, penso, meglio chiarite. E per quel ché riguarda gli italianisti e i medievalisti di fine Ottocento, non si dimentichi che nella produzione giovanile di Marchesi la filologia medievale e umanistica prevalgono, come quantità e anche come valore, sulla filologia classica, seguendo l'esempio di Remigio Sabbadini, anche lui, malgrado le cure date al testo di Virgilio, migliore studioso dell'umanesimo che della letteratura latina antica. Di questa produzione giovanile di Marchesi tratta in modo eccellente il La Penna nel cap. ir del suo saggio, e io non ho nulla da aggiungere; qualcosa, piú oltre, dirò del Marchesi filologo classico.
Con ciò non intendo certo sostenere che Marchesi abbia trascorso la maggior parte della sua vita intellettuale chiuso dentro una corazza tardopositivistica, insensibile ad ogni influsso del neoidealismo e dell'irrazionalis[...]
[...]i fornisce (a p. 30 e in un'appendice a pp. 101103) parecchi esempi, discutendo intelligentemente vari passi e proponendo anche qualche suo contributo persuasivo.
Sia la valutazione generale di Marchesi filologo, sia le discussioni lapenniane di singoli passi sono in massima parte giuste. E rimane ovvio che per la sua indole stessa di criticoartista, per la sua polemica contro il « filologismo » che assieme al filologismo tendeva a svalutare la filologia, Marchesi non poteva riuscire un filologo di prima grandezza: il centro della sua personalità e dei suoi interessi era altrove.
Su due punti, tuttavia, mi sembra necessaria una precisazione. Per quel che riguarda il primo periodo dell'attività criticotestuale di Marchesi (cioè fino all'Arnobio escluso), mentre le edizioni dell'Orator, del De magia e dell'Ars amatoria vanno abbandonate senza rimpianti al giudizio negativo del La Penna — si potrà sempre discutere su qualche singolo passo, ma il quadro d'insieme non muta —, quella del Tieste di Seneca è un'edizione che presenta alcune imprecisi[...]
[...]io indirizzo criticotestuale: nell'introduzione al Tieste il Leo e il Richter sono chiamati, in contesti polemici, « gli studiosi tedeschi », « gli editori tedeschi » (pp. 29, 38), e di « pernicioso influsso germanico », di « metodiche aberrazioni della cultura germanica » a cui gli italiani devono opporre « una cultura latina [ ... ] fondata sul "buon senso" ch'è sapientia » si parla con insistenza — riferendosi anche alla critica testuale — in Filologia
e filologismo (SM, in, pp. 1237, 1241; cfr. La Penna, p. 54). Ben diverso, anche se ebbe i suoi occasionali eccessi, era il conservatorismo criticotestuale della scuola svedese. Esso partiva dallo studio dei testi latini tardi, dai fatti lessicali e sintattici che da un lato anticipavano molti sviluppi delle lingue romanze, dall'altro si riconnettevano al latino arcaico, in parte per consapevole arcaismo, in parte maggiore per riemersione di una ininterrotta corrente di lingua popolare rimasta celata sotto la lingua letteraria degli scrittori dell'età classica. Non si trattava, quindi, da pa[...]
[...]'adesione a questo nuovo conservatorismo, particolarmente necessario per un autore come Arnobio, cosí pieno non solo di volgarismi e arcaismi, ma di espressioni personali, di hapax, quasi tutti disconosciuti dal mediocrissimo editore anteriore al
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Marchesi, August Reifferscheid. Per la prima volta nella sua vita Marchesi si mise a studiare un testo parola per parola, facendo i conti con la linguistica e la filologia fiorite fuori d'Italia, abbandonando (non nella concezione generale dei rapporti tra filologia e critica letteraria, ma nella tecnica filologica sí) il provincialismo. E non si limitò a far tesoro dei contributi altrui: notò egli per primo molte particolarità, inconcinnità sintattiche, stranezze individuali del latino di Arnobio (ricordo un solo esempio fra i tanti: l'uso di homo = corpus contrapposto all'anima, cfr. p. 51, 1 della 2a ed., e aggiungi ai passi citati dal Marchesi p. 58, 17 s.). Alcuni casi di conservatorismo eccessivo vi sono, e il La Penna ha quasi sempre ragione nel notarli (quasi sempre: io credo ancora, e tornerò eventualmente a discuterne altrove, che a pp. 3, 17; [...]
[...]iú o meno esplicita, che la forza d'intuizione latina avesse poco di importante da imparare dalla pedanteria teutonica. Sul finire degli anni Venti accadde evidentemente in lui un ripensamento, senza il quale non sarebbe immaginabile l'edizione di Arnobio. Il Franceschini, filologo di prim'ordine ma non disposto a esprimere sul suo Marchesi alcuna riserva e quindi nemmeno a compiere alcuna periodizzazione, riconosce nell'Arnobio il culmine della filologia di Marchesi ma considera eccellenti anche le edizioni critiche anteriori (op. cit., pp. 267, 308309); tuttavia testimonianze dello stesso Franceschini come: « Ricordo le lunghe discussioni sulla scelta di una variante, le ragioni valide per l'una o per l'altra parola, le ricerche lessicali e stilistiche, e ancora i dubbi e le incertezze, prima della decisione » (p. 94 s.); o: « Quante volte lo incontrai dopo una notte passata insonne per lo studio di una variante! » (p. 130, e ancora p. 167) non possono riferirsi che all'Arnobio (per « varianti » il Franceschini intenderà, insieme alla lezion[...]
[...] insonne per lo studio di una variante! » (p. 130, e ancora p. 167) non possono riferirsi che all'Arnobio (per « varianti » il Franceschini intenderà, insieme alla lezione tramandata, le varie proposte congetturali, ché il codice di Arnobio, come si sa, è uno solo) o forse a esercitazioni di seminario su testi medievali: non certo, per ovvie ragioni cronologiche, alle edizioni degli anni 190418, quando Marchesi non aveva ancora quel gusto per la filologia « puntuale » che gli venne piú tardi. Io suppongo, diversamente da Franceschini (op. cit., p. 157), che sia stata questa svolta a non fargli ripubblicare in alcuno dei suoi volumi piú tardi la prolusione Filologia e filologismo, e, aggiungo, a fargli apprezzare lavori di filologia « arida » come gli Studi sui Topici del Riposati (dr. Franceschini, p. 44). Ma, detto tutto ciò, vorrei ancora pregare di non frainten
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dermi: anche nell'ultimo Marchesi la filologia, pur tanto meglio apprezzata e praticata, rimase un'attività marginale.
9. Tommaso Fiore e gli « intellettuali disorganici ». — Se ora, dopo essermi soffermato cosí a lungo sul Marchesi di La Penna (mettendo a dura prova la pazienza dell'eventuale lettore), non mi soffermo sul piú breve saggio su Tommaso Fiore interprete di Virgilio (pp. 107131), non è perché non lo consideri degno del precedente, ma soltanto perché lo spazio ormai manca e perché in questo caso non avrei da esprimere osservazioni o aggiunte, ma soltanto consensi. Dirò solo che questo scritto, pur nella sua concisione, dà piú[...]