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da Enciclopedia dell'antifascismo e della Resistenza. Vol V (R-S), p. 403

Brano: Savoia, Vittorio Emanuele Ili

Da sinistra: Mussolini, Hitler, Goebbels, Hess, Vittorio Emanuele III e la regina durante la sfilata in onore idi Hitler a Roma (1938)

Anzi, Vittorio Emanuele fece sapere a Giovanni Amendola che non sarebbe intervenuto: « lo sono cieco e sordo. I miei orecchi sono la Camera e il Senato ». Una posizione, dunque, di pseudo conformità alla prassi costituzionale. ma sottilmente arcigna, stessuta di pignoleria e di realismo, alla stregua di un modesto burocrate cji stato. Siccome si trattava di un giudizio di appello, i liberaldemocratici gli imputeranno questa colpa più ancora della scelta compiuta nel fosco mattino del 28 ottobre.

Altre minori crisi sancirono la perdita di prestigio e di potere della monarchia: fu il caso della legge che investiva di poteri costituzionali il Gran Consiglio del fascismo [...]

[...]one, dunque, di pseudo conformità alla prassi costituzionale. ma sottilmente arcigna, stessuta di pignoleria e di realismo, alla stregua di un modesto burocrate cji stato. Siccome si trattava di un giudizio di appello, i liberaldemocratici gli imputeranno questa colpa più ancora della scelta compiuta nel fosco mattino del 28 ottobre.

Altre minori crisi sancirono la perdita di prestigio e di potere della monarchia: fu il caso della legge che investiva di poteri costituzionali il Gran Consiglio del fascismo (v.), chiamando fra l’altro quest’organo prettamente fascista a deliberare sulla successione dinastica; e poi, nel 1938, quando venne creata la carica di “maresciallo dell'impero”, attribuita alla pari a Mussolini e al re. Ma a questo punto, ormai vicino ai settantanni, Vittorio Emanuele si era come rinchiuso in sé stesso, lontano da ogni contatto con la gente, circondato dalle cerimonie di un regime per cui non aveva simpatia e che pure gli aveva procurato il titolo di « imperatore di Etiopia », a cui ben presto si aggiunse quello di « re d’Albania ». Tuttavia egli stimava ancora Mussolini e, nonostante il senso di distacco che nutriva per il suo fondo plebeo, sembrava attratto dalla sua “abilità”. Preparandosi l’impresa etiopica, era rimasto perplesso e ostile fino al suo viaggio in Somalia, e anche di fronte alla Seconda guerra mondiale, durante la “non belligeranza” (v.), il re non aveva nascosto di recalcitrare all’idea dell’intervento, per di più al fianco dei tedeschi.

Il distacco dal regime

Ormai vecchio, diffidente nei[...]

[...]a procurato il titolo di « imperatore di Etiopia », a cui ben presto si aggiunse quello di « re d’Albania ». Tuttavia egli stimava ancora Mussolini e, nonostante il senso di distacco che nutriva per il suo fondo plebeo, sembrava attratto dalla sua “abilità”. Preparandosi l’impresa etiopica, era rimasto perplesso e ostile fino al suo viaggio in Somalia, e anche di fronte alla Seconda guerra mondiale, durante la “non belligeranza” (v.), il re non aveva nascosto di recalcitrare all’idea dell’intervento, per di più al fianco dei tedeschi.

Il distacco dal regime

Ormai vecchio, diffidente nei confronti del figlio Umberto (v.) che gli appariva inetto alla successione, Vittorio Emanuele si astenne dal sostenere attivamente lo sforzo della guerra. Nella coreografia del regime, egli sembrava ormai una figura di secondo piano.

La sua capacità di analisi e percezione l’avrebbe però condotto a una ripresa quasi paradossale di iniziativa, tessendo la congiura contro

il dittatore che stava portando il paese, e la stessa dinastia, alla sconfitta.

Da questo risveglio, nel silenzio di ristretti ambienti di corte, sarebbe scaturito il colpo di stato del 25 luglio [...]

[...]rto (v.) che gli appariva inetto alla successione, Vittorio Emanuele si astenne dal sostenere attivamente lo sforzo della guerra. Nella coreografia del regime, egli sembrava ormai una figura di secondo piano.

La sua capacità di analisi e percezione l’avrebbe però condotto a una ripresa quasi paradossale di iniziativa, tessendo la congiura contro

il dittatore che stava portando il paese, e la stessa dinastia, alla sconfitta.

Da questo risveglio, nel silenzio di ristretti ambienti di corte, sarebbe scaturito il colpo di stato del 25 luglio (v.). Ma il re non si volle muovere se non quando vi fosse stata assoluta sicurezza di riuscita

e, per questo, attese e colse l’occasione della seduta del Gran Consiglio del fascismo, in cui Grandi mise in minoranza Mussolini. Lo strumento e argomento tecnico usato dalla fronda fascista, ben presto esautorata e andata a pezzi, fu anzi

il ritorno al sovrano del comando delle forze armate, che lui stesso aveva ceduto a Mussolini.

Anche dopo il 25 luglio Vittorio Emanuele si tenne il più possibile distante dalle sollecitazioni degli antifascisti, che ora tornavano sulla scena più forti, sostenuti da molte buone ragioni, più uniti e radicalizzati di venti anni prima. Una volta nominato Badoglio alla testa del governo, egli sperava probabilmente di non dover troppo amputare l’opera del fascismo.

La fuga di Pescara

Il progetto di Vittorio Emanuele, più istintivo che politico, aderiva ancora una volta a uno schema di classe allora piuttosto diffuso, dopo il ventennio della dittatura, al vertice del mondo borghese italiano: un fascismo “moderato”, riconciliato col capitalismo occidentale e più organico alle tradizioni italiane, poteva sopravvivere. Ma anche questo disegno doveva presto tramontare e fu travolto all'atto deH'armistizio nella fuga dalla Capitale (9 settembre), in cui il re seguì Badoglio e fu accompagnato dal figlio Umberto (v. Pescara, Fuga di).

Per casa Savoia sarebbe stato un altro grave capo d’accusa. Si era posta in tal modo definitivamente — mentre nel Nord si sviluppava la resistenza antifascista e antitedesca — la questione istituzionale.

Insediato il 10 settembre a Brindisi (v.), il re non volle sapere di proposte che contemplassero il suo ritiro, comunque formulate. Solo in seguito al maturare di nuovi elementi fu possibile sbloccare la situazione: avviato un nuovo e più largo governo Badoglio, col concorso dei partiti antifascisti, il 12.4.

1944 Vittorio Emanuele si impegnò ad affidare la Luogotenenza del Regno (v.) al figlio Umberto, a partire dal momento della liberazione di Roma. Tale impegno fu reso formalmente esecutivo il successivo

5 giugno.

Rimasto isolato in una residenza del Mezzogiorno, il vecchio re tornò a farsi vivo per l’ultima volta con un atto di abdicazione concertato col figlio ed emanato il 9.5.1946, quando il referendum istituzionale e l’elezione deN’Assemblea costituente erano ormai alle porte, per influenzarne i risultati. Fu l’ultima “scorrettezza”, neH’ambiguo tentativo di stornare un giudizio del popolo centrato sulla sua persona e dì facilitare Umberto a conservare la corona. A Vittorio Emanuele non rimase comunque che un anno e mezzo di vita, che trascorse in esilio ad Alessandria d’Egitto.

Bibliografia:_G. Volpe, Vittorio Emanuele III, Milano 1939; A. Degli Es[...]

[...]mbiguo tentativo di stornare un giudizio del popolo centrato sulla sua persona e dì facilitare Umberto a conservare la corona. A Vittorio Emanuele non rimase comunque che un anno e mezzo di vita, che trascorse in esilio ad Alessandria d’Egitto.

Bibliografia:_G. Volpe, Vittorio Emanuele III, Milano 1939; A. Degli Espinosa, Il Regno del Sud, Roma 1946; Gec (E. Gianeri), Il piccolo re. Vittorio Emanuele nella caricatura, Torino 1946; D. Bartoli, V.E. Ili, Milano 1946; ld., La fine della monarchia, Milano 1966; U. D' Andrea, La fine di un regno: grandezza e decadenza di V.E. Ili, Torino, 1951; M. Viana, La monarchia e il fascismo. L’angoscioso dramma di V.E. Ili, Roma 1951; S. Scaroni, Con V.E. Ili, Milano 1954; N. D’Aroma, Vent' anni insieme: V.E. e Mussolini, Bologna 1957; P. Puntoni, Parla V.E. Ili, Milano 1958; R. Katz, La fine dei Savoia, Roma 1975; S.



da Contro ogni ritorno : dal fascismo alla Costituzione repubblicana : Provincia di Firenze, 2 giugno 1972 / \a cura di Claudio Galanti, Paolo Tinti, Giovanni Verni!, p. 14

Brano: salto in forze alla Prefettura di Pisa, vale a dire all’autorità politica di un’altra provincia stop Mi si afferma che l’iscrizione di ufficiali e di militari ai fasci sia stata fatta col consenso del Comando del Corpo d’Armata, il quale Comando avrebbe ragionato in una maniera semplicistica, per cui, essendo dal regolamento di disciplina proibita la partecipazione di ufficiali ad associazioni sovversive e questa non essendo un’associazione sovversiva bensì patriottica, non deve considerarsi esclusa da quelle cui gli ufficiali possono partecipare stop Una serie di ufficiali partecipano notoriamente a spedizioni più

o meno punitive del fascismo e vi sono casi di conflitti in cui anche tra essi vi sono stati dei morti e dei feriti stop E tutto ciò senza che mai intervenga un’azione regolatrice e repressiva dell’autorità militare del Corpo d’Armata e senza che s’indaghi a fondo, si punisca e si reprima in tutte le maniere questa azione prettamente politica che si esplica per mezzo dei reati, perché non credo che altrimenti possano e debbano essere definiti gli atti di devastazione e di violenza contro le persone, che si vanno commettendo stop A colorire questa situazione la quale, se l’occasione di parlarne a V.E. mi è stata fornita dai fatti di Toscana, è, per altro, generale in molte provincie e regioni del Regno, mi permetto di richiamare l’attenzione dell’E.V. sugli incidenti recentemente avvenuti a Cittadella stop A Cittadella — la relazione completa deve esserLe stata fatta pervenire dal Comando dei Carabinieri — sono avvenute cose inverosimili stop Un maggiore del presidio redarguisce la forza e i carabinieri perché avevano arrestato in flagrante violenza alcune persone e un tenente in attività di servizio e si mette a capo dei fascisti che assaltano la caserma stop Uomini dell’Armata assistono all’eccidio del maresciallo che aveva eseguito l’arresto e che compiva assolutamente e interamente il proprio dovere stop Ripeto, tutti gli elementi di questa inverosimile tragedia sono consegnati in relazione dell’Arma dei Carabinieri già rimessa all’E.V. stop Le autorità militari del luogo sono indubbiamente infette dal sospetto di aver cercato di occultare le responsabilità stop /Io richiamo l’attenzione della E.V. sul danno che deriverà all’istituto militare da questa serie di fatti i quali feriscono tutto il meraviglioso spirito che ha costituito sempre il primo principio del nostro esercito, la tradizione di istituzione estranea alle lotte politiche, neutrale nei conflitti interni e sempre, in tutte le occasioni, strumento di pacificazione e di ordine e di rispetto all’istituto dello Stato. Intanto quello che è urgente è un intervento immediato autorevole nelle cose di Toscana, ove, come ho detto in principio, da quelle organizzazione fasciste si minacciano spedizioni di rappresaglia in forze contro un’altra provincia stop E necessario che tutto ciò sia esaminato immediatamente e immediatamente un intervento autorevole

paralizzi questa connivenza dell’ambiente militare in questi fatti criminosi stop Io provvedo a mettere, con le poche forze che abbiamo disponibili, in stato di sicurezza Pisa ma V.E. comprende che debbo poter fare assegnamento sullo spirito e sull’azione della forza pubblica militare a Firenze e a Pisa, poiché da una parte minacciano assalto dall’altra occorre disporre stato resistenza stop La cosa è tanto più necessaria in quanto si provvede altresì a colpire quelle organizzazioni che si sono messe fuori della legge, con la denunzia, e, se occorre, con l’arresto dei capi stop Prego l’E.V. di assicurarmi che tutto ciò sarà fatto anche per mia norma nel provvedere alla situazione che si va creando.

SOTTOSEGRETARIO STATO INTERNI Corradini

“ ... Quanto è stato, ed è, asserito relativamente al contegno tollerante usato, e che si usa, verso i fascisti dai Funzionari, agenti investigativi e regie guardie, in Toscana, e in particolar modo a Firenze, risulta, in gran parte, conforme a verità e viene, dai responsabili, che non fanno mistero dei loro sentimenti, giustificato come reazione alle continue violenze verbali e materiali e alla propaganda di disprezzo e di odio dei sovversivi e della loro stampa. Essi, fra l’altro, ricordano ancora con indignazione, due articoli, comparsi nello scorso dicembre, sul giornale “ Avanti! ”, con uno dei quali si faceva appello ai negozianti di boicottare i componenti la forza pubblica e le loro famiglie e con l’altro si diceva, doversi considerare e trattare come puttane, le donne, le mogli e figlie, di carabinieri, agenti e guardie.

Tale sistema di violenza e di volgari ingiurie dovuto, certamente, ad istinti brutali ed a bassezza morale, dalla parte meno colta ed evoluta del comuniSmo, ha generato nei funzionari, specie più giovani, e negli agenti, un tale stato d’animo di insofferenza e rancore che ora trova il suo sfogo con l’adesione al fascismo, dal quale si ritengono sorretti e difesi, adesione che è vera e propria tolleranza all’azione dei fascisti coi quali, più volte, hanno fatto causa comune. Tutto ciò con [...]

[...]e, le donne, le mogli e figlie, di carabinieri, agenti e guardie.

Tale sistema di violenza e di volgari ingiurie dovuto, certamente, ad istinti brutali ed a bassezza morale, dalla parte meno colta ed evoluta del comuniSmo, ha generato nei funzionari, specie più giovani, e negli agenti, un tale stato d’animo di insofferenza e rancore che ora trova il suo sfogo con l’adesione al fascismo, dal quale si ritengono sorretti e difesi, adesione che è vera e propria tolleranza all’azione dei fascisti coi quali, più volte, hanno fatto causa comune. Tutto ciò con discapito del loro prestigio e del principio d’autorità che impone serenità ed imparzialità ”

“ ... La sera del 16 corrente [in realtà di aprile] due fascisti si recarono dal Tenente colonnello comandante il deposito del 19° Regg. Artiglieria con una lettera di presentazione e raccomandazione — compilata in forma assai generica per quel che riguarda l’oggetto della raccomandazione stessa — di un colonnello addetto al Comando del Corpo d’Armata di Firenze che è incaricato del servizi[...]

[...]ed imparzialità ”

“ ... La sera del 16 corrente [in realtà di aprile] due fascisti si recarono dal Tenente colonnello comandante il deposito del 19° Regg. Artiglieria con una lettera di presentazione e raccomandazione — compilata in forma assai generica per quel che riguarda l’oggetto della raccomandazione stessa — di un colonnello addetto al Comando del Corpo d’Armata di Firenze che è incaricato del servizio di propaganda, e dichiaravano di aver bisogno di cinquanta moschetti e mille cartucce tipo austriaco. Data la provenienza della lettera e nella persuazione che si trattasse

di assecondare gli intendimenti dell’autorità superiore, il Comandante del deposito assentì alla concessione di detti materiali e questa fu anche approvata dal Colonnello Comandante del reggimento allorché rientrò in caserma.

In considerazione della grave mancanza che questi due comandanti hanno com messo — sia pure in buona fede — dando armi ad estranei e contravvenendo a disposizioni ripetutamente impartite circa le gelosa conservazione delle armi stesse, sono stati adottati a carico di essi, pur tenuto conto dei loro ottimi precedenti, adeguati provvedimenti disciplinari. Anche il Colonnello addetto al Comando del Corpo d’armata ufficiale di elette qualità mutilato di guerra e decorato della medaglia d’oro, che assolve le sue funzioni in modo degno del più alto elogio, è stato punito per aver dimostrato nella circostanza di cui trattasi, di essersi soverchiamente interessato a vicende politiche locali ”

k< ... In adempimento di quanto fu disposto col telegramma n. 8918, ho telegrafato, nel termine assegnatomi, proposta di trasferimento di alcuni ufficiali dei Carabinieri e della R. Guardia. Mi permetto però di rappresentare all’E.V. che il largo favore di cui godono i fascisti presso la popolazione è dovuto al fatto che dal fascismo questa si è vista liberata dalle prepotenze continuate e generali di cui era vittima, da un paio d’anni almeno, da parte dei Comunisti.

Ed i fascisti sono in questa Provincia numerosi ed organizzati come in[...]

[...]i alcuni ufficiali dei Carabinieri e della R. Guardia. Mi permetto però di rappresentare all’E.V. che il largo favore di cui godono i fascisti presso la popolazione è dovuto al fatto che dal fascismo questa si è vista liberata dalle prepotenze continuate e generali di cui era vittima, da un paio d’anni almeno, da parte dei Comunisti.

Ed i fascisti sono in questa Provincia numerosi ed organizzati come in nessun’altra del Regno, e largamente sovvenzionati pei fondi che industriali, proprietarii e commercianti versano... Appena ricevuto il telegramma dell’E.V., ho conferito col generale Ferrerò, comandante del Corpo d’Armata... egli mi ha assicurato della piena sua collaborazione, nel senso di mantenere nella truppa e nell’ufficialità la fedeltà più assoluta alla disciplina ed alle direttive del Governo... Ma è da avvertire che truppa, Carabinieri, Regia Guardia, Municipio e la stessa Magistratura simpatizzano pienamente coi fascisti, all’unisono in questo col sentimento, come dissi, della maggior parte della popolazione, che si manifesta in calde dimostrazioni, a cui la forza pubblica qui non era avversa certo ”.

[da: De Felice, Mussolini il rivoluzionario>, Torino, Einaudi]

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da Enciclopedia dell'antifascismo e della Resistenza. Vol V (R-S), p. 404

Brano: Savoia, Vittorio Emanuele III

Bertoldi, V.E. Ili, Torino 1978; R. Bracalini,

Il re “vittorioso”. La vita, il regno e l'esilio di V.E., Milano, 1980.

E. Sa.

SavoiaAosta, Amedeo

N. a Torino nel 1898, m. a Nairobi (Kenia) il 3.3.1942; generale e viceré d’Etiopia.

Figlio del duca Emanuele Filiberto (secondogenito di Vittorio Emanuele Il e comandante della III Armata sul Carso e sul Piave nella Prima guerra mondiale) e di Elena d’Orléans, Amedeo studiò in un collegio inglese, poi alla Nunziatella di Napoli e, nel 1915, si arruolò volontario in artiglieria, servendo per tutta la durata del conflitto come soldato semplice e poi come ufficiale. Capitano nel 1918, nel dopoguerra alternò gli obblighi di servizio come ufficiale effettivo con lunghi viaggi in Africa (lavorò in incognito, per un anno, in un saponificio del Congo) e con gli studi, laureandosi in Legge a Palermo.

Dal 1925 al 1931 partecipò alla riconquista della Libia come ufficiale delle truppe sahariane, frequentando anche la Scuola di guerra e apprendendo a pilotare aerei da caccia e da ricognizione. Nel 1927 sposò la cugina Anna di BorboneOrléans, dalla quale ebbe due figlie. Nel 1931 r[...]

[...]ndo della III Brigata aerea.

In Etiopia

Alla fine del 1937 fu nominato viceré d’Etiopia (v.) al posto del maresciallo Rodolfo Graziani che non era riuscito a domare la resistenza delle popolazioni abissine pur ricorrendo a repressioni su larga scala e alla politica del terrore contro la classe dirigente etiopica (con l'avallo, anzi l’incoraggiamento di Mussolini) .

Nell’alta carica Amedeo dimostrò saggezza e lungimiranza: non riuscì ad avere ragione della resistenza, che aveva radici popolari vaste e autentiche, ma ne limitò i successi non affidandosi solo all'azione delle armi e sviluppando invece un’amministrazione più giusta e rispetto

sa degli interessi morali e materia

li degli abissini (fino a meritare un giudizio positivo da Hailé Selassié). Fu contrario all’intervento italiano nella Seconda guerra mondiale, che lasciava l’impero in una situazione difficilissima, senza riserve né rifornimenti dalla madrepatria e con truppe numerose, ma armate e addestrate per la repressione della guerriglia e non per una guerra contro le forze europee. Nel 1940 condusse offensive limitate (conquista della Somalia britannica) che rientravano nella politica mussoliniana di acquisizione di pegni territoriali da far valere sul tavolo della pace; poi poco potè fare dinanzi all’offensiva di forze britanniche esigue di numero, ma motorizzate e sostenute dall’aviazione e dalla resistenza abissina. Nei primi mesi del 1941 l’impero crollò rapidamente (solo a Cheren il generale Carnimeo condusse una tenace battaglia difensiva per quasi due mesi) e Amedeo sì arrese ai britannici il 17.5.1941 dopo una resistenza simbolica sull’Amba Alagi, quando già Hailé Selassié era rientrato in[...]

[...] sostenute dall’aviazione e dalla resistenza abissina. Nei primi mesi del 1941 l’impero crollò rapidamente (solo a Cheren il generale Carnimeo condusse una tenace battaglia difensiva per quasi due mesi) e Amedeo sì arrese ai britannici il 17.5.1941 dopo una resistenza simbolica sull’Amba Alagi, quando già Hailé Selassié era rientrato in Addis Abeba. Trattato con rispetto dai vincitori, Amedeo fu chiuso in un campo di prigionia del Kenia. Morì, nove mesi dopo la cattura, in un ospedale di Nairobi per il riacutizzarsi della tubercolosi di cui aveva sofferto a varie riprese nella sua vita.

G.Roch.

Savoldo, Alessandro

N. a Padova il 13.9.1907; fabbro. Membro di un'organizzazione comunista clandestina operante nel Veneto con centro a Padova, nel 1926 fu arrestato per aver partecipato neH'aprile a una riunione di dirigenti provinciali del partito. Assegnato nel novembre 1926 a 2 anni di confino, mentre era confinato fu deferito al Tribunale speciale che, con sentenza del 13.2.1928, lo condannò a 7 anni e 6 mesi di reclusione.

Savona

Provincia ligure comprendente 69 comuni, con una popolazione complessiva di circa 300.000 abitanti.

Il suo territorio, che si affaccia sul Mar Ligure lungo un'ampia e pittoresca fascia costiera (Riviera di ponente), ha un’estensione di 1.544 kmq, per la massima parte di mon

tagna. Il capoluogo, con una popolazione di circa 80.000 abitanti, è uno dei maggiori centri industriali italiani (industrie siderurgiche, met[...]

[...]he dal turismo.

Per le sue caratteristiche economiche e sociali, fin dal secolo scorso Savona ha avuto un forte movimento operaio, protagonista di vivaci lotte politiche e popolari di massa.

Il movimento operaio savonese

Quando, nel settembre 1868, si tenne in Genova il Primo congresso delle Società Operaie Liguri, la Società Progressista degli Artisti e degli Operai di Savona fu tra le quattordici che vi presero parte. In quel tempo ferveva in tutto il Circondario savonese l’attività di apprezzati cantieri navali e lo stabilimento Tardy e Benech, fondato nel 1861, occupava in pieno quasi 300 operai nella produzione di materiale in ferro e in ghisa per la nascente rete ferroviaria italiana; sempre in Savona (che allora contava circa 22 mila abitanti) sorgevano otto concerie, molte piccole fabbriche di mattoni e tegole, di pasta, di cordami, nonché moltissime aziende artigiane.

Oltre 500 erano i savonesi che lavoravano sul mare. Nel porto di Savona, una media di 300 giornalieri faticavano non poco per campare sotto gli appalt[...]

[...]rano i savonesi che lavoravano sul mare. Nel porto di Savona, una media di 300 giornalieri faticavano non poco per campare sotto gli appaltatori (caporali) che si contendevano i guadagni delle commissioni. L’antica e ricca corporazione di questi lavoratori era stata abolita dal dottrinarismo della Rivoluzione francese, ma nel 1822 essa era stata ricostituita dal Comune, su un “Regolamento della Classe Generale dei facchini”, come Compagnia di S. Venanzio, a sua volta soppressa da un decreto di re Carlo Alberto nel maggio del 1840. Finalmente, nel maggio del 1879, i facchini riuscirono a organizzarsi in due compagnie o cooperative (la Società di Mutuo Soccorso tra i Facchini e la Società Caricatori e Scaricatori) che trattavano direttamente con imprenditori e commercianti. Tuttavia ciò non durò a lungo, poiché già nel settembre 1879 ia prima società venne sciolta dal prefetto di Genova (Casalis) che ne soffocò lo sciopero promosso per avere migliori tariffe, mentre la seconda si consunse in pochi anni per « intestina discordia »=

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da Enciclopedia dell'antifascismo e della Resistenza. Vol I (A-C), p. 62

Brano: Ammonizione

mora senza autorizzazione della polizia. A molti antifascisti veniva così resa praticamente la vita impossibile, poiché erano messi nella condizione di non poter trovare o conservare un’occupazione fuori del comune di propria dimora. L’ammonizione costituiva, oltretutto, una pesante arma di ricatto nelle mani delle autorità fasciste, che la usavano come mezzo di pressione per indurre gli antifascisti a rinunciare alle proprie opinioni, a fare atto di sottomissione, ad aderire al regime e fn molti casi a servirlo.

Vecchi ex parlamentari, professionisti, lavoratori, antifascisti di ogni corrente politica, anche se da tempo s’erano ritirati a vita privata,[...]

[...]ì resa praticamente la vita impossibile, poiché erano messi nella condizione di non poter trovare o conservare un’occupazione fuori del comune di propria dimora. L’ammonizione costituiva, oltretutto, una pesante arma di ricatto nelle mani delle autorità fasciste, che la usavano come mezzo di pressione per indurre gli antifascisti a rinunciare alle proprie opinioni, a fare atto di sottomissione, ad aderire al regime e fn molti casi a servirlo.

Vecchi ex parlamentari, professionisti, lavoratori, antifascisti di ogni corrente politica, anche se da tempo s’erano ritirati a vita privata, furono costretti due volte alla settimana a recarsi ai commissariato di po’izia del quartiere per sfilare, assieme ai deliquenti comuni, davanti ai poliziotti che avevano il compito di ben imprimersi negli occhi le fisionomie dei « nemici » del fascismo.

Gli ammoniti e i vigilati speciali (v.), nei 17 anni che vanno dal 1926 al 1943, furono circa 160.000.

Le norme principali concernenti l'ammonizione e il confino (v.), tratte dal T.U. delle leggi di P.S. approvate con R.D. 18.6. 1931 n. 773, stabiliscono:

« art. 264 Il questore, con rapporto scritto, motivato e documentato denuncia al Prefetto, per l'ammonizione, gli oziosi, i vagabondi abituali validi al lavoro non provveduti di mezzi di sussistenza e sospetti di vivere col ricavato di azioni de[...]

[...]» del fascismo.

Gli ammoniti e i vigilati speciali (v.), nei 17 anni che vanno dal 1926 al 1943, furono circa 160.000.

Le norme principali concernenti l'ammonizione e il confino (v.), tratte dal T.U. delle leggi di P.S. approvate con R.D. 18.6. 1931 n. 773, stabiliscono:

« art. 264 Il questore, con rapporto scritto, motivato e documentato denuncia al Prefetto, per l'ammonizione, gli oziosi, i vagabondi abituali validi al lavoro non provveduti di mezzi di sussistenza e sospetti di vivere col ricavato di azioni delittuose e le persone designate dalla pubblica voce come pericolose socialmente o per gli ordinamenti politici dello Stato.

Sono altresì denunciati per l’ammonizione i diffamati per delitti di cui all'articolo seguente.

« art. 165 È diffamata la persona la quale è designata dalla voce pubblica come abitualmente colpevole: 1) dei delitti contro la personalità dello Stato o contro l’ordine pubblico e di minaccia, violenza e resistenza alla pubblica autorità: 2) del delitto di strage: 3) dei delitti di commercio clandestino o fraudolento di sostanze stupefacenti[...]

[...]ràpina, truffa ecc..

« art. 166 L’ammonizione ha la durata di due anni ed è pronunciata da una commissione provinciale composta dal Prefetto, dal Procuratore del Re, dal Questore, dal coniandante l'Arma dei carabinieri reali nella provincia e da un Ufficiale Superiore della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, designato dal comando di zona competente.

« art. 170 Se si tratta di ozioso, di va

gabondo, di persona sospetta di vivere col provento di reati, la Commissione gli prescrive, nell’ordine di ammonizione, di darsi un congruo tempo al lavoro, di fissare stabilmente la propria dimora, di farla conoscere, nel termine stesso, alla autorità locale di pubblica sicurezza o di non allontanarsene, senza preventivo avviso alla autorità medesima.

Se si tratta di persone designate dalla pubblica voce come pericolose socialmente

o per gli ordinamenti politici dello Stato, la Commissione, oltre alle prescrizioni su indicate può imporre tutte quelle altre che ravvisi necessarie, avuto riguardo alle particolari condizioni sociali dell’ammonito ed alle speciali esigenze di difesa sociale e politica (dal che risulta come per gli antifascisti vi fossero misure aggiuntive e più vessatorie di quelle che colpivano i sospetti di delitti comuni, n.d.r.).

« art. 172 La Commissione prescrive, inoltre, aH[...]

[...]la autorità medesima.

Se si tratta di persone designate dalla pubblica voce come pericolose socialmente

o per gli ordinamenti politici dello Stato, la Commissione, oltre alle prescrizioni su indicate può imporre tutte quelle altre che ravvisi necessarie, avuto riguardo alle particolari condizioni sociali dell’ammonito ed alle speciali esigenze di difesa sociale e politica (dal che risulta come per gli antifascisti vi fossero misure aggiuntive e più vessatorie di quelle che colpivano i sospetti di delitti comuni, n.d.r.).

« art. 172 La Commissione prescrive, inoltre, aH’ammonito, di non associarsi a persone pregiudicate o sospette, di non rincasare la sera più tardi e di non uscire la mattina più presto di una data ora, di non portare armi, di non trattenersi abitualmente nelle osterie, bettole o in case di prostituzione e di non partecipare a pubbliche riunioni.

« art. 176 Se nel corso del biennio l’ammonito commetta un reato per il quale riporti successivamente condanna e l'ammonizione non debba cessare, il biennio ricomincia a decorrere dal giorno nel quale è scontata la pena ».

G.B.G.

Amnistia

Atto di indulgenza che abolisce, el[...]

[...]abitualmente nelle osterie, bettole o in case di prostituzione e di non partecipare a pubbliche riunioni.

« art. 176 Se nel corso del biennio l’ammonito commetta un reato per il quale riporti successivamente condanna e l'ammonizione non debba cessare, il biennio ricomincia a decorrere dal giorno nel quale è scontata la pena ».

G.B.G.

Amnistia

Atto di indulgenza che abolisce, elimina, estingue la pena e le sue conseguenze. Alcuni provvedimenti di amnistia, nel primo dopoguerra e in seguito, durante il regime fascista, sia per la loro portata che per il carattere antigiuridico e discriminatorio, suscitarono ampi dibattiti e risonanza politica. Tra questi, vanno ricordati i seguenti.

L’amnistia ai disertori

Venne concessa per mezzo di due provvedimenti: il primo, adottato sotto il governo di V.E. Orlando il 21.2.1919; il secondo, sotto il governo di F.S. Nitti il 2.9.1919. Ambedue i provvedimenti miravano soprattutto a sanare il grave problema dei condannati dai tribunali militari per diserzione e altri reati consumati durante la guerra 191518. I metodi disciplinari usati sotto il comando del generale Luigi Cadorna, l’impopolarità della guerra,

lo sfacelo seguito alla disfatta di Caporetto (v.), avevano riempito le carceri di giovani, spesso innocenti e comunque condannati a pene sproporzionate, per la loro gravità, ai reati commessi.

L’amnistia Orlando conteneva troppe clausole restrittive e lasciò * di conseguenza il problema insoluto.

I risultati dell’inchiesta sulle responsabilità del disastro di Caporetto, resi pubblici il 13.8.1919, con le rivelazioni sui metodi spietati usati contro i militari; il sistema delle decimazioni di interi reparti, compresi gli innocenti; episodi di vera ferocia, come quelli di cui si rese responsabile il generale Graziani (non il futuro maresciallo), che faceva fucilare senza processo, su due piedi, soldati colpevoli soltanto di aver pronunciato alcune parole « irriverenti », commossero e sdegnarono l’opinione pubblica, alimentando la campagna a favore dell’amnistia.

In base ai dati ufficiali (risultanti dagli atti della Commissione di inchiesta su Caporetto), ritenuti inferiori alla effettiva realtà, dal maggio 1915 all’1.10.1917 vi erano stati ben 56.000 disertori latitanti che, aggiunti ai 48.000 residenti in patria che non avevano risposto alla chiamata alle armi, costituivano una vera armata fuori legge. Durante

lo stesso periodo di tempo i tribunali militari avevano pronunciato 1.006 condanne a morte, di cui 729 eseguite; si ignora il numero, indubbiamente elevato, dei militari fucilati su due piedi, senza processo o col metodo della decimazione.

II R.D. 2.9.1919, emanato sotto il governo Nitti, approvato da Armando Diaz e riconosciuto « equo e riparatore » dallo stesso Mussolini, sanava finalmente la situazione, amnistiando tutti coloro che non avevano più di sei mesi di diserzione (esclusa la diserzione col passaggio al nemico) o che avevano riportato condanne — dai tribunali militari — non superiori a 10 anni di reclusione. Successivamente, quando i fascisti nella lotta per il potere si abbandonarono a speculazioni patriottarde, deprecarono l’amnistia Nitti, che pure era stata a suo tempo elogiata da « Il Popolo d’Italia ». Vilipeso come « disfattista » e quasi messo sotto accusa, l’on. F.S. Nitti, nella discussione avvenuta in parlamento T8.3.1921, dimostrò che in realtà l’amnistia ai disertori non era stata così ampia come fascisti e nazionalisti sostenevano, ma essa aveva interessato soltanto 40.000 persone, poiché su 1.030.000. processati per diserzione o altri reati militari (di cui 370.000 si trovavano all’estero), la grande maggioranza aveva già scontato la pena o si trovava in libertà provvisoria.

Le amnistie fasciste

I governi di Mussolini adottarono sette provvedimenti di amnistia. Il primo, emanato con R.D. 22.12.1922

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da Enciclopedia dell'antifascismo e della Resistenza. Vol I (A-C), p. 214

Brano: Badoglio, Pietro

zano Badoglio, il 28.9.1871, ivi m. I’1.11.1956. Di famiglia di piccoli proprietari terrieri, frequentò l’Accademia militare, uscendone nel 1890 come sottotenente di artiglieria. Promosso tenente nel 1892, nel 1895, dopo il disastro della colonna Toselli sull’Amba Alagi (Etiopia), chie^ se di partire volontario con il corpo di spedizione del generale Baldissera in Eritrea. Dopo aver trascorso alcuni anni in fortino, rivelandosi buon organizzatore e addestratore, nel '1898 interruppe il suo primo contatto con l’Africa per impegnarsi in una solida preparazione, prima alla Scuola di guerra (dove si affermò al sesto posto su 41 idonei), poi al corso per ufficiali di stato maggiore. Nello stesso tempo collaborava alla rivista militare La preparazione. La guerra di Libia lo trovò inserito in posti di responsabilità, fino a diventare capo di stato maggiore agli ordini del generale Frugoni. Distintosi nella conquista dell’oasi di Zanzur, ebbe la medaglia di bronzo.

Prese parte alla prima guerra mondiale, assolvendo compiti di responsabilità, quale quello della preparazione dei trinceramenti sul Sabotino. Nel maggio 1916, con il grado di colonnello, divenne capo di stato maggiore del generale Luigi Capello, distinguendosi sul Sabotino, sugli Altipiani, alla Bainsizza, guadagnandosi altri avanzamenti, fino a ottenere — di fatto nell'agosto, di diritto dal 14.10.1917 —MI comando del XXVII Corpo d’armata.

Fu proprio nel suo settore, a Caporetto (v.), che il 23.10.1917 gli austroungarici riuscirono a rompere

il fronte italiano, ma per quanto il Corpo d’armata da lui comandato si disintegrasse, non si può dire che Badoglio perdesse, nel tragico frangente, l’abituale lucidità operativa, tanto che I’8 novembre il generale Diaz, nominato capo d[...]

[...]sizza, guadagnandosi altri avanzamenti, fino a ottenere — di fatto nell'agosto, di diritto dal 14.10.1917 —MI comando del XXVII Corpo d’armata.

Fu proprio nel suo settore, a Caporetto (v.), che il 23.10.1917 gli austroungarici riuscirono a rompere

il fronte italiano, ma per quanto il Corpo d’armata da lui comandato si disintegrasse, non si può dire che Badoglio perdesse, nel tragico frangente, l’abituale lucidità operativa, tanto che I’8 novembre il generale Diaz, nominato capo di stato maggiore dell’esercito, gli conferirà (anche per l’interessamento di Bissolati) la medaglia d’argento e lo chiamerà alla carica di sottocapo di stato maggiore, dapprima assieme al generale Giardino, poi da solo. Diventato principale collaboratore di Diaz, partecipò all’ultima, vittoriosa offensiva al comando di una armata e, nel novembre 1918, entrò a far parte della Commissione d’armistizio. Fu nominato Cavaliere di gran croce delI’Ordine militare di Savoja e, nel febbraio 1919, senatore. Nell’estate 1919 fu messo a capo deH’VIII Armata, di stanza a Udine.

Con la crisi di Fiume (v.), data la posizione strategica occupata dalla

sua armata, fu nominato Commissario straordinario per la Venezia Giulia. Si destreggiò in tale incarico fimo a quando, nominato capo di stato maggiore al posto di Diaz (novembre 1919), lo trasmise a Caviglia.

Si trovava quasi al culmine della carriera quando (3.2.1921), per un contrasto con Bonomi sull'invio di truppe in Albania, si dimise.

Badoglio e il fascismo

Nell’ottobre 1922, interpellato da Facta, si pronunciò per la dispersione dello squadrismo fascista con l’intervento dell’esercito, acquistandosi cattive referenze presso il nascènte regime. Nel dicembre 1923 fu infatti allontanato da Roma con l’incarico di ambasciatore in Brasile. Cambiato rapidamente parere e intrapresa una politica di buona convivenza col fascismo, dopo il delitto Matteotti (1924) giunse a inviare un telegramma di solidarietà a Mussolini che, nel maggio 1925, a regime definitivamente consolidato, lo richiamò in patria per assumere nuovamente la carica di capo dì stato maggiore generale.

Tra il 1926 e il 1929 ebbe luogo il progressivo esautoramento dell 'esercito dalla funzione che alcuni militari avrebbero voluto arrogarsi (e che a Vittorio Emanuele III non sarebbe dispiaciuta) di intermediari tra il fascismo e la Corona. Nel maggio 1926 Mussolini nominò Badoglio Maresciallo d’Italia, imponendogli però i propri crite[...]

[...]e.

Tra il 1926 e il 1929 ebbe luogo il progressivo esautoramento dell 'esercito dalla funzione che alcuni militari avrebbero voluto arrogarsi (e che a Vittorio Emanuele III non sarebbe dispiaciuta) di intermediari tra il fascismo e la Corona. Nel maggio 1926 Mussolini nominò Badoglio Maresciallo d’Italia, imponendogli però i propri criteri di riordinamento dell’esercito; nel giugno 1928 gli conferì il titolo di marchese del Sabotino, ma dopo aver ridotto le funzioni del capo di stato maggiore generale a una mera consulenza «tecnica» (febbraio 1927). Nel dicembre 1928, dopo avergli imposto, come sottosegretario alla guerra, il generale Cavallero, gli conferì il Governatorato della Tripolitania e della Cirenaica; un mese dopo il re, quasi a sottolineare in lui un garante della corona nei riguardi del regime, lo insignì del collare dell’Annunziata.

Lasciato il Governatorato ai primi del 1934, nel novembre 1935, un mese dopo l’inizio dell’aggressione fascista all’Etiopia, Badoglio fu designato a sostituire il generale De Bono nel comando delle truppe colonialiste. Riservandosi il settore operativo eritreo e affidando quello ( somalo al generale Rodolfo Graziani (v.), non esitò a mettere in atto una guerra particolarmente spietata contro un avversario praticamente disarmato, attuando veri massacri all’Amba Aradam, all’Amba Alagi ed infine al lago Ashanghi, che gli apri

rono rapidamente la via su Addis Abeba (9.5.1936). Come premio per l’impresa ebbe, sul campo, l’investitura a viceré d’Etiopia e il titolo di duca di Addis Abeba. Tuttavia, lasciata a Graziani l’incombenza di « pacificare » il paese, preferì rientrare subito in Italia, dove scrisse un libro {La guerra di Etiopia) per esaltare la propria abilità strategica. Alla fine del 1937 fu chiamato a succedere a Marconi alla presidenza del Consiglio nazionale delle ricerche.

AH’inizìo della seconda guerra mondiale i rapporti tra P.B. e il regime subirono una nuova crisi. Inizialmente contrario alla guerra, il maresciallo finì con l’accondiscendervi, dirigendo le operazioni come capo di stato maggiore generale. Al pessimo volgere dell’aggressione alla Grecia, un attacco sferratogli da Farinacci su « Regime Fascista » lo convinse, per quanto tardivamente (4.12.1940), a dim[...]

[...]essimo volgere dell’aggressione alla Grecia, un attacco sferratogli da Farinacci su « Regime Fascista » lo convinse, per quanto tardivamente (4.12.1940), a dimettersi dalla carica, nella quale fu sostituito dal più fidato Cavallero, e a scindere le proprie responsabilità individuali da quelle del regime.

Dal 25 luglio all'8 settembre

Ritiratosi dalla vita pubblica negli anni cruciali (194142) dell’ascesa e del declino dell’Asse, nella primavera 1943 ebbe un colloquio col re, nel corso del quale il monarca si mostrò non ancora disposto a compiere mutamenti istituzionali. A giugno, tramite il ministro della reai casa Acquarone, fu informato del colpo di stato che, dopo il convegno di Feltre, in tutta fretta, i militari si sarebbero decisi ad attuare e nel quale il maresciallo non avrebbe avuto parte alcuna. II pomeriggio del 25 luglio, a cose fatte, Badoglio fu convocato da Vittorio Emanuele III e investito della carica di primo ministro. Il re gli impose un governo di tecnici e V.E. Orlando gli redasse l’ambiguo proclama « La guerra continua ». ?

L’azione del governo Badoglio du, rante i 45 giorni successivi restò gravemente condizionata dalle sue stesse origini: dovette subire la pressione degli « alleati » tedeschi che, dal 26 luglio, facendo affluire attraverso il Brennero le divisioni fino ad allora rifiutate, intrapresero una metodica occupazione della penisola; dovette districarsi tra le prerogative strettamente « tecniche » della formazione governativa, il predominio della Corte e degli ambienti militari, e una blanda apertura verso i partiti antifascisti. Questa apertura si espresse fondamental

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da Enciclopedia dell'antifascismo e della Resistenza. Vol I (A-C), p. 403

Brano: Buranello, Giacomo

un « governo di unione nazionale », il presidente V.E. Orlando — preoccupato per la crescente ostilità verso la guerra da parte degli operai torinesi — convocò Buozzi per prendere accordi circa una visita che intendeva fare a Torino a scopo di « pacificazione ».

Nell’emigrazione

Nel dopoguerra B. assunse un atteggiamento critico nei confronti dei Consigli di fabbrica (v.)f preoccupato che la effettiva democrazia dal basso sconvolgesse la tutela riformistica del sindacato sulla massa operaia. La sua opposizione giungerà fino a fare condannare i Consigli di fabbrica dal Congresso di Genova della F.I.O.M. (maggio 1920). Pur essendo uno dei massimi dirigenti del movimento culminato con l’occupa[...]

[...]onsigli di fabbrica (v.)f preoccupato che la effettiva democrazia dal basso sconvolgesse la tutela riformistica del sindacato sulla massa operaia. La sua opposizione giungerà fino a fare condannare i Consigli di fabbrica dal Congresso di Genova della F.I.O.M. (maggio 1920). Pur essendo uno dei massimi dirigenti del movimento culminato con l’occupazione delle fabbriche, fu tra coloro che si preoccuparono di mantenerlo nell’ambito esclusivamente rivendicativo, economico e sindacale, anche se — più tardi — doveva criticare quelle sue stesse posizioni.

Eletto deputato nel 1919, rieletto nel 1921 e nel 1924, fece parte dell'Aventino (v.) è fu tra i parlamentari dichiarati decaduti dal fascismo nel novembre 1926. Alla promulgazione delle leggi eccezionali, trovandosi a Zurigo per una riunione sindacale internazionale, non rientrò in Italia e si stabilì a Parigi, dando vita a un « Segretariato degli operai italiani », che trasformò in Confederazione generale del lavoro italiana in Francia, quando (4.1.1927) la C.G.L. (v.) fu dichiarata « sciolta » in Italia. Buozzi deplorò la decisione dei dirigenti sindacali riformisti, la dichiarò priva di qualsiasi validità e chiese all’Internazionale sindacale di Amsterdam (v.) di riconoscere la C.G.L. in Francia come erede e continuatrice di quella arbit[...]

[...](4.1.1927) la C.G.L. (v.) fu dichiarata « sciolta » in Italia. Buozzi deplorò la decisione dei dirigenti sindacali riformisti, la dichiarò priva di qualsiasi validità e chiese all’Internazionale sindacale di Amsterdam (v.) di riconoscere la C.G.L. in Francia come erede e continuatrice di quella arbitrariamente sciolta in Italia. Poiché, nello stesso tempo, gruppi di comunisti, d’intesa con socialisti, anarchici e sindacalisti rimasti in Italia, avevano preso a loro volta l’iniziativa di ricostituire clandestinamente la C.G.L., sorse un contrasto, che l’Internazionale di Amsterdam (riformista) risolse a favore di Buozzi. Dal canto suo, la C.G.L. rimasta in Italia e diretta dai comunisti, aderì all’Internazionale dei sindacati rossi.

B. fece parte della Concentrazione antifascista (v.) e del suo direttivo, distinguendosi per l’energica e costante attività. Nel 1936, realizzatosi l’accordo di unità d’azione tra socialisti e comunisti, le due Confederazioni del lavoro pubblicarono

Bruno Buozzi

in comune l’appello per il Primo maggi[...]

[...] di Spagna, fu incaricato dal suo partito di dirigere l’opera di organizzazione, raccolta e invio di aiuti alla repubblica.

Alla vigilia dell’occupazione tedesca di Parigi, si trasferì a Tours; ma, rientrato nella capitale francese alla fine del febbraio 1941, per visitare la figlia partoriente, fu arrestato dai tedeschi e rinchiuso nelle carceri della Santé. Qui ritrovò Giuseppe Di Vittorio (v.), già da qualche tempo detenuto. Insieme a lui, venne successivamente trasferito in Germania e poi in Italia, al confino (Di Vittorio a Ventotene; Buozzi a Montefalco, in provincia di Perugia, dove rimase 2 anni).

Dopo il 25 luglio

Riacquistata la libertà alla caduta del fascismo, ai primi dell’agosto

1943 Buozzi fu nominato, dal governo Badoglio, Commissario alla Confederazione dei sindacati di industria (v.), insieme al comunista Giovanni Roveda e al democristiano Gioacchino Quarello.

Durante l’occupazione nazista di Roma, trovò ospitalità presso l’amico colonnello a riposo Loggo, finché questi, richiamato in servizio, non dovette darsi alla macchia. Costretto a cambiare sede, si rifugiò in un’altra casa, in viale del Re. Qui, il 13.4.1944, durante un’improvvisa perquisizione della polizia, fu fermato per accertamenti, quindi condotto in via Tasso (v.), dove i fascisti scoprirono la sua vera identità.

Falliti i diversi tentativi del C.L.N. per fargli riacquistare la libertà, l’1 giugno, quando gli americani erano

ormai alle porte della Capitale, il suo nome venne incluso dalla polizia tedesca in un elenco di 160 prigionieri destinati a essere evacuati da Roma. La sera del 3 giugno, con altri 12 compagni di sventura, fu caricato su un camion tedesco che si avviò lungo la via Cassia. Percorsi pochi chilometri, giunti in località La Storta (v.), forse per la difficoltà di procedere sulla strada resa ingombra dalle truppe in ritirata, i prigionieri furono fatti scendere e rinchiusi in un fienile per la notte. All’indomani, brutalmente sospinti in una valletta, furono tutti trucidati. Bruno Buozzi aveva 63 anni.

« Della schiera degli organizzatori sindacali di prima del fascismo, — ha scritto Fernando Santi — tutti usciti dalla feconda scuola della fabbrica, Buozzi è indubbiamente quel

lo che più di ogni altro rappresenta il tipo dell'operaio italiano dei primi del secolo: l’operaio metallurgico. Intelligente, umano, orgoglioso della sua dignità professionale; che sta a testa alta davanti al padrone, rispettato e rispettoso; che legge I' ” Origine della specie ” e frequenta l’Università popolare e i loggioni della stagione lirica; che ammira la tecnica tedesca e odia il Kaiser; che a[...]

[...]zatori sindacali di prima del fascismo, — ha scritto Fernando Santi — tutti usciti dalla feconda scuola della fabbrica, Buozzi è indubbiamente quel

lo che più di ogni altro rappresenta il tipo dell'operaio italiano dei primi del secolo: l’operaio metallurgico. Intelligente, umano, orgoglioso della sua dignità professionale; che sta a testa alta davanti al padrone, rispettato e rispettoso; che legge I' ” Origine della specie ” e frequenta l’Università popolare e i loggioni della stagione lirica; che ammira la tecnica tedesca e odia il Kaiser; che ama i nichilisti russi e vota per Turati. L'operaio socialista, cosciente di essere il protagonista di una nuova storia che incomincia, e che incomincia da lui, operaio metallurgico. Buozzi fu e restò questo tipo umano di italiano, con le sue virtù e i suoi limiti e con la sua immensa fiducia negli uomini e nell'avvenire. E chi l'ha conosciuto, anche nei momenti delle più alte responsabilità, mai ebbe l’impressione di incontrarsi con un uomo ” arrivato ”, distaccato dal mondo della fabbrica dal quale proveniva. Non dirigeva dall'alto, ma viveva intensamente fra i camiciotti turchini della sua categoria, di cui studiava a Tondo i problemi e le cui lotte — talune delle quali memorabili per i grandi sacrifici richiesti — egli guidò sempre in prima fila ».

Buranello, Giacomo

Medaglia d’oro al valor militare alla memoria. N. a Meolo (Venezia) il 27.3.1921, fucilato a Genova il 3.4. 1944; studente. Figlio di un contadino veneto trasferitosi a GenovaSampierdarena in cerca di lavoro, studiò all’istituto tecnico Tortorelli, poi al Liceo scientifico Cassini e, infine, si iscrisse alla Facoltà di ingegneria all’Università di Genova. Ancora prima del servizio militare, costituì un movimento comunista di operai e studenti, organizzò il « Soccorso rosso », mise in opera una tipografia clandestina. Nel 1942, seguito il corso allievi ufficiali e trasferito a Chiavari, continuò nell’esercito la sua azione di propaganda. L'11.10.1942, all’età di 21 anni, fu arrestato insieme a Walter Fillak e agli altri membri del comi

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da Enciclopedia dell'antifascismo e della Resistenza. Vol III (H-M), p. 246

Brano: Labriola, Arturo

dere parte alle operazioni belliche. Quando, dopo la rivoluzione russa del febbraio 1917, il governo capeggiato dal socialista Kerenskij manifestò l’intenzione di uscire dal conflitto, Labriola fu inviato dal governo italiano a Pietrogrado con una delegazione che aveva il compito di persuaderlo a continuare la guerra a fianco dell’Intesa. Della rivoluzione russa egli si era fatto peraltro esaltatore nel discorso pronunciato il 13.8.1917 al Politeama di Napoli.

Primo dopoguerra

Alle elezioni comunali tenutesi alla fine della prima guerra mondiale, rinnovatosi il successo popolare, Labriola fu eletto prosindaco, onde superare l’incompatibilità con l'incarico di parlamentare al quale fu rieletto nel 1919.

Quando, nel giugno 1920, il presidente del Consiglio Giovanni Giolitti cercò l’apertura a sinistra verso i socialisti (dai quali, compresi i turat[...]

[...]si era fatto peraltro esaltatore nel discorso pronunciato il 13.8.1917 al Politeama di Napoli.

Primo dopoguerra

Alle elezioni comunali tenutesi alla fine della prima guerra mondiale, rinnovatosi il successo popolare, Labriola fu eletto prosindaco, onde superare l’incompatibilità con l'incarico di parlamentare al quale fu rieletto nel 1919.

Quando, nel giugno 1920, il presidente del Consiglio Giovanni Giolitti cercò l’apertura a sinistra verso i socialisti (dai quali, compresi i turatiani, si ebbe un diniego), Labriola venne designato come ministro del Lavoro e della Previdenza sociale, carica che conservò anche nella successiva legislatura col nuovo gabinetto Giolitti. Nelle forme consentite dalla sua posizione di ministro, nel settembre 1920 simpatizzò con l’occupazione delle fabbriche e si schierò poi decisamente contro il fascismo.

Quali che fossero le sue riserve sulla condotta di Giolitti, e poi del governo Bonomi, di fronte al fascismo l’antico « antistatalista » soreliano sostenne energicamente il punto di vista dello Stato, affermando tra l’altro (30.11.1921, discorso alla Camera):

« Giudico il fascismo un’esplosione dello spirito di autorità in una società anarchica [...]. Restituite allo Stato la sua autorità, date all’autorità un ideale e una meta, e il fascismo è riassorbito ».

Dopo la marcia su Roma riprese a collaborare col P.S.I., nelle cui file fu rieletto alle elezioni maggioritarie del 1924.

Al P.S.I. in fondo lo legava la sua tematica antifascista di quegli anni, che ne[...]

[...]ità, date all’autorità un ideale e una meta, e il fascismo è riassorbito ».

Dopo la marcia su Roma riprese a collaborare col P.S.I., nelle cui file fu rieletto alle elezioni maggioritarie del 1924.

Al P.S.I. in fondo lo legava la sua tematica antifascista di quegli anni, che nel suo ultimo discorso alla Camera Io portò a dire:

« Noi siamo convinti che la sovranità di un Paese non possa risiedere che nel popolo, il quale la esercita attraverso i suoi rappresentanti, eletti in elezioni non sofisticate dallo intrigo e dalla violenza. In questo stato d’animo, con questi convincimenti, siamo sicuri di combattere per il nostro Paese e così di rappresentare un poco anche voi [cioè, i fascisti] ».

Aventiniano per disciplina di partito, Labriola continuò la sua battaglia dalle cattedre di Economia dell’istituto nautico superiore e del

l’Università di Napoli, da dove venne estromesso nel febbraio 1926. Un anno dopo espatriò clandestinamente in Francia.

Nell’emigrazione

Sin dai primi tempi, la sua posizione fra gli esuli fu di consenso alla politica della Concentrazione antifascista (v.)f per il tempo che quella visse, ma con diffidenza verso i suoi aspetti internazionali, essendo sua convinzione che su quel piano, « volendo nuocere al fascismo, riusciamo solo a far male all’Italia ». Dal 1927 al 1932 insegnò in varie università (Bruxelles, New York, Buenos Aires), astenendosi da ogni azione politica, limitandosi a collaborare ad alcuni giornali dell[...]

[...] sua posizione politica venne in luce allorché il fascismo aggredì l’Etiopia (v.). In quella circostanza Labriola manifestò la sua « solidarietà » con i fascisti e la cosa gli costò l’espulsione dal P.S.I.

Allo scoppio della guerra etiopica egli inviò al l'ambasciatore italiano in Belgio una lettera nella quale sosteneva: « Nel momento in cui il mio Paese trovasi impegnato in un’azione grave e difficile, ma gloriosa, mi permetto di assicurare V.E. dei miei sentimenti di piena solidarietà col mio Paese al di sopra ed al di là di tutte le mie preferenze politiche ».

il rientro in Italia

Il passo era tale da estraniarlo del tutto dalla comunità antifascista: nel dicembre 1936 rientrò in Italia. Isolato anche a Napoli, l’unica attività che potè svolgere negli anni 193638 fu la collaborazione al « Merlo » e alla « Tribuna d’Italia » di Alberto Giannini, che usciva a Parigi. Cercò di ristabilire contatti in Francia e in Belgio, ma senza riuscirvi. Scrisse le autobiografiche Spiegazioni a me stesso (1939), ma potrà pubblicarle solo nel [...]



da Enciclopedia dell'antifascismo e della Resistenza. Vol IV (N-Q), p. 372

Brano: Palermo

tana. Gli stessi decreti Visocchi e Falcioni (191920), se praticamente avevano consentito l’occupazione dei latifondi incolti o da bonificare, avevano rappresentato una volontà di contenimento del movimento contadino che passò sotto il diretto controllo delle prefetture, in un quadro istituzionale d’incertezza del diritto alla terra. Gli agrari dei latifondi della provincia si trovarono così d’accordo con gli industriali della città contro il « pericolo rosso », contro le stesse affittanze collettive e le rivendicazioni economicosociali dei cattolici che, a Palermo, avevano come organo di stampa Battaglie popolari ed erano in linea di massima contrari « ai grandi ceti parassitari delle campagne ».

Ma spettò ai socialisti la guida delle più importanti lotte. Nicolò Alongìi fu il capo indiscusso delle lotte nel latifondo, l’erede dell’insegnamento di Bernardino Verro e delle lotte del Corleonese, in una situazione nella quale le centrali nazionali della Federterra si dimostravano prive di una strategia contadina per la Sicilia.

AI primo Congresso dei contadini siciliani, tenutosi a Palermo il 6.2.

1920, Alongi richiamò alla necessità di un’azione che unificasse le rivendicazioni del proletariato tipico delle campagne con tutte le altre azioni di lotta per la terra, che nella provincia di Palermo avevano visto gli scioperi agricoli di Piana dei Greci, San Giuseppe Jato, Sancipirrello, Prizzi e Palazzo Adriano. Agrari e industriali, cementati dalla mafia, reagirono con una lunga serie di delitti: da quello compiuto contro Giovanni Zangara alla uccisione dello stesso Alongi (1.3.1920), cui fece seguito pochi mesi dopo l’assassinio del dirigente delle lotte dei metallurgici di Palermo, Giovanni Orcel.

Scriverà l’anno successivo La Regione, periodico antifascista sorto a Palermo nel 1921: « L’opera di repressione del socialismo, che nella Penisola viene fatta dai fascisti, qui in Sicilia è stata assunta dalla mafia ».

Il terrorismo della mafia non arrestò il movimento che, anzi, ebbe il suo momento più rovente nel settembre 1921, quando i feudi occupati interessavano un’area di 10.365 ettari. L’assalto ai latifondi, che coinvolse anche i comuni della valle del Belice, venne spezzato dall’azione combinata di governo (decreto Micheli, che fissava norme restrittive circa l'occupazione delle

terre incolte), di prefetti come Menziger e Cesare Moni (la punta più avanzata, nella Sicilia Occidentale, della controffensiva del « blocco dell’ordine»), dei proprietari e degli stessi cattolici popolari, persuasi alla tutela dell'inviolabile « diritto di proprietà ».

Nel capoluogo, l'offensiva operaia si esplicò nel 1920 con una grande serie di scioperi: quelli dei ferrovieri e postelegrafonici (gennaio), dei tipografi (agosto), dei metallurgici del Cantiere Navale e dei lavoratori delle fabbriche Ducrot, Ferriera E reta, Manifattura Tabacchi, Fonderia Panze[...]

[...]cò nel 1920 con una grande serie di scioperi: quelli dei ferrovieri e postelegrafonici (gennaio), dei tipografi (agosto), dei metallurgici del Cantiere Navale e dei lavoratori delle fabbriche Ducrot, Ferriera E reta, Manifattura Tabacchi, Fonderia Panzer a, Aziende Tutone e Galiano (gennaiosettembre), che videro gli operai mobilitati contro la « gabbia salariale » e le violenze dei nazionalisti. Questi attaccarono gli studenti socialisti delI’Università che, come Giuseppe Berti (fondatore a Palermo della rivista Clarté, dal 1926 redattore de « l’Unità » e, più tardi, dirigente nazionale del P.C.d’I.), si erano impegnati contro l’impresa fiumana.

Si passò quindi all’occupazione del Cantiere Navale e delI’Ercta, azioni cui il padronato rispose con l’assassinio di Orcel e con le serrate. Quella della Ferriera Ercta mise sul lastrico 400 operai.

Gli interessi della borghesia urbana vennero così a saldarsi con quelli degli agrari, in una situazione politica nella quale, sotto le sollecitazioni dell’arditismo dannunziano, si acuivano le tensioni nazionalistiche. Queste assunsero forma partitica a opera di Alfredo Cucco, portando il 23.1.1921 all’« adunata » del Teatro Utveggio di Palermo, cui seguì il 24 aprile quella del Fascio di combattimento. Quest'ultimo era stato costituito cinque mesi prima, in seguito a un’assemblea nei locali della Lega commerciale che aveva sottoscritto un « manifesto fascista », dando un ruolo di primo piano al segretario della sezione nazionalista palermitana Giuseppe Fiumara.

II 26 aprile sorse a Palermo la Lega nazionale contro \il bolscevismo e il comuniSmo; seguì, qualche giorno dopo, l’assalto fascista alla Federazione dei metallurgici e, una settimana più tardi, la strage di Castelvetrano: 8 morti e 40 feriti. Si preparò così il terreno, attraverso il quale mafia e squadristi si trasformarono, uniti, in braccio armato del nuovo assetto nazionalfascista, mentre si avviava al tracollo il vecchio orlandismo.

Restarono i socialisti, pur se note

volmente indeboliti nelle campagne, e i nascenti quadri del P.C.d’I. che, a Palermo, ebbero come organo di stampa II Proletario (192122). Erano, fra loro, « leve giovani ed entusiaste di intellettuali, studenti, impiegati, operai, come Giuseppe Berti, Si mone Fardella, Francesco Davi, Salvatore Chi appara, Giuseppe Greco, Gaspare Di Gaetano e Oreste Gianferrara » (Giuseppe Carlo Marino).

Da segnalare anche le posizioni individualiste di « democratici del combattentismo » come Giuseppe Maggiore Di Chiara, direttore del foglio satirico 11 Babbìo, che verrà soppresso nel 1924.

Alla fine del 1921 il Fascio palermitano era divenuto una sezione del P.N.F. che, nel 1923, potè contare nella provincia 42 fasci e 6.000 iscritti; quindi sulla progressiva conquista delle Amministrazioni comunali. Seguirà l’assorbimento dei liberali (già palese nelle elezioni del 1924, svolte in un clima di divieti, bastonate e intimidazioni) e dei socialriformistL

Squadristi e podestà

La stretta reazionaria e repressiva del fascismo si accentuò dopo le elezioni del 1924. Il 6.8.1925 Vittorio Emanuele Orlando presentò le dimissioni da deputato e nello stesso anno si sciolse l’Unione Nazionale; P.S.I. e P.S.L.I. cominciavano a scompari[...]

[...]orbimento dei liberali (già palese nelle elezioni del 1924, svolte in un clima di divieti, bastonate e intimidazioni) e dei socialriformistL

Squadristi e podestà

La stretta reazionaria e repressiva del fascismo si accentuò dopo le elezioni del 1924. Il 6.8.1925 Vittorio Emanuele Orlando presentò le dimissioni da deputato e nello stesso anno si sciolse l’Unione Nazionale; P.S.I. e P.S.L.I. cominciavano a scomparire dalla scena politica in diversi comuni.

Da quel momento la lotta al regime fu lasciata ai nuclei più combattivi del proletariato. Agli scioperi che nel settembre del 1925 coinvolsero le officine di Diotto e Vac caro, corrispose un tentativo di riorganizzazione, a livello regionale, dei comunisti guidati da Pietro Pizzuto, Francesco Lo Sardo e Simone Fardella, grazie ai quali si tenne in agosto un convegno clandestino a Palermo.

Ma la situazione era tristissima. Alle organizzazioni bianche o rosse erano subentrati i sindacati corporativi fascisti e, alla fine del 1926, alle giunte comunali elettive erano stati sostituiti i podestà. La nomina di questi ultimi segnò, specie nella provincia di Palermo (ad esempio nell’ex feudo elettorale di V.E. Orlando, costituito dai comuni di Partinico, Terrasini, Cinisi, Balestrate, Borgetto), il passaggio dei vecchi liberali al fascismo, attraverso la gestione dei meccanismi tributari locali che privilegiavano prò



da Enciclopedia dell'antifascismo e della Resistenza. Vol IV (N-Q), p. 695

Brano: Pontedera

a opera del fascismo pisano che fu uno dei più sanguinari della Toscana.

Basti ricordare, a tale riguardo, come i suoi esponenti avessero l’abitudine di gloriarsi cinicamente delle loro malefatte. Uno di costoro amava presentarsi con la seguente formula: « Alessandro Carosi, sei omicidi! ».

Contro il fascismo

All’attacco fascista, il movimento operaio pontederese reagì organizzando alcune combattive squadre di « Arditi del popolo » che, il 18. 9.1921, sostennero con gli squadristi un conflitto a fuoco, cui fece seguito uno sciopero generale nella zona.

L’indomani i fascisti assassinavano Paris Profeti, segretario della Sezione giovanile comunista di Pontedera, e insieme a lui un altro giovane socialista, Corrado Bellucci, mentre si recavano a un comizio di protesta.

Nei mesi seguenti le violenze si moltiplicarono vertiginosamente: a parte le purghe e le bastonature, divenute innumerevoli, il 2.4.1922 venne ucciso Alvaro Fantozzi, segretario della Camera del lavoro di Pontedera, mentre si recava a una riunione della Lega mista operai di Marti; il 9 maggio successivo, alla Stazione di Navacchio, il sindaco di Pontedera Narsete Citi e il medico condotto dottor Belli vennero bastonati al punto di dover essere ricoverati in ospedale.

Malgrado ciò, il movimento operaio pontederese non cedette: il 29.7.

1922 una spedizione di fascisti pisani e di altre località vicine, giunta a Pontedera per devastare la Casa del Popolo e altre sedi democratiche, fu respinta dalla popolazione. I fascisti tornarono alla carica il giorno dopo, concentrando a Pontedera un migliaio di squadristi dall’intera Toscana per poter conseguire il loro intento.

L'ondata di violenza abbattutasi sulla città in quella tragica giornata non segnò tuttavia la fine del movimento operaio pontederese, se il 13.2.1923 il prefetto di Pisa[...]

[...] dall’intera Toscana per poter conseguire il loro intento.

L'ondata di violenza abbattutasi sulla città in quella tragica giornata non segnò tuttavia la fine del movimento operaio pontederese, se il 13.2.1923 il prefetto di Pisa era costretto a segnalare al Ministero deH'Interno che i comunisti di Pontedera andavano « perseguendo l’unificazione di tutte le forze rivoluzionarie ed il conseguente orientamento del proletariato per abbattere il governo »; e che, a tale scopo, si erano avute riunioni clandestine alla manifattura Ricci e alla tessitura Dini. A tali riunioni avevano partecipato numerosi operai, nove dei quali erano stati arrestati e deferiti all’autorità giudiziaria: A. Lotti, G. Pazzi ni, C.F. Novelli, S. Chiarugi, G. Malloggi, C. Bencini, R. Nelli. V.E. Pistoiesi, C. Ci mi ni.

Gli anni del regime

Superata la crisi Matteotti del 1924, quando fu ormai evidente che Mussolini mirava alla creazione di una dittatura totalitaria, gli imprenditori privati, certi di non vedersi più incalzare da un movimento operaio compatto e combattivo, ripresero cautamente gli investimenti. Nel 1925 la Piaggio (v.) acquistò a Pontedera una vecchia officina meccanica, pare dopo il rifiuto di venderle un vasto appezzamento di terra opposto dagli industrialiagrari empolesi, timorosi di esser poi costretti ad un possibile aumento dei salari.

La Piaggio sviluppò progressivamente gli impianti adibiti alla costruzione di motori di aviazione, e dal 1939 anche di aerei, grazie alle commesse belliche governative (dovute anche all’invenzione, da parte di un ingegnere dello stabilimento, dell'elica a passo variabile che consentiva un notevole potenziamento deH’armamento degli aerei). Tuttavia l’insediamento e l’espansione di questo grande complesso industriale, che nel 1931 occupava già 2.000 dipendenti, saliti a 3.000 nel 1935, a 5.000 nel 1940 e a 11.000 nel 1944, non modificò sostanzialmente le caratteristiche socioeconomiche della zona. Infatti, data l'alta qualificazione tecnica richiesta da questa produzione, l’aumento delle maestranze non fu i<l risultato di assunzioni tra la popolazione agricola locale, ma determinò [...]

[...]la Piaggio (presto definito « radio treno»), alimentato specialmente da lavoratori empolesi e livornesi, contribuì a rafforzare l’orientamento antifascista delle maestranze del complesso meccanico di Pontedera, in gran parte costituite da giovani cresciuti nelle organizzazioni del regime.

Il sopraggiungere della Seconda guerra mondiale conferì maggiori

capacità di penetrazione a questa attività, anche se 14 cittadini e operai della Piaggio vennero incarcerati o inviati al confino.

Guerra di liberazione

L’efficacia e i frutti di queste forme di propaganda antifascista poterono essere verificati il 25.7.1943, quando, all’arrivo della notizia della destituzione di Mussolini, operai e impiegati abbandonarono immediatamente il lavoro, si riunirono sui piazzali e, in breve tempo, cancellarono tutti gli emblemi dell'odiato regime. All'indomani di questa dimostrazione «si ebbe l’arresto dei più noti antifascisti pontederesi e di altri che si erano maggiormente esposti; ma con uno sciopero immediato e con un secondo sciopero, che vide la solidale partecipazione della popolazione del capoluogo, il 5 agosto le maestranze della Piaggio imposero il rilascio degli arrestati.

Dopo I’8.9.1943 la combattività dei lavoratori della Piaggio non diminuì, nonostante il passaggio della fabbrica alle dirette dipendenze dei tedeschi. Infatti, alle 11 del 23 dicembre, durante i[...]

[...]nze dei tedeschi. Infatti, alle 11 del 23 dicembre, durante il turno più numeroso, esplose uno sciopero politicosindacale che, alla richiesta delTalIontanamento dei tedeschi, univa quella di un miglior salario e di razioni alimentari più adeguate. La compattezza dello sciopero dissuase i tedeschi dal far ricorso a rappresaglie e indusse la proprietà, nonché le autorità repubblicane, a fare alcune concessioni. In seguito a questa manifestazione diversi operai furono tuttavia costretti a passare nella clandestinità e, più tardi, alcuni di essi entrarono nella 238 Brigata Garibaldi « G. Boscaglia ».

La presenza dell'importante complesso industriale attirò su Pontedera ripetute incursioni aeree angloamericane, che portarono alla distruzione o al danneggiamento grave del 72% dei fabbricati del capoluogo. L’avvicinarsi del fronte indusse poi i tedeschi a trasferire al Nord una parte degli impianti. Anche gran parte della popolazione dovette abbandonare il centro abitato e ciò provocò una dispersione delle forze politiche locali, che però andarono a rafforzare il movimento dei comuni circostanti, soprattutto a sud dell'Arno, nei cui

C.L.N. molti dirigenti della Resistenza pontederese poterono portare il loro contributo.

La ritirata delle truppe tedesche e il sopraggiungere nella zona di al

695



da Enciclopedia dell'antifascismo e della Resistenza. Vol V (R-S), p. 29

Brano: Rapallo, Trattato di

sciste e torturato, ma riuscì a fuggire pochi giorni prima della Liberazione.

Con le prime elezioni amministrative del dopoguerra venne eletto sindaco di Sarzana, carica che mantenne dall’aprile 1946 al giugno 1971. Successivamente è stato eletto presidente dell’A.N.P.I. di Sarzana, nonché della locale Associazione mutilati e invalidi e del Circolo culturale “Carlo Marx”, organizzato dai giovani militanti antifascisti del ’68.

Rankovic, Aleksandar

Marko. N. il 28.9.1909 presso Obrenovac (Serbia), m. a Dubrovnik il 19.8.1983; operaio.

Membro della Gioventù comunista dal 1924 e del Partito comunista jugoslavo dal 1928, subì numerosi arresti per attività sindacale. Successivamente fu tra i dirigenti della Lega dei giovani comunisti della Jugoslavia, segretario dell’organizzazione di Belgrado e poi della Serbia.

Nel 1929, in seguito all'instaurazione della dittatura monarcofascista, fu nuovamente arrestato e condannato a 6 anni di reclusione. Scontata la pena, fu chiamato a prestare servizio militare. Nel 1937 divenne segretario del Comitato centrale del Partito comunista della Serbia e, nel 1938, membro della Direzione del P.C. jugoslavo.
[...]

[...]924 e del Partito comunista jugoslavo dal 1928, subì numerosi arresti per attività sindacale. Successivamente fu tra i dirigenti della Lega dei giovani comunisti della Jugoslavia, segretario dell’organizzazione di Belgrado e poi della Serbia.

Nel 1929, in seguito all'instaurazione della dittatura monarcofascista, fu nuovamente arrestato e condannato a 6 anni di reclusione. Scontata la pena, fu chiamato a prestare servizio militare. Nel 1937 divenne segretario del Comitato centrale del Partito comunista della Serbia e, nel 1938, membro della Direzione del P.C. jugoslavo.

Nell’ottobre 1940, ricostituitosi nella clandestinità il Comitato centrale del P.C.I., Rankovic entrò a far parte deH’Ufficio politico che, nell’estate del 1941, decisa l’insurrezione armata contro gli occupatori, si trasformò (con Tito al vertice) in Comando supremo dei Distaccamenti partigiani, poi dell’Esercito popolare di liberazione. Segretario organizzativo neH’Ufficio politico del P.C.J. e capo dei servizi di sicurezza nell’Esercito partigiano, Rankovic fu il più stretto collaboratore di Tito durante l’intera Guerra di liberazione. Nel corso di questa fu anche catturato e torturato dalla Gestapo, ma poi liberato dai partigiani con un’ardita azione condotta nel cuore di Belgrado.

Nel dopoguerra fu ministro dell’lnterno del Governo federale e vicepresidente della Repubblica. Net 1948 venne accusato dal Cominform d» formare[...]

[...]ni, poi dell’Esercito popolare di liberazione. Segretario organizzativo neH’Ufficio politico del P.C.J. e capo dei servizi di sicurezza nell’Esercito partigiano, Rankovic fu il più stretto collaboratore di Tito durante l’intera Guerra di liberazione. Nel corso di questa fu anche catturato e torturato dalla Gestapo, ma poi liberato dai partigiani con un’ardita azione condotta nel cuore di Belgrado.

Nel dopoguerra fu ministro dell’lnterno del Governo federale e vicepresidente della Repubblica. Net 1948 venne accusato dal Cominform d» formare (con Tito, Kardelj e Pijade) la « cricca dei traditori e servi deH’imperialismo ».

Segretario generale dell’Alleanza Socialista, nel luglio 1966 venne ac

cusato da altri dirigenti jugoslavi di aver architettato un complotto dei servizi segreti di sicurezza (U.D.B. A.) contro il maresciallo Tito, allo scopo di instaurare in Jugoslavia un nuovo regime, abolendo il sistema dell autogoverno e della democrazia diretta. Privato di tutte le sue funzioni politiche e statali, venne espulso dal partito e sottoposto a giudizio istruttorio, ma beneficiò di un indulto concessogli dallo stesso Tito, a condizione che si ritirasse a vita strettamente privata. Da quel momento scomparve dalla scena politica.

G.Sco.

Il "pugno d’acciaio" della rivoluzione « Un uomo chiuso, serio e spaventosamente ottuso », così lo ricorderà, parlando con i giornalisti, un comandante partigiano. Altri dirigenti jugoslavi diranno di lui: « Uno stalinista coerente che lottò ferocemente contro Stalin per difendere la Jugoslavia ». Milovan Djilas (v.)t per lunghi anni amico e compagno di Rankovic (ma poi da questi arrestato), lo definirà invece « uomo e comunista coerente, coraggioso e fedele al partito », anche se non fu capace di superare la posizione « dura » per adattarsi ai mutamenti di linea impostisi nel paese.

In realtà Rankovic usò metodi durissimi, paradossalmente “staliniani” nel combattere dopo il 1948 gli stalinisti che, seguendo la direttiva del Cominform, cercavano di far cadere Tito. Come capo della temutissima U.D.B.A. (la polizia politica) arrestò e rinchiuse in un campo di concentramento oltre 50.000 comunisti che si richiamavano all’U.R.S.S., riuscendo a convertirne parecchi al titoismo. Alla fine degli anni[...]

[...]e la posizione « dura » per adattarsi ai mutamenti di linea impostisi nel paese.

In realtà Rankovic usò metodi durissimi, paradossalmente “staliniani” nel combattere dopo il 1948 gli stalinisti che, seguendo la direttiva del Cominform, cercavano di far cadere Tito. Come capo della temutissima U.D.B.A. (la polizia politica) arrestò e rinchiuse in un campo di concentramento oltre 50.000 comunisti che si richiamavano all’U.R.S.S., riuscendo a convertirne parecchi al titoismo. Alla fine degli anni Cinquanta Rankovic scatenò sanguinose repressioni anche contro gli albanesi del Kossovo, ma quando, in nome di un rigoroso centralismo statuale, egli si schierò contro la riforma economica e sociale sostenuta da Kardelj (liberalizzazione dei salari, autogestione, regolamentazione della democrazia), fu sconfitto e dovette ritirarsi dalla scena.

Il suo ultimo gesto politico fu di difendere pubblicamente quella stessa linea contro la quale si era tenacemente battuto, un comportamento tipico del l’uomo di partito di stampo stalinista. Certamente dovette a questa sua improvvisa “conversione” autocritica se potè trascorrere tranquillo in Jugoslavia, come privato cittadino, gli ultimi 17 anni della sua vita, in un confortevole appartamento di Belgrado. Ma forse lo dovette anche ad altri motivi: all'indomani della sua morte, si venne a sapere che egli aveva lungamente spiato i massimi dirigenti del partito, fino al punto di far installare segretamente un microfono nella camera da letto di Tito.

Rapallo, Trattato di

Accordo diplomatico firmato il 12 novembre 1920 fra l'Italia e il nuovo Regno SerboCroatoSloveno (S.

H.S.), sorto all’indomani della cadu

ta deH’Impero asburgico, per fissare la frontiera fra i due paesi.

Il ritardo con cui si giunse alla definizione di un problema collegato con la fine della Prima guerra mondiale e i relativi trattati di pace stipulati più di un anno prima a Versailles, fu principalmente dovuto al contenzioso sorto fra il governo italiano e quello jugoslavo, nel quale le rivendicazioni territoriali, i reciproci irredentismi, le tensioni politiche interne e le esigenze di sicurezza si erano mescolati a tal punto da aver già creato momenti gravi di tensione fra i due paesi.

La questione di Fiume

Il governo italiano si richiamava al Trattato segreto di Londra del 26 aprile 1915, in virtù del quale, in caso di vittoria della Triplice Intesa, dovevano essere assegnate all’Italia Trieste, Gorizia, l'Istria (ma non Fiume) e parte della Dalmazia, nonché numerose isole adriatiche. Ma la nascita del Regno S.H.S. (non prevista nel 1915) e la presenza di popolazioni prevalentemente croate e slovene sul territorio rivendicato dall’Italia complicavano le cose. La decisione del ministro degli Esteri italiano Sidney Sonnino di puntare in primo luogo sulla sicurezza militare del paese, cioè su frontiere vantaggiose per l’Italia (al punto di far fallire i contatti fra le delegazioni italiana e jugoslava, in corso per tutto il 1917 a Londra) e in questo quadro la scelta di rivendicare Fiume (ricorrendo all’argomento che il Trattato di Londra era stato stipulato quando ancora si pensava che Croazia e Montenegro sarebbero rimaste indipendenti dalla Serbia) rimisero in discussione le frontiere orientali d’Italia. Per di più, le pretese italiane contraddicevano il nono dei famosi “14 punti” del presidente americano Wilson, secondo il quale doveva essere garantito il diritto dei popoli all’autodecisione.

Il contrasto fra il presidente del Consiglio italiano V.E. Orlando (v.) e Wilson si spostò così sulle questioni di principio e divenne così aspro che, giudicando insoddisfacente la proposta di confine presentata dal presidente americano, Orlando abbandonò in segno di protesta la Conferenza di Parigi.

Da allora la questione venne affidata a una trattativa diretta italojugoslava, ma sul futuro della città di Fiume sorse una violenta frizione.

Il 12.9.1919 Gabriele D’Annunzio (v.), dopo una esagitata campagna volta a mobilitare l’opinione pubblica a favore della annessione di

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successivi
Grazie ad un complesso algoritmo ideato in anni di riflessione epistemologica, scientifica e tecnica, dal termine V.E., nel sottoinsieme prescelto del corpus autorizzato è possible visualizzare il seguente gramma di relazioni strutturali (ma in ciroscrivibili corpora storicamente determinati: non ce ne voglia l'autore dell'edizione critica del CLG di Saussure se azzardiamo per lo strumento un orizzonte ad uso semantico verso uno storicismo μετ´ἐπιστήμης...). I termini sono ordinati secondo somma della distanza con il termine prescelto e secondo peculiarità del termine, diagnosticando una basilare mappa delle associazioni di idee (associazione di ciò che l'algoritmo isola come segmenti - fissi se frequenti - di sintagmi stimabili come nomi) di una data cultura (in questa sede intesa riduttivamente come corpus di testi storicamente determinabili); nei prossimi mesi saranno sviluppati strumenti di comparazione booleana di insiemi di corpora circoscrivibili; applicazioni sul complessivo linguaggio storico naturale saranno altresì possibili.
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