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da Orazio Barbieri, La leggendaria liberazione di Firenze ad opera del popolo fiorentino in KBD-Periodici: Rinascita - Mensile ('44/'62) 1954 - numero 7 - luglio

Brano: [...]esistenza
La leggendaria liberazione di Firenze
ad opera del popolo fiorentino
Invano i fiorentini che l'11 agosto celebreranno il decimo anniversario della liberazione della loro città, cercheranno sul calendario un segno che sottolinei quella data, e inutilmente i giovanissimi, che dai padri e dai fratelli maggiori hanno sentito narrare gli episodi di quell'evento, cercheranno a scuola nei libri di storia o di lettura un commento o un racconto sulla leggendaria liberazione di Firenze. Eppure quella fu e resta una bella pagina della nostra storia nazionale e della Resistenza europea; fu certamente uno dei più belli episodi vittoriosi di lotta armata popolare contro i tedeschi ed una delle più importanti esperienze politiche e militari di guerra partigiana.
Anche a Firenze dopo l'8 settembre si lavorava per mobilitare tutto il popolo nella lotta armata, secondo le direttive del P.C.I. Ma in quel tempo i dirigenti politici preparati erano pochi e la Federazione comunista fiorentina non aveva che scarsi e deboli legami con nuclei cittadini e[...]

[...]va che ha l'unico scopo di tentare il salvataggio all'ultima ora di fascisti repubblicani e di collaboratori del nemico. Avverte che chiunque si metterà al servizio di tali mestatori, sarà considerato un traditore e verrà, come tale, passato per le armi».
E' in questo clima di incubo e di terrore che il comando tedesco, con il consenso dei fascisti, emise il 29 luglio l'ordinanza che obbligava la cittadinanza ad abbandonare le proprie abitazioni sulla riva destra dell'Arno nel centro della città, entro le ore 12 del 30 luglio. Le ore crepuscolari del giorno 29 furono le più febbrili, le più angosciose: cittadini ignari e inermi correvano per ogni senso per cercare un parente, per mettere in salvo un oggetto (i tedeschi avevano ordinato di lasciare i mobili), famiglie intiere peregrinavano per trovare un luogo ove posare un materasso. Intanto gli uomini politici dirigenti il movimento patriottico prendevano gli ultimi accordi, stabilivano i contatti, davano le direttive sulla tattica da seguire per preparare l'attacco decisivo contro i tede[...]

[...]e ore crepuscolari del giorno 29 furono le più febbrili, le più angosciose: cittadini ignari e inermi correvano per ogni senso per cercare un parente, per mettere in salvo un oggetto (i tedeschi avevano ordinato di lasciare i mobili), famiglie intiere peregrinavano per trovare un luogo ove posare un materasso. Intanto gli uomini politici dirigenti il movimento patriottico prendevano gli ultimi accordi, stabilivano i contatti, davano le direttive sulla tattica da seguire per preparare l'attacco decisivo contro i tedeschi.
Il 3 agosto il comando germanico proclamava lo stato d'assedio e nessuno poteva più uscire dalla propria casa. Come era stato previsto e denunciato dal C.T.L.N., i tedeschi e i fascisti, nella notte fra il 3 e il 4, si ritirarono di qua dall'Arno e minarono i ponti di S. Niccolò, alle Grazie, S. Trinita, alla Carraia, della Vittoria e tutta la zona intorno al Ponte Vecchio, di qua e di là dal fiume. La notte si udirono i primi boati dello scoppio delle mine. La mattina alle 5, altre esplosioni scossero la città. I ponti e [...]

[...]e è divenuto un rischio, che cosa ci può più trattenere? Basta con questa esistenza di angoscia e di terrore! Basta col sopportare, con l'attendere, col terrore. Basta con la criminalità dei tedeschi! Basta con la mostruosità dei nazisti! «Non dimenticherò mai quei momenti. Per incarico del movimento della Resistenza mi portai in Palazzo Vecchio, che era chiuso e presidiato dai vigili urbani. Accompagnato dal comandante, sfondai la porta e salii sulla prima ghirlanda della Torre di Arnolfo.
Uno spettacolo desolante apparve ai miei occhi: forse fui il primo a vedere i nostri ponti sull'Arno crollati, accasciati nell'acqua! Tutta l'antica zona di Por Santa Maria e di via Guicciardini, un tempo brulicante di vita, era distrutta. Un lento fumo si levava dalle montagne di macerie. La città era silenziosa, come morta. I lungarni e Firenze avevano un altro profilo, un altro volto. Lontano, all'orizzonte verso Perentola e Sesto, si levavano nubi di polvere dalle auto in marcia.
Mi venne fatto di guardare la sottostante Piazza della Signoria, deser[...]

[...]à era silenziosa, come morta. I lungarni e Firenze avevano un altro profilo, un altro volto. Lontano, all'orizzonte verso Perentola e Sesto, si levavano nubi di polvere dalle auto in marcia.
Mi venne fatto di guardare la sottostante Piazza della Signoria, deserta, squallida. All'inizio di via Vacchereccia giaceva un cadavere, orribilmente gonfio. Due guastatori tedeschi scassinavano la saracinesca del negozio Sbisà. Mentre parlavo col comandante sulla situazione, un sibilo ed un colpo secco sfiorò la nostra testa; una pallottola di fucile colpì la soglia del merlo ove eravamo affacciati. Questo fatto richiamò la nostra attenzione verso l'altra sponda dell'Arno, ove vedevamo movimento di cittadini, bandiere italiane ed inglesi. Quella parte della città era stata liberata ed occupata dai partigiani e dai neozelandesi, i quali, non sapendo chi fossimo, avevano sparato contro di noi.
Sopraggiunse in quel momento un altro patriota del Partito d'Azione, col quale decidemmo di attraversare l'Arno dalla Galleria degli Uffizi. Penetrati nella prima[...]

[...]eti ci fu possibile procedere.
Dalle brecce aperte e dalle finestre ancora esistenti si vedevano molto prossime le macerie delle case crollate, si udiva lo scoppiettio dei mobili delle abitazioni che ancora bruciavano, si udivano i lamenti e le grida della gente rimasta sepolta, che bruciava o asfissiava, prigioniera nelle case che non avevano voluto lasciare. Era uno spettacolo che stringeva il cuore.
Giunti all'angolo del Ponte Vecchio, sempre sulla Galleria, vedevamo le distruzioni del Lungarno Acciaiuoli; attraversammo il Ponte Vecchio sempre fra il pericolo del crollo delle pareti e poi anche delle fucilate delle sentinelle tedesche. Ma giunti all'altezza di Borgo San Jacopo, ci fu impossibile proseguire, perché anche qui le mine poste in via Guicciardini avevano fatto saltare la galleria che congiungeva il ponte alla via Guicciardini. Dovevamo quindi affidarci ad una corda e calarci sull'ultima parte del Ponte Vecchio e di qui, fra le macerie (che poi risultarono tutte minate), penetrammo nella Chiesa di Santa Felicita, e poi entramm[...]

[...]via Guicciardini avevano fatto saltare la galleria che congiungeva il ponte alla via Guicciardini. Dovevamo quindi affidarci ad una corda e calarci sull'ultima parte del Ponte Vecchio e di qui, fra le macerie (che poi risultarono tutte minate), penetrammo nella Chiesa di Santa Felicita, e poi entrammo in Boboli ove accampavano le truppe neozelandesi e i partigiani. Migliaia di profughi erano accampati sotto le logge di Palazzo Pitti. Sui feriti, sulla folla, che faceva coda per avere i viveri e per prender l'acqua, si posava il nostro sguardo. Almeno era gente che dava segno di vita, a i partigiani cantavano, snidavano i franchi tiratori. fascisti!
Dopo aver parlato coi membri della delegazione del C.T.L.N. e coi dirigenti del movimento partigiano, conferii coi comandanti alleati. Mi condussero nella Villa Torrigiani, ove portai le informazioni sui movimenti delle poche truppe tedesche che ancora martirizzavano la città. Gli ufficiali inglesi, ai quali chiedevo di far passare l'Arno anche a pochi soldati che avrebbero potuto, insieme coi p[...]

[...]e i partigiani riposarono intorno al chiostro in attesa dell'attacco. I proiettili dei mortai tedeschi continuavano a cadere distaccati l'uno dall'altro, ma in modo sconcertante nei centri abitati, nei giardini, nei cortili. I feriti alcuni dei quali orribilmente mutilati — erano trasportati sui carretti ai luoghi di soccorso. Uno dei proiettili cadde nel cortile del chiostro, scoppiò e illuminò di sinistra luce l'ambiente. Potente era colpito! Sulla sua camicia rossa, sgorgavano flotti di sangue. Lo rialzarono i suoi compagni, il capitano inglese, anche egli ferito, volle che sull'autoambulanza fosse raccolto prima Potente. Il comandante dei partigiani fiorentini era caduto.
Il giorno dopo ripassai l'Arno attraverso la stessa galleria. In via Condotta sedeva in permanenza il C.T.L.N. di cui erano membri: Enriques Agnoletti del P.d'A., Aldobrando Medici Tornaquinci liberale, l'avv. Mario Martini democristiano, Foscolo Lombardi e Dall'Oppio socialisti, Giuseppe Rossi e Giulio Montelatici comunisti. A tutti feci una relazione sulla situazio[...]

[...]utoambulanza fosse raccolto prima Potente. Il comandante dei partigiani fiorentini era caduto.
Il giorno dopo ripassai l'Arno attraverso la stessa galleria. In via Condotta sedeva in permanenza il C.T.L.N. di cui erano membri: Enriques Agnoletti del P.d'A., Aldobrando Medici Tornaquinci liberale, l'avv. Mario Martini democristiano, Foscolo Lombardi e Dall'Oppio socialisti, Giuseppe Rossi e Giulio Montelatici comunisti. A tutti feci una relazione sulla situazione.
Anche Luigi Gaiani, che comandava i G.A.P. fiorentini, informò il C.T.L.N. sulle ultime azioni armate.
La mattina dell'11 il C.T.L.N. fece suonare la Martinella del Bargello per dare il segnale dell'attacco generale. Le squadre d'azione uscirono nelle vie, della zona ancora occupata dai tedeschi, i partigiani di Potente passarono l'Arno in forze. Era l'ora di riscattare tutti i delitti del fascismo che per venti anni aveva tolto la libertà, sfruttato il popolo, venduto il Paese allo straniero! I partigiani della divisione «potente » (così ora si chiamava in onore del comandante ca[...]

[...]. della Patria».
Sono queste le gesta che hanno dato a Firenze la medaglia d'oro, e sono stati questi stessi avvenimenti e la saggezza politica dei dirigenti del C.T.L.N. che hanno destato le preoccupazioni dei governatori americani e inglesi che non volevano Gaetano Pieraccini primo sindaco di Firenze libera.
Consapevoli della necessità di continuare la lotta i partigiani ed altri giovani si arruolarono nell'armata di Liberazione nelle cui file sulla linea gotica caddero ancora a centinaia.
Firenze celebra l'11 agosto il decimo anniversario della sua liberazione con questi ricordi ed il sesto anniversario della morte di Giuseppe Rossi con la maturità che viene da una grande esperienza sofferta, con la coscienza dei nuovi pericoli che minacciano l'indipendenza nazionale e la pace a causa del tradimento di alcuni degli alleati di allora, e col fermo proposito di difendere sempre quei beni supremi.
ORAZIO BARBIERI



da Sebastiano Timpanaro, Il Marchesi di Antonio La Penna in KBD-Periodici: Belfagor 1980 - novembre - 30 - numero 6

Brano: IL « MARCHESI » DI ANTONIO LA PENNA
1. Marchesi, la filologia tedesca, il marxismo. — Nel maggio del 1979, in un convegno per il centenario della nascita di Concetto Marchesi e di Manara Valgimigli, Antonio La Penna lesse una relazione sulla formazione di Marchesi come critico letterario. Ora la relazione, rielaborata e molto ampliata, è divenuta un saggio d'insieme su Marchesi: un saggio denso ed essenziale, che per la prima volta ci dà un'immagine complessiva e convincente di una personalità cosí tormentata, cosí ricca di fascino e di aspetti sconcertanti.
Precedenti autori di libri e articoli su Marchesi hanno creduto di metterne in piú viva luce il valore negando le contraddizioni dell'uomo e dello studioso. La Penna ci presenta un Marchesi fortemente contraddittorio, quale fu in effetti: socialista (e poi comunista) con una[...]

[...]duttore in versi, ottimo in prosa (e ben presto egli predilesse la prosa, discostandosi dalla linea RomagnoliBignone), cfr. LA PENNA, p. 37 s. e, piú ampiamente, E. PIANEZZOLA nel vol. collettivo La traduzione dei classici a Padova, Padova, Antenore, 1976, p. 23 ss. Fra le poche traduzioni in versi riuscite, giustamente il Pianezzola (pp. 3638) cita e riporta la monodia di Tieste nell'omonima tragedia di Seneca e una parte del coro delle Troades sulla morte come annullamento.
634 SEBASTIANO TIMPANARO
incomprensione, credo anche antipatia personale. Forse l'unica allusione a Pasquali (finora, che io sappia, non notata) si trova appunto in Filologia e filologismo, e riguarda ancora quella che a Marchesi sembrava una stortura nella moderna ricerca delle fonti, il voler rintracciare fonti diverse dalle poche dichiarate e confessate dagli stessi autori antichi: « Cosí non è creduto Orazio quando dichiara che i suoi ispiratori sono fra i lirici classici della Grecia » (SM, III, p. 1236). L'Orazio lirico era uscito appena tre anni prima della p[...]

[...]conforme piú agli ideali di Marchesi stesso che alle intenzioni e alla realtà del volume del Leo. Anche in Filologia e filologismo (SM, III, p. 1241), fra tante riserve e censure riguardo alla filologia tedesca, spicca un alto riconoscimento del valore del Leo. Osserva il La Penna (p. 55) che questa « è un'eccezione che non incide troppo sull'atteggiamento generale », ed è vero. Ma su un punto la lettura del Leo influí positivamente su Marchesi: sulla valutazione di Plauto, poeta di grande originalità, ma non popolaresco in senso immediato e triviale, bensí dotato di cultura, di raffinato senso ritmico, esprimentesi in una lingua piena di espressività e di forza vitale, ma non « volgare ». Si confronti l'accenno a Plauto nella recensione già citata al Leo (SM, in, p.. 1108) con ciò che nella Storia della letteratura latina (i`, p. 75) si dice di Plauto poeta « ellenistico », non « ignorante di genio », ma « grande poeta » e perciò « uomo di grande cultura: perché l'arte si alimenta di conoscenza e di studio: altrimenti è improvvisazione ar[...]

[...] Si confronti l'accenno a Plauto nella recensione già citata al Leo (SM, in, p.. 1108) con ciò che nella Storia della letteratura latina (i`, p. 75) si dice di Plauto poeta « ellenistico », non « ignorante di genio », ma « grande poeta » e perciò « uomo di grande cultura: perché l'arte si alimenta di conoscenza e di studio: altrimenti è improvvisazione artistica di breve durata »; si vedano ancora, nella Storia (vol. cit., pp. 7375), i paragrafi sulla lingua plautina (che « non è quella del volgo, com'è mala consuetudine ripetere ») e sulla metrica; e si riconoscerà ben chiaro l'influsso del Leo. A proposito dell'origine dei cantica c'è perfino un accenno alle due teorie del Leo e di Eduard Fraenkel (derivazione dalla lirica ellenistica o dai cantica tragici?): dalla lettura del Leo Marchesi era passato, sia pure nei limiti di una rapida e non approfondita informazione, alla conoscenza di lavori plautini della scuola del Leo.
Come si vede, qui fa capolino una concezione del rapporto fra ispirazione poetica e « cultura » che contrasta, felicemente, con la concezione tipica di Marchesi. Felicemente ma isolatamente (non perché Mar[...]

[...]del rapporto fra ispirazione poetica e « cultura » che contrasta, felicemente, con la concezione tipica di Marchesi. Felicemente ma isolatamente (non perché Marchesi fosse succube del mito romantico del poeta « sublime ignorante », ma perché tra cultura e poesia rimaneva secondo lui, come si è detto, un iato). La lettura di Leo non solo non ha spinto Marchesi a rivedere il proprio metodo critico, ma, cosa alquanto strana, non ha nemmeno influito sulla sua visione dell'intera letteratura arcaica latina, che rimane particolarmente infelice (basti pensare all'incomprensione per Ennio, su cui vedi le osservazioni giustamente dure di La Penna, p. 76, e per
IL « MARCHESI » DI ANTONIO LA PENNA 635
Terenzio). E del resto su Plauto stesso il Marchesi non ha pressoché nulla di originale da dire: il capitolo della Storia su Plauto rimane un esempio di buona assimilazione di idee altrui. Valeva, credo, la pena di notare come fatto pur sempre positivo tale assimilazione; ma il giudizio complessivo di La Penna sulla mancanza di senso della storicità d[...]

[...]ncomprensione per Ennio, su cui vedi le osservazioni giustamente dure di La Penna, p. 76, e per
IL « MARCHESI » DI ANTONIO LA PENNA 635
Terenzio). E del resto su Plauto stesso il Marchesi non ha pressoché nulla di originale da dire: il capitolo della Storia su Plauto rimane un esempio di buona assimilazione di idee altrui. Valeva, credo, la pena di notare come fatto pur sempre positivo tale assimilazione; ma il giudizio complessivo di La Penna sulla mancanza di senso della storicità del fatto artistico, sulla carenza di Kulturgeschichte in Marchesi rimane del tutto valido, e non era stato finora notato con tanta lucidità.
2. Il criticoartista. — Abbiamo accennato che meno ovvi possono apparire i motivi per cui, nonostante le forti differenze di impostazione metodologica (a cui si aggiungono diversità non meno notevoli di idee politiche e di Weltanschauung), La Penna è portato a simpatizzare con certi aspetti assai significativi della critica letteraria di Marchesi. Ma bisogna tener conto del fatto che la sintesi di filologia tedesca e di marxismo (o, come da qualche tempo egli preferisce dire, di[...]

[...]po fugace, di La Penna, p. 36) sembra che l'arte, per Marchesi, sia dotata di quel potere gnoseologico, unificatore e inveratore di un'esperienza altrimenti caotica e contraddittoria, che una secolare tradizione attribuisce appunto alla filosofia (o alla scienza intesa come antiempirla, antiesperienza comune). La storiografia stessa raggiungerebbe la « verità » grazie alle doti artistiche dello storico, non ai vani sforzi di ricostruzione basati sulla ricerca documentaria. Questo concetto è espresso nell'introduzione al Bellum Catilinae di Sallustio (poi in Voci di antichi, Roma 1946, p. 41 ss.: « la voce dell'arte contemplatrice del passato scopre una parte, almeno, di ciò che è vero nella vita degli uomini. Il resto è oscurità e silenzio ») e, con ancor piú recisione, nel saggio su Livio e la verità storica (in Voci di antichi, pp. 119121). Per via d'indagine razionale, dice Marchesi, la storia si frantuma in tante visioni, tutte vere e tutte false; c'è una sola « forza unificatrice: è quella dell'arte: sola infrangibile verità ». Lo sto[...]

[...]uale, alla fede platonica: insiste piuttosto sul convincimento, co m u n e alle due concezioni, della morte come liberatrice dai dolori e dalle ansie della vita. Un pensiero analogo aveva già espresso nel saggio del 1910 sul Dubbio sull'anima immortale in due luoghi di
e pubblica rendono inamabile il volto della Chiesa impedendo alle rette coscienze di aderire ad una Verità che essi disonorano, questo libro è con infinita amarezza dedicato ». — Sulla presunta conversione di Marchesi o, piú in generale, sulla sua religiosità cfr. anche, qui in « Belfagor », gli scritti di LUIGI Russo (xII, 1957, pp. 207209: il Russo metteva bene in luce il fondo pessimistico e precristiano, da « fato greco », della religiosità siciliana di Marchesi), di M. VALGIMIGLI (ivi, p. 722 s.) e di A. CAsSARÀ (xIII, 1958, pp. 220222). Nel postumo Diario di una donna di SIBILLA ALERAMO, cosí irrimediabilmente e pietosamente egocentrico (Milano, Feltrinelli, 1978), le pagine su Marchesi (per es. 199, 309, 321, 428) sono tra le poche che dimostrano capacità di comprendere il dolore, la solitudine, l'ansia di un a 1 t r o .
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[...]20222). Nel postumo Diario di una donna di SIBILLA ALERAMO, cosí irrimediabilmente e pietosamente egocentrico (Milano, Feltrinelli, 1978), le pagine su Marchesi (per es. 199, 309, 321, 428) sono tra le poche che dimostrano capacità di comprendere il dolore, la solitudine, l'ansia di un a 1 t r o .
642 SEBASTIANO TIMPANARO
Seneca (in SM, ir, p. 719 ss.): qui, in modo ancor piú esplicito, dichiarava « immenso » il fascino della dottrina epicurea sulla morte, « la virtú consolatrice dell'annullamento mortale »; e mostrava, citando l'epistola 54 a Lucilio, come neanche negli ultimi anni Seneca fosse diventato un fermo credente nell'immortalità. E non a caso l'autore cristiano da lui piú amato (cfr. Voci di antichi, p. 159 ss.) è Arnobio, un retore pessimista e materialista, piú lucreziano che cristiano, negatore dell'immortalità dell'anima.
4. L'« antiromanità » della letteratura latina. — Ci siamo, senza volerlo, discostati alquanto dal tema dell'« homo » et « civis »: dobbiamo adesso ritornarvi. Fin dai profili anteriori alle opere di mag[...]

[...]ismo: cfr. « Belfagor » xx, 1965, p. 34 ss.) da un senso di crisi, di pessimismo, di saggezza dolorosamente conquistata, di rimpianto per una Roma primitiva ormai non piú resuscitabile. Io, nei capoversi precedenti, ho in parte citato passi di Marchesi diversi da quelli citati da La Penna, non per futile sfoggio, ma solo per far vedere come sia facile trovare sempre nuove espressioni di questo motivo che percorre tutta la meditazione di Marchesi sulla letteratura latina, dagli anni giovanili alla vecchiezza: aver dato a questo motivo il rilievo che gli compete è, ripeto, uno dei maggiori meriti del saggio di La Penna.
Certo, un'unica chiave, per quanto preziosa, non serve mai ad aprire tutte le porte. Anche a prescindere dalla letteratura arcaica, resta preclusa a Marchesi, nell'insieme, una personalità come quella di Cicerone (i motivi dell'anticiceronianismo di Marchesi si comprendono agevolmente, ma l'incomprensione, grave, rimane). Nella stessa età postaugustea, se la svalutazione di Persio è a mio avviso giustificata (su questo punto[...]

[...]no alla decadenza e alla rovina, e che la salvezza può ormai venire piú dalle discordie intestine dei barbari che dalla forza militare romana (Germ. 33). In questa « cruda compiacenza » (Tac.2, p. 132) c'è molta angoscia pessimistica: meglio che nel Tacito, Marchesi la vide o intravide nelle ultime edizioni della Storia. Urgentibus imperii fatis (Germ., ivi) non sono parole di un imperialista fiducioso; e d'altra parte le considerazioni ben note sulla sanità morale dei Germani in contrapposto all'immoralità romana divenuta ormai consuetudine rivelano ben altro che puri intenti artistici o retorici.
5. L'individuo e la cosmopoli. — Ancora qualche riflessione ci suggerisce il contrasto homocivis. Che l'arte diventi angusta quando si prefigge scopi « civili » anziché « umani » non è certamente, secondo Marchesi, un principio valevole per la sola letteratura latina. Marchesi stesso si richiama a Heine come modello di poeta « umano » accostabile a Marziale, dichiara
646 SEBASTIANO TIMPANARO
che « il contenuto dell'arte nei Reisebilder è piú [...]

[...]ppunto perché essa è stata creata non da una regione — come la letteratura ellenica — ma da un mondo che si estendeva dal Mediterraneo all'Atlantico ». Presa alla lettera, nella sua prima parte, questa asserzione è, sia detto senza venir meno al rispetto per la memoria di Marchesi, una vera assurdità; e assurdità non minori vi sono nelle righe che abbiamo omesso, indicando l'omissione con punti sospensivi. Parrebbe che Marchesi non abbia saputo, sulla funzione del teatro in Atene, ciò che sa ogni studente di liceo. Lascia soprattutto sconcertati (anche per
IL « MARCHESI» DI ANTONIO LA PENNA 647
chi ricordi l'insistente e, in parte, poco fondata difesa della retorica che Marchesi ha già fatto nella Storia, if, pp. 3537) quell'accenno alle « sale di recitazione »: le declamazioni dei retori dell'età imperiale sarebbero state piú « vicine al popolo » che le orazioni di Demostene! Ma la vera motivazione di questa pur distorta idea della maggiore popolarità e modernità della letteratura latina è nelle ultime parole: la letteratura latina è il[...]

[...]tornava a esaltare la tirannia di Cesare, certo con ragione quanto all'abissale distanza, ma senza esprimere su Cesare nemmeno l'ombra di una riserva, anzi attribuendogli il merito di esser riuscito « a realizzare esigenze democratiche spietatamente combattute e a dilatare civilmente i confini di un impero dentro un tessuto barbarico ». Ma l'anno dopo, commemorando Stalin (ivi, p. 258), lo contrapponeva agli uomini come Cesare che « hanno creato sulla morte e per la morte »!
650 SEBASTIANO TIMPANARO
vano e dicevano che per opera dei Romani la terra era divenuta patria comune ».
Certo, sarebbe non troppo difficile raccogliere dalle pagine di Marchesi un controflorilegio di passi di condanna del dispotismo, di rivendicazioni libertarie e vagamente sociali. Ma in complesso prevalse in lui l'idea che la creazione di questa « patria comune » valesse il prezzo del dispotismo piú o meno illuminato, perché ciò che si era perduto in libertà politica si era guadagnato in libertà interiore. « Il principato aveva soppresso le lotte di fazione e le [...]

[...]scienza, idealistica la sua rivalutazione quasi misticheggiante dell'individuo come fantasia, creazione artistica, e come coscienza religiosa. Amava citare da Agostino i tre concetti di tempo: presente del passato, presente del presente, presente del futuro; ma il vero ispiratore non è Agostino e neppure il marxismo con la sua concezione dei rapporti fra conoscenza e prassi: l'ispirazione, sia pure generica, è nell'idealismo contemporaneo: siamo sulla via che porta al concetto crociano della storia che è sempre storia contemporanea, o addirittura all'atto puro di Gentile.
Subito dopo, la collocazione muta alquanto: Marchesi, piú che all'idealismo neohegeliano, è avvicinato, sia pure indirettamente, « a forme di irrazionalismo di ispirazione nietzschiana e poi bergsoniana », e distaccato, anche se non del tutto, dal crocianesimo. Infine La Penna rammenta che
IL « MARCHESI» DI ANTONIO LA PENNA 651
già nella giovinezza catanese Marchesi « aveva respirato l'aria del tardo positivismo, che diventava sempre piú agnostico [...1; probabilmente [...]

[...]oco studiata; quando uscirà il saggio a lui dedicato da Girolamo de Liguori (di cui ho potuto leggere una parte ancora inedita), anche certe caratteristiche e certe contraddizioni di Marchesi ne usciranno, penso, meglio chiarite. E per quel ché riguarda gli italianisti e i medievalisti di fine Ottocento, non si dimentichi che nella produzione giovanile di Marchesi la filologia medievale e umanistica prevalgono, come quantità e anche come valore, sulla filologia classica, seguendo l'esempio di Remigio Sabbadini, anche lui, malgrado le cure date al testo di Virgilio, migliore studioso dell'umanesimo che della letteratura latina antica. Di questa produzione giovanile di Marchesi tratta in modo eccellente il La Penna nel cap. ir del suo saggio, e io non ho nulla da aggiungere; qualcosa, piú oltre, dirò del Marchesi filologo classico.
Con ciò non intendo certo sostenere che Marchesi abbia trascorso la maggior parte della sua vita intellettuale chiuso dentro una corazza tardopositivistica, insensibile ad ogni influsso del neoidealismo e dell'ir[...]

[...]o con certi odierni universitari del Pci: a suo modo, era appassionatamente comunista davvero, e, benché incapace di ogni atteggiamento coerente di opposizione interna al PCI togliattiano, fu anche, talvolta, un militante « scomodo »: non votò, unico tra i parlamentari del PCI, a favore del famigerato art. 7 della Costituzione; insisté piú volte, senza far nomi ma con un tono abbastanza marcatamente polemico (cfr. Umanesimo e comunismo, passim), sulla necessità di non degradare la cultura a propaganda di partito (la cultura, s'intende, era per lui l'espressione dell'« umanità eterna »; ma quella polemica aveva pure un suo valore difensivo non disprezzabile); la sua stessa passionale difesa di Stalin all'viiz Congresso del Pci nel 1956, politicamente aberrante, non mancò di una certa dignità di fronte ai destalinizzatori italiani dell'ultima ora (e destalinizzatori solo in superficie), i quali, a cominciare da Togliatti, avevano pronunciato all'indirizzo di Stalin vivo e potente, o appena morto, le piú vergognose piaggerie. Ciò forse andava[...]

[...]tto sommato piú numerosi, in cui ha ragione contro Lea e Richter (talvolta la lezione giusta era stata già prescelta da vecchi filologi; ma è pur sempre un merito del Marchesi l'averla rivalutata contro le edizioni allora piú recenti e accreditate). Al v. 715 tantum scelus di A (preferito dal Marchesi contro saevum scelus di E e degli editori) non è sicuro, tuttavia ha, nella sua indeterminatezza, maggior forza enfatica, e l'ipotesi del Marchesi sulla genesi dell'altra lezione non è trascurabile. Al v. 563
IL « MARCHESI » DI ANTONIO LA PENNA 665
concordo col La Penna (e con tutti gli editori tranne Marchesi) nel ritenere che l'ordine delle parole di E sia piú consono allo stile di Seneca; eppure il confronto addotto da Marchesi con l'ordine delle parole nel modello virgiliano non è privo di finezza, e la lezione che egli preferisce non è tramandata dal solo Riccardiano, ma dall'intera classe A.
Questa mia difesa dell'edizione del Tieste va considerata, intendiamoci, come una difesa ben delimitata: i grossi difetti a cui già abbiamo acce[...]

[...]uno soprattutto, il solo vero allievo che Marchesi abbia avuto, Ezio Franceschini, che è poi diventato un insigne medievalista. Franceschini ha sempre parlato di Marchesi come di un maestro « irraggiungibile », che, nonostante la grande umanità e la sostanziale modestia, poco o nulla poteva imparare dai suoi scolari. Tuttavia nel suo Marchesi il Franceschini ci ha narrato un episodio significativo (p. xit s.). Nel 1926, sul finire di una lezione sulla tradizione medievale dell'Etica Nicomachea (di cui si era occupato a lungo da giovane), Marchesi accenna a un testo, il
668 SEBASTIANO TIMPANARO
Liber philosophorum moralium antiquorum, che era sempre rimasto per lui un enigma quanto all'autore, alle fonti, alla lezione di molti passi. Vuole qualcuno dei suoi scolari prenderlo come argomento di tesi di laurea? Si fa avanti Franceschini, sí fa affidare da Marchesi quel lavoro, si ripresenta a Marchesi, dopo aver lavorato da solo, un anno dopo e gli espone i risultati: quel testo è la versione latina di un'opera araba composta nel 1053; ne es[...]

[...] il quale non sarebbe immaginabile l'edizione di Arnobio. Il Franceschini, filologo di prim'ordine ma non disposto a esprimere sul suo Marchesi alcuna riserva e quindi nemmeno a compiere alcuna periodizzazione, riconosce nell'Arnobio il culmine della filologia di Marchesi ma considera eccellenti anche le edizioni critiche anteriori (op. cit., pp. 267, 308309); tuttavia testimonianze dello stesso Franceschini come: « Ricordo le lunghe discussioni sulla scelta di una variante, le ragioni valide per l'una o per l'altra parola, le ricerche lessicali e stilistiche, e ancora i dubbi e le incertezze, prima della decisione » (p. 94 s.); o: « Quante volte lo incontrai dopo una notte passata insonne per lo studio di una variante! » (p. 130, e ancora p. 167) non possono riferirsi che all'Arnobio (per « varianti » il Franceschini intenderà, insieme alla lezione tramandata, le varie proposte congetturali, ché il codice di Arnobio, come si sa, è uno solo) o forse a esercitazioni di seminario su testi medievali: non certo, per ovvie ragioni cronologiche,[...]



da Ariodante Marianni, Modelli arabi e joyciani di Ungaretti in KBD-Periodici: Belfagor 1980 - marzo - 31 - numero 2

Brano: [...]briacone (o, come preciserà poi, da una specie di « scemo del villaggio dal collo grosso e dalla voce rauca per abuso di hascish ») e ne improvvisò la traduzione di qualche verso. Súbito mi venne in mente che alcuni di essi tornavano in una delle sue piú antiche poesie e che De Robertis li assegnava a un presunto influsso palazzeschiano. Tornato a casa, controllai. Nel saggio introduttivo alle Poesie Disperse (Mondadori, Milano 1945), intitolato Sulla formazione della poesia di Giuseppe Ungaretti (cfr. ora in Giuseppe Ungaretti, Vita d'un uomo, Tutte le poesie, Milano, Mondadori, 1969, pp. 405 e segg.), Giuseppe De Robertis, infatti, affermava:
Lasciamo addietro Cresima, e diamola tutta, vorrei dire, restituiamola a Palazzeschi... Ma nel Paesaggio d'Alessandria d'Egitto, ecco Palazzeschi ancora:
— Anatra vieni.
— E chi se ne frega.
— Al letto di seta colore di sfumature
— E chi se ne frega. [di poesia. T'insegnerò la frescura di tramonto
— E chi se ne frega. [delle astuzie.
— Lo possiedo duro grande e grosso.
— E chi se ne frega.
[...]

[...]ire » a Palazzeschi, nascevano semplicemente, insieme al paesaggio evocato, da un moto affettuoso della memoria. La letteratura non c'entra, o c'entra in altro modo. E a me sembra che tutta la poesia, letta in questa luce, acquisti ben altro rilievo; le parole crude del canto arabo, anziché interrompere — come a ironizzarlo — il flusso nostalgico, si sciolgono anch'esse in nostalgia, « attimo di gioia trattenuto » come le gocciole che « brillano sulla verdura rasserenata ».
appena da aggiungere che l'indicazione del De Robertis, proprio in virtú della sua autorità, ha non poco influenzato l'indagine successiva, da Rebay a Barberi Squarotti ad Aldo Rossi, il quale ultimo, in un saggio pubblicato sul1'« Approdo Letterario » (n. 57 del 1972; ma vedilo ora in La critica e Ungaretti, Bologna, Cappelli, 1977), pur contestandola, afferma: « Invero non si vede perché si dovrebbero restituire a Palazzeschi alcuni passi di Il paesaggio d'Alessandria d'Egitto apparsi su « Lacerba » del 7 febbraio 1915 (ora fra le Poesie Disperse), come suggeriva De [...]



da Saverio Montalto, Memoriale dal carcere in KBD-Periodici: Nuovi Argomenti 1953 - 7 - 1 - numero 3

Brano: [...] anche loro sconcertati. E non dimenticherò mai il fatto di quando una volta mia suocera ultimamente, non so più se in seguito ad una rissa alla quale sembra abbia preso parte anche il figlio Giacomo, giacché le risse in casa Armoni, di cui solo i vicini potrebbero dire qualcosa, erano all’ordine del giorno, ebbe a dichiarare: «Quando non c’è altro da fare,

io e le mie figlie, dato che ancora tutti ci vogliono perché siamo belle, ci metteremo sulla strada a chiamare chi passa e così staremo meglio d’ora...». Rifacendomi un po’ indietro debbo dire che dopo il mio primo fidanzamento, l’Aurora smise di frequentare la mia casa dimostrandosi con me indifferente e sprezzante; ma io, per far capire a tutti che li avevo trattati sempre come parenti e non per altre ragioni, continuai a frequentare, quando potevo, lo stesso la loro casa. Mia suocera però non si preoccupò affatto dell’Aurora e continuò anche lei nei miei rapporti ad essere tanto affabile e buona; e, senza perdersi d’animo, mandava ora a casa mia, colla scusa di aiutare mia sorella[...]

[...]i? È vero che mi perdoni?».

« Ma di che cosa ? ».146

SAVERIO MONTALTO

(( Di niente! Dimmi che mi perdoni! ».

« Ti perdono! Ti perdono! ».

«E dimmi ancora che non mi abbandoni?».

«Ma via! Che sono queste cose Anna? Perché ti dovrei abbandonare? Tu mi conosci! ».

« Sì, sì, ti conosco! E perciò me ne vado un po’ tranquilla » e ripetendo ciò, per ben tre volte si attaccò di nuovo al mio collo baciandomi da forsennata. Poi uscì. Sulla via solitaria, giacché limitavo con la campagna, sostò un po’ per calmarsi ed asciugarsi le lagrime. Quando se l’ebbe asciugate, mi disse: «Non voglio farmi vedere che ho pianto, altrimenti chi sa che diranno! » e si mosse per andarsene.

10 rimasi sulla via per guardarla. Lei prima di scomparire nella discesa si girò, ma senza avere ormai la forza di dirmi più nulla. Poi reprimendo ancora le lagrime, scomparve. Quella faccia sconfortata e di dolore ancora mi attraversa l’anima da parte a parte e la porterò con me fino alla tomba.

Rimasto solo mi diedi allo studio. Veniva spesso da me il mio carissimo amico Giuseppe Larussa il quale si era dedicato agli studi letterari e mi consigliò molti libri utili che mi servirono in seguito di molto aiuto e conforto specie nei momenti difficili della mia vita. Ebbi anche in alcuni momenti la velleità [...]

[...]orella trovò che il pretesto per non insospettire il marito era buono e così glie ne parlò. Ma né mio cognato, né sua madre vollero sentire ragione e specie la madre la quale intuì il vero motivo per cui bisognava allontanare

il Romeo e perciò inveì contro mia sorella e per poco non se la mangiò dicendole tutto quello che sapeva mettere fuori lei dalla sua bocca concludendo infine che nessuno doveva permettersi un’altra volta di muovere verbo sulla sua famiglia, perché la sua famiglia era la più onorata del paese di N... ecc. ecc. E perché mio cognato e famiglia non vollero allontanare il Romeo? Perché il Romeo passava per pezzo grosso dell’onorata società. E sia mio cognato che la sua famiglia avevano un sacro rispetto per tutti coloro che appartenevano all’onorata società e specie poi per i pezzi grossi. Loro se li guardavano i mali passi e come tutti i malvagi cercavano di prendersi la rivincita con i deboli, coi poveri diavoli, con mia sorella e anche con me in seguito, che mi sapevano più innocuo di un coniglio. Anzi ultimamente, d[...]

[...]dote, perché per un giovane come lui dovevo almeno almeno portare centomila lire; loro poi sono le più oneste e tutte le altre compresa io sono tutte prostitute. Figurati che non potendo dire altro, hanno detto che tu vieni nel negozio perché ti faccio da mezzana per Grazietta Morabito, solo perché hanno visto che qualche volta è entrata qui. Ti ricordi quella sera quando mio marito venne cogli occhi stralunati? Menomale che ha trovato Grazietta sulla porta altrimenti sarebbe stato capace di fare non si sa che cosa. Così ho paura di parlare anche con i vicini e devo inimicarmi con tutti come sogliono fare loro».

«Sai che fai Anna? Cerca di evitare quanto puoi perché col tempo, quando sarete soli tu e tuo marito, si spera che cambierà questa situazione. Per ora soffri in silenzio! ».

« Peggio! L’altro giorno la suocera mi ha detto tante che mi vergogno anche di dirle; neanche i facchini della stazione. In ultimo se la pigliò anche con nostra madre morta. Nostro padre poi, non è che un ubbriacone miserabile! Io mi misi a piangere senza[...]

[...]chi del cane arrabbiato. Era questa la prima volta che veniva in casa mia dopo che mi ero sposato. Mi chiamò nello studio, chiuse la porta, mi fece sedere, sedè anche lei ed incominciò a dire :

« Sappiate che la mia famiglia è la prima di N... ed io sono figlia di chi sono figlia (suo padre poveretto era ciabattino), perché mio padre era il primo negoziante di questi contorni e non a torto i miei figli mi chiamano la padrona di sette paesi. E sulla onestà e serietà mia e delle mie figlie non si è mai permesso nessuno di dire il minimo che, perché io non sono una di quelle bagascione vecchie come vostra sorella che se non la sposava mio figlio non l’avrebbe sposata più nessuno. Capite? Non perché vostra sorella trovò mio figlio per coprire le corna a lei ed a voi?! Capite? Quale dote ha portato? E voi che cosa siete di fronte a me e mia figlia? E non perché ho accettato allora! Credete che ho dimenticato che avete preteso che io non assistessi al matrimonio? Per questa volta a voi vi lascio stare, ma vostra sorella d’ora in avanti ha a c[...]

[...]chiaffi ed a calci dal negozio fino alla piazza della stazione. La poveretta mi disse che per me sarebbe rimasta per sempre, ma per loro, ora che si erano permessi a tanto, non poteva stare più. Io ingoiai la pillola, la pagai e la mandai e dopo un po’ di tempo presi la persona di servizio che ebbi poi fino all’ultimo.

Dopo la caduta il mio fondo trepido e pauroso aumentò sempre più e dovetti fare grandi sforzi per potermi assicurare di nuovo sulla motocicletta.

Dopo qualche tempo, mi sembra, ritornò il fratello di mia moglie Lorenzo, il quale si era riabilitato in Africa divenendo S. Tenente di complemento e per cui io ebbi molto piacere. Quando aveva appreso del mio matrimonio aveva scritto una lettera a mia moglie dicendole ,della grande fortuna che aveva avuto a sposare me ed a me chiedendo scusa pel fatto dell’incidente colla figlia di P anetta giustificandosi che allora si era trattato di una vile calunnia.

Quel Natale andai a passarlo cogli Armoni, come buona parte .delle feste successive, benché a malincuore e sempre per a[...]

[...] noi, per farti il servo?! ». Son cose, ti assicuro, che tagliano il core dei santi! Ma io voglio fare tutto. Ma come posso fare se con loro non si può stare e solo posso trovare un momento di pace quando sono nel negozio? Ma io ormai li lascio liberi tutti, compreso mio marito! ».

«Va bene! Adesso manderò a chiamare tuo marito!». Mi alzai ed uscii.

Mentre ritornavo a casa mi sentivo avvilito e pensavo : « Ma perché, perché tanta malvagità sulla terra? Che cosa ha fatto per essere trattata così dagli uomini? Adesso se ne vuole andare! E dove andrà? Ed io poi come potrei continuare a vivere con mia moglie? ».

Dopo pranzo mandai a chiamare mio cognato Giacomo. Lo feci sedere nello studio e gli parlai così: «Vi prego, abbiate un po’ di carità per quella donna! Vostra madre lo sapete, è insopportabile con166

SAVERIO MONTALTO

noialtri, immaginate poi con la nuora. Io non vi dico di non trattarla e non crediate che io le voglia del male, no; però non è giusto che per causa sua voi dobbiate malmenare così mia sorella. Vostra madre[...]

[...]e personali in una cassetta e decisa di andarsene via anche senza la sua bambina. Le atrocità le avevano fatto perdere anche l’istinto della maternità così vivo anche nelle bestie. In alcuni momenti si fermava e guardava forsennata. Io tentai un ultimo supremo sforzo ed andai giù di nuovo per scongiurare mia suocera ed umiliarmi ancora una volta come la sera avanti. Ma mia suocera tenne sempre duro. Salii di nuovo sopra e vidi mia sorella seduta sulla cassetta che si teneva la fronte con ambo le mani ed il marito all’impiedi vicino alla finestra. Mia sorella come mi scorse, sollevò la fronte ed esclamò: «Non credevo mai che avrei dovuto essere una donna così disgraziata dopo avere tanto amato! ».

In questo mentre entrò mia suocera dicendomi: «Per questa volta accondiscendo per voi! Ma solo per voi! Per l'avvenire si vedrà! » si vede che aveva annusato il pericolo per la figlia e non certo per miaMEMORIALE DAL CARCERE

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sorella, giacché le bestie feroci annusano anche il pericolo e forse più degli uomini e così intimorita si era[...]

[...]nato Giacomo, perché gli ha battezzato tutte e tre le figlie; ora finché mia suocera nutrì la speranza che il Papalia avesse sposata qualcuna delle sue figlie ed allora lo accolse sempre a braccia aperte; ma quando poi seppe che il Papalia si era fidanzato già gli fece capire chiaramente che lei non aveva più alcun piacere che lui andasse a trovarla. Il Papalia capì subito e non ci andò più. Anche il Papalia, se volesse, potrebbe dire tante cose sulla disgraziata vita di mia sorella oltre a coloro che ho indicato di già aH’Ill.mo Signor Giudice Istruttore.

Vengo ora ai casi che più da vicino interessano me e mia moglie. Sento che mentre mi avvicino a quest’ultima epoca mi assalgono iMEMORIALE DAL CARCERE

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brividi fin dentro al midollo delle ossa; ma spero di farmi forza e coraggio e di poter raccontare.

La vigilia di Natale mia moglie pretendeva insieme al fratello Lorenzo, sceso a bella posta, che io fossi andato insième a loro a C... per passare il Natale colla madre. Io dissi allora a mia moglie che ero pronto ad andarci[...]

[...]viduo strano non mi lasciò quasi più ed ancora di quando in quando si piglia gusto a perseguitarmi. Né mi ricordo più ciò che avvenne in seguito con precisione, giacché la continua presenza di quel maledetto individuo mi faceva vedere tutto indistinto ed avvolto d’ombre. Però mi accorgevo con un certo compiacimento che ormai il cuore non mi tumultuava più come prima e se non fosse stato che di quando in quando avvertivo come un chiodo conficcato sulla sommità del cranio, per il resto, potevo dire di sentirmi bene. Io però, d’ora in poi, continuerò a raccontare lo stesso come se nei giorni che si susseguirono vedessi tutto distinto e sgombro d’ombre.

La notte non dormii e me la feci girandomi e smaniando nel letto come mi accadde anche le altre notti che vennero dopo. E se dormivo facevo dei sogni opprimenti ed ossessionanti che lo strano individuo poi me li faceva subito dileguare. Il giorno dopo, mentre mia moglie gridava con la servetta in cucina ed io mi trovavo nella stanza da letto e gli operai nel salotto, profferii: «Dì alla putt[...]



da Giacomo Debenedetti, Ultime cose su Saba in KBD-Periodici: Nuovi Argomenti 1958 - 1 - 1 - numero 30

Brano: NUOVI ARGOMEN TI
N. 30 GennaioFebbraio 1958
ULTIME COSE SU SABA (1)
Alla fine del '47, Saba scriveva a un suo critico: « tu che se non sei stato proprio il mio De Sanctis, poco — molto poco, ti c'é mancato ». Queste parole mettono a nudo un sogno che Saba probabilmente coltivò per tutta la vita: trovare, per il Canzoniere, un critico come il De Sanctis. Oggi, se dovessimo deporre un fiore sulla tomba del nostro amico, gli diremmo che il suo De Sanctis non gli occorreva piú: l'aveva già trovato, e proprio nella persona di Francesco De Sanctis. Perché Saba verifica, a suo modo, l'augurio e l'ammonimento che il De Sanctis, negli ultimi tempi del proprio lavoro, rivolgeva alla poesia italiana: di liberarsi dall'ideale, dal non so che, di risolversi una buona volta a diventare una poesia tutta cose. Naturalmente, il nostro fiore non dovrebbe rimanere un tributo soltanto affettivo, convenzionale, come una lode da epitaffio. Perciò soggiungeremmo che il De Sanctis, se per miracolosa longev[...]

[...]pensieri che ancora sembrano fantasticherie, l'attenzione alle cose comincia a prescriversi come un obbligo morale: «Poco invero tu stimi, :tomo, le cose il tuo lume, il tuo letto, la tua casa sembrianc poco a te... ». E viceversa...
S'intende che Saba non sospettava neppure i due grandi pericoli che potevano nascere, per un poeta del suo stampo, da una simile dedizione alle cose: in primo luogo, che le cose prendessero il vizio di schierarsi sulla pagina in meri elenchi impressionistici, paghe del loro fascino di apparizione; in seconda luogo che, maturando il poeta frammezzo alle conquiste liriche del suo tempo, quelle cose im parassero a organizzarsi in aggregati diversi dall'ordine naturale, a comporre stemmi o analogie di ci() che le parole non sanno dire, o il poeta rifiuta di confidare. Ma Saba possedeva, per motivi che accenneremo, una congenita immunità contro quei pericoli.
6 GIACOMO DEBENEDETTI
Nella sua poesia le cose, rimanendo fedelmente identiche a se stesse, articolano subito un discorso del tutto esplicito, che pronun[...]

[...]l Canzoniere é Trieste e una donna. Anche qui, chi volesse cinicamente ridurre l'episodio centrale (la storia del momentaneo abbandono della Lina) al fatto nudo e crudo, troverebbe una trama da bozzetto verista. Dipenderà soltanto da un nostro vizio di lettori quel veder riaffiorare qua e là la presenza di un Verga, al quale Saba forse non ha mai pensato? In alcuni versi, che egli era contento di avere scritti: « Non veduta una tua lacrima cade sulla tovaglia macchiata di vino », il movimento appartiene senza dubbio alla Lina, protagonista della poesia; ma potrebbe essere anche di Santuzza o della Mena. E in quale punto, divenuto irreperibile, di Nedda o di Vita dei campi avevamo sentito prorompere questa rabbia d'amore: « quante lacrime m'ero ribevute alla salute del mio vile cuore! », di una platea
10 GIACOMO DEBENEDETTI
litá veramente rusticana, che riesce a portarsi in una limpida, insperata posizione di canto?
Ma Saba, appunto perché introduceva, lui per il primo, un verismo genuino nella poesia lirica, doveva garantirsi che ne v[...]

[...] Fu quando scrisse, senza nemmeno sospet tarlo, la propria « arte poetica ». Si proponeva semplicemente di
16 GIACOMO DEBENEDETTI
comporre un'altra delle sue poesie, forse la più audace che avesse mai tentato prima delle Fughe; e siccome in quel periodo le cose che più lo ispiravano erano cose viventi, erano figure, egli prese ad argomento, né più né meno, che tutt'intera la vita di un uomo. Stiamo parlando, come è chiaro, del poemetto L'Uomo. Sulla vita di quel suo personaggio un popolano, un lavoratore che impersona la media dei lavoratori in una città di traffici e di industrie — Saba operò come sempre aveva fatto anche sulla propria vita per ottenerne i vari episodi del Canzoniere. Controllò se nel flusso dei giorni si potessero condensare alcune situazioni tipiche, proverbiali, quasi emblematiche: il momento in cui l'uomo vive le proprie esuberanze adolescenti, quello in cui si mette a lavorare, e poi quando sposa, e via di seguito fino alla vecchiaia e alla morte. Un tentativo che si era già visto in certi drammi espressionisti: senonché quelli schematizzavano tali momenti per esasperarne la nuda, contratta apparizione in risonanze sinistre e angosciose. Saba invece andò a vedere se quelle varie situazioni sape[...]

[...]ntinuava a domandarsi se L'Uomo era o no una poesia interamente riuscita: caso che non lo fosse — diceva — « anche i mo
ULTIME COSE SU SABA 17
menti più belli, gli episodi più ispirati... non basterebbero a salvare l'insieme: e tutto — il bello e il brutto — sarebbe ugualmente destinato a perire ». In realtà la sorte, sotto apparenze ambigue, gli aveva dato un responso molto saggio: non gli rimaneva se non di andare avanti per la sua strada, e sulla felicità dei risultati avrebbe sempre meglio accertato la plausibilità del suo « metodo » : che era, appunto, il metodo del melodramma.
***
Se, arrivando adesso a Trieste, ci fosse dato ancora di incontrare Saba, se potessimo passeggiare con lui per una via scelta a caso, e il caso per noi avesse scelto proprio la via che si chiamerà Umberto Saba, forse tenteremmo di raccontargli le cose che qui abbiamo cercato di dire. Potrebbe darsi che a tutta prima Saba si sdegnerebbe per i possibili equivoci della parola « melodramma ». Poi probabilmente farebbe il broncio avverso 'di quando era conten[...]



da Tibor Mende, Riflessioni in margine agli avvenimenti indonesiani in KBD-Periodici: Nuovi Argomenti 1958 - 7 - 1 - numero 33

Brano: [...]atori olandesi fecero un buon lavoro. A Giava, dove erano concentrate le loro attività e i loro investimenti, essi avevano creato una struttura agricola efficientissima e l'isola — la più popolosa — era ben amministrata. Lo sviluppo era meno evidente nelle 'altre isole, fatta eccezione per due o tre regioni di Sumatra dove le piantagioni e il petrolio avevano attratto e giustificato investimenti su vasta scala. Il colonialismo olandese si basava sulla presunzione di essere eterno. Per questa ragione, praticamente non venne fatto il minimo sforzo per formare una élite locale e nel complesso l'istruzione fu totalmente trascurata.
Poche cifre illustreranno in maniera eloquente la gravità di questo rigido paternalismo.
Nel 1940, due anni prima dell'invasione Giapponese, in una popolazione totale di circa 70 milioni, solo 82223 bambini indonesiani frequentavano le scuole elementari di tipo occidentale. Nelle classi superiori c'erano in tutto 1786 alunni. Nello stesso anno non più di 9000 bambini presero la licenza elementare nelle scuole occi[...]

[...]nze. E il forte « Stato Unitario », sotto ,l'influenza del capo del movimento di indipendenza, il Presidente Sukarno stesso, non fece che accentuare la rivolta regionale contro la preminenza accentratrice e « parassitica » dell'inesperta Giava.
Fin dal principio questa resistenza assunse una forma militare. La più importante era un'organizzazione ortodossa Musulmana, la DarulIslam, opposta alla Stato secolare e decisa ad organizzare l'Indonesia sulla base delle prescrizioni Coraniche. In un paese Musulmano al 90% non poteva mancare di avere una considerevole influenza. Già nei primi anni dell'indipendenza essa si era insediata in vaste zone occidentali di Giava, e aveva simpatizzanti a Borneo, Celebe e nel Nord di Sumatra. Ma accanto alla DarulIslam, c'erano anche capi locali che, profittando della debolezza del Governo centrale, cominciavano ad assumere il ruolo che, in passato, avevano in Cina i « Signori della guerra»; imponevano le loro tasse, amministravano importanti regioni e riconoscevano l'autorità di Giacarta solo quando conveni[...]

[...]Comunisti, quarti in ordine di forza, ottennero nel nuovo Parlamento 39 seggi sul totale di 257. Ma i due principali partiti musulmani il Masjumi e il Nahdatul Ulama — formavano una specie di blocco religioso e si imponevano come una potente forza anticomunista nella politica Indonesiana.
Il risultato inevitabile fu che si ebbero governi di coalizione, nessuno di essi sufficientemente stabile, che si appoggiavano sempre
64 TIBOR MENDE
di più sulla forza equilibratrice di piccoli e discordi partitini. Di fronte a una tale instabilità di Governo — benché i Nazionalisti avessero ottenuto mezzo milione di voti in più dei loro principali avversari, i Masjumi — inevitabilmente venne a formarsi un blocco di sinistra sotto forma di una collaborazione sempre più stretta tra i Nazionalisti e il Partito Comunista. Il Presidente Sukarno, fidandosi della sua popolarità personale nel paese, si convinse che i Comunisti gli sarebbero serviti come strumento per vincere il blocco religioso. Secondo l'opinione di diversi osservatori, comunque, si correva[...]

[...]— rendono relativamente facili gli interventi economici da parte di imprenditori o uomini politici occidentali.
Cosi, mentre una grossa parte dell'opinione pubblica Indonesiana era sinceramente contraria all'« idea » del Presidente Sukarno, era relativamente facile convincere l'altra parte, altrettanto grossa e anticolonialista che tale opposizione non era che l'espressione di interessi personali da parte di stabili posizioni occidentali.
***
Sulla sfondo particolare dell'opposizione latente fra l'Indonesia « affollata » e quella « vuota », le discussioni per la formazione del Consiglio Nazionale non potevano fare a meno di rafforzare la rivalità tra la « sinistroide » Giava e le altre isole « conservatrici », in particolare la più ricca fra queste: Sumatra. Il primo risultato concreto fu quello di confermare le paure di coloro che in tutta « l'idea » della « democrazia guidata » non vedevano altro che un subdolo mezzo per aumentare l'influenza politica dei Comunisti.
Nel luglio 1957 ci furono a Giava le elezioni regionali e municipali[...]

[...]o delle perdite. Nella stessa Giacarta, le elezioni municipali di giugno, mostrarono che i Comunisti erano passati dal quarto al secando posto, ottenendo 137.000 voti rispetto ai 96.000 delle elezioni generali del 1955. Nella seconda grande città, Surabaya, un forte centro rosso, i Comunisti hanno ottenuto il doppio dei voti dei Nazionalisti, Masjumi e Nabdatul Ulama insieme.
Contro voglia, il mondo prese nota che la stella rossa stava sorgendo sulla popolosa Giava. Gli osservatori si affrettarono a predire che nelle prossime elezioni generali, nel 1960, l'Indonesia potrebbe votare per un regime comunista. Nella stesso tempo, il preesistente contrasto economico tra Giava e le altre isole fu messo ancor più in evidenza da questo sviluppo politico e uno stato di allarme all'estero si accompagnò con l'intensificazione di rivalità interne tra Giava
RIFLESSIONI IN MARGINE AGLI AVVENIMENTI INDONESIANI 67
e le altre isole;. tra gli elementi progressivi e quelli conservatori della vita politica indonesiana; e, infine, ma non ultimi, tra Sukarno[...]

[...]etrolio nella parte occidentale dell'isola e si costituì una Società per lo sfruttamento commerciale. La «Dutch Petroleum Company for New Guinea » con la partecipazione delle « Standard Oil » e « Pacific Oil », aventi rispettivamente un interesse del 40 e del 20%. La Società ottenne il diritto di esplorare un'area di 10 milioni di ettari e le installazioni furono sistemate a Baba nella baia di Maccluer e, in seguito, a Sarong. Oltre al petrolio, sulla costa nordorientale c'é una piccola piantagione di gomma; per il resto il valore economico dell'isola é pressoché nullo. Ha invece una certa importanza la posizione geografica della Nuova Guinea. Trovandosi proprio alle porte dell'Australia, essa é considerata la prima linea di, difesa di quel continente e la sola prospettiva di vederla cadere sotto gli indonesiani o, addirittura sotto un governo indonesiano filocomunista, riempie gli australiani di spavento.
Quando l'Olanda cedette la sovranità sulle Indie Orientali
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olandesi allo Stato Indipendente di Indonesia, l'articolo [...]

[...]intenzione di lasciare l'isola. Uno dei loro argomenti é che, dal punto di vista razziale, la popolazione dell'isola non ha nulla in comune con gli indonesiani. Non è necessario essere un antropologo per comprendere che i Papuani hanno, dal punto di vista razziale, anche minori affinità con gli olandesi. Inoltre, la popolazione della Nuova Guinea aveva legami storici con le isole dell'Indonesia molto prima che il colonialismo olandese comparisse sulla scena. Naturalmente né l'Olanda, né l'Australia hanno potuto sfruttare le presunte ricchezze della Nuova Guinea. Così gli argomenti si riferiscono a posizioni formali che non hanno nulla a che vedere con la situazione reale. Il fatto che l'Australia, durante i periodici dibattiti dell' ONU sul problema abbia opposto il veto formale all'estensione della sovranità Indonesiana in prossimità delle sue coste, è a mala pena menzionato.
Nel frattempo, il Ministro degli Esteri olandese, sul suo annuario del 195253, ha silenziosamente trasportato la Nuova Guinea Occidentale (ora ribattezzata dagli in[...]

[...]zione anticolonialista da parte di un regime neutrale minacciato. Un aperto intervento da parte dell'Occidente, d'altra parte, sarebbe stato considerato causa di ulteriori scissioni tra gli asiatici non comunisti, dividendo ancor più coloro che affidavano la loro sorte all'Occidente dagli altri che pensavano fosse più conveniente assumere un atteggiamento non impegnativo tra l'Occidente e il blocco comunista. Ma due altre considerazioni pesarono sulla bilancia. Un aperto intervento Occidentale in Indonesia sarebbe stato probabilmente impopolare a Malaya — paese che, pur non essendo geograficamente vicino a Sumatra, ha con essa legami culturali, etnici e linguistici — e avrebbe potuto scuotere l'intenzione di collaborare coll'Impero britannico manifestata dallo Stato di Malaya di recente indipendenza. In secondo luogo, e questa fu la sorpresa maggiore, il Giappone prese energicamente posizione. Secondo ben informati servizi giornalistici, un messaggio giapponese avrebbe dichiarato che se gli Stati Uniti avessero mandato aiuti al governo rib[...]



da (Mito e civiltà moderna) Vittorio Lanternari, Frammenti religiosi e profezie di libertà fra i popoli coloniali in KBD-Periodici: Nuovi Argomenti 1959 - 3 - 1 - numero 37

Brano: [...]vole di cui perviene l'eco oggi in Europa. La storia di questo movi
60 VITTORIO LANTERNARI
mento congolese é una fioritura di figure profetiche, da Kimbangu ad André Matsúa, a Simon Mpadi — arrestati ripetutamente o deportati —, a Mavonda Ntangu ed altri ancora, mentre spiccavano in altri territori figure come Muana Lesa, impiccato in Rhodesia nel 1926. In tutti si fa notevolmente sentire un influsso missionario tipicamente protestante, basato sulla Bibbia e in special modo sull'Antico Testamento. Ma si tratta di un Cristianesimo « paganizzato », poiché se parziali elementi biblici sono accettati, essi sono scelti e rielaborati in funzione «indigenista» ed antibianchi. La posizione di questi profeti certo é decisamente impegnata di fronte al Cristianesimo, ma in modo tale da trasformarne totalmente valore e significato.
Educato a Nkamba, roccaforte del Protestantesimo da una missione Battista britannica, Simon Kimbangu ebbe intensi rapporti con la cultura europea, oltreché per le Missioni, per aver prestato servizio presso una famiglia [...]

[...]o — non una semplice continuazione — della tradizione: p. es. l'iconoclastia antifeticista, che pur ha indubitabili legami con l'antistregonismo delle società segrete, é un elemento di rottura con la piú antica tradizione magica (12). D'altra parte il Cristianesimo portato dai missionari in esso viene esplicitamente reinterpretato in funzione emancipazionista, e pertanto fondamentalmente trasformato. Così ii Dio unico giudaicocristiano s'innesta sulla tradizionale figura di Essere supremo, la Bibbia é riconosciuta come fonte unica di autorità religiosa, ma viene tuttavia interpretata in funzione delle esigenze aborigene di libertà (la lotta di David e Golia diventa un'allegoria mitica della lotta religiosa di liberazione dei Negri contro i Bianchi); infine lo stesso profeta si configura come reinterpretazione vivente di Mosè e di Cristo, del quale ultimo ripete la persecuzione, la passione, la latta spirituale per una nuova religione. In realtà i germi di emancipazione religiosa così seminati dal profeta Kimbangu dovevano ulteriormente svo[...]

[...]gioso. André Matsúa e Simon Kimbangu a tuttoggi fra i Congolesi delle colonie francese e belga sono assunti alla qualifica di « Re del Congo », simboli di unità e di un'epoca di libertà ansiosamente attesa. La loro spirituale presenza ispira quella nuova organizzazione religiosa che é la chiesa nativa «indigenista» del Congo, nettamente autonomista, polemica verso i missionari oltreché verso le autorità civili, politiche, amministrative, fondata sulla diretta esperienza religiosa nativa, eppure aperta ad alcune forme cristiane (17). Per Matsúa forse ancor più che per Kimbangu vale quanto il Balandier fa giustamente osservare, che il Cristianesimo stesso, con il modello di un Messia sacrificato all'ottusa intransigenza del pubblico potere non meno che all'infamia dei nemici, con l'esempio del Martire trionfante per la fede e per la redenzione dei fedeli, il Cristianesimo stesso ha portato fra i nativi quello spirito rivoluzionario di cui s'era nutrito esso stesso al tempo delle origini, dando una nuova sanzione religiosa alle loro esigenze [...]

[...]forza benefica. In breve, si diffuse l'opinione che quei bianchi eccezionalmente condiscendenti e disinteressati nei riguardi dei Negri reincarnassero lo, spirito del loro maggior protettore e Salvatore: Simon Kimbangu. La S simbolica che quelli portavano alle mostrine poteva essere precisamente la lettera del
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grande profeta: Simon. Così, perseguendo una ansiosa speranza di salvezza e di riscatto dalle minacce incombenti sulla loro esistenza — dalla stregoneria all'oppressione missionaria e governativa — gli indigeni in gran numero, disertando financo dalle missioni, accedettero all'Armata della Salvezza. Altri, a costo di difficoltosi pellegrinaggi, raggiungevano quei « missionari » di nuovo genere onde partecipare alle loro cerimonie, nella convinzione di conseguire in tal modo salute, salvezza, benessere sotto ogni riguardo. Insomma la congregazione possedeva, secondo loro, un potere magico atto a « salvarli ». È significativo che l'Esercito della Salvezza — cui lo stesso Simon Mpadi s'ispirò nel prescrivere l'u[...]

[...]lla Watch Tower (Kitawala
o Kitower é deformazione dell'originario termine inglese), o Associazione dei Testimoni di Geova, fondata nel 1874 da Charles Taze Russell, e perciò nota anche con il name di « Russellismo ». Il movimento Watch Tower s'accentra nell'attesa millenaristica di un'era di paradiso che seguirà, in età non lantana, allorquando la decisiva battaglia di Dio contro Satana esploderà ad Armageddon. I miscredenti saranno debellati, sulla terra regnerà la giustizia. Negatori della Trinità, della divinità di Cristo, dell'immortalità dell'anima, degli eterni castighi ultraterreni; per di più antimilitaristi ed antinazionalisti ad oltranza, i Testimoni di Geova condannano sia lo Stato sia ogni forma di organizzazione ecclesiastica come emanazione di Satana. Essi dunque avevano i migliori requisiti perché la loro ideologia apparisse ai Negri africani, tra i quali arrivassero, la controparte più positiva ed entusiasticamente accettabile della cultura religiosa dei bianchi, specialmente se confrontata con il Cristianesimo dei missio[...]

[...]imento Kitawala anziché sopirsi crebbe e si propagò per esteso nella colonia belga nonché nelle colonie britanniche e francesi, suscitando qua e là a più riprese moti di rivolta xenofobi. Esso preconizzava, fedele al modello americano della Watch Tower, la fine di ogni autorità religiosa e politica attualmente vigente; inoltre diffondeva un'ideologia egualitaria panafricanista, ispirata alla speranza messianica dell'avvento di un'età paradisiaca sulla terra nel nome di Gesù Cristo (34). Nell'ultimo dopoguerra uno dei suoi profeti ed agitatori del Congo Belga (Prov. Orientale), Bushiri, si proclemò « Sostituto di Gesù » (Mulurnozi usa Yesu).
Un particolare fenomeno dell'immediato dopoguerra venne a improntare il movimento Kitawala: l'attesa degli Americani come fatidici messaggeri di Dio. Facilitata dalla parentela americana dello stesso movimento, l'idea di tale attesa trovò incentivo nell'esperienza di aiuti inviati dall'America nel corso dell'ultima guerra. Inoltre in quell'epoca veniva fondato, ad opera del Negro americano Marcus Garve[...]

[...]ndier 1955, 420.
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tribali e ai personalismi dei suoi promotori si suddivide in molteplici e vari organismi locali — formanti altrettante chiese negre separatiste —, che ripetono nella loro struttura il carattere aristocratico delle società Bantu originarie sudafricane, con un capo (— re) insieme politico e religioso. Le varie chiese separatiste sono tuttavia legate da una comune ideologia irredentista e profetica, fondata sulla speranza di un rovesciamento dell'ordine e dell'espulsione dei bianchi (38): speranza resasi specialmente pressante da quando la costituzione dell'Unione del SudAfrica venne a sancire la sistematica politica di discriminazione razziale fra bianchi e negri (39).
Per vari caratteri si differenziano dalle chiese etiopiste le cosiddette chiese « sioniste » sorte accanto a quelle nel SudAfrica, e aventi in comune con esse il fondamento messianico e millenaristico. Così denominate dal Monte Sion assunto come emblema di liberazione e allusivo alla millenaristica fondazione di una città santa o Nuov[...]

[...]to e ucciso dai bianchi — dice Hensley — si volse a proteggere gli Indiani, vittime anch'esse dei bianchi. Perciò il Peiote é parte del corpo di Cristo (49).
Il Peiotismo, con il suo emancipazionismo pacifico, col suo sincretismo, con la sua « chiesa » e il suo Panindianismo, é la risposta culturale alla crisi generata dalla vita nelle riserve. Con esso, e con altri vari movimenti profetici collaterali, fondati sul sincretismo paganocristiano e sulla simbiosi pacifica tra Indiani e bianchi — come la Danza del Sogno dei Menomini, il Grande Messaggio del profeta Handsome Lake fra gli Irochesi, il movimento Shakerista dei gruppi del NordOvest, ecc. — si attua un aggiustamento dei rapporti religiosi e culturali fra Indiani e bianchi, in cui tuttavia il Cristianesimo subisce altrettante tra sformazioni e reinterpretazioni che ne adattano il contenuto ai bisogni indigeni (50).
(49) Petrullo 1934; La Barre 1938; Slotkin 1956; Barber 1941.
(50) Wallace 1952 (Handsome Lake); Barnett 1957 (Shakerismo); Barrett 1911; Slotkin 1958 (Dream Dance).
F[...]

[...]eniva a inserire nella tradizione messianica che aveva il suo fondatore in Mosè e la sua continuazione nei profeti dell'Esilio. Orbene, il Mosaismo era nato come prodotto dell'urto culturale fra una civiltà pastorale — fondata sul culto di un Essere supremo — che va a
(60) Kenyatta, 282; Vaggioli II, 3723. L'identificazione col popolo perseguitato d'Israele é comune a tutte le formazioni profetiche polinesiane: cfr. Lanternari 1957, 70, 778. Sulla indipendenza dei vari culti profetici considerati come fenomeni tipicamente a convergenti », a livelli culturali e in territori i piú disparati, cfr. Lowie, 1957.




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insediarsi fra genti agricole e sedentarie, e la civiltà politeista di cui quelle genti erano portatrici (61). Il Messianesimo esilico era sorto a sua volta a riscatto di una sconvolgente esperienza — l'esilio — che minacciò alla radice l'esistenza del popolo ebraico.
Che dunque si tratti di conflitto interno (Cristianesimo) o determinato da urti fra eterogenee culture (Mosaismo, Profeti[...]

[...]o era parte integrante. Combattere su terreno religioso contro tali insopprimibili forze era possibile in un modo soltanto e ad un'unica condizione, cioè globalmente rovesciando i valori dell'esistenza sociale, additando come positivi unicamente i valori ultraterreni.
Insomma, il programma salvifico del Cristianesimo, contro il sacerdotalismo e insieme contro lo statalismo, doveva necessariamente fondarsi su una evasione integrale dalla storia, sulla fondazione di un Regno che doveva attuare il rovesciamento, anzi l'annullamento delle vigenti sovrastrutture sociali.
Sembra significativo che un'analoga, altrettanto radicale evasione dalla storia si adempie, pur in differenti forme, presso religioni profetiche a livello etnologico. Si tratta sempre di. profetismi « di origine endogena » come il Cristianesimo. Le formazioni messianiche Tupi d'epoca precoloniale (Brasile) si fondano su una evasione in massa dai territori d'origine, e su un collettivo ritorno simbolico verso una mitica dimora paradisiaca o « Terra senza mali », sita — conform[...]



da (Mito e civiltà moderna) Ernesto De Martino, Mito, scienze religiose e civiltà moderna in KBD-Periodici: Nuovi Argomenti 1959 - 3 - 1 - numero 37

Brano: N UOVI ARGOMENTI

N. 37 Marzo Aprile 1959

Il mito, il simbolo, l’arcaico, il magico, il sacro esercitano sulla cultura contemporanea un fascino crescente in palese contrasto col tecnicismo del mondo moderno e con le molto concrete e realistiche passioni sociali e politiche che lo dividono. Il fenomeno può essere considerato da punti di vista diversi : innanzi tutto come « ritorno alla religione », quale che sia la consistenza e il significato di tale ritorno; in secondo luogo come influenza e suggestione immediate dell’arcaico, del simbolico, del mitico — e in genere del variamente irrazionale — sulla sensibilità, sul costume, sulle arti figurative, sulla musica, sulla letteratura e sulla stessa vita [...]

[...] in palese contrasto col tecnicismo del mondo moderno e con le molto concrete e realistiche passioni sociali e politiche che lo dividono. Il fenomeno può essere considerato da punti di vista diversi : innanzi tutto come « ritorno alla religione », quale che sia la consistenza e il significato di tale ritorno; in secondo luogo come influenza e suggestione immediate dell’arcaico, del simbolico, del mitico — e in genere del variamente irrazionale — sulla sensibilità, sul costume, sulle arti figurative, sulla musica, sulla letteratura e sulla stessa vita politica; in terzo luogo come particolare orientamento delle scienze religiose, soprattutto neirultimo quarantennio; e infine come nuovo modellarsi del mito e delle forme di vita religiosa presso i popoli coloniali o semicoloniali — o da poco usciti dal rapporto coloniale — e presso le minoranze di colore, nel quadro del movimento di emancipazione politica e sociale di questi popoli e di queste minoranze. Per quanto si tratti di manifestazioni disparate vi è fra di loro una connessione non casuale, almeno nella misura in cui pongono in quistione il destino culturale della civiltà [...]

[...]dentale e ne esprimono con varia voce il travaglio in cui versa. Se si pensa che ognuna di queste singole manifestazioni del fenomeno presenta a sua volta numerosissimi aspetti particolari, e che una letteratura molto vasta — per non dire sterminata — si è venuta accumulando sull’argomento, si comprenderà come il presente fascicolo di « Nuovi Argomenti » possa proporsi soltanto il compito limitato di richiamare l’attenzione del pubblico italiano sulla attualità e sulla complessità del problema.

Rispetto alle altre culture nazionali dell’occidente, la cultura italiana è in evidente ritardo per quel che concerne la presa di coscienza di una problematica del genere: il lettore potrà agevolmente sincerarsene solo che scorra i dati bibliografici contenuti nel presente fascicolo, poiché raramente gli accadrà di leggere il rinvio a opere italiane o a traduzioni in italiano di opere straniere. Tuttavia, soprattutto in questi ultimi tempi, anche in Italia si manifesta un crescente interesse degli2

PREFAZIONE

studiosi e del pubblico per i problemi relativi [...]

[...]della secessione junghiana, ad una rivalutazione della vita religiosa e del mito; la tradizione epistemologica francese, che già col Bergson accentua le radici esistenziali della funzione fabulatrice (2), palesa con Gastone Bachelard una netta flessione verso il mondo dei « simboli » (3).

Una analoga vicenda è possibile riscontrare nella tradizione sociologica francese, particolarmente a proposito del LévyBruhl; il quale nei suoi primi lavori sulla mentalità primitiva si muove ancora sul piano

(1) E. Cassirer, Philosophie der symbolischen Formen, II (Das mythische Denken), Berlino 1925.

(2) Bergson, Le deux sources de la morale et de la relìgion, Parigi 1932.

(3) G. Bachelard, La psychanalyse du feuy Parigi 1938; L'eau et les rèves, Parigi 1942; La terre et les rèveries de la volontà, Parigi 1948; La terre et les rèveries du repos} Parigi 1948; L’air et les songes, Parigi 1943.6

ERNESTO DE MARTINO

del « progresso della coscienza » come lo intendeva Leone Bruschwicg, e quindi nella prospettiva di una mentalità prelogica c[...]

[...]za radicalmente opposta. Proprio nel 1917 un teologo e storico delle religioni della Università di Marburgo pubblicò un piccolo libro cui doveva toccare una straordinaria fortuna, e che esercitò una

(6) Sul « ritorno alla religione » si veda più avanti a p. 44 sg.

(6bis) Fra questi antecedenti ha p. es. un suo proprio rilievo culturale la teoria del mito elaborata da Giorgio Sorel.8

ERNESTO DE MARTINO

notevole influenza non soltanto sulla metodologia storicoreligiosa e sulla rivalutazione del Sacro, ma sulle coscienze e sulla sensibilità culturale in generale: il teologo e storico delle religioni era Rudolf Otto, e il piccolo libro portava il titolo II Sacra, col significativo sottotitolo programmatico: L'irrazionale nell’idea del divino e il suo rapporto col razionale (7). L’opera di R. Otto apre in un certo senso in Germania quella epoca culturale che è caratterizzata dalla crisi dello storicismo, dal passaggio dal protestantesimo liberale alla teologia della crisi e all’affiorare di una tematica esistenzialistica: nel 1918 appare infatti il primo volume di Der Untergang des Abenlandes dello Spengler, mentre nel[...]

[...]ODERNA

13

conda che si trattasse di ripetizione coatta e cifrata nel sintomo morboso

o di ripetizione attiva e risolvente mediante un simbolismo aperto della rappresentazione e del comportamento, come nel caso del giuoco del rocchetto (14). Ora questo secondo significato della ripetizione accennava in qualche modo al simbolismo miticorituale della vita religiosa. Già nel 1926 il Malinowski, riassumendo i risultati delle sue osservazioni sulla mitologia vivente degli indigeni tobriandesi, sottolineò il fatto che il mito in azione, cioè nella concretezza della esperienza religiosa, significa rivivere, sotto forma di racconto, una realtà dei tempi primordiali (15). Anche un altro etnologo, il Preuss, che era venuto formulando le sue considerazioni sul mito attraverso lo studio della mitologia vivente dei Cora amerindiani, pervenne a conclusioni analoghe (16). Uno studioso del mondo classico, Karl Kerényi, nella Introduzione alla essenza della mitologia — pubblicata in collaborazione con

lo Jung — così ha raffigurato la « vita per [...]

[...]na dei beni culturali, allora è ovvio che solo l’occidente partecipa pienamente alla « storia » in questi più circoscritti significati. Pertanto quando il Gusdorf sostiene che « il mondo primitivo è anistorico », la sua affermazione è tanto ovvia da essere banale se vuol intendere che le civiltà primitive non danno espressione culturale al divenire storico, non posseggono una historia rerum gestarum, non sanno nulla di teorizzazioni sistematiche sulla origine e la destinazione umane dei beni culturali; ma la sua affermazione è certamente falsa se vuol intendere che vi sia stata al mondo un’epoca « tutta mitica », tutta immersa nella esperienza immediata dell’assoluto, senza abbozzi di coscienza tecnica

o artistica o morale, un’epoca di sonnamboli e di deliranti che, fra l’altro, non avrebbe potuto dar vita a nessuna civiltà.

Il Gusdorf segna dunque il combinarsi della tematica della ripetizione con lo sterile motivo delPidoleggiamento di un’epoca precatego
(22) La priorità di un’epoca mitica di intenso rapporto col divino, cui sareb[...]

[...]ienza non era in condizione di decidere, e doveva lasciare il passo alla fede e alla teologia. Una posizione del genere non era più incompatibile con la teologia, ed in sostanza manifestava un sostanziale accordo con le note tesi cattoliche circa i « limiti di competenza » della ricerca scientifica in generale (40).

Attraverso il suo condizionamento inconscio, sottolineato con tanto

(39) Si veda, per questa parte dell’influenza di R. Otto, sulla interpretazione junghiana della religione, Jung, Psychologie and Religion, New Haven, 1938 (Psychologie und Religion, Ziirich 1940).

(40) Cfr. R. Hostie, op. cit.y p. 235. Per un più diretto rapporto dell’junghismo con la concreta documentazione storicoreligiosa si veda: Jung e Wilhelm, Das Geheimnis dcr goldenenen Biute, Miinchen 1929 (19443); Jung e Kerenyi, Einfiihrung in das Wesen der Mythologie, AmsterdamLeipzig 1942; Jung, Psychologie und Alchemie, Ziirich 1944; Jung, Ueber MandalaSymboliin Gestcdtungen des XJnbewussten, Ziirich 1950; Aion. Untersuchungen zur Symbolgeschichte, Ziiric[...]

[...] dunque le sue radici nel profondo della vita psichica, e quindi si collegava strettamente col mondo degli istinti e con lo stesso ordine biologico. La teoria junghiana degli archetipi come «organi» dell’inconscio collettivo, richiama — sia pure in via meramente ipotetica — ad una base anatomicofisiologica degli archetipi stessi. Ma il nesso più ardito fra mito e biologia si ritrova in alcune tesi di Roger Caillois, e segnatamente nel suo saggio sulla mantide religiosa. La riplasmazione mitica di questo insetto, attestata in diversissimi ambienti culturali, sarebbe fondata, secondo il Caillois, in parte sul suo aspetto antropomorfo in parte sulle sue abitudini sessuali, caratterizzate dalla indifferenziazione del piacere sessuale e di quello della nutrizione. Ora di tale indifferenziazione vi sono tracce anche nell’uomo in quanto essere biologicamente condizionato, e pertanto la mantide nella storia religiosa dell’umanità è stata miticamente riplasmata in quanto essa rappresenta una condotta di cui l’uomo avverte la sollecitazione : solo c[...]

[...]isogno e con la morte: ogni civiltà è, in una certa misura, un gigantesco sforzo per mascherare il bisogno e la morte e in generale la fondamentale insicurezza della condizione umana, e per far sì che il futuro sia una ripetizione di un identico mito di fondazione:

Il rituale costituisce una garanzia che in determinati comportamenti relativi a ‘sfere di ignoranza’ che costituiscono i punti nevralgici di ogni essere umano, la gente può contare sulla natura iterativa del fenomeno. Rito e mito forniscono quindi punti fissi in un mondo di angoscianti mutamenti e di frustrazioni: essi si occupano di settori dove 'l’insicurezza è massima, ed è perciò qui che si manifesta il massimo di fissità (49).

Questa analisi del Kluckhohn, per quanto condotta con molta incertezza e empiria di prospettiva, fa affiorare di nuovo il problema della ripetizione nel sue duplice significato di « impulso a ripetere » come ritorno mascherato e irrisolvente della situazione traumatica, e di « ripetizione attiva » in un orizzonte miticorituale che assolve la fun[...]

[...]ESTO DE MARTINO

un fondamento e una prospettiva alla precarietà della condizione umana non poteva mancare di avere un contraccolpo nella valutazione della religione cristiana. La Harrison aveva messo in rilievo come l’azione sacra in Grecia, il dromenon, è la ripetizione di un exemplum di fondazione, è un antefatto (predonè) mitico continuamente « rifatto » (redonè) nel rito, così come il mito è per essenza parola « ridetta » e « ridicibile». Sulla base di osservazioni condotte su una mitologia vivente presso popolazioni primitive, il Malinowski aveva confermato che il mito non è semplicemente una storia raccontata, o una reazione intellettuale per risolvere un enigma, ma costituisce la riattualizzazione di una realtà dei primordi, una giustificazione e una conferma dell’ordine attuale mediante una dichiarazione di antecedenti esemplari di fondazione. Ma anche il Cristianesimo, a prima vista, si fonda su una ripetizione rituale di un modello mitico, su un « antefatto » continuamente « rifatto », su un inizio che giustifica, fonda e dà p[...]

[...]la destorificazione miticorituale. Effettivamente il Cristianesimc, a differenza delle altre religioni dell’ecumene, fa apparire la coscienza del tempo e della storia nel cuore stesso del suo simbolo miticorituale, e attraverso i temi della « storia santa », del sacrificio dell’UomoDio come evento storico al centro del divenire, e di un processo escatologico che si attua nel tempo, non soltanto dischiude di fatto la storia umana, ma alza il velo sulla storicità della condizione umana e fonda de jure nella prospettiva della fede, il senso dc\Y opera, la coscienza della tensione fra « situazione » e « valore ». Se la civiltà occidentale si è guadagnata nel corso della sua storia una egemonia fondata sulla potenza del mondano operare, se un umanesimo fiducioso ed entusiasta è venuto sempre più intensificando

(60) Castello, V Mans., Cap. III.42

ERNESTO DE MARTINO

la sua straordinaria messe di opere economiche, politiche, morali, artistiche, scientifiche e filosofiche, la conquista di questo primato civile è certamente impensabile senza la nuova esperienza del divenire storico inaugurata dal Cristianesimo. Il rapporto fra energia morale mondana della civiltà occidentale e simbolo cristiano assume talora vie molto mediate (si pensi al rapporto fra etica protestante e spirito del capitali[...]

[...]i deplorazioni per la scarsa sensibilità religiosa della civiltà moderna.MITO, SCIENZE RELIGIOSE E CIVILTÀ MODERNA

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Ma un altro e più sottile equivoco si insinua nel movimento di rivalutazione esistenziale della religione e del mito. Il centro della vita religiosa è il simbolo miticorituale in quanto orizzonte della crisi esisten' ziale e mediazione di valori. Ora il movimento di rivalutazione se ha per un verso opportunamente insistito sulla organica unità di mito e rito, di fondamento della origine e ripetizione cerimoniale della fondazione, ha al tempo stesso cercato di assegnare al «mito» come tale la dignità di una permanente esigenza della natura umana, anche se i contenuti del mito possono storicamente mutare. Ma questo tentativo mette necessariamente capo a soluzioni equivoche, perché o si continua a conservare nella coscienza mitica il carattere di « rapporto col numinoso », e allora non si vede come si possa difendere nel mondo moderno l’effettivo esercizio di una « categoria affettiva del soprannaturale », oppure ci si [...]



da Alberto Caracciolo, A proposito di controllo e democrazia operaia in KBD-Periodici: Nuovi Argomenti 1958 - 7 - 1 - numero 33

Brano: [...]i attivisti. E un'esigenza che non si può scindere dal contesto di una generale ricerca di soluzioni corrispondenti alle spinte progressive e al superamento delle contraddizioni della società nazionale, ma che di tale contesto è parte specifica e insopprimibile.
Un interessante apparta a questa discussione é dato oggi, ci sembra, dalle proposte che da più parti vengono ad una rivalutazione dei motivi di democrazia operaia e di controllo diretto sulla produzione. Si é già detto e scritto parecchio negli ultimi tempi in ordine a tali problemi, e si è già riusciti ad approfondirli sotto diversi aspetti, indicando dubbi e conclusioni cui é dato arrivare: qui
80 ALBERTO CARACCIOLO
vorremmo procedere un poco nella ricerca delle effettive difficoltà che vi sono dinanzi alle proposizioni del controllo e della democrazia operaia, dei nodi che vanno affrontati quando si voglia consentire al movimento una più diffusa democratizzazione ed iniziativa creatrice di classe.
2. E veniamo subito a un primo grosso quesito, con il quale ci si deve misurar[...]

[...]trollo e di gestione sorgenti dal basso? ». Un quesito, come si vede, molto serio, che parte da una corretta valutazione delle tendenze generali dell'economia industriale contemporanea, sia nei paesi capitalistici, sia nei paesi dove il capitalismo è stato abbattuto, ed ha innumerevoli implicazioni sul terreno della scienza economica, della elaborazione giuridica, delle teorie politiche. Ha inoltre radici lontane nelle dispute sul mercantilismo, sulla democrazia, sull'interventismo economico dello Stato, e conseguenze complesse in tutto l'ampio discorso oggi in atto sui problemi di un piano economico centralizzato.
La prima risposta che si potrebbe dare su questo terreno è di ordine puramente ideologico, e come tale non varrebbe conto di menzionarla se non fòsse valida, peraltro, almeno a far riflettere quanti ritengono di dover scegliere le soluzioni politiche sulla base di un criteria di cosiddetta «fedeltà ai principi ». Tale risposta è in sostanza che il socialismo non sarebbe tale se non contenesse precisamente una valorizzazione di tutti gli elementi di autogoverno contra le forme democraticoborghesi di « delega» dei poteri, se esso non significasse rivalutazione della «società civile» rispetto all'imperio della « società politica ».
È anche vero che un'antica pubblicistica, che ha fatto breccia talora nel senso comune, attribuisce al socialismo e al comunismo la caratteristica del massimo accentramento politicoeconomico. Ma è chiaro come questo di[...]

[...]lo non e impossibile, ma sembra rispondere ad esigenze di fondo della società contemporanea. Nella concreta situazione nostra una ripresa di democrazia operaia e di impegno socialista sembra aver bisogno in sostanza di muoversi lungo una triplice direzione per trasformarsi in una spinta effettiva: ha bisogno di far progredire una teoria per la_con quinta del socialismo in « paesi _come l'Italia»; di farespa dere istituti e strumenti di controllo sulla produzione e di intervento
86 ALBERTO CARACCIOLO
democratico sul potere; di dar luogo a una coscienza e a un indirizzo
criticamente adeguata in sede partitica e sindacale.
6. Non mi fermerò qui sul problema della teoria: non perché sia di poca importanza, ma perché di tale profondità che si gioverà piuttosto, e già si è giovato, di apporti particolari, puntuali, tratti dall'osservazione e dalla comparazione di singoli fenomeni.
Accennavamo in altro luogo recentemente, riprendendo osservazioni diffuse, di quale portata sia il problema di uscire dagli schemi dell'età di Marx o dalle soluz[...]

[...] l'Italia, nei limiti in cui l'analogia sia possibile; accompagnando ed in parte anche precedendo l'azione politica se non si vuole che tradizione, esperienza, attaccamento delle masse, si esauriscano in una battaglia senza prospettive.
7. Al problema della teoria si ricollega immediatamente, ci pare, quello degli istituti e degli strumenti d'azione del movimento operaio. E vi ricollega, in primo luogo, perché la esistenza di forme di controllo sulla produzione ha grande valore per la cono
A PROPOSITO DI CONTROLLO E DEMOCRAZIA OPERAIA 87
scenza del fatto economico, dall'azienda al mercato: conoscenza che per alcuni racchiuderebbe per intero il problema del controllo. Ma forse questo limite é ancora insufficiente. Perché nel logorarsi degli strumenti propriamentte parlamentari o esclusivamente partitici, dalle forme del controllo e della democrazia operaia sembra prendere consistenza l'idea stessa di una via democratica al socialismo.
Significa, quando diciamo questo, che si voglia con un gioco della volontà o dell'immaginazione, dar vi[...]

[...]bbrica gramsciani o alla piramide dei Soviet leniniani, dai quali nascerà finalmente il potere socialista? Non di ciò si tratta, evidentemente. Non abbiamo nessuna intenzione di formulare schemi per un nuovo « sistema » di istituti, ben congegnati orizzontalmente e verticalmente, con i loro statuti e regolamenti elettorali, come faceva nel 1920 Nicola Bombacci col suo progetto di Soviet. Quel che occorre é rivalutare, fondandosi sull'esperienza, sulla tradizione, culle forze e le sollecitazioni in atto, tutti gli elementi autogoverno e di controllo diretto presenti alla base; é indirizzarsi con i lavoratori dell'azienda e con tutti i possibili apporti tecnici e intellettuali, alla ripresa dei motivi di intervento diretto sulla produzione.
Così posta la questione resta soprattutto, ancora una volta, da applicarsi allo studio determinato dei fatti dell'azienda e del movimento operaio. E qui ci limiteremo a richiamare la attenzione su alcuni istituti e momenti non ancora lontani alla nostra esperienza.
Cose molto importanti ci può dire per esempio la Resistenza antifascista e l'esperienza dei Comitati di liberazione dove, malgrado le interpretazioni strumentali e « diplomatiche » talvolta date dai partiti, si esprime un momento di eccezionale capacità creativa di popolo. In essa la rofonditá della crisi dello Stato [...]

[...]to nell'ambiguità politica se non apertamente nel collaborazionismo, attraverso il sindacato le maestranze si proponevano unite non solo alla direzione aziendale, ma all'assunzione della responsabilità direttiva nazionale.
Non ci sentiamo di affermare che i Consigli quali vennero riconosciuti dal decreto 25 aprile 1945 del CLNAI abbiano poi assolto, specialmente col passare dei mesi, a tutto quanto l'iniziativa dei lavoratori attendeva da loro. Sulla valutazione della loro esperienza del resto si sta sviluppando da qualche tempo un interessante ripensamento critico. Malgrado differenze di compiti e di at titudini fra Consiglio e Consiglio, malgrado interpretazioni diverse che ne davano i partiti ed oscillazioni fra un settarismo operaistico e un collaborazionismo con le direzioni d'azienda, essi tuttavia rispondevano sostanzialmente a quella esigenza dell' autonomia dei produttori già cara a Gramsci. Nel sobrio linguaggio di un documento di governo, la relazione del ministro Rodolfo Morandi riassumeva felicemente questo significato: « Spe[...]

[...]bbrica, nelle sue strutture tradizionali.
I partiti, anche quelli di sinistra, non mostravano malta attenzione verso il movimento, tutto concentrando in altri settori e in altre battaglie. Il principio estremo dell'autogestione, del quale del resto è lecito discutere il significato in una fase di permanenza della proprietà privata dei mezzi di produzione, era affermato quasi soltanto dal Partito d'Azione, debole fra gli operai, e da Lelio Basso sulla rivista « Socialismo ». I'l Partito comunista oscillava fra una concezione tecnicistica ed una più estesamente politica, per la quale avrebbe voluto fare dei Consigli un'ulteriore roccaforte della propria influenza diretta. Ancora un po' diverso il pensiero ufficiale del Partita socialista, incline ad attribuire a questi istituti piuttosto una funzione di controllo che di gestione. « Il Consiglio — sosteneva la relazione Saraceno al congresso del 1946 — è per noi principalmente l'organo di base, l'organo periferico del controllo democratico della produzione. Ma un controllo periferico presupp[...]

[...]ni dei dirigenti di partita segnando, nella pratica e nella coscienza stessa dei lavoratori, la fine di ogni suo autonomo significato.
9. Caduto lo « spirito della resistenza », dissolto il movimento dei Consigli di gestione, relegate nella storia queste esperienze e nella lontananza i tentativi di autogestione nei paesi dell'Europa orientale, non manca chi ritiene sepolta con ciò tutta intera l'esigenza consiliare e di controllo dei produttori sulla produzione. Ma ancora qui, nella realtà dell'oggi e nella realtà nostra italiana, si ripropongono spunti che indicano il permanere di queste esigenze e il manifestarsi di esse in forme non solo embrionali.
Procediamo, una volta ancora, per rapidi accenni. Ma almeno sull'istituto della Commissione interna e alla presenza del sindacato dobbiamo richiamare l'attenzione. Nelle Sett& tesi sul controllo, presentate da Panzieri e Libertini su « Mondo Operaio », viene riconosciuto il significato unitario e preliminare di questi organismi, ma troppo alla svelta, ci sembra, se ne esclude l'attitudine [...]



da (Nove domande sullo stalinismo) Palmiro Togliatti in KBD-Periodici: Nuovi Argomenti 1956 - 5 - 1 - numero 20

Brano: [...]o i principi socialisti. Dimenticare la rivoluzione, non tener conto della nuova struttura sociale, dimenticare, cioè, tutto ciò che è proprio dell'Unione sovietica e poi fare un confronto puramente esteriore con i modi della vita politica nei paesi capitalistici, è un trucco e niente più. Ma questo primo richiamo alla realtà non basta. La società sovietica ha avuto, sin dall'inizio, una sua struttura politica democratica, fondata, precisamente, sulla esistenza e sul funzionamento dei Soviet (Consigli di operai, contadini, lavoratori, soldati). Il sistema dei Soviet è, come tale, molto più democratico e progredito di qualsiasi sistema democratico tradizionale, e questo per due motivi. Il primo è che fa penetrare la vita democratica in tutte le parti costitutive della società, partendo dalle unità lavorative di base per risalire, grado a grado, sino alle grandi assemblee cittadine, regionali e nazionali. Il secondo è che avvicina le elementari cellule della vita democratica alle unità produttive e quindi supera quell'aspetto negativo delle [...]

[...] le une alle altre (partito, soviet, sindacati, ecc. ecc.). La critica che si fa a Stalin è di aver impedito questa manifestazione all'interno del sistema. La correzione consiste nel restaurare la normalità, non già nel negare il sistema o nel farlo saltare.
Ma se ritengo assurdo che il sistema possa esser fatto saltare per ritornare indietro, credo però che all'interno di esso possono e dovranno essere introdotte modificazioni, anche profonde, sulla base dell'esperienza che è stata compiuta, sulla base dei successi ottenuti in tutti i campi, e sulla base stessa della necessità di avere più efficaci garanzie contro errori come quelli di Stalin. Su questo punto é da concentrare la attenzione, e perciò devono essere seguite e studiate le misure nuove che via via nell'Unione sovietica si stanno prendendo, sia dal partito che dal governo. Le più interessanti, sino ad ora, e di più vasta portata, sono quelle che stabiliscono un decentramento sempre più esteso della direzione economica. La centralizzazione, anche in forme estreme, fu una necessità dei periodi in cui si dovevano operare rapidamente profondissimi cambiamenti, distruggere le basi [...]

[...]tico, compresi i compagni che oggi hanno avuto la iniziativa sia della denuncia che della correzione del male che prima era stato fatto, quanto
delle conseguenze di questo male.
A proposito di questa corresponsabilità, due spiegazioni sono state avanzate. Una è la più evidente ed è stata affacciata da noi stessi, nelle discussioni che hanno avuto luogo nel nostro partito. E stata formulata anche dal compagno Courtade, in una serie di articoli sulla Humanité (1), ed ora, se si deve credere a ciò che riferiscono i giornalisti, pure dal compagno Khrustcióv, rispondendo a una domanda rivoltagli in un ricevimento. L'allontanamento di Stalin dal potere, quando apparve la gravità degli errori ch'egli stava compiendo, era «giuridicamente possibile », ma impossibile in pratica, perché se la questione fosse stata posta ne sarebbe risultato un conflitto, e questo conflitto avrebbe probabilmente compromesso le sorti della rivoluzione e dello Stato, contro il quale erano puntate le armi da tutte le parti del mondo. Basta aver avuto un contatto . anc[...]

[...]rime, nello sviluppo delle diverse parti dell'industria o dell'agricoltura, ecc. ecc. fossero dovuti al sabotaggio, all'opera del nemico di classe, di gruppi controrivoluzionari operanti clandestinamente, e così via. Non è che queste cose non ci fossero. Ci furono anche queste cose. L'unione sovietica era circondata da nemici spietati, pronti a ricorrere a tutti i mezzi per recarle danno e frenarne l'ascesa; ma quell'errato indirizzo nei giudizi sulla situazione oggettiva fece perdere il senso del limite, fece smarrire la nozione della frontiera che separa il buono dal cattivo, l'amico dal nemico, la incapacità o la debolezza dalla ostilità consapevole e dal tradimento, il contrasto e le difficoltà che sgorgano dalle cose, dall'atto ostile di chi congiura per rovinarti. Stalin dette una formulazione pseudoscientifica di questa paurosa confusione, con la sua tesi errata dell'accrescimento necessario dei nemici e dell'inasprirsi della lotta delle classi col progresso della costruzione socialista. Questo rese permanente e aggravò la confusion[...]

[...]cessi ? Anche qui, sono i dirigenti sovietici che debbono dare la risposta, comprendendo che questo é oggi uno dei problemi che assillano i militanti sinceri del movimento operaio internazionale. Fino a che punto, da quale momento ed entro quali limiti gli errori di Stalin compra misero la linea politica del partito, crearono difficoltà sussidiarie e quale peso ebbero queste difficoltà, e come si riuscì, non ostante quegli errori, a progredire ? Sulla base di ciò che conosciamo, noi possiamo fare solo alcune affermazioni generali, disposti a rivederle se necessario. Ci sembra debba essere riconosciuto che la linea seguita nella costruzione socialista continuò a essere giusta, anche se gli errori che vengono denunciati sono tali che non possono non avere seriamente limitato i successi nella sua applicazione. Questo é però uno dei punti su cui saranno necessarie le maggiori spiegazioni, perché la restrizione e in qualche caso persino la scomparsa della vita democratica é cosa essenziale per la validità di una linea politica. Ci sembra ad ogn[...]

[...]del nostro partito di uscire dalla assemblea aventiniana delle opposizioni e ritornare nel Parlamento, fu presa da noi in netto contrasto con il consiglio che ci veniva dai dirigenti della
PALMIRO TOGLIATTI 137
Internazionale, che era il contrario. All'epoca del VII Congresso (1935), i partiti che si erano rafforzati, che erano uniti e diretti bene, già sentivano che un centro internazionale non poteva fare altro che elaborare giudizi generali sulla situazione e sui compiti del nostro movimento, ma la attuazione politica pratica doveva essere opera dei singoli partiti, affidata pienamente alla loro iniziativa e responsabilità. In questo modo ci si mosse, in Francia e in Spagna, soprattutto, nel periodo delle grandi lotte tra il 1934 e il 1939, durante la guerra e ancora più dopo di essa. Se i comunisti avanzarono nella grande scia della politica internazionale dell'Unione sovietica é perché erano convinti che quella politica fosse giusta, e tale essa era, in realtà.
L'Ufficio di informazione, costituito nel 1947 con compiti ben diversi [...]


precedenti successivi
Grazie ad un complesso algoritmo ideato in anni di riflessione epistemologica, scientifica e tecnica, dal termine Sulla, nel sottoinsieme prescelto del corpus autorizzato è possible visualizzare il seguente gramma di relazioni strutturali (ma in ciroscrivibili corpora storicamente determinati: non ce ne voglia l'autore dell'edizione critica del CLG di Saussure se azzardiamo per lo strumento un orizzonte ad uso semantico verso uno storicismo μετ´ἐπιστήμης...). I termini sono ordinati secondo somma della distanza con il termine prescelto e secondo peculiarità del termine, diagnosticando una basilare mappa delle associazioni di idee (associazione di ciò che l'algoritmo isola come segmenti - fissi se frequenti - di sintagmi stimabili come nomi) di una data cultura (in questa sede intesa riduttivamente come corpus di testi storicamente determinabili); nei prossimi mesi saranno sviluppati strumenti di comparazione booleana di insiemi di corpora circoscrivibili; applicazioni sul complessivo linguaggio storico naturale saranno altresì possibili.
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