Brano: IL GOVERNO NITTI E LA QUESTIONE ADRIATICA (*)
Nelle sue Rivelazioni, Nitti scrisse molti anni piú tardi che quando il suo Ministero fu rovesciato, i delegati jugoslavi stavano per riprendere contatto con quelli italiani per riallacciare le trattative, interrotte esattamente un mese prima dalla crisi ministeriale italiana (1). Non pare che ciò sia de tutto esatto: il nuovo incontro non era stato ancora fissato; tuttavia é certo che se nel giugno 1920 Nitti avesse superato la crisi e fosse restato al goveron, i negoziati diretti per la soluzione della questione adriatica sarebbero stati ripresi entro breve tempo e, con ogni probabilità, portati a compimento. Giolitti, che gli succedette a capo del governo, lasciò invece passare qualche tempo prima di riprendere le trattative, che furono poi concluse il 12 novembre 1920 con la firma del Trattato di Rapallo.
L'accordo concluso da Giolitti e Sforza a Rapallo fu lievemente migliore, per l'Italia, di quello che Nitti e Scialoja stavano per raggiungere Pallanza e che avrebbero probabilmente realizzato dopo il giugno se fossero rimasti al po[...]
[...]mente qualcosa alla celerità
(*) Il presente articolo riproduce alcune pagine conclusive di un ampio lavoro dallo stesso titolo di prossima pubblicazione presso l'editore Feltrinelli.
(1) FRANCESCO SAVERIO NITTI, Rivelazioni. Dramatis personae, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1948, pp. 34041.
(2) Non pare perciò fondata l'affermazione di F. S. NIrri (ibid., p. 343): « Al trattato di Rapallo segui l'accordo con la Jugoslavia: nulla era stato ottenuto che io non avessi ottenuto; anzi la situazione era stata di molto peggiorata D. Più aderente al vero RENÉ ALBRECHTCARRIÉ, Italy at Me Peace Conference, New York, Columbia University Press, 1938, p. 289, che scrive: « C'è ogni ragione di ritenere che la lunga disputa [italojugoslava] sarebbe stata portata a conclusione a Pallanza, e che, se così fosse stato, gli jugoslavi si sarebbero asicurate condizioni migliori di quelle che avrebbero ottenute di lì a qualche mese in condizioni che, sotto qualche aspetto, poterono sembrare meno favorevoli ad essi s.
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della conclusione dell'accordo con la Jugoslavia per essere in grado di dare rapida attuazione al programma di smobilitazione militare, politica e psicologica del Paese, in vista di una politica di riduzione delle spese, di concentrazione interna, di ricostruzione economica, mentre Giolitti, tornato al potere con l'appoggio di una maggioranza assai p[...]
[...]igidezze e astrattismi ideologici e quanto a influenze finanziarie. Certo, i due elementi dovettero intrecciarsi, e il secondo non dovette mancare. Si disse insistentemente, allora, che gli americani avessero particolari mire sul porto di Fiume come elemento di una più vasta penetrazione nell'Europa centrale, che essi attendessero dagli jugoslavi un'arrendevolezza che non avrebbero trovato negli italiani (7); più tardi, nel periodo di vita dello Stato libero creato dal Trattato di Rapallo, gli americani progettarono l'acquisto di una parte importante del porto fiumano, su cui avrebbe dovuto esercitare la sua giurisdizione la « Standard Oil Company » (8), e in ciò si vide una specie di dimostrazione a posteriori dei motivi che avevano reso la diplomazia wilsoniana così dura, rigida, intransigente. Per contro, il banchiere americano Guggenheim, intervistato da un giornale italiano (9), dichiarò che gli Stati Uniti avrebbero dovuto preferire una soluzione italiana del problema di Fiume, perché gli jugoslavi ne avrebbero dato il,controllo agli inglesi (Wilson ormai conta poco, aggiunse Guggenheim, e « non potrà impedire ai banchieri e agli industriali di aiutare il vostro Paese in cui essi hanno piena fiducia »); e di interessi della « Cunard Line » britannica a Fiume parlò Harold Spencer, ex corrispondente del New York Herald (10).
Se sulla diplomazia americana poté esercitare influenza la pressione di gruppi economici e finanziari, non si creda[...]
[...]mati da un istintivo nazionalismo — da Tittoni a Scialoja, da Badoglio a Caviglia, da Mosconi
(17) « Sono qui — dichiarò una volta quando era ministro degli Esteri — per vedere che, almeno in politica estera, non facciamo troppe fesserie » (DANIELE VARL IZ diplomatico sorridente, ediz. inglese, citato da GORDON A. CRAIG and FELIX GORDON, The Diplomats. 19191939, Princeton University Press, 1953, p. 212). Cfr. anche ARTURO CARLO JEMOLO, Chiesa e Stato in Italia negli ultimi cento anni, Torino, Einaudi, 1948, p. 653.
(18) CARLO SFORZA, L'Italia dal 1914 al 1944 quale io la vidi, Milano, Mondadori, 1946, p. 89.`
(19) F. S. NITTI, Rivelazioni cit., pp. 5, 53 e 340.
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a Salata (20) — tanto che più tardi molti di essi dovevano passare armi e bagagli alla collaborazione col fascismo. Bisogna pur sottolineare il fatto che a contatto con la situazione qual era, specialmente quando si trattava di misurarsi con gli Alleati nelle trattative diplomatiche, quegli uomini erano costretti ad acquistare un re[...]
[...]zione col fascismo. Bisogna pur sottolineare il fatto che a contatto con la situazione qual era, specialmente quando si trattava di misurarsi con gli Alleati nelle trattative diplomatiche, quegli uomini erano costretti ad acquistare un realismo che era il naturale nemico di ogni atteggiamento nazionalistico. Uno di essi, Salvatore Barzilai, parlando al Senato il 15 dicembre 1920 sul Trattato di Rapallo, diede un riconoscimento prezioso di questo stato di cose: «Chi ebbe l'occasione di trovarsi a Parigi nel 1919 non può, in sua coscienza, moltiplicare le esigenze e accrescere le censure verso i negoziatori del Trattato di Rapallo. Non può per senso di onestà! »; e dopo aver indicato il carattere contraddittorio delle richieste italiane (Patto di Londra più Fiume): « Allora io ebbi il fondato dubbio che la pace italiana non si sarebbe potuta stringere senza una formula di compromesso: ogni più sincero sforzo da molti, da troppi fu fatto, ma era fatale che un compromesso dovesse suggellare la pace »;
(20) Per quanto riguarda Badoglio, vi è u[...]
[...]gi, 1946), PIETRO BADOGLIO, nel clima politico mutato, diede della propria posizione di fronte a D'Annnuzio una immagine sensibilmente deformata.
Per quanto si riferisce a ENRICO CAVIGLIA, basta leggere il suo libro su Il conflitto di Fiume (Milano, Garzanti, 1948) per rilevare la debolezza del suo pensiero politico, le contraddizioni fra le tendenze nazionaliste e l'avversione contro ogni atto disgregatore della compagine dell'esercito e dello Stato costituzionale.
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sicché il nazionalista Barzilai finiva per adoperare a proposito di D'Annunzio parole che avrebbero potuto essere pronunciate da Nitti: « Non vi é nessuno, per quanto illustrato dalle gesta più nobili, che possa imporsi alla volontà della Nazione »; e ricordava la necessità del pane e della ricostruzione economica.
In Nitti, se tenace fu sempre il perseguimento di fini coerenti con le premesse della sua azione politica antinazionalista, non sempre vi furono, nell'attuazione quotidiana, quella fermezza e quella abilità che sarebbero state necessarie. Lo vedi[...]
[...]di sopra della maggior parte degli uomini politici e dei militari del suo tempo e del suo ambiente, ma, con ciò stesso, gli faceva talvolta smarrire il senso delle necessarie cautele da prendere con essi.
Anche nella laboriosa ricerca di una soluzione del problema fiumano, nella scelta tra i vari progetti che furono avanzati durante quei mesi, quasi accavallandosi, Nitti dimostrò talvolta qualche oscillazione (per esempio, sulla creazione dello Stato libero, che egli di volta in volta considerò vantaggioso perché sgradito a Belgrado in quanto sottraeva alla diretta sovranità serba un largo territorio a popolazione slava, e svantaggioso proprio perché essendo abitato prevalentemente da slavi rischiava di soffocare l'italianità della città di Fiume). In verità, a Nitti premeva soprattutto di chiudere la vertenza adriatica: egli non si sentiva di sostenere a spada tratta questa o quella soluzione, ad una o all'altra subor
(23) « Mi sembrò, e mi sembra tuttora — scrisse ancora C. SFORZA, O. cit., p. 84 — che Nitti fu soprattutto attaccato pe[...]
[...]ventura di D'Annunzio a Fiume non fu che della politica interna) furono in massima parte l'effetto di alcune lacune della sua personalità ».
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dinando la conclusione dell'accordo, poiché gli sembrava che scarsa importanza avessero i dettagli che distinguevano l'una dall'altra le diverse soluzioni prospettate. E in ciò entrò anche, senza dubbio, la sopravalutazione del fattore economico rispetto a quello politico nella vita dello Stato e della società, che fu una delle sue caratteristiche salienti.
Anche se tardi epigoni delle infiammate passioni di quel tempo possono ancor oggi trovare motivo di scandalo nella sollecitudine di Nitti a concludere l'accordo adriatico e nella scarsa importanza ch'egli attribuiva ai dettagli territoriali, a noi sembra — in base a una concezione che siamo convinti essere al tempo stesso più idealistica e più realistica — che non solo lo sviluppo successivo degli avvenimenti internazionali che ha tanto superato i termini di quella contesa rendendoli obsoleti e mostrandone quindi al fondo il car[...]
[...]OrlandoSonnino di cui facevano parte sia Bissolati che Nitti, delle condizioni di pace, i criteri antinazionalisti esposti dal primo erano stati condivisi da
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pretesto ai nazionalisti, che in lui vedevano uno dei loro veri e maggiori avversari, per lanciare contra di lui una furiosa campagna denigratoria, senza esclusione di colpi. Tuttavia la tesi sostenuta dai nazionalisti e ribadita da Caviglia (27) che l'esercito si mise in stato di sedizione e di virtuale colpo di Stato per reagire alle provocazioni tollerate da Nitti non regge: la sedizione era già in atto prima ancora che Orlando cadesse, e semmai, durante i suoi dodici mesi di governo, Nitti riuscì a riportare un po' d'ordine, utilizzando uomini che godevano di largo prestigio sia nell'esercito che tra i nazionalisti, come Badoglio e lo stesso Caviglia. Ma non si valuterà mai abbastanza i1 peso che ebbe la vasta mobilitazione, anzi la vera e propria congiura nazionalista e militarista contro la quale Nitti si adoperò: già nel '19 fu fatta una specie di prova generale di quella che tre anni dopo, quando fu[...]
[...]traendo la contesa e con essa la mobilitazione, e di conseguenza ostacolando la ricostruzione economica su basi di normalità, i nazionalisti facevano gli interessi di cento grandi industriali contro quelli della grande maggioranza del Paese. Ma intanto diffondevano un veleno destinato a mettersi in circolazione nell'organismo nazionale per non più uscirne e dare i suoi frutti tossici negli anni seguenti. Per tutto il 1919, intanto, la vita dello Stato costituzionale, rappresentativo, parlamentare si svolse come sopra un vulcano, pronto ad esplodere in un terremoto da un momenta all'altro: il colpo di Stato era nell'aria, era una minaccia concreta; la « marcia di Ronchi » poteva benissimo trasformarsi in una « marcia su Roma », e più di una volta sembrò che cosí stesse per avvenire.
Nitti era agli antipodi di ogni atteggiamento nazionalistico e di ogni velleità eversiva delle istituzioni e ciò era sufficiente perché le destre lo accusassero di « disfattismo ». L'Idea Nazionale giunse ad imputargli, non appena ebbe assunto il potere, di essere « l'anti combattente » (29), ciò che era ben difficile dire dell'unico uomo politico italiano che, pur non essendosi abbandonato a demagogiche promesse co[...]
[...] tono fra la dichiarazione alla Camera del 13 settembre e quella di tre giorni dopo; e bisogna riconoscere che la linea ben presto stabilita di fronte ai « legionari » fu il risultato più delle osservazioni fatte sul luogo e delle indicazioni mandate da Badoglio che delle inclinazioni di Nitti. Comunque, il presidente del Consiglio ebbe l'avvedutezza di non pretendere di sovrapporre quelle inclinazioni ai suggerimenti che gli venivano da chi era stato mandato proprio per studiare direttamente la situazione; e dalla collaborazione tra Nitti e Badoglio nacque e si sviluppò la linea di condotta intesa a svuotare e isolare il movimento dannunziano. Questa linea produsse i suoi effetti, dapprima sdrammatizzando tutta la situazione e riportando alle sue proporzioni il movimento dannunziano che in un primo momento sembrò diffondersi come un'epidemia, poi rendendo possibile la stipulazione di un accordo con la Jugoslavia e la conseguente forzata uscita dei « legionari » da Fiume; giacché non vi é dubbio che su questo terreno Giolitti poté valersi [...]
[...]unì la Costituente eletta il 24 aprile, nella quale gli autonomisti di Zanellà erano in grande maggioranza, sicché il 3 marzo 1922 gli estremisti ricorsero a un nuovo colpo di forza, alla rivolta armata: il palazzo del Governatore, ove risiedeva Zanella, fu preso d'assalto mentre un mas comandato da Giunta sparava su di esso 31 colpi di cannone. Zanella dovette capitolare nelle mani di Attilio Prodam e abbandonare Fiume; ma, se da quel giorno lo Stato libero fu virtualmente soppresso, la città continuò ad essere teatro di lotte tra gruppi di fascisti e di legionari in concorrenza tra loro (33).
Nel quadro generale della storia politica d'Italia e d'Europa nel dopoguerra, la vicenda di Fiume ha un'incidenza che trascende di molto i suoi propri termini, modesti se strettamente considerati: ed é perciò che abbiamo creduto, utilizzando una vasta documentazione inedita, di dedicare a quella vicenda un lavoro d'una certa ampiezza. « Alla Conferenza della Pace — leggiamo nell'AlbrechtCarrié (34) — la lotta per Fiume, tema di contestazione in se[...]
[...]opri termini, modesti se strettamente considerati: ed é perciò che abbiamo creduto, utilizzando una vasta documentazione inedita, di dedicare a quella vicenda un lavoro d'una certa ampiezza. « Alla Conferenza della Pace — leggiamo nell'AlbrechtCarrié (34) — la lotta per Fiume, tema di contestazione in se stesso insignificante, si indurì in una battaglia diplomatica di prestigio che in ultima analisi non diede la vittoria a nessuno. Se non fosse stato
(30) ARTURO MARPICATI, Fiume, Firenze, Casa Editrice « Nemi », 1931, p. 80. « Vittoria sicura — scrive con tipico linguaggio retorico G. BENEDETTI, Op. cit., pp. 9596 — auspicavano da ogni parte gli italiani di fede ferma; vittoria sicura era ritenuta quella del Blocco Nazionale. Ma come é possibile soltanto nei momenti più critici di un'epoca travagliata, la materialità del corpo si sovrappose alla gloria dello spirito: prevalsero il malessere, la sfiducia, la stanchezza, il desiderio del nuovo, l'allettamento, l'intravisto paradiso in terra, tutto ciò che sembrava più facile e accessibile [...]
[...]sia, dice Treves nel discorso parlamentare del 30 marzo 1920 rivolto al presidente del Consiglio; e riconosce: « Voi avete fatto quanto meglio e più nobilmente potevate fare a Parigi e a Londra
(37) « Non posso parlare senza imbarazzo — disse Nitti alla Camera il 21 dicembre 1919 — della questione adriatica. L'Italia ha una istituzione, fra le altre, che è la più importante di tutte, che è al di sopra di qualunque istituzione fondamentale dello Stato, della magistratura, del Parlamento; un'istituzione alla quale tutti s'inchinano: la retorica. E una forza che non ho mai posseduto. Noi abbiamo parlato tanti anni in tono superlativo e comparativo, che abbiamo persino dimenticato il tono positivo ».
(38) Non solo II Secolo, giornale radicale di Milano, ma anche il Corriere della Sera, conservatore ma avverso al programma annessionista dei nazionalisti e dei dannunziani, commentarono la caduta del ministero Orlando, nei loro editoriali del 21 giugno 1919, con parole aspre verso il « presidente della Vittoria » e auspicando un nuovo Ministero[...]
[...]a fiducia che questi non si sarebbero uniti ai primi nel tentativo di rovesciarlo (40). Quando ciò avvenne, fu la fine del suo esperimento radicale.
Si è molto insistito sulle agitazioni sociali che caratterizzarono l'anno 1919: in realtà potrebbe a più forte ragione applicarsi al Governo Nitti ciò che Frassati osservò a proposito del Governo Giolitti, che cioè reca meraviglia come il grande fatto storico del dopoguerra, l'immissione del quarto stato" nella vita pubblica italiana, abbia potuto compiersi con incidenti relativamente così trascurabili (41). Del resto le agitazioni sociali non furono un fatto solo italiano ma travagliarono, in misura maggiore o minore, tutti i Paesi che aveva partecipato alla guerra.
Nitti stesso vide chiaramente quali forze Io fecero cadere: « Furono i grandi banchieri della Banca Commerciale, i grandi arricchiti di guerra che più si agitarono per evitare un piccolo aumento del prezzo del pane che essi stessi avevano proposto e che richiesero subito dopo le mie dimissioni » (42). « Io ero nella strana
(40)[...]
[...]o. Alla fine di maggio, di fronte al rilancio di accuse di illecite operazioni finanziarie, Nitti nominò una commissione di inchiesta « sui fatti d'accaparramento di azioni e di aumento di capitale di quelle società anonime i titoli delle quali subirono notevoli e rapide fluttuazioni di prezzo con turbamento del mercato dei valori e con danno degli azionisti a (cfr. Il Messaggero del 30 maggio). Della commissione facevano parte il consigliere di Stato Federico Brofferio (presidente), il consigliere di Cassazione Girolamo Biscaro, il direttore generale delle imposte dirette Pasquale d'Aroma, il direttore del commercio Angelo di Nola e l'economista prof. Giorgio Mortara. Si noti che mentre le grandi imprese, l'Ansaldo, l'Ilva, la Terni ecc., chiedevano la liberalizzazione completa del commercio estero, che costituiva uno dei punti del programma della Confederazione Generale degli Industriali fondata ' il 9 aprile 1919, Nitti era l'uomo politico che, nella sua veste di ministro del Tesoro, aveva creato, al contrario, l'Istituto dei Cambi, poi[...]
[...]ertis verbis o larvatamente, nel programma di Nitti. In realtà, quindi, il vero continuatore del giolittismo fu Nitti, che afferrò lui solo la sostanza del problema dell'ora: il passaggio dal liberalismo alla democrazia. Il suo tentativo falli, e quella fu veramente l'ora tragica per l'Italia. Quando Giolitti tornò al governo era ormai un revenant: il tentativo suo, inattuale, era destinato a fallire. Le masse popolari premevano alle porte dello stato .e solo un programma spregiudicatamente democratico aveva qualche speranza di recuperarle. Ma Giolitti questo non lo poteva e non lo voleva offrire: era contro i suoi principi, contro il suo metodo, contro la sua sostanziale sfiducia nelle masse, che egli stimava meritevoli di essere governate umanamente, ma non capaci di esercitare esse stesse il potere. Naturale quindi che pensasse all'imbarco dei fascisti,. per cogliere i tradizionali due piccioni: riassorbire (e possibilmente... digerire) il movimento fascista trasformandolo in una corrente conservatrice un po' zotica ma di tipo tradizion[...]
[...]ento di governo di Nitti, che sarebbe tornato al potere con i più preparati uomini del socialismo, realizzandone postulati e principi.
Certo, quando, dopo le elezioni del '21, più di una volta in breve spazio di tempo fu tentata da parte degli schieramenti e degli uomini politici della democrazia liberale la formazione di un fronte unico che non si pub definire antifascista, ma almeno di resistenza al fascismo nelle sue mire sovversive verso lo Stato costituzionale, il candidato delle sinistre, che volevano sfociare in una forma statuale in cui il potere del Parlamento si affermasse incontrastato, anche contro alcune tradizionali prerogative della Corona, fu proprio Nitti. Ciò si dové alla prova che egli aveva dato durante i dodici mesi del suo governo nel 191920, quando la questione adriatica, anche per i suoi addentellati con la vita politica interna, era stata la più grave che egli avesse dovuto affrontare. E se su Nitti si appuntò l'odio di tutte le forze conservatrici e reazionarie e quell'esperimento fu reso impossibile, con ciò la democrazia borghese si precluse l'ultima possibilità di conservare le forme storiche dello Stato costituzionale, ed apri definitivamente la porta al [...]
[...]lla prova che egli aveva dato durante i dodici mesi del suo governo nel 191920, quando la questione adriatica, anche per i suoi addentellati con la vita politica interna, era stata la più grave che egli avesse dovuto affrontare. E se su Nitti si appuntò l'odio di tutte le forze conservatrici e reazionarie e quell'esperimento fu reso impossibile, con ciò la democrazia borghese si precluse l'ultima possibilità di conservare le forme storiche dello Stato costituzionale, ed apri definitivamente la porta al fascismo, al sovvertimento delle istituzioni liberali e parlamentari e alla ventennale dittatura.
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