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Il segmento testuale Più è stato riconosciuto sulle nostre fonti cartacee. Questo tipo di spoglio lessicografico, registrazione dell'uso storicamente determinatosi a prescindere dall'eventuale successivo commento di indirizzo normatore, esegue il riconoscimento di ciò che stimiamo come significativo, sulla sola analisi dei segmenti testuali tra loro, senza obbligatoriamente avvalersi di vocabolarii precedentemente costituiti.
Nell'intera base dati, stimato come nome o segmento proprio è riscontrabile in 1656Analitici , di cui in selezione 53 (Corpus autorizzato per utente: Spider generico. Modalità in atto filtro S.M.O.G.: CORPUS OGGETTO). Di seguito saranno mostrati i brani trascritti: da ciascun brano è possibile accedere all'oggetto integrale corrispondente. (provare ricerca full-text - campo «cerca» oppure campo «trascrizione» in ricerca avanzata - per eventuali ulteriori Analitici)


da Franco Lucentini, La porta in KBD-Periodici: Nuovi Argomenti 1953 - 3 - 1 - numero 1

Brano: LA PORTA
I.
Quando ebbe finito con me, mia madre se la prese con Adriana.
« E digli a tua sorella » disse, « che finché resterà a casa mia, l'America se la può pure scordare, e la notte deve dormire qui. Qui, hai capito? E i due o tre giorni fuori con l'amica, il viaggetto di dieci giorni a Napoli, il viaggetto a Genova, é finito, basta! Già che non é più figlia mia da un pezzo, ma se vuole stare qui, qui ha da stare e qui deve dormire, e deve aiutare a casa. Va bene? E degli americani, qui, non si deve sentire la puzza. Va bene? I viaggetti, eh? Brutta maledetta impunita! ».
Quello che a mia madre gli scocciava di piú, di tutta la faccenda di Adriana, erano i viaggetti, specialmente per il fatto che quando la figlia stava fuori lei si doveva sfogare da sola. Inoltre sospettava, con fondamento, che da questi viaggetti mia sorella ci ricavasse parecchio, e non si dava pace che a casa non si fosse mai visto un soldo.
«Insomma si può sapere dove sei stata tutto questo mese? » urlò attraverso il tramezzo a mia sorella, che s'era alzata e si sentiva muovere dall'altra parte.
Secondo i calcoli di mia madre, contando tre o quattro mila lire a notte, l'ultimo viaggetto di Adriana doveva avere fruttato sopra cento[...]

[...]e la trovo sempre, senza che devo venirti a levare la roba a te ».
Non avevo pensato che lei avrebbe tirato fuori quell'altro argomento, ma mi accorsi subito, dalla faccia, che stava per farlo.
« Ha spiovuto » dissi in fretta, « vogliamo andare? ».
« Aspetta » disse. « Senti ».
« Sento » dissi scocciato.
Senti » disse. «Quando devi fare il mantenuto di una di quelle vecchie... Dico, quando ti devi mettere con una cafona di quel tipo, magari piú impestata di me, allora... non é che io ti stia a fare ancora delle proposte, delle dichiarazioni... ma allora il mantenuto mio non lo potresti fare? A te che ti costa? Di, non lo potresti fare? ».
Quando lei ricominciava con quella faccenda io non ci avevo altro argomento che quello, fondamentale, che non mi andava. Ma era difficile starglielo a sbattere in faccia ogni volta.
«E il progetto? » dissi goffo. «La vita in cantina? Volevi comin
ciare oggi e già ti sei stufata? ».
« Ah, quella é una scemenza » disse. « E una scemenza ».
« Sarà una scemenza » dissi, « ma ci sei stata appresso[...]

[...]ata appresso tanto tempo!
Ci tenevi tanto. Poi, pub essere pure che non sia una scemenza, che
ne so? In ogni modo...».
« In ogni modo » disse mia sorella, « lo sai che per averti a te pian
terei tutto, in qualunque momento ».
LA PORTA 83
Si accorse di avere detto male e si morse le labbra. Batté il bicchiere col cucchiaino per chiamare il cameriere, page,.
« Franco, sei scocciato? » disse.
«Non sono scocciato» dissi, «ma non ne parliamo più. Non è meglio? ».
« Va bene » disse.
« Amore mio » disse.
Pioveva ancora, ma più piano. La casa era poco dopo il Pantheon, ci arrivammo in pochi minuti.
« Non c'è portiere » disse mia sorella. « È uno strazio di meno. La porta sta nel secondo cortile ».
Nel secondo cortile c'era quella porta sola, e i muri erano senza finestre. C'erano solo, uno per piano, dei finestrini che dovevano essere quelli dei cessi.
« L'ho affittata come magazzino » disse, cercando le chiavi nella borsetta. « Ho pagato tutto anticipato. Credi che verranno mai a scocciare? ».
« E che ne sanno che ci stai tu dentro? » dissi.
La porta era di legno erto, ferrata. Mia sorella richiuse a chiave e [...]

[...]
« No » dissi. « Con le vecchie no. Ma mi piace camminare, andare attorno ».
« Beh » disse, « io credo di essere andata attorno abbastanza. Adesso mi piace stare qui. Un'altra, a forza di scocciarsi come mi scocciavo io, magari si sarebbe ammazzata. Io ho preso questa via di mezzo. Poi forse mi tornerà la voglia di andare attorno. In tre anni mi può bene tornare ».
«In ogni modo» dissi, «puoi sempre uscire prima. A un certo punto, se non ti va più, non ti sforzare ».
Mia sorella rise, poi diventò seria. Poi rise ancora.
« Senti » disse, « se mi ammazzavo, non l'avrei fatto col permanganato. Lo sai come succede. Dopo uno s'affaccia alla finestra, strilla: "Ho preso il permanganato, la varecchina", gli fanno la lavanda gastrica. Mica decoroso. Così, qui é lo stesso. Non é che dopo una settimana, un mese, posso riuscire fuori, tornare tra quelli di sopra: "Rieccomi qua". Qui se ci sto é perché ci devo stare, perché mi tocca starci, perché non potrò uscire. Capisci? ».
« Non tanto » dissi. « Perché non potrai uscire? ».
Cominciò a sfil[...]

[...]utte e due potrò pure urlare, nessuno sentirà ».
Mi alzai e sollevai il lume, guardando verso la scala. Si vedevano i grossi cardini della porta; il battente era ribattuto contro il muro, sul pianerottolo buio. Cominciai a capire.
«La chiave che apre la porta di sopra, apre anche quella? » dissi. « Sì » disse.
« E ce n'é una sola? ».
« Si » disse.
«E chi la terrà? ».
« Tu » disse. «Per tre anni. Non importa che siano tre anni precisi. Mese piú, mese meno. Tre anni circa. Poi vieni .e mi apri. Non ti pare combinato bene? ».
86 FRANCO LUCENTINI
« Ah, benone » dissi. « Solo che, mettiamo, se io domani mi rimettessero dentro, e se invece di tre anni circa mi dessero cinque anni circa, sei anni circa, sette anni e tre mesi, senza condizionale, circa? Tu ci avresti tutto il tempo di stirare le gambe, non ti pare? ».
« Che c'entra » disse. « Puoi sempre mandare qualcuno, avvertire che mi vengano a tirare fuori ».
« Ma non ti mischiare in cose pericolose » disse pure. « Non ti fare più mettere dentro! Ti tocca di stare insieme con quel[...]

[...]ENTINI
« Ah, benone » dissi. « Solo che, mettiamo, se io domani mi rimettessero dentro, e se invece di tre anni circa mi dessero cinque anni circa, sei anni circa, sette anni e tre mesi, senza condizionale, circa? Tu ci avresti tutto il tempo di stirare le gambe, non ti pare? ».
« Che c'entra » disse. « Puoi sempre mandare qualcuno, avvertire che mi vengano a tirare fuori ».
« Ma non ti mischiare in cose pericolose » disse pure. « Non ti fare più mettere dentro! Ti tocca di stare insieme con quelli che stanno dentro, che non puzzano meno di quelli che stanno fiori, e poi con i questurini, che puzzano ancora di più. Che gusto? Stai attenta! ».
« Va bene » dissi, « ma se per esempio le gambe le stirassi io, prima di potere avvertire qualcuno? Se una di quelle vecchie un giorno gli gira male, mi fa la festa? Sono cose che possono succedere. Uno può sempre crepare all'improvviso. Oppure ti può succedere qualche cosa a te, ti puoi sentire male, qui, senza nessuno. E vorresti crepare qua dentro, vuoi che io ti lascio crepare qua dentro? ».
Stette ad aggiustarsi le giarrettiere, guardando in terra.
« Senti » disse, « se crepo qui a te non ti deve importare; sarò crepata bene. Fuori della... Fuori... Insomm[...]

[...]ire? ».
Io non ci avevo niente da dire, ma tutta la faccenda mi cominciava a scocciare forte. Dietro a tutti quei discorsi ci cominciavo a sentire una cosa falsa, per niente pulita. Ci avevo esperienza di donne isteriche, no?
« Credo che mi stai cominciando a scocciare » dissi. « Se tutta questa gran cosa la fai per me, senti bene, ti potevi risparmiare la montatura. Questa storia che vuoi stare fuori dal mondo, solo per stare fuori dal mondo, più sta e meno mi convince. Perché proprio tre anni? Che aspetti che succeda, in. tre anni? Se lo fai per me, non ti credere che succeda niente. Se è tutta una scena che fai per me, ti devo dire che è una scena pietosa, e in tre anni diventerebbe solo più pietosa. Non ti crederai mica che io apprezzo lo spirito di sacrificio, eh? Non ti crederai di fare con me la scena madre, il finale spettacoloso, con me che arrivo in capo a tre anni, con la chiave in mano, innamorato pazzo? Non ti crederai di mettermi a me in una fesseria simile? La chiave,
LA PORTA 87
cara Adriana, te la tieni tu, e io in questa storia non ci voglio più entrare. Dovevo capirlo prima, che tutta la faccenda non reggeva, che ci mancava qualche cosa. Tu non sei il tipo che vive staccata, che se ne frega, che gli piace di starsene tranquilla. A te ti ci vuole la grande passione, eh? la grande speranza! Si sa, a tutti gli ci vuole, pure a me, ma io la commedia, se la devo fare, me la faccio da me; non ci vado a mettere dentro, con l'imbroglio, uno che non c'entra ».
Mi scuserai, eh? » dissi dopo. « T'ho detto quello che ti dovevo dire. Te l'avrei detto prima, se l'avessi capito prima D.
Adriana si abbassò la veste, si infilò le pantofole. Venne [...]

[...] troppo umido. Pare che sia uno scantinato, ma non sta nella costruzione; le fondamenta finiscono qui ».
« E dove porta? » dissi. « C'è un'altra uscita, li sotto? ».
« No » disse. « È scavato dentro la terra, non ci sono uscite. Non so quanto è grande, perché non ci sono mai scesa. Non so altro. Adesso mi dovresti schiodare queste tavole ».
Stetti un momento a pensare che altro ci poteva essere sotto quella storia: ero ancora sospettoso, anzi più sospettoso di prima, dopo che lei era riuscita a smontarmi. Poi ci rinunciai. Accostai alla porta una cassa di latte in scatola e ci montai sopra, cominciai a schiodare la tavola in alto.
« Ci hai un pezzo di ferro, qualche cosa per fare leva? » dissi. « Non viene ».
Andò al tavolo e si mise a cercare nel cassetto. La vedevo cercare con la testa chinata, i capelli biondi sul viso, nel cerchio bianco del lume. Portava un abito grigio, morbido, con una camicetta bianca. Per la prima valta pensai a quando sarebbe rimasta sola, seduta davanti al tavolo, aspettando.
Tornò con un coltello da cuc[...]

[...]cerchio bianco del lume. Portava un abito grigio, morbido, con una camicetta bianca. Per la prima valta pensai a quando sarebbe rimasta sola, seduta davanti al tavolo, aspettando.
Tornò con un coltello da cucina a un apriscatole.
«Puoi fare con uno di questi? » disse.
Presi il coltello ma non era forte abbastanza, si piegava.
« Dammi quell'altro » dissi.
Lei mi tese l'apriscatole, alzandosi sulla punta dei piedi. Nell'ombra, sembrava ancora piú morbida, con la sua faccia chiara e i capelli sciolti sulle spalle. Il lume brillava in fondo alla cantina.
LA PORTA 89
« Come sei elegante » dissi. « Come sei bella ».
« Che ti prende? » rise.
L'apriscatole non era molto adatto, ma riuscii lo stesso a schiodare
la tavola in alto. Le altre vennero via facilmente. Scesi dada cassa per
schiodare l'ultima.
Dalla porta veniva un odore di muffa. Una scala di legno, senza
ringhiera, portava in basso; si vedevano i primi gradini.
« Questo legno dev'essere fradicio» dissi. « Non possiamo mica scen
dere. Qui si rompe, caschiamo di sotto ».
[...]

[...] guardare col lume e non voglio che ci guardi tu ».
Mi cominciai a impaurire. Non credevo che fosse proprio matta, ma pensavo per forza che ci avesse qualche brutta intenzione. Guardai il coltello che teneva in mano.
Lei si mise a ridere.
« Quanto sei stupido! Che, hai paura che ti voglio ammazzare? » rise.
Non pareva isterica, ma non mi sentivo per niente sicuro. «Perché m'hai fatto levare le tavole? » dissi.
Seguitò a ridere, però non era più un riso allegro.
«Perché m'hai fatto levare le tavole?» dissi ancora.
« Vieni qui » disse, « mettiamoci a sedere ».
Tornammo verso il tavolo. Lei ripose coltello e apriscatole, poi si mise a sedere sul letto. Io la guardavo continuamente. Sapevo che se ne sarebbe accorta, ma le tenni lo stesso gli occhi sulle mani, attento a tutto quello che faceva.
« Puoi guardare sotto il cuscino » disse sconsolata. « Non c'é nessuna rivoltella ».
« Tu lo sai la vita che faccio » dissi. « Lo sai di che cos 'é che ho sempre paura. Mi dovresti capire ».
YU' FRANCO LUCENTINI
« Ti capisco » disse.
Rest[...]

[...]e cosa! ».
« Lo spazzolino da denti » dissi. « No? ».
« SI» rise.
« Te lo posso andare a comprare » dissi, « ma a quest'ora dovrebbe
essere chiuso ».
Venne fuori dalla tenda.
« Puoi prenderlo alla farmacia notturna » disse. « Io intanto vado
a letto. Tu puoi stare fuori, mentre io dormo, puoi andare a un caffè.
Dormirò un paio d'ore ».
« Oppure...» disse. « Se vuoi che t'aspetto alzata... Tu torni subito
e ci salutiamo, non ne parliamo piú... Ne riparleremo quando tornerai,
tra.., tre anni ».
« Ma tu sei scema» dissi. « Mettiti a letto. Torno tra un quarto
d'ora, tu vedi di dormire subito ».
« Comprane dieci » disse.
« Come dieci? ».
«Eh...! ».
« Ah » dissi.
Si infilò sotto le coperte, con la faccia verso il muro.
« Ciao » dissi carezzandola. « Dormi ».
« Ciao ».
Per la scala mi accorsi di avere finito i fiammiferi. Tornai indietro
e cercai di ritrovare la cassetta dei « Safety Matches » che avevo visto
prima. Mia sorella pareva che giá dormisse. Presi i fiammiferi e tornai
su, aprii la porta. Attaccata alla chiav[...]

[...]ovare la cassetta dei « Safety Matches » che avevo visto
prima. Mia sorella pareva che giá dormisse. Presi i fiammiferi e tornai
su, aprii la porta. Attaccata alla chiave della porta c'era un'altra chiave,
che doveva essere quella del portone. La provai nel portone prima di
uscire, perché era chiuso. Andava bene.
« Che, sa una farmacia notturna qui vicino? » chiesi a un tizio.
« A piazza San Silvestro » disse. « Non credo che ce ne sia una più
vicino ».
«Sa che or'è?» dissi.
« Le tre ».
LA PORTA 93
A San Silvestro, quando chiesi gli spazzolini, il farmacista mi guardò strano. Lo sentii parlare piano con la cassiera, mentre uscivo. Presi per il Tritone e arrivai al Caffè Notturno, chiesi un caffè
doppio.
«Corretto? » disse. «Mistrà? ».
In quel momento mi ricordai che mia sorella aveva detto di aspettare qualcuno, e poi aveva detto un'altra cosa. « Perché vedi » aveva detto, « credo che là sotto... ».
« Lasci stare » dissi, « ripasso dopo ».
Tornai correndo verso il Pantheon; girai un pezzo, di corsa, prima di ritrovare la[...]

[...]rebbe svegliata, avrebbe avuto paura. Tornai alla cassa dei fiammiferi, ne presi quattro o cinque scatole. Poi andai diretto alla porta; tenendomi con una mano al pavimento cominciai a scendere.
La scala pareva abbastanza solida e non scricchiolava nemmeno. Dopo il quarto scalino dovetti lasciare la presa, in alto, e continuai tenendomi forte ai lati. A un certo punto il piede che spingevo in basso trovò il vuoto, lo scalino era rotto; cercando piú sotto, per trovare l'altro scalino, toccai terra. Sopra la testa, a qualche metro, vedevo il riquadro illuminato della porta.
Aspettai un minuto o due, nel buio, senza muovermi. Non si sentiva nessun rumore, l'umidità era grandissima. Alla fine accesi un fiammifero, e lo tenni alto sopra la testa, finché non si fu consumato. Poi ne accesi un altro. Poi ne accesi un mucchietto insieme e mi girai intorno, senza muovermi dal posto dove stavo. Pensai di risalire subito, perché non c'era altro da vedere: era un pozzo quadrato, con si e no tre metri di lato, completamente vuoto. Le pareti erano se[...]

[...]completamente vuoto. Le pareti erano senza rientranze né aperture, il fondo era di fango e pietre coperte di muffa.
Per urlo scrupolo andai attorno lungo le pareti, accendendo altri fiammiferi; guardai un'altra volta per terra e negli angoli. Poi risalii, badando a non fare rumore. Rientrando chiamai: «Adriana! », perché non s'impaurisse.
94 FRANCO LUCENTINI
Non rispose. Quando fui vicino vidi che dormiva sempre come prima, col respiro appena più pesante. Mi sedetti accanto al letto, aspettando che si svegliasse; poi mi alzai un'altra volta e andai a guardare dietro la tenda, girai un po' per la cantina, guardando i pacchi e le casse. Una cassa era aperta e mezza piena di riviste americane e romanzi; presi una rivista e tornai a sedermi accanto al letto. In quel momento Adriana aprì gli occhi, mi guardò, fece un grande urlo. Saltai sul letto, prendendola per le braccia.
« Adriana » strillai, « amore mio, che c'é, che é stato? Che hai? Tesoro, che hai? Sono io! Di che hai avuto paura? Che hai visto? Non avere paura. Ci sto qui io ».
[...]

[...]ltro cuscino da metterle dietro la testa.
« Aspetta » dissi, « ti prendo un altro cuscino, ti porto qualche cosa da bere ».
«No» disse, «stai qui. Stai qui ».
« Sto qui » dissi. « Non avere paura ».
La tenevo stretta contro il petto e la sentivo che tremava.
« Appòggiati così » dissi, sistemandola con la testa e le spalle appoggiate a me. «Non avere paura ».
Seguitava a tremare. Ogni tanto pareva che si calmasse, poi all'improvviso tremava più forte.
«Mi sono sognata...» disse.
«Non parlare» dissi, «stai calma. Adesso stai calma, tesoro, non parlare».
La camicia le era scesa dalle spalle, la ricoprii. .Le carezzavo le braccia, i capelli, il viso. Masse una mano sulla coperta, cercando la mia. Prendendole la mano pensai a tutta la vita che aveva fatto, alla vita che avevo fatto io. Alla vita che facevamo tutti. Le tenni la mano stretta, senza parlare, mentre lei tremava sempre più piano.
Alla fine si calmò, girò la testa e mi guardò, sorrise.
« Povera me » disse, .« quanto sono stupida. Che sorella stupida che ci hai ».
LA PORTA 95
«Non sei stupida » dissi. « Sei un amore. A tutti gli può succedere
di credersi chi sa che, di volere fare chi sa che, e poi dopo si vede
che non si può fare, che non gli si fa, che é meglio fare come tutti.
Anche a te ti può succedere, hai visto? Queste non sono cose per te...
Tu sei piccola... carina... ».
Si mise a ridere.
« Non sono mica piccola. Sono alta » disse.
« Va bene » dissi, « sei alta. Ma adesso ce ne andiamo via, to[...]

[...]ualcuno che deve entrare...».
« Qualcuno che deve entrare da quella porta? » dissi.
(' Si » disse.
« Ma se là sotto è chiuso » dissi, « se è tutto chiuso. Non l'hai detto
tu che é chiuso? ».
« Si » disse.
« E allora, se é chiuso, chi deve venire! O forse credi che ci sia
già? È qualcuno che ci sta già, là sotto? ».
« Non so » disse. « Non credo che ci sia già ».
« Ma allora chi è? Come può venire? E un mostro? ».
« Si » disse. « Così. Più o meno. Sai, in tre anni, credo che mi
verrà una paura così grande... aspetterò così forte... che qualcuno dovrà
venire, anche se non c'è nessuno, adesso ».
« Uh » dissi baciandola, « scema! ».
« Cosi » dissi, « quando torno, ti trovo a letto con un orribile mo
stro, e magari madre di qualche mostricciattolo ».
Mi guardò ridendo.
96
FRANCO LUCENTINI

« Tu sei sempre cosh » rise. « Con te non si pub parlare. Perché poi dovrebbe essere orribile? Potrebbe essere un bellissimo giovane! ». Giusto » dissi. « Ma allora a che ti serve che sia uno spettro, un mostro? Non ne puoi trovar[...]

[...]endo.
96
FRANCO LUCENTINI

« Tu sei sempre cosh » rise. « Con te non si pub parlare. Perché poi dovrebbe essere orribile? Potrebbe essere un bellissimo giovane! ». Giusto » dissi. « Ma allora a che ti serve che sia uno spettro, un mostro? Non ne puoi trovare uno che non é mostro, senza stare a girare tanto? Senza..., senza stare a... aspettare tanto? ».
Seguitò a ridere e risi io pure, ma ridevo stonato. Lei . se ne accorse e non rise piú. Voltò piano la faccia in sú, con gli occhi azzurri spalancati, guardandomi senza espressione. Respirava appena, con la bocca sotto la mia.
Bestemmiai e mi volli alzare, ma non mi potevo muovere.
H.
Fuori doveva essere giorno, a momenti. Il lume s'era quasi spento.
«Franco, dormi? » disse.
Guardavo il soffito, che non si vedeva quasi piú, le ombre radu
nate agli angoli. Lo specchio dell'armadio luccicava come gli specchi
delle camere mobiliate, la sera, tra gli ultimi sospiri e le lenzuola spie
gazzate, col sudore addosso freddato.
« No » dissi.
« Non avere paura » disse.
« No. Di che? ».
« Che io adesso mi credo... pretendo... ».
« Non ho paura » dissi.
« Vuoi andare via subito? ».
« Non lo so ».
S'era aspettata quella risposta, ma incassò male lo stesso. La sentii
che s'aggrappava alla coperta, all'improvviso. Poi restò ferma, supina.
« Tu lo capisci » disse, « che io adesso devo restare qui? E chia
ro... ades[...]

[...]sa. Un urlo, una crepa, qualche cosa. Qualcuno. Una crepa, alla fine una crepa della terra, lá sotto. È tutta la vita, tutti questi anni, che l'aspetto. Ma fuori non c'è tempo di starci a pensare, no? Fuori ci abbiamo il tempo di farci delle speranze, alte speranze, e allora si ricomincia, non succede niente. Non si arriva mai avanti abbastanza, fuori... Ci abbiamo sempre qualche bella pensata, qualche bella consolazione, e allora non ci abbiamo piú voglia abbastanza di uscire, eh? La porta resta chiusa ».
« Resta chiusa » ripeté. « Se c'è qualcuno, di lá, non entra ».
«Tu credi che c'é qualcuno, di lá? ».
« Credo... Non lo so » disse. « Ci può essere. Ci dovrebbe essere. Mi sento che ci dovrebbe essere. Un'uscita... ci dovrebbe essere. Se no... ». «Perché, se no? ».
« Ah, dio » disse, « se no... ».
«Se no? ».
« Ma é perché nessuno ci ha coraggio » strillò. « Perché nessuno... nemmeno tu. Se credete che non c'è nessuno, perché non ci andate a guardare? Tutto sarebbe meglio, no? Sempre meglio di questi porci, di questa porcheria. O [...]

[...]cese il fornello.
Vuoi che ti preparo qualche cosa, un po' di caffè? » disse.
« No » dissi, « non importa lo prendo fuori ».
Scaldò una tazza di latte per sé, ne bevve meta.
« Andiamo » disse. « Ti accompagno ».
In mezzo alla cantina si fermò, prese di tasca qualche cosa.
« Le chiavi » disse. « Non me le vuoi tenere? ».
Non le risposi. Guardavo il muro, di sbieco. Dovevo averci una faccia astiosa, invelenita per la noia e il sonno.
Senza più guardarmi si avvicinò alla porta del sotterraneo, fece per buttare le chiavi la in fondo.
« Aspetta! » strillai. « E io come esco? ».
Rimase ferma, col braccio piegato. Lentamente, con una smorfia avvilita, arrossi. Fino al collo e ai capelli.
« Che stupida! » disse. « Dio, che stupida. Come non ci pensavo! ». « Ce le puoi buttare dopo » dissi imbarazzato, mentre salivamo le scale.
Ma non sarebbe stato lo stesso, come se ce le avesse buttate davanti a me. Anche l'ultima scena, una scena innocente, le era andata male. Ci aveva fatto un'altra figura da stupida, per giunta, davanti a me.
Se[...]

[...]avvilita, arrossi. Fino al collo e ai capelli.
« Che stupida! » disse. « Dio, che stupida. Come non ci pensavo! ». « Ce le puoi buttare dopo » dissi imbarazzato, mentre salivamo le scale.
Ma non sarebbe stato lo stesso, come se ce le avesse buttate davanti a me. Anche l'ultima scena, una scena innocente, le era andata male. Ci aveva fatto un'altra figura da stupida, per giunta, davanti a me.
Se la pieta che ci avevo per lei fosse stata un po' più grande, appena, di quella che ci avevo per me, allora qualche cosa, forse, si sarebbe potuta davvero rompere... Io l'avrei potuta spaccare, per lei e per me. Ma per un'altra pieta non c'era posto. Ci fu solo un momento, all'ultimo, mentre stava per richiudere la porta. Pensai a tutto il tempo di paura che l'aspettava, fino a quando sarebbe scesa per la scala di legno, per riprendere la chiave... E poi a quando sarebbe risalita, a quando si sarebbe ritrovata un'altra volta nella luce grigia di sopra, come adesso mi trovavo io... Volevo prenderla per la mano, dire, ma non mi mossi. Davanti alla[...]

[...]dopo però trovarono un pretesto. Fu quello distinto, a trovarlo. Chiamò la guardia di nascosto e gli fece vedere che tenevo in mano uno dei pioli per attaccare i panni. Disse che l'avevo staccato dal muro per tirarglielo. Io l'avevo staccato per romperci certo pane secco che m'era rimasto dei giorni prima.
Alla punizione ci restai una decina di giorni e poi mi dovettero passare all'infermeria. Quando tornai al Braccio i due politici non c'erano piú; forse Sua Maestà s'era interessata. C'era uno per truffa e un altro per accertamenti. Quello per truffa ci aveva i parenti che gli portavano da mangiare e ci aveva pure parecchi soldi sul libretto. Quando veniva lo spesino, la mattina, ordinava una quantità di roba, ma non ci dette mai niente. Quell'altro mi faceva un mucchio di domande e dopo qualche giorno andò via. Credo che gli accertamenti non li dovevano fare a lui, ma che lui era venuto a farli a me.
Io ci avevo ancora la febbre di quando era stato alla punizione, ma in infermeria non mi ci vollero più rimandare. Tutto il giorno stav[...]

[...]i parenti che gli portavano da mangiare e ci aveva pure parecchi soldi sul libretto. Quando veniva lo spesino, la mattina, ordinava una quantità di roba, ma non ci dette mai niente. Quell'altro mi faceva un mucchio di domande e dopo qualche giorno andò via. Credo che gli accertamenti non li dovevano fare a lui, ma che lui era venuto a farli a me.
Io ci avevo ancora la febbre di quando era stato alla punizione, ma in infermeria non mi ci vollero più rimandare. Tutto il giorno stavo steso sulla branda e guardavo l'ombra dell'inferriata che camminava sulla parete di sinistra, poi verso le tre passava sulla porta e la sera piano piano, a destra, finiva. La sera, strillava qualcuno dalle finestre dell'altro Braccio: «Scassa, cancelliere », e tutti rispondevano. Poi suonava la campanella e nella cella s'accendeva la lampadina sopra la porta. Quello della truffa piegava bene i calzoni e si metteva a letto. La mattina veniva lo spesino che era ancora buio, apriva lo sportello.
« Giovanotto » chiamava.
Chiamava quell'altro; io, lo sapeva che n[...]

[...] il giorno appresso pensai a Adriana. Alla paura di sopra e a quella di sotto. All'idea che ci aveva avuto lei di andarsi a mettere là sotto. Alla porta che guardava lei e alla porta che guardavo io. Dalla porta che guardavo io adesso, ci entravano gli scopini, il sottocapo, le guardie, il prete, il barbiere; quelli per truffa, per politica, per furto, per ammazzamento. Poi sarebbe cambiata, l'ombra dell'inferriata non ci sarebbe nemmeno passata più, la sera, e ci sarebbe entrata qualche vecchia, qualcuna meno vecchia, ma meno fessa no; qualche altro borghese, militare o prete; qualche amico e parente da farci qualche bella conversazione, tanto da riaggiustarsi i coglioni un momento; qualcuno che sarebbe entrato contento di trovare un amico, ma che poi non avrebbe saputo che dire, nemmeno lui. Alla fine, poi, non sarebbe entrato più nessuno. Ma io non ci avrei avuto la soddisfazione di vederlo.
Dalla porta che guardava Adriana, già adesso nessuno ci entrava più.
« Cara Adriana » scrissi, « ti scrivo a casa nel caso che fossi tornata. Se sei tornata credo che hai fatto male, credo che ci avevi avuta una buona idea, anche senza la paura, anche senza la speranza di qualcuno che doveva venire e di tutta quella faccenda della crepa, della cosa che si poteva rompere. Non mi pare che ci sia un'altra rottura possibile, oltre a quella dei... Pere) non sono più tanto sicuro. Credo che ci avevi
104 FRANCO LUCENTINI
ragione quando dicevi del coraggio, che nessuno ce l'ha. Credo che tu ce l'hai avuto, e pure se sei tornata ce l'hai avuto lo stesso. Credo che se qualcuno si merita qualche cosa, sei tu. Adesso solo ho capito quello che volevi dire, col fatto del mostro. Ma se per te qualcuno verrà, non sarà perché avrai avuto paura. Sara. perché sei come io non t'ho saputo vedere in tempo, perché sei così calma e gentile, così leggera, così an gelo. Oramai, per volerti bene da vicino é tardi. Tu, oramai, per me non ci puoi avere che pieta. Io non so ch[...]

[...]i il cambio, visto che c'ero stato quasi un anno. Mi dettero il foglio di via e mi misero sul treno. « Stai attento a non tornare » dissero. « Hai visto che succede a tornare. E puoi essere contento che t'é andata bene ».
Scesi alla prima stazione e tornai a casa.
« Stai zitta » dissi a mia madre. « Non ti fare sentire. Non si deve sapere che sto qui ».
« Che hai fatto? » disse.
«Sai niente di Adriana? » dissi.
« No » disse. « Non s'è fatta più vedere. Tu che hai fatto? ». «Non é arrivata una lettera mia per Adriana? » dissi.
« No » disse. « Ma perché ti cercano, che hai fatto? ».
« Niente » dissi, « é per quella faccenda della residenza. Per adesso resto qui, ma bisogna stare attenti al portiere ».
Restai a letto una settimana, per vedere di farmi passare la febbre. Ogni volta che suonavano il campanello saltavo. Non avevo paura che fossero i poliziotti, pensavo che poteva essere Adriana. Perché poi la cosa, adesso, non era più così spirituale come s'era messa al principio. Adesso me la sognavo, la notte, che ci stavo a letto. I[...]

[...]a una lettera mia per Adriana? » dissi.
« No » disse. « Ma perché ti cercano, che hai fatto? ».
« Niente » dissi, « é per quella faccenda della residenza. Per adesso resto qui, ma bisogna stare attenti al portiere ».
Restai a letto una settimana, per vedere di farmi passare la febbre. Ogni volta che suonavano il campanello saltavo. Non avevo paura che fossero i poliziotti, pensavo che poteva essere Adriana. Perché poi la cosa, adesso, non era più così spirituale come s'era messa al principio. Adesso me la sognavo, la notte, che ci stavo a letto. Il giorno ci ripensavo. Tutto il giorno e la notte, alla fine, ci stavo a pensare. Ma c'erano di mezzo quelle due porte chiuse. Poi, non sapevo nemmeno se lei stesse ancora là dentro. Poteva essere che se ne fosse andata, senza tornare .a casa. Poteva essere capitata qualche altra cosa.
Non aspettai che la febbre mi fosse passata. Mi alzai una sera verso
LA PORTA 105
le sei, andai in cucina a farmi la barba. Ci avevo le gambe deboli, ma la testa non mi faceva male, anzi mi sentivo leggero. [...]

[...]avevo impazienza. Entrai in un caffè e presi un cognac, poi andai difilato alla casa, entrai nel secondo cortile, davanti alla porta mi fermai senza sapere che fare. La porta era chiusa, come l'avevo lasciata l'anno prima; non c'era nessun segno per capire se Adriana era uscita o no. Tornai sulla strada e mi fermai sul portone a pensare, mi accesi una sigaretta. Dopo tornai e bussai forte con un pezzo di mattone, tre volte. Poi bussai ancora, ma più forte non potevo bussare, sarebbe venuta gente. Aspettai una mezz'ora, con l'orecchio alla porta, ma non si senti nessun rumore. Cercavo di ricordarmi la lunghezza della scala, della cantina, per capire se lei avrebbe potuto sentire o no. Poi ricominciai a bussare ogni tanto, più forte, approfittando del rumore di qualche camion, delle saracinesche che si chiudevano, nella strada. Prima che chiudessero il portone me ne andai. Tornai a casa e mi rimisi a letto.
Due sere dopo stavo un'altra volta appoggiato al portone di quella casa. Pioveva. M'ero portato delle vecchie chiavi, del filo di ferro, per vedere se mi riusciva dì aprire, ma non s'era aperto. Avevo bussato ancora, ma nessuno aveva risposto. Poi ero andato girando un po' per le strade finché non aveva cominciato a piovere. Adesso stavo riparato sotto il portone e guardavo il selciato bagnato, la gente che pas[...]

[...]dere se mi riusciva dì aprire, ma non s'era aperto. Avevo bussato ancora, ma nessuno aveva risposto. Poi ero andato girando un po' per le strade finché non aveva cominciato a piovere. Adesso stavo riparato sotto il portone e guardavo il selciato bagnato, la gente che passava con gli ombrelli. Di fronte al portone c'era una macelleria, si vedevano i manzi appesi, la segatura per terra, una che stava alla cassa e ogni tanto rispondeva al telefono. Più in lá c'era una latteria, usci una ragazza in grembiule, senza ombrello e corse rasente al muro fino alla macelleria. Aveva cominciato a piovere così forte che le gocce rimbalzavano dentro al portone; mi tirai più indietro. Attraverso l'acqua, il negozio di fronte non si vedeva quasi piú, la ragazza stava sulla porta
106 FRANCO LUCENTINI
aspettando che la pioggia rallentasse. Poi traversò la strada di corsa, infilò a testa bassa il portone, si fermò di colpo.
« Sei tu! » disse.
Restai a guardarla nel buio del portone, senza potere parlare. Pareva dimagrita e ci aveva tutti i capelli bagnati, incollati alla faccia.
« Sei tu » disse. « Come stai? Franco. Che... Come stai, tu? Franco? Eh... Bene. Io... Franco ».
Portava un grembiule bianco legato sul davanti, macchiato, con una blusetta stinta. Teneva in mano un pacchetto involtato in carta di giornale.
«Franco, Franco » [...]

[...]egato sul davanti, macchiato, con una blusetta stinta. Teneva in mano un pacchetto involtato in carta di giornale.
«Franco, Franco » diceva. « Franco ».
Mi prese un braccio e lo stringeva forte, tirando la manica. Inghiottivo e non potevo parlare. Le carezzai la mano che teneva il pacchetto, fredda e bagnata, le aggiustai la manica del grembiule, che s'era appiccicata intorno al polso. Stesi la mano per carezzarle la faccia e lei si accostò di piú, mi strinse convulsa mentre le baciavo la bocca fredda, nel buio, con un tuono nelle orecchie sempre più vicino, che stava per scoppiare.
Ma lentamente si staccò e si passò una mano sulle labbra. Poi le braccia le ricaddero lungo il corpo e rimase ferma, guardando il muro dietro a me.
«Amore mio» dissi, ma la voce non suonò.
«Adriana» dissi, e le presi una mano, ma lei la ritirò.
« T'avevo mandato una lettera » dissi. « Una lettera dove ti dicevo che io, adesso... ti volevo bene, ma tu... Credevo che tu» dicevo, adesso invece non era più come... Era finito.
Guardava sempre il muro, aggiustando la carta bagnata del pacchetto, che si rompeva.
« Si » disse. « È finito ».
« Ho freddo » disse. « Ero uscita un momento, così in grembiule... ». « Così» dissi, « adesso esci? Non stai più sempre lá sotto? ».
« Ero andata a comprare qualche ovo » disse. « Quelle fresche sono meglio di quelle in polvere che ci ho giù ».
« Io ero venuto l'altro ieri » dissi. « Ho bussato ma non hai sentito ». « Ma andiamo giù » dissi. « Non prendere freddo ».
« È che giù... » disse.
LA PORTA 107
Girava nelle mani il pacchetto delle uova, pareva imbarazzata.
« È che giù ci ho gente » disse. « Non so... Se vuoi venire... ».
Mi appoggiai al muro.
« Chi ci hai? Uno? » dissi.
« No » disse. « Sai, qualcuno, delle conoscenze. È venuto un ame
ricano... No, non per quello che pensi tu... Non lo [...]

[...]o ieri » dissi. « Ho bussato ma non hai sentito ». « Ma andiamo giù » dissi. « Non prendere freddo ».
« È che giù... » disse.
LA PORTA 107
Girava nelle mani il pacchetto delle uova, pareva imbarazzata.
« È che giù ci ho gente » disse. « Non so... Se vuoi venire... ».
Mi appoggiai al muro.
« Chi ci hai? Uno? » dissi.
« No » disse. « Sai, qualcuno, delle conoscenze. È venuto un ame
ricano... No, non per quello che pensi tu... Non lo faccio più, adesso.
Ma poi ci ho una donna che fa la pulizia, mi lava un po' di roba, e c'è
qualche altra persona, si sta un po' a parlare... ».
« Per me » dissi, « anche se ci hai un americano... posso venire giù
un momenta... Stiamo un po' a sedere... ».
Si avviò per la scala della cantina, dove adesso ci avevano messo un
lume. Io scesi dietro a lei.
« Così la porta... » dissi. « Quello che doveva entrare...? ».
« Ah..., ah, niente » disse. « Niente ».
L'americano era un sergente inglese, la stava aspettando in fondo
alla scala.
« Allò » disse.
« Giò » disse mia sorella, « questo si chiama[...]

[...]ebbe riscesa. Al principio della seconda rampa mi fermai, la presi per le braccia e la misi contro il muro, 'scrollandola.
«Adriana» dissi. «Che é successo? Che t'è successo? Che hai fatto? Come l'hai potuto fare? ».
« Ahi » disse. «Non mi fare male ».
Guardandola adesso vidi come era dimagrita, come era ridotta, con gli occhi annebbiati e la pelle della faccia senza colore. I capelli pare
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vano grigi, la voce non si riconosceva più. La paura doveva essere cresciuta, lá sotto, mentre lei non se ne accorgeva. Doveva essere salita su da quel pozzo mentre lei credeva ancora di resisterci, di potersi difendere. Poi doveva averla presa all'improvviso e sbattuta, sfasciata del tutto. M'ero immaginato una cosa così fino dal principio. Ma non m'ero immaginato che lei al momento dello sfascio avrebbe chiamato il prete... Il prete e quegli altri... Adesso ci stava in mezzo. Lei, che per quanto avesse fatto e girato, in una merda simile non c'era stata mai.
« Adriana », dissi carezzandola. « È stata la paura, no? E per la paura ch[...]

[...]evo dire che io... si, hai ragione, non sono meglio, forse non sono meglio. Ma se ti ricordi come eri tu quando ti ho lasciata qui, quando aspettavi qualcuno da quella porta... Tu, allora, eri meglio. Aspettare che qualcuno entrasse di là sotto era da pazzi, forse era pure stupido, ma era sempre meglio di adesso, di come sei ridotta adesso... tu ».
Ricominciai a salire e la lasciai in basso che rideva. Mano mano che saliva era una risata sempre più forte, quando fui in cima era un urlo che riempiva tutta la scala. Poi fini e sentii la porta che si richiuse.
Per la strada faceva freddo, tutti i negozi erano chiusi. Camminai un pezzo per le strade intorno al Pantheon, poi mi pare che voltai per l'Argentina e andai verso il fiume. Poi tornai indietro e non so dove
110 FRANCO LUCENTINI
andai, fino quasi alla mattina. Al primo caffè che trovai aperto entrai, chiesi un caffè doppio.
Mi accorsi che era il Caffè Notturno quando vidi quello appoggiato al banco che si alzava e mi veniva incontro.
« A questo, il caffè glie lo diamo noi » diss[...]

[...]roba tua se la sono spartita questi quattro, no? ».
Mia sorella non disse niente. Guardava da una parte e 'cercava di liberare la mano. Il prete, quando vide che lei stava zitta, con uno strattone si liberò e si alzò in piedi.
« Se lei crede di doverci rivolgere degli appunti per quel che riguarda la distribuzione » disse, « può esaminare il registro e parlare liberamente con tutti i nostri assistiti. La invito, in ogni modo, a valersi di modi più civili. Per ogni altra cosa, se é parente dell'Adriana, può rivolgersi qui al signor Commissario ».
LA PORTA 111
Niente da dire, l'avevano messa in mezzo per bene. Il signor Commissario era uno di quegli altri tre.
«A disposizione» disse. «Vicecommissario di polizia Borino. Lei non mi sembra una faccia nuova ».
« Se é per la questione della residenza » dissi, « non vi credete di mettermi paura. Sulla lista di quelli da rimpatriare non ci sto più».
« Sulla lista delle persone per bene » disse alzandosi e allungandomi due schiaffi, « ancora "non ci stai ».
Adriana approfittò dello scatto [...]

[...]civili. Per ogni altra cosa, se é parente dell'Adriana, può rivolgersi qui al signor Commissario ».
LA PORTA 111
Niente da dire, l'avevano messa in mezzo per bene. Il signor Commissario era uno di quegli altri tre.
«A disposizione» disse. «Vicecommissario di polizia Borino. Lei non mi sembra una faccia nuova ».
« Se é per la questione della residenza » dissi, « non vi credete di mettermi paura. Sulla lista di quelli da rimpatriare non ci sto più».
« Sulla lista delle persone per bene » disse alzandosi e allungandomi due schiaffi, « ancora "non ci stai ».
Adriana approfittò dello scatto che feci e tirò via la mano, corse dall'altra parte della cantina. Altri due mi tennero per le spalle e il dottor Micheli, che s'era alzato un'altra volta per scappare, si rimise a sedere.
« Questo resta a disposizione per gli accertamenti » disse il commissario a quelli che mi tenevano.
Disse il prete: «Sia indulgente, sa, signor Commissario. Se é per quello che ha fatto a me, che per poco mi strozzava, e credo che l'intenzione di strozzarmi veram[...]

[...]ue mi tennero per le spalle e il dottor Micheli, che s'era alzato un'altra volta per scappare, si rimise a sedere.
« Questo resta a disposizione per gli accertamenti » disse il commissario a quelli che mi tenevano.
Disse il prete: «Sia indulgente, sa, signor Commissario. Se é per quello che ha fatto a me, che per poco mi strozzava, e credo che l'intenzione di strozzarmi veramente ci fosse, gli perdono di cuore. Quanti mai, sapesse, anche tra i più sciagurati, come questo, avrebbero diritto più alla nostra compassione che alla nostra giustizia! ».
« Ma in questo modo » disse il dottor Micheli, « lei, Padre, viene a giustificare i delinquenti! ».
« Ah, no certo, caro dottore » disse il prete. «In questo modo, io vorrei ricordare che la carità si deve esercitare anche con i discoli! La stessa Chiesa, del resto... Ma non vorrei tediarla con argomentazioni filosofiche! ».
« No, continui Padre » disse il dottor Micheli. « L'argomento mi interessa profondamente ».
Venne davanti al tavolo il sergente italiano e salute,.
« Sono le sette » disse. « Faccio distribuire il latte? ».
« Si,[...]

[...]disse il dottor Micheli. « L'argomento mi interessa profondamente ».
Venne davanti al tavolo il sergente italiano e salute,.
« Sono le sette » disse. « Faccio distribuire il latte? ».
« Si, ma mi raccomando » disse il prete, « il massimo ordine, ché non abbiano a ripetersi incidenti ».
«Non é un affare da nulla» continuò sorridendo rivolto al corn missario, «tenere a bada tutti questi figlioli! Ma sono tutti buoni figlioli, mi creda, anche i più discoli, in fondo in fondo. E poi c'è anche delle gran brave persone, sa ».
112 FRANCO LUCENTINI
« Ah, si » disse quello, intenerito. « Tu » disse a me, « adesso vatti a mettere in fila per il latte. Poi ci avremo tempo di discorrere ».
« Sergente », chiamò, «dài un gavettino pure a questo ».
Il sergente mi mise in mano una scatoletta di carne vuota, con una galletta.
« Stai qui in fila » disse.
« Allineàti! » disse.
« Anche le donne! » disse alla ragazza col pettone, che oramai stava pure lei coi proletari e cercava di passare avanti come se ci avesse avuto ancora qualche diritto.
Un[...]

[...].. Beh, loro lo sai come sono... Prima mangiavo a tavola, fino a poco tempo fa. Adesso mi devo mettere in fila pure io, per il latte. Ma tanto che gli fa, no? ».
« Si» dissi. « Adesso però senti, amore, vieni un momento su. Vieni, tesoro, andiamo un momento da... Stai così magra, sbattuta... Ti
LA PORTA 113
vorrei portare da un medico, uno che conosco... Ti vorrei fare vedere... ». « No » disse. « Non importa... Non m'importa... Non m'importa più di niente... Ci avevo sperato, sai?... Adesso é finito, tutto... Ci avevo sperato sul serio, tanto tempo, che di .là sotto... ».
Restò con la galletta inzuppata che le sgocciolava sul grembiule, già pieno di macchie, a guardare fisso un punto dietro a me. Mi voltai e vidi che guardava la porta del pozzo, in mezzo alla parete di fronte.
« Adriana » dissi, « amore mio, vieni via. Adesso non pensare più a... Non pensare a quello che avevi sperato. Non c'era niente da sperare, lo sapevi anche tu. Lo sapevamo già tutti che da quella porta non ci sarebbe entrato nessuno, mai ».
Con la bocca aperta, bagnata di latte agli angoli, mi stette a guardare fisso, un minuto.
« Ma tutti questi... » disse, « tutti questi... DA DOVE CREDI... TU... CHE SONO ENTRATI ? ».
Da un angolo della bocca il latte le rotolò sul mento, cadde sul grembiule macchiato.
FRANCO LUCENTINI



da Massimo Mila, L'antico e il progresso nel carteggio tra Verdi e Boito in KBD-Periodici: Belfagor 1984 - 3 - 31 - numero 2

Brano: [...]azzo Marchi a Parma. Si trattava di 141 lettere.

Altre lettere di Verdi a Boito, precisamente trentuno, vennero all’istituto dal lascito del musicologo inglese Frank Walker, molto legato all’istituto stesso, tanto che dopo la sua morte il fratello consegnò all’istituto una cassa delle sue carte. Essa conteneva tra l’altro e qui mi servo delle parole di Mario Medici nella Prefazione « un notes di appunti di mano di Piero Nardi, come dire del più autorevole biografo di Boito, e fogli dattiloscritti, sempre provenienti dal Nardi, relativi a testi di lettere e dispacci indirizzati da Verdi a Boito ». Sono per lo più documenti brevi,152

MASSIMO MILA

d’importanza relativamente minore, ma « attendibili senz’ombra di dubbio » — sono parole di Mario Medici « ed i cui originali sembrano essersi volatilizzati ».

Infine due lettere di Verdi provengono dall’archivio di Sant’Agata dove se ne conserva l’autografo (forse una brutta copia?), e due provengono da altre fonti.

Restava, naturalmente, da ripristinare l’altra voce del dialogo epistolare. Le lettere di Boito a Verdi — salvo due i cui originali si trovano, stranamente, nella Donazione Albertini — sono conservate negli archivi di Sant’Agata, e l[...]

[...]ii un libretto dell’Amleto\ ed a proposito entro di botto in un Gran progettoW... eh'Ella sa ch’io rumino peggio di un bue!!... Dunque Ella mi fece motto due o tre volte del Nerone... e vidi che questo soggetto non le spiaceva.

Ieri Boito fu da me, ed io pumfl sparai la cannonata: Boito mi domandò una notte di riflessione, e stamane fu qui, e si trattenne lungamente meco di questo affare. La conclusione si è che Boito si riputerebbe l’uomo il più felice.154

MASSIMO MILA

il più fortunato se potesse scrivere il libretto del Nerone per Lei: e rinuncerebbe subito e con piacere all’idea di fare la musica (prefazione, pag. xxvi).

Si affaccia qui il primo esempio di quella straordinaria devozione di Boito verso il maestro, spinta fino airautoannientamento, che non sarebbe poi mai venuta meno nei venti anni della loro collaborazione. E stranamente Verdi, che più tardi vedremo scrupolosissimo verso i diritti del collega, questa volta non montò in cattedra di correttezza, non ricusò l’offerta generosa, ma in due lettere del 28 e del 30 gennaio tergiversò. « Non posso oggi rispondervi sull’affare Nerone!! Non ho un minuto da perdere. Gran progetto, voi dite! verissimo, ma è realizzabile? » (prefazione, pag. xxvi). E poi (mentre Ricordi assicurava: « Boito, sotto la di Lei direzione, farebbe bene, molto bene »): « Eccomi a voi pel Nerone. È inutile che io ripeta quanto io ami questo soggetto. È inutile altresì che aggiunga quanto mi sarebbe grato aver a [...]

[...]sarebbe grato aver a collaborare un giovine poeta, di cui ho avuto anche ultimamente, in quest 'Amleto, occasione di ammirare il moltissimo talento » (si trattava del libretto per VAmleto di Faccio).

« Ma voi conoscete abbastanza bene le cose mie, ed i miei impegni... Non ho il coraggio di dire: facciamo, né oso rinunciare a così bel progetto. Ma ditemi, caro Giulio, non potremmo lasciare sospeso per qualche tempo questo affare, e riprenderlo più tardi? » (prefazione, pag. xxvixxvn).

Non se ne fece nulla, ma intanto il grande ostacolo era rimosso. Otto anni più tardi Ricordi torna alla carica col nuovo progetto di Otello, probabilmente mettendo sotto Boito con una certa brutalità d’uomo di affari, senza nemmeno essere ben sicuro che Verdi fosse d’accordo. Certo è che nell’estate 1879 Boito informava ripetutamente il Tornaghi, uomo di fiducia di Ricordi, dei rapidi progressi nella stesura del libretto. « Dirai a Giulio che sto fabricando il ciocolatte » (prefazione, pag. xxvn). E il 24 agosto: « Domani o posdomani affronterò i primi versi dell’ultimo Atto. Tutto sarà finito in tempo » (ibidem). E un mese più tardi: « Se io non consegno a Giulio quest[...]

[...]a certa brutalità d’uomo di affari, senza nemmeno essere ben sicuro che Verdi fosse d’accordo. Certo è che nell’estate 1879 Boito informava ripetutamente il Tornaghi, uomo di fiducia di Ricordi, dei rapidi progressi nella stesura del libretto. « Dirai a Giulio che sto fabricando il ciocolatte » (prefazione, pag. xxvn). E il 24 agosto: « Domani o posdomani affronterò i primi versi dell’ultimo Atto. Tutto sarà finito in tempo » (ibidem). E un mese più tardi: « Se io non consegno a Giulio questa settimana Desdemona strozzata temo ch’egli strozzi me » (prefazione, pag. xxvm).

Quando da questa parte fu sicuro del fatto suo, Ricordi chiese senz’altro a Verdi di poter venire a Sant’Agata in compagnia del poeta, per porre le basi dell’affare. Questa volta sì che Verdi si trincerò dietro un reticolato di precauzioni, di prudenza e di discrezione, e così facendo ci fornì, tra l’altro, la vera istoria del primo germe di Otello. Ecco una lettera, datata 4 agosto 1879 per uno dei soliti lapsus cronologici di Verdi, ma da posticipare almeno al 4 se[...]

[...]i prima che nascano pettegolezzi e disgusti. A mio avviso, il miglior partito, (se lo credete e conviene a Boito) è quello di mandarmi il Poema finito, affinché io lo possa leggere, e manifestare con calma la mia opinione senza che questa impegni nissuna delle parti.

Una volta appianate queste difficoltà alquanto spinose sarò felicissimo di vedervi arrivare qui con Boito (prefazione, pag. xxvii).

Che la lettera sia da riportare a ottobre, piuttosto che a settembre, pare convalidarlo anche una lunga lettera di Ricordi a Verdi, il 5 settembre, che rispecchia uno stadio non ancora cosi avanzato delle trattative. Con molti salamelecchi l’editore indugia ancora a persuadere il maestro dei sentimenti di devozione che quei giovani scapestrati Boito e Faccio

nutrono per lui. « So, se la memoria non mi falla, che Boito ebbe qualche torto verso di lei; ma carattere nervoso, bizzarro, scommetto che non seppe di commetterlo, o non trovò mai modo di rimediarvi ». Adesso, assicura Ricordi, è tutto diverso: « Nei frequenti nostri ritrovi Bo[...]

[...], bizzarro, scommetto che non seppe di commetterlo, o non trovò mai modo di rimediarvi ». Adesso, assicura Ricordi, è tutto diverso: « Nei frequenti nostri ritrovi Boito parlò sempre di Verdi con venerazione ed entusiasmo; se altrimenti, non mi sarebbe amico ». Non solo, ma quando vengono i due compagnoni, Boito e Faccio, nel suo ufficio dove campeggia un grande ritratto di Verdi, lo sogguardano esclamando: « Ma e quello li, proprio non scriverà più? » (prefazione, pag. xxvm).

Le fatiche, un poco untuose, di Ricordi andarono a buon porto:156

MASSIMO MILA

Questa camicia di Nesso dell’editore mi mette sempre in una ambigua posizione!!... poiché per un sentimento di delicatezza temo sempre ch’Ella possa credere che sia Vaffarista che parla!!... e ciò mi ripugna. Certo sarebbe soverchia ingenuità il dirle che un’opera di Verdi non sia una vera fortuna materialmente parlando!!... ma questa idea è cento volte sorpassata e per così dire oscurata dalla immensa indicibile emozione che mi dà il pensiero di un lavoro che renderà sempre pi[...]

[...]ditore mi mette sempre in una ambigua posizione!!... poiché per un sentimento di delicatezza temo sempre ch’Ella possa credere che sia Vaffarista che parla!!... e ciò mi ripugna. Certo sarebbe soverchia ingenuità il dirle che un’opera di Verdi non sia una vera fortuna materialmente parlando!!... ma questa idea è cento volte sorpassata e per così dire oscurata dalla immensa indicibile emozione che mi dà il pensiero di un lavoro che renderà sempre più glorioso, s’è possibile, il di lei nome, e farà risplendere di nuova luce quella carissima Arte italiana (ibidem).

Verdi conosceva bene i suoi polli, ossia i suoi editori, italiani e francesi, ed era l’ultima persona a lasciarsi abbagliare da simili sparate, ma questa volta abbassò prudentemente qualcuna delle sue barriere difensive. Il 10 novembre 1879 accusava pacatamente ricevuta del libretto a Ricordi. « Ricevo in questo momento il ciocolatte. Lo leggerò stasera, perché ora ho la testa imbrogliata d’affari » (prefazione, pag. xxix).

Poi si chiuse nel mistero di un lungo silenzio, al[...]

[...]i a Ricordi, volta a ritardare la decisiva visita di Boito, tanto patrocinata da Ricordi, illustra bene la situazione:

Ella sa, come avvenne l’affare per questo perfido Jago. Si può dire che Verdi è entrato alla cieca e senza volerlo in questa specie di rete. Una cosa ne ha chiamata un’altra e da un niente, da una semplice parola lanciata col bicchiere dell’allegria alla mano, è nato un libretto. Verdi lo ha preso, e benché senza impegno l’ho più volte sentito dire, non senza malumore; Io mi lego troppo

— le cose vanno troppo avanti ed assolutamente non voglio esser costretto a fare, quello che non vorrei, etc. etc. (note alla Lettera 2).

(Si noti, incidentalmente, in questa lettera l’espressione « da una semplice parola lanciata col bicchiere dell’allegria alla mano ». Può darsi che sia una sopravvivenza inconscia. Ma Giuseppina era abbastanza donna e abbastanza malignetta per non ricordarsi che il famigerato brindisi di Boito s’intitolava: Ode saffica col bicchiere alla mano).

In realtà, e sebbene Giuseppina esorti a « las[...]

[...]lmente, in questa lettera l’espressione « da una semplice parola lanciata col bicchiere dell’allegria alla mano ». Può darsi che sia una sopravvivenza inconscia. Ma Giuseppina era abbastanza donna e abbastanza malignetta per non ricordarsi che il famigerato brindisi di Boito s’intitolava: Ode saffica col bicchiere alla mano).

In realtà, e sebbene Giuseppina esorti a « lasciare, almeno pel momento, le cose come sono, facendo intorno al Moro il più gran silenzio possibile », la prima lettera del carteggio introduce già in medias res. La progettazione del dramma occupa interamente lo spirito del compositore,l’antico e il progresso nel carteggio tra verdi e boito

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la cui attenzione si appunta sul finale dell’Atto ni, vero punctum dolens dell’opera, come Boito aveva riconosciuto in una lettera a Ricordi, e da questi poi riferita, l’8 novembre 1879, alla moglie di Verdi: « C’è ancora il terzetto dell’Atto 3, pezzo capitale, che mi fa disperare. Di tanto in tanto lo abbandono per mandare avanti qualche altra scena, poi ritorno al t[...]

[...] e il progresso nel carteggio tra verdi e boito

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la cui attenzione si appunta sul finale dell’Atto ni, vero punctum dolens dell’opera, come Boito aveva riconosciuto in una lettera a Ricordi, e da questi poi riferita, l’8 novembre 1879, alla moglie di Verdi: « C’è ancora il terzetto dell’Atto 3, pezzo capitale, che mi fa disperare. Di tanto in tanto lo abbandono per mandare avanti qualche altra scena, poi ritorno al terzetto e lo ritrovo più arcigno che mai! » (prefazione, pag. xxix).

Sono cinque le lettere, dal 15 agosto al 2 dicembre 1880, in cui si sviluppa il confronto di librettista e compositore su questo finale terzo di Otello. Poi subentra il progetto di rifacimento del Simon Boccanegra, che occupa 24 lettere, da una lunghissima di Boito del 6 dicembre, fino al 15 febbraio 1881. Seguono alcune lettere d’argomento vario, tra cui l’opposizione di Verdi ad avere il proprio busto nel ridotto della Scala e la machiavellica sottigliezza delle sue argomentazioni per non contribuire di tasca propria a quello di Bellini, quindi[...]

[...]risi dell’aprile 1884, quando Boito, a Napoli, anche qui in un banchetto d’artisti, s’era forse lasciato scappare qualche parola imprudente, oppure era stato frainteso dal corrispondente del giornale « Roma », che gli attribuì il rammarico di non poter musicare lui stesso il Jago. Verdi, venutone a conoscenza, incaricò Franco Faccio di dire a Boito « che io, senz’ombra di risentimento, senza rancore di sorta gli rendo intatto il suo manoscritto. Più ancora, essendo quel libretto di mia proprietà, glielo offro in dono qualora egli intenda musicarlo » (note alla Lettera 46).

La lunga e un po’ contorta lettera di scuse che Boito gli rivolse è documento commovente della sua devozione. Assicura il maestro d’avere scritto questo libretto « solo per la gioja di vederlo riprendere la penna per causa mia, per la gloria di esserle compagno di lavoro per l’ambizione di sentire il mio nome accoppiato al suo ». Quasi antiveggendo e confutando in anticipo certe illazioni critiche dei giorni nostri, che vorrebbero attribuire all’influenza di Boito u[...]

[...]nteramente propizia, sulla natura artistica del maestro, sulla sua spontaneità, Boito precisa: « Se io ho saputo intuire la potente musicalità della tragedia Schakespeariana [sic], che prima non sentivo, e se l’ho potuta dimostrare nei fatti nel mio libretto gli è perché mi son messo nel punto di vista dell’arte Verdiana, gli è perché ho sentito scrivendo quei versi ciò ch’ella avrebbe sentito illustrandoli con quell’altro linguaggio mille volte più intimo e più possente, il suono ». Per convincere Verdi con la sua appassionata protesta Boito non esita a rilasciare una commovente confessione della propria impotenza creativa.158

MASSIMO MILA

Maestro, ciò che Lei non può sospettare è l’ironia che per me pareva contenuta in quell’offerta senza sua colpa. Veda: già da sette od otto anni forse lavoro al Nerone (metta il forse dove vuol Lei, attaccato alla parola anni o alla parola lavoro) vivo sotto quell’incubo; nei giorni che non lavoro passo le giornate a darmi del pigro, nei giorni che lavoro mi dò dell’asino e così scorre la vita e continuo a [...]

[...]e ne sono terribilmente innamorato e nessun altro soggetto al mondo, neanche l’Otello di Schakespeare [sic], potrebbe distogliermi dal mio tema (...). Giudichi ora Lei se con questa ostinazione potevo accettare l’offerta sua. Ma per carità Lei non abbandoni l’Otello, non lo abbandoni, le è predestinato, lo faccia, aveva già incominciato a lavorare ed io ero già tutto confortato e speravo già di vederlo, in un giorno non lontano, finito.

Lei è più sano di me, più forte di me, abbiamo fatto la prova del braccio e il mio piegava sotto il suo, la sua vita è tranquilla e serena, ripigli la penna e mi scriva presto: Caro Boito fatemi il piacere di mutare questi versi ecc. ecc. ed io li muterò subito con gioja e saprò lavorare per Lei, io che non so lavorare per me, perché Lei vive nella vita vera e reale dell’Arte io nel mondo delle allucinazioni (Lettera 46).

Verdi accettò le scuse, con una certa degnazione.

Lietissimo di questa nostra spiegazione, che era però meglio fosse avvenuta quando tornaste da Napoli. Ripeto anch’io le vostre parole, per ciò[...]

[...]sse subito per Jago « una specie di Credo scellerato (...) in un metro rotto e non simetrico » (Lettera 48), e Verdi lo ringraziasse a volta di corriere (« Bellissimo questo credo: potentissimo e shaesperiano [sic] in tutto »), tuttavia continua ancora nel maestro il distacco che da tre anni gli aveva, come diceva lui, irrigidita la mano. « Intanto è bene lasciare un po’ tranquillo quest’Otello, che è anch’esso nervoso, come siamo Noi; Voi forse più di me » (Lettera 49).

Queste soste che ritardano la composizione di Otello non vanno però attribuite come spesso si ritiene a stanchezza fisica connessa con la vecchiaia. Verdi eXYOtello non lavora a spizzico, né a piccole dosi, come lui stesso amava dare ad intendere e come in effetti avverrà per il Falstaff. S’interrompe talvolta, a lungo, per cause esterne. Quando lavora, la sua applicazione è feroce, tale quale come negli « anni di galera ». Boito nel’antico e il progresso nel carteggio tra verdi e boito

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era impressionato: « Giulio mi disse che Lei aveva già quasi terminat[...]

[...] fine d’aprile, e il 10 settembre 1885 scriveva: «Da che sono qui (ho rossore a dirlo) non ho fatto nulla! Un po’ la campagna, i bagni, il caldo eccessivo e... diciamolo pure, la mia inimmaginabile poltroneria hanno posto ostacolo» (Lettera 59). Ma neanche un mese dopo poteva annunciare: « Ho finito il Quart’Atto e respiro! » (Lettera 60). (Era andato avanti con l’ultimo Atto, saltando sul tormentatissimo terzo.) La composizione non s’interruppe più (« Io non ho finito l’Opera », Lettera 71, 21 gennaio 1886; « Io vado avanti molto lentamente, ma vado », Lettera 74, 8 maggio), fino al fatidico « È finito! » della Lettera 86, 1° novembre 1886. Le lettere ne accompagnano il progresso, con le lacune, ovviamente, delle visite di Boito, da Nervi a Genova nella stagione invernale, e da Milano a Sant’Agata nel resto dell’anno. Qualche volta accadeva pure che Verdi dovesse recarsi a Milano, ed allora s’intratteneva col suo eccezionale librettista.

Comincia con la Lettera 118 la storia del Falstaff. Una lettera scritta da Montecatini il 16 lugl[...]

[...]scorso anno 1889 », durante una presenza di Verdi a Milano. « Parlando con Arrigo Boito appunto dell’opera comica, questi afferrò la palla al balzo e propose a Verdi un soggetto, e non solo propose, ma con rapidità meravigliosa si può dire che in poche ore abbozzò e presentò al maestro una tela: Falstaff» (note alla Lettera 118).

Questa volta Verdi, a cui l’intenzione di scrivere un Falstaff su libretto di Ghislanzoni era già stata affibbiata più di vent’anni prima, tra il Don160

MASSIMO MILA

Carlo e il rifacimento della Forza del destino, e lui aveva smentito all’amico Arrivabene: « Non scrivo Falstaff », questa volta Verdi si accostò al lavoro con entusiasmo quasi impaziente, basti dire che il giorno dopo ritornava già sull’argomento con una nuova lettera destinata ad esaurire formalmente le solite perplessità, i soliti se e ma, « Voi nel tracciare Falstaff avete mai pensato alla cifra enorme dei miei anni? », e poi lo scrupolo che magari Boito, scrivendo Falstaff, dovesse « distrarre la mente » dal suo ormai mitico Nerone.
[...]

[...] avvicinava all’ottantina: « E poi... Finirò io quello che mi resta a fare?... In questo momento mi sento così stanco, così svogliato che mi pare impossibile che si possa arrivare a finire il lavoro che resta a fare! (...) Un poco di riposo, per ora, poi vedremo » (Lettera 194).

Nelle ultime lettere del carteggio Verdi si diffonde a lungo sulla composizione dei Pezzi sacri, per i quali Boito gli fornisce una stimolante consulenza culturale, e più tardi un’assistenza di persona per sorvegliare l’esecuzione a Parigi, ma le lettere di Boito, impegnatissimo nella divorante relazione con Eleonora Duse, e sempre più sprofondato nell’incerto lavoro al Nerone, si diradano. S’infittiscono, come appelli, i brevi biglietti di Verdi, rimasto solo nella deserta Sant’Agata dopo la morte di Giuseppina, e un po’ impedito nella locomozione. Facciamo un affare, gli propone Boito: « Lei mi presta la sua testa io le regalo le mie gambe » (Lettera 285). Veramente, pur essendosi spesso lagnato (« io che sono mezzo sordo, mezzo cieco, che parlo a stento e che non posso occuparmi in nissun modo. Più altri incomodi che Voi sapete », Lettera 251), è solo in un biglietto del 4 agosto 1898, che Verdi, a 85 anni, se ne esce in[...]

[...]rto lavoro al Nerone, si diradano. S’infittiscono, come appelli, i brevi biglietti di Verdi, rimasto solo nella deserta Sant’Agata dopo la morte di Giuseppina, e un po’ impedito nella locomozione. Facciamo un affare, gli propone Boito: « Lei mi presta la sua testa io le regalo le mie gambe » (Lettera 285). Veramente, pur essendosi spesso lagnato (« io che sono mezzo sordo, mezzo cieco, che parlo a stento e che non posso occuparmi in nissun modo. Più altri incomodi che Voi sapete », Lettera 251), è solo in un biglietto del 4 agosto 1898, che Verdi, a 85 anni, se ne esce in questa sorprendente ammissione: « Ma ora da un anno circa sento il peso dell’età! » (Lettera 271).

Il ricordo del grande lavoro compiuto stava alle spalle d’entrambi come un paradiso perduto. « Caro Maestro », sta scritto nell’ultima lettera di Boito, « era meglio quando si lavorava insieme, Lei col vecchio Shakespeare e me; andavamo così d’accordo tutti due anzi tutti tre! » (Lettera 289). Era l’ottobre 1900. Boito aveva imparato a scrivere Shakespeare correttamente. A Verdi non restavano che tre mesi di vita.

Si potrebbe indugiare lungamente a rintracciare, attraverso le lettere, la pittoresca storia esterna dei rapporti culturali ed umani tra i due amici, e dei capolavori nati dalla loro collaborazione. Ma da un punto [...]

[...]Lei col vecchio Shakespeare e me; andavamo così d’accordo tutti due anzi tutti tre! » (Lettera 289). Era l’ottobre 1900. Boito aveva imparato a scrivere Shakespeare correttamente. A Verdi non restavano che tre mesi di vita.

Si potrebbe indugiare lungamente a rintracciare, attraverso le lettere, la pittoresca storia esterna dei rapporti culturali ed umani tra i due amici, e dei capolavori nati dalla loro collaborazione. Ma da un punto di vista più propriamente critico, quali prospettive apre questa pubblicazione?

Si tenga presente che non si tratta, per lo più, di inediti. Su 301 lettere sono totalmente inedite 81, e non delle più importanti, salvo una mezza dozzina. Spesso sono biglietti brevi degli ultimi anni, qualche volta162

MASSIMO MILA

dispacci telegrafici. Le altre, quelle più significative, sono note in tutto o in parte, o perché pubblicate isolatamente, o perché citate parzialmente — sbocconcellate, per così dire — dagli studiosi che hanno avuto la fortuna di prenderne conoscenza. Non c’è quindi da aspettarsi capovolgimenti critici o rivelazioni sensazionali, anche se il collegamento organico costituisce un quadro d’insieme ben più completo di quello che si poteva ipotizzare quando la conoscenza di queste lettere era sparpagliata.

Ma il fatto è che proprio il carteggio tra Verdi e Boito riveste oggi caratteri di attualità eccezionale. Tutte le lettere di Verdi sono preziose, si capisce, ma si dà il caso che il rapporto VerdiBoito sia, come si suol dire, proprio nell’occhio del ciclone. Da alcuni decenni, ormai, e precisamente dal Paese del melodramma di Bruno Barilli in poi, è in corso un’operazione culturale (si fa per dire) volta ad esaltare le opere giovanili del Verdi più primitivo, barbarico e quarantottesco, e [...]

[...]Ma il fatto è che proprio il carteggio tra Verdi e Boito riveste oggi caratteri di attualità eccezionale. Tutte le lettere di Verdi sono preziose, si capisce, ma si dà il caso che il rapporto VerdiBoito sia, come si suol dire, proprio nell’occhio del ciclone. Da alcuni decenni, ormai, e precisamente dal Paese del melodramma di Bruno Barilli in poi, è in corso un’operazione culturale (si fa per dire) volta ad esaltare le opere giovanili del Verdi più primitivo, barbarico e quarantottesco, e a diminuire il valore degli ultimi due capolavori, quasi fossero lava raffreddata, ceneri spente d’un fuoco ch’era divampato ai tempi delYErnani e del Trovatore; e perciò si fa strada la tendenza a additare nel colto e ricercatissimo Boito quasi il cattivo genìio di Verdi, la liaison dangereuse che ne avrebbe corrotto la solare spontaneità.

Mario Medici mette il dito sulla piaga quando afferma nella prefazione: « Si avverte quanto il proverbiale predominio dell’operista nei confronti dei suoi librettisti vada qui affievolendosi, fin quasi a sparire,[...]

[...] PROGRESSO NEL CARTEGGIO TRA VERDI E BOITO

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nel concertato come Voi stesso diceste. Non parliamo ora del Terzo » (Lettera 142).

Ma da questo a dire che Verdi « subisse » il magistero intellettuale del suo librettista, ci corre un abisso. È chiaro che con un uomo dell’intelligenza di Boito, letterato e musicista ad un tempo, operista egli stesso, Verdi non aveva bisogno di condurlo per mano come faceva con Francesco Maria Piave. Tanto più che non c’era in Boito (tutto il Carteggio lo prova) la minima pretesa di sopraffazione estetica o intellettuale nei riguardi del venerato maestro, ma al contrario come abbiam già visto una lucida volontà d’immedesimazione nel suo modus operandi drammatico, fino al totale autoannientamento. «Ora Lei riconosce nell’opera delle mie mani » scriveva a Verdi il 18 ottobre 1880, proprio ai primi passi del lavoro per Otello « il pensiero che Ella mi ha dettato e che io ho trascritto senza lasciarmi turbare da nessun dubbio, neanche dai dubbij che Lei stesso accampava » (Lettera 4). Ed ancor prima[...]

[...]empio la prima lettera, su quel terzo atto di Otello che impegnerà164

MASSIMO MILA

così a lungo le forze dei due artisti. Curiosamente, Verdi contrapponeva « il pezzo scenico » (che secondo lui mancava ancora) al « pezzo musicale », che « ci sarebbe ed un Maestro potrebbe esserne contento ». Ossia, Verdi si faceva parte diligente del dramma, contro la musica! Secondo lui, dopo Pinsulto di Otello a Desdemona « Demonio, taci » — « non vi è più nulla a dire. Tutt’al più una frase, un rimprovero, una maledizione contro il barbaro che ha insultato una donna, E qui o calar il sipario, o saltar fuori con una trovata all’infuori di Shakspeare [sic] » (Lettera 1). La trovata che lui almanaccava, pur essendo il primo a sospettarne l’incongruenza e a ritenere che su di essa « il critico avrebbe molte osservazioni a fare », era un’assurda invasione di Turchi (sconfitti e disfatti poc’anzi nel primo Atto) con Otello che « si scuote e si drizza come un Leone » e « brandisce la spada ». Secondo il critico inglese Frank Walker che aveva ripubblicato parte di questa lette[...]

[...]ne come d’un pugno che rompe la finestra d’una camera dove due persone stavano per morire asfissiate. Quell’ambiente intimo di morte creato da Schakespeare [sic] è d’un tratto svanito. L’aria vitale ricircola nella nostra tragedia, e Otello e Desdemona sono salvi. Per fare che essi ripiglino la via della morte dobbiamo poi rinchiuderli da capo nella camera letale, ricostruire l’incubo, ricondurre pazientemente Jago sulle sue prede e non ci resta più che un atto solo per rifare tutta questa tragedia da capo » (Lettera 4).

Una lezione magistrale di drammaturgia che Verdi si legò al dito, anche se Boito aveva poi l’aria di consentire tutto: « Un melodramma non è un dramma, la nostra arte vive d’elementi ignoti alla tragedia parlata. L’ambiente distrutto si può crearlo da capo, otto battute bastano a far rivivere un sentimento, un ritmo può ricomporre un carattere: la musica è la più onnipossente delle arti, ha una logica sua propria, più rapida più libera della logica del pensiero parlato e più eloquente assai ».

In realtà, nulla della « trovata » verdiana passò nel libretto. Da Shakespeare si accoglie la bellissima espressione dello stupore di Ludovico,l’antico e il progresso nel carteggio tra verdi e boito

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l’ambasciatore veneto: « La mente mia non osa / pensar ch’io vidi il vero », e poi, attraverso stadi successivi, si va « all’infuori di Shakespeare » facendo chiamare Cassio (che nella tragedia non ha ancora parte in questa scena, ma solo in un secondo tempo) e dando vita al « pezzo musicale », cioè al concertato della desolazione di Desdemona, della stupefazione d[...]

[...]na, della stupefazione di Ludovico, della pietà di Emilia, del dolore di Roderigo, innamorato nascosto, per la partenza di Desdemona, e dell’agitazione di Cassio. Tacciono Otello e Jago, ai quali resterà la fine dell’Atto, tutta inventata, quando la scena si sarà svuotata: furia e svenimento di Otello, bieco trionfo di Jago. « Ecco il Leone! ».

Il 2 dicembre 1880 Verdi applaudiva: « Ben trovato il Finale Terzo! Lo svenimento d’Otello mi piace più in questo Finale che nel posto dov’era prima ». Strano che aggiungesse: « Solo non trovo né sento il Pezzo d’insieme » (Lettera 5). Pure ci doveva già essere il concertato, cui Boito darà gli ultimi ritocchi dopo la parentesi del Boccanegra, mentre Verdi s’occupava a escogitare ingegnose soluzioni tipografiche per farlo stare tutto insieme nella stampa con tre colonne « in mezzo del libretto con le cuciture », in maniera che il pubblico « voltanto il foglio si troverebbe in faccia a tutta la Baraonda del Concertato » e potrebbe cosi « con un colpo d’occhio vedere e capir tutto » (Lettera 78).[...]

[...]ntabile quelleo... danno un suono nasale, gutturale antipatico » (Lettera 10).

Nel rifacimento del Boccanegra il comando delle operazioni è saldamente nelle mani di Verdi. Siamo tal quale nella vecchia situazione del rapporto con Piave: il compositore chiede qualcosa di preciso (« mi faccia tre o quattro versi sciolti chiari e netti », Lettera 17) e il poeta eseguisce, versificando le parole messe giù in prosa dal musicista e limando le frasi più volte, a richiesta. « Otto versi son troppi per Amelia (...). Per me vanno benissimo i primi quattro, ma Ella forse vorrà cambiare il secondo per la rima » (Lettera 22). La stesura del libretto è interamente governata e determinata dall’invenzione musicale. Nel Finale primo, scrive Verdi, « l’orchestra rugge, ma rugge piano. È necessario, però, che alla fine anche l’orchestra faccia sentire la sua formidabile voce (...). Avrei quindi bisogno di due versi, per far gridare tutto il mondo. Che in questi versi non manchi la parola Vendetta! » (Lettera 23).

Di Boito è invece la saggia esortazio[...]

[...]occanegra. Primo, perché « tre scene in un atto mi pajono troppe, distruggono quell’impressione di unità così necessaria alla vita bene organizzata dell’atto ». Ma soprattutto: « Pensi che di tutto il dramma questo giardino è la sola scena ridente. Tutte le altre sono gravi, solenni o cupe. Vi abbondano troppo gli interni: Sala del Consiglio, Camera del Doge, aula Ducale. Poiché in questo principio del prim’atto siamo all’aria aperta, restiamoci più che possiamo » (Lettera 16). È un’accorta riflessione teatrale, che va alla radice dei difetti da lui impietosamente segnalati nel vecchio libretto di Piave, con la lunga lettera dell’8 dicembre 1880: « Il nostro compito, Maestro mio, è arduo. Il dramma che ci occupa è storto, pare un tavolo che tentenna (...). Non trovo in questo dramma nessun carattere di quelli che vi fanno esclamare: è scolpito!L’ANTICO E IL PROGRESSO NEL CARTEGGIO TRA VERDI E BOITO

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Nessun fatto che sia realmente fatale cioè indispensabile e potente, generato dalla ineluttabilità tragica » (Lettera 6).

Ma d’[...]

[...]era del 27 agosto 1881. Boito non ha fatto che scriverle in forma di un endecasillabo e mezzo, andando a capo al momento giusto. E subito dopo ha aggiustato « L’infame anima ria gli svellerò », proposto da Verdi, in « L’infame anima ria l’averno inghiotta ». « Tu avrai le sue novelle a mezzanotte » diventa: « Tu avrai le sue novelle in questa notte ». La subordinazione del librettista al compositore non è minore che ai tempi di Piave, anche se è più alta la qualità dell’esecuzione materiale e della versificazione. Il 5 ottobre 1885, dopo aver finito di musicare il quarto Atto, Verdi trascrive per Boito tutta la scena della morte di Desdemona, segnando le correzioni ch’egli stesso ha apportate, componendo, al testo di Boito, e altre chiedendone in margine.

Si scopre con stupore che la spettacolosa entrata di Otello nel primo Atto fu inventata da Verdi solo nel 1886, quando l’opera era praticamente finita, chiedendo a Boito di eliminare quattro versi ingombranti (« vi sono troppi versi nel solo d’Otello »), sì che si potesse trasportare[...]

[...]on una abnegazione di se stesso così coerente e meravigliosa, potrei dire patetica » (note alla Lettera 98). È l’impressione volgare che ebbero i contemporanei quando non ritrovarono nell’Otello le cabalette del Trovatore ed è l’origine di tutti i malintesi che ancora si perpetuano anzi, presentemente si ravvivano sulle ultime due opere di Verdi.

La fine del lavoro ad Otello fu sentita dai due artisti con « la tristezza che segue l’opera compiuta », come dice Boito (Lettera 89), facendo eco alla malinconia di Verdi: « Povero Otello, Non tornerà più qui!! » (Lettera 88). Ancora due anni dopo sentivano quel gran vuoto. « Basta », scriveva Boito dalla villeggiatura canavesana di San Giuseppe, il 9 ottobre 1888, « Vorrei che ritornasse quel tempo quando ogni nostra lettera aveva per tema lo studio d’una grande opera d’arte » (Lettera 107). Verdi si baloccava con la scala enigmatica d’un’Ave Maria, e Boito quasi lo prendeva in giro: « Molte Ave Maria ci vogliono perché Lei possa farsi perdonare da S. S. il Credo di Jago » (Lettera 115). Salta fuori perfino (nota alla Lettera 117) la notizia sorprendente del progetto verdiano d’un poema sinfo[...]

[...]» nel giugno 1923, un misterioso X. Y., che asseriva di tenerne il racconto da Boito, con particolari circostanziati sulla trama sonoranarrativapsicologica del lavoro.

Perciò si capisce la prontezza con cui fu accolta da Verdi la proposta del Falstaff, sapientemente architettata da Ricordi con la complicità di Boito. « Facciamo addunque Falstaff! Non pensiamo pel momento agli ostacoli, all’età, alle malattie! Desidero anch’io di conservare il più profondo segreto (...): nissuno deve saperne nulla! (...). Intanto Voi, se vi sentite in lena, cominciate pure a scrivere » (Lettera 122).

Nessun dubbio che in quest’opera la presenza di Boito sia stata più autorevole e minore la partecipazione di Verdi alla stesura del libretto, vuoi che Boito si fosse ormai totalmente immedesimato nella mentalità del compositore, vuoi che questi, per la grave età, cominciasse a mostrare minor lena, soprattutto in una operazione letteraria così complessa coL’ANTICO E IL PROGRESSO NEL CARTEGGIO TRA VERDI E BOITO

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m’era la mescolanza delle Allegre comari di Windsor con le altre apparizioni di Falstaff nei drammi storici shakespeariani.

Se Verdi individuò subito la debolezza del terz’Atto (che non ci fu mai verso di sanare totalmente), accettò primo e[...]

[...]ra la mescolanza delle Allegre comari di Windsor con le altre apparizioni di Falstaff nei drammi storici shakespeariani.

Se Verdi individuò subito la debolezza del terz’Atto (che non ci fu mai verso di sanare totalmente), accettò primo e secondo in blocco. « Nei primi due Atti non vi è nulla da modificare all’infuori, forse, del Monologo del marito geloso che starebbe meglio alla fine della Prima Parte, che al Principio della Seconda. Avrebbe più calore ed efficacia » (Lettera 122). Strana idea, che Boito fece benissimo a non accogliere. Verdi pensava qui ancora in termini di opera tradizionale. Nel monologo delle corna vedeva l’occasione di un buon finale d’Atto, finale a voce sola, ma potente, d’effetto, sul tipo del Finale primo nelle Nozze di Figaro, « Non più andrai, farfallone amoroso ». Quanto è più originale, invece, che il monologo delirante sia racchiuso, come in una parentesi, nel tempo in cui Ford resta momentaneamente solo, poi Falstaff rientra, tutto agghindato, e lui si ricompone. Ecco un caso innegabile in cui la moderna concezione di Boito segna un punto a proprio favore.

Verso quel benedetto terz’Atto, Verdi mostrava chiaramente qualche riluttanza, poco persuaso dalle dotte disquisizioni boitiane sul comico e sul tragico (« D’accordo perfettamente con Voi sulle esigenze e sull’indole della Tragedia e della Commedia (...). Ma se nella commedia (...) c’è un punto in cui si di[...]

[...] vecchio operista era ben persuaso che in un’opera si deve sempre battere il martello sul chiodo del protagonista.

All’idillio di Fenton e Nannetta e all’elogio della gioventù Boito invece ci teneva moltissimo. E, dopo un rispettoso esordio (« Tutto ciò ch’Ella pensa è buono») subito replicò (Lettera 125): «Ma i matrimoni ci vogliono, senza le nozze non c’è contentezza (...) e Fen. e Nan. devono sposarsi. Quel loro amore mi piace, serve a far più fresca e più solida170

MASSIMO MILA

tutta la commedia. Quell’amore la deve vivificar tutta e tanto e sempre per modo che vorrei quasi quasi eliminare il duetto dei due innamorati ».

O come mai voleva eliminare il duetto degli innamorati, se a questo amore dei giovani ci teneva tanto? Evidentemente perché avrebbe voluto farne una specie di basso continuo, anzi, ostinato, di tutto Vatto, e il duetto gli pareva forse che lo isolasse indebitamente nella nicchia di un pezzo ben definito. Sotto sotto, non si andrebbe forse lontano dal vero subodorando qui un caso di conflitto tra Pideale del dramma mu[...]

[...]caso di conflitto tra Pideale del dramma musicale, sostenuto dal modernismo di Boito, e il vecchio tipo di melodramma a forme chiuse, a cui nemmeno nel Falstaff Verdi intendeva infliggere un ostracismo totale. E il duetto, che Verdi aveva esplicitamente approvato nella lettera precedente (« È meglio il Duettino Fan. Nan. nella prima Parte »), restò.

Il 18 agosto 1889 fa capolino l’idea della fuga che coronerà l’opera. « Voi lavorate spero? Il più strano si è che lavoro anch’io!... Mi diverto a fare delle fughe!... Si signore: una fuga... ed una fuga bufa... che potrebbe star bene in Falstaff!... Ma come una fuga buffa? perché buffa? direte Voi?... Non so come, né perché ma è una fuga buffai », Lettera 128).

Boito s’affrettò ad approvare. « Una fuga burlesca è quella che ci vuole, non mancherà il posto di collocarla. I giuochi dell’arte sono fatti per l’arte giocosa » (Lettera 129). In Boito c’era un pizzico di dannunzianesimo avanti lettera. Non per niente aveva preceduto l’immaginifico nel letto, diciamo nei favori di Eleonora Dus[...]

[...]porta, Lei ne comprerà degli altri, sfracellerà il pianoforte, poco importa, Lei ne comprerà un altro, vada tutto a soqquadro! ma la gran scena sarà fatta! Evviva! “Dài! Dài! Dài! Dài! / Che pandemonio!!”» (Lettera 174).

Sarebbe stato difficile immaginare questa ebbrezza, questa vera e propria intossicazione falstaffiana dalle interviste contegnose e riservate che Verdi rilasciava in pubblico in quegli stessi giorni. « No... Falstaff non è compiuto (...). Lavoro per mio divertimento (...). Potrò condurre a compimento Falstaff?... chi lo sa? Tanto meno posso dire se lo farò rappresentare: temo che l’ambiente della Scala sia troppo vasto per una commedia nella quale la rapidità del dialogo ed i giuochi di fisionomia sono la parte principale » (« Gazzetta Musicale di Milano », 5 luglio 1891). E a un giornalista francese ch’era venuto a visitarlo a Genova e per due ore lo aveva interrogato sui suoi propositi, attribuendogli l’intenzione di musicare un Romeo e Giulietta (« Vous en mourez d’envie »), non solo aveva potuto onestamente smenti[...]

[...]te la verità, perché certo, finché il Falstaff non fosse finito, VOtello era la sua ultima opera!

Subentrano poi problemi di scene, di costumi, di regìa e di cantanti. Verdi spedisce Boito di qua e di là, ad ascoltare soprani e contralti (la parte del protagonista era da sempre destinata a Maurel, anche se Verdi gliela faceva cader dalPalto). Come Quickly, Boito avrebbe visto bene la giovane Guerrina Fabbri, che infatti lo diventerà, ma assai più tardi, con Mugnone e poi con Toscanini. Per la « prima » Verdi preferì la più esperta Giuseppina Pasqua. In un Don Pasquale al Teatro Manzoni pareva a Boito « d’aver riconosciuto un buon Ford e una buona gaja comare » (Lettera 146). « La voce del basso è bella, è giusta e sana e giovane. L’individuo mi pare intelligente, bisognerà che si liberi dalle vecchie tradizioni dei buffi italiani che nel D. Pasquale vanno bene ma che nel Ford sarebbero una bestemmia ». Sempre c’era in Boito questa volontà di rottura col passato, che Verdi non condivideva. L’arrabbiatura che si prese quando il critico Noseda riferì sul « Corriere della Sera » da Berlino, dove

il Falstaff era [...]



da Enrica Pischel, Considerazioni sulla nuova fase della politica asiatica in KBD-Periodici: Nuovi Argomenti 1958 - 7 - 1 - numero 33

Brano: [...]to sull'Asia l'attenzione ed il timore dei popoli del mondo.
I fatti verificatisi recentemente in Asia ed i nuovi fenomeni dei quali bisogna tener conto non sono tali da attirare imme
diatamente l'attenzione. I oblemi di attualità » oggi sona al
di fuori dell'Asia: vertono sulla recessione e sul disarmo, sul
.. _ ... __
l'equilibrio tra le due maggiori potenze nucleari e sulle nuove tecniche. A pochi anni di distanza già sembra possibile a più di un occidentale domandarsi che cosa mai abbia indotto il mondo nell'età dell'automazione e dei missili a considerare per un momento le vicende dei prigionieri coreani o le azioni dello scalzo esercito di Ho Chi Minh elementi decisivi nel determinare il corso dell'attuale processo storico e le sorti della pace mondiale.
E2pure_.è chiaro ad una riflessione più profonda che l'attuale situazione internazionale é stata determinata strettamente dal l'enorme oso obiettivo rappresentato dagli eventi, del ..mondo asiatico ed africano dalla fine della guerra in poi e che la presenza delle nuove nazioni indipendenti è un fattore decisivo in ogni sviluppo. Ancor più decisivo di questo elemento ormai acquisito è il processo attualmente in corso in Asia sul piano delle scelte politiche, sociali ed economiche per il problema dello sviluppo e dell'industrializzazione. Queste scelte, assai più di altri
18 ENRICA PISCHEL
fattori, sono il banco di prova della capacità dei due sistemi sociali in lotta nel mondo di offrire soluzioni verso un avvenire stabile e progressivo ai paesi ora entrati nella dialettica della storia mondiale. Non si tratta di un problema di aiuti dall'esterno o di pressioni politiche e militari esercitate parimenti dall'esterno: si tratta della possibilità di esprimere soluzioni nuove, dinamiche e particolari per problemi che prima non si erano presentati; e di esprimere queste soluzioni dall'interno delle nuove società e in base alle forze sociali esistenti su[...]

[...]ella dialettica della storia mondiale. Non si tratta di un problema di aiuti dall'esterno o di pressioni politiche e militari esercitate parimenti dall'esterno: si tratta della possibilità di esprimere soluzioni nuove, dinamiche e particolari per problemi che prima non si erano presentati; e di esprimere queste soluzioni dall'interno delle nuove società e in base alle forze sociali esistenti sul posto.
Un esame generale della situazione è tanto più difficile in quanto essa si evolve a ritmo assai più lento che nel periodo 19451955, in settori più occulti ed imponderabili, modifica di fatto le situazioni consolidate sia dal punto di vista economico sia da quello psicologico, batte vie a volte inaspettate e divergenti e lascia per molto tempo intatte le apparenze esteriori, precipitando poi su fatti che sono assolutamente incomprensibili senza un'analisi particolareggiata delle situazioni locali. Inoltre la teorizzazione e la stessa esposizione dei fenomeni in corso incontrano difficoltà perché gli osservatori esterni sono spesso ispirati dall'interesse politico e sociale del mondo dal quale provengono o non riescono a sottrarsi all'inf[...]

[...]ne asiatica fino all'epoca di Bandung sembrano poter rimanere tuttora base della nuova indagine: ad esempio appare sempre valida la asserzione di carattere marxista che il processo in corso in Asia. è un processo di liberazione dalla dipendenza economica e sociale imposta dell'imperialismo, cioè non solo dalla colonizzazione diretta e formale delle vecchie potenze europee, ma anche dalla nuova ed indiretta dominazione statunitense, che é oggi la più forte influenza esterna che preme contro la liberazione completa dell'Asia. Altrettanto valido appare il giudizio
i
CONSIDERAZIONI SULLA NUOVA FASE DELLA POLITICA ASIATICA 19
sullacorrelazione tra le trasformazioni interne sociali ed econo miche soprättüttó quelle riguardanti il regime di proprietà terriera) e l'effettiva concretezza dell'emancipazione dal dominio straniero, nonché quello sull'obiettiva utilità, per il fronte rivoluzionario socialista di tutti i paesi, di qualsiasi indebolimento dell'influenza imperialista in Asia.
Il problema che oggi è in gioco in Asia consiste nell'ind[...]

[...]tà fuori dell'ambito della Cina; quali possano essere in ogni paese le forze ed i modi, _per trasformare gradualmente e pacificamente il regime borghesenazionalista (diverso da luogo a luogo a seconda del rapporto sul quale ciascuna borghesia si trova sia con le forze feudali sia con gli elementi rivoluzionari agrari o urbani) in una società sostanzialmente socialista; se e fino a che pinto i tentativi progressivi condotti dalle forze borghesi più avanzate rimangano nell'ambito del nazionalismo borghese progressista e dove divengano invece una nuova e quanto mai « diversa » via al socialismo; come possa essere conciliata la denuncia del « revisionismo » da parte del mondo marxistaleninista con il tentativo di operare pacificamente il trapasso dai regimi nazionalisti progressisti a quelli socialisti.
Chi scrive non presume di dare risposte a questi problemi, ma intende soltanto esaminare alcuni fenomeni ed alcune indicazioni che possano rendere più facile lo sforzo di interpretare in futuro gli sviluppi tuttora in corso in Asia. Molto [...]

[...]progressista e dove divengano invece una nuova e quanto mai « diversa » via al socialismo; come possa essere conciliata la denuncia del « revisionismo » da parte del mondo marxistaleninista con il tentativo di operare pacificamente il trapasso dai regimi nazionalisti progressisti a quelli socialisti.
Chi scrive non presume di dare risposte a questi problemi, ma intende soltanto esaminare alcuni fenomeni ed alcune indicazioni che possano rendere più facile lo sforzo di interpretare in futuro gli sviluppi tuttora in corso in Asia. Molto si é scritto da Bandung in poi sul problema dei paesi sottosviluppati ed in particolare sul contributo e le soluzioni che dovrebbero fornire le potenze o le forze sociali che fanno parte del mondo capitalista
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per consentire ai paesi asiatici di ottenere il miracolo dello sviluppo senza passare attraverso le trasformazioni sociali che al= trove sono state la base ed il costante accompagnamento dello sforzo di industrializzazione: in realtà non sembra di poter concÏú~ére che queste discus[...]

[...]cause contingenti, gli Stati Uniti ed i loro alleati non hanno saputo per ora attuare arcuna farina di reale—ált rnativa alta ""piáriiñ_cazione di tipo socialista. D'altra parte per quest'ultima, anche dando per concessa la continuazione della politica sovietica di aiuti ai paesi sottosviluppati e l'intensificazione dell'aiuto cinese in questo senso, sono le forze interne ed il loro dinamismo a rappresentare l'elemento decisivo e non l'azione compiuta sull'Asia dall'esterno dall'URSS o da altri paesi a governo comunista.
Proprio sul piano interno ed economico si é verificata dalla conferenza di Bandung in poi l'evoluzione della situazione asiatica: il mero anticolonialismo politico e formale é stato sostituito dal tentativo di risolvere il problema dello sviluppo come principale movente di interesse comune nei paesi asiatici. Questa sostituzione fu l'elemento innovatore e stimolatore suscitato dalla conferenza di Bandung che mostrò, attraverso il confronto della situazione che si veniva creando nei paesi socialmente più progrediti con q[...]

[...]dalla conferenza di Bandung in poi l'evoluzione della situazione asiatica: il mero anticolonialismo politico e formale é stato sostituito dal tentativo di risolvere il problema dello sviluppo come principale movente di interesse comune nei paesi asiatici. Questa sostituzione fu l'elemento innovatore e stimolatore suscitato dalla conferenza di Bandung che mostrò, attraverso il confronto della situazione che si veniva creando nei paesi socialmente più progrediti con quella sussistente negli altri, la gravità delle conseguenze implicite nella stasi economica, nell'acquiescenza al permanere del dominio economico imperialistico e nel mantenimento (soprattutto nel regime di proprietà della terra) di residui di una struttura sociale totalmente superata e incapace di consentire un qualsiasi sviluppo moderno. In questo senso la conferenza di Bandung ha costituito, pur con le sue dichiarazioni necessariamente anodine su tutti i problemi che implicassero una discussione del regime sociale interno, una tribuna di accusa contro le classi reazionarie [...]

[...]i rapporti con le potenze che conservino . o . sviluppino interessi di tipo imperialistico. In questo senso Bandung segnò il punto di passaggio tra due fasi della storia asiatica dal 1945 in poi: tra la fase della generica e limitata solidarietà contro il colonialismo inteso come dominazione politica formale e quella dello sforzo per lo sviluppo e delle scelte politiche e sociali imposte dalla lotta contro l'arretratezza.
Un'apparente unità era più facilmente raggiungibile tra i vari paesi asiatici nella prima fase che nella seconda: un atteggiamento comune esteriore e superficiale contro la dominazione politica straniera poteva essere raggiunto, almeno in larga misura, indipendentemente dagli interessi e dalle forze predominanti nelle varie zone e senza presupporre una concorde analisi della situazione, delle sue cause e delle sue implicazioni interne, mentre le alternative oggi aperte pongono in gioco direttamente interessi e posizioni che da luogo a luogo sono diversamente costituiti e che possono essere eliminati soltanto dall'azion[...]

[...]o i residui feudali e contro le infiltrazioni e le minacce esterne. In questo senso avevano operato la riforma agraria nella prima fase (spartizione della terra ai contadini) la politica di ricostruzione industriale, il primo piano quinquennale per l'industrializzazione « di base », la collaborazione tra le forze rivoluzionarie e la borghesia « nazionale », la formulazione della Costituzione.
Dal 1955 in poi il principale problema cinese non é più stato quello del consolidamento della rivoluzione come fattore permanente nella società cinese e nella politica mondiale: questo era un dato acquisito già nel 1955 e proprio la conferenza di Bandung offri a tutti i paesi asiatici e africani la dimostrazione che la Cina nuova non aveva più ragione di dubitare della sua capacità di difendere la propria sicurezza e la propria stabilità. Il nuovo problema della Cina divenne quello di accelerare il ritmo delle trasformazioni economiche e sociali, di elaborare la linea e le soluzioni particóIari per il trapasso della Cina alla fase socialista (e non più soltanto neodemocratica) di attuare un rapido sviluppo industriale su larga scala. Dal 1955 in poi sono avvenute le grandi modifiche della società cinese, soltanto iniziate in prece; denza: la formazione delle cooperative agricole; l'eliminazione del settore industriale e commerciale privato; l'inaugurazione (con la fine del primo e la formulazione del secondo piano quinquennale) di nuove industrie e di nuovi settori industriali atti a sanare le strozzature dell'economia cinese ed a fare di essa una economia autosufficiente, espansivá e capace di portare in pochi

CONSIDERAZIONI SULLA NUOV[...]

[...]itici del partito comunista coni gruppi non comunisti e non marxisti.
Si tratta ovviamente di fenomeni che esigono un'analisi particolareggiata: comunque é possibile, anche solo in linea generale, indicare come i problemi dello sviluppo e dell'industrializzazione, le trasformazioni interne della società e la direzione da dare ad esse siano oggi il problema principale per la Cina e come il gruppo dirigente del paese, che (a differenza dei gruppi piú o meno borghesi che sono" olia testa dei paesi asiatici non comunisti) non si é mai rassegnato ad accettare l'ipotesi che la Cina debba rimanere indefinitamente un paese più o meno ar retrato rispetto alle potenze industriali, abbia avvertito Ta T necessità di affrettare ad ogni costo i tempi del processo di industrializzazione prima che l'avvento di nuove tecniche nel resto del mondo renda per la Cina incolmabile il divario dei livelli di produzione industriale pro capite con i paesi industrializzati.
Il trasferimento della priorità degli interessi dal campo politicoá qúèlIó ` ëcónömico (anzi allo specifico problema dello sviluppo industriale) non é avvenuto soltanto per coloro che dirigono o vivono direttamente le sorti della Cina, ma anche nel giudizio degli [...]

[...]te le sorti della Cina, ma anche nel giudizio degli altri popoli asiatici che volgono il loro sguardo alla Cina come ad un esperimento di avanguardia nella risoluzione di problemi affini ai loro. In questa prospettiva si spiega l'attenuazione dell'attività diplomatica cinese per ttetr ~ilricotïtigemênto americano 'e l'ammissione all'ONU: il governo cinese é certa ormai che il mancato riconoscimento statunitense alla nuova Cina non può costituire piú un fattore di obiettiva menomazione per il paese, il cui peso internazionale, in Asia e all'interno della compagine degli Stati socialisti, si misura in base al successo della politica di sviluppo e delle trasformazioni della società, non in base alla partecipazione a questo o a quell'organismo internazionale.
Ormai il « non riconoscimento » ha cessato di isolare la Cina ed isola invece gli Stati Uniti bloccando tutta la loro politica asiatica; mina il potere morale e l'efficienza dell'ONU ed inficia
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con il marchio dell'anticomunismo colonialistico ogni iniziativa dell'O[...]

[...]uell'organismo internazionale.
Ormai il « non riconoscimento » ha cessato di isolare la Cina ed isola invece gli Stati Uniti bloccando tutta la loro politica asiatica; mina il potere morale e l'efficienza dell'ONU ed inficia
24 ENRICA PISCIIEL
con il marchio dell'anticomunismo colonialistico ogni iniziativa dell'ONU per i paesi arretrati, in quanto l'ONU si trova non soltanto a dover escludere dal suo raggio d'azione e dalla sua esperienza il più vasto ed energico sforzo di sviluppo ora in corso, ma anche a porsi come un'alternativa polemica alla politica economica cinese che va sempre più diventando (anche per l'espansione commerciale cinese e la politica di aiuti di Pechino nell'Asia sudorientale) uno dei fattori determinanti della situazione economica asiatica.
***
Il completo consolidamento interno della Cina, la sua palese volontà di non impegnarsi in qualsiasi tentativo di provocare dall'esterno mutamenti nel regime sociale dei paesi asiatici ed il volgersi delle forze rivoluzionarie asiatiche più dinamiche alla lenta trasformazione del loro potenziale economico hanno posto in crisi la politica dei patti militari perseguita dagli Stati Uniti in Asia, riducendola ad un apparato pronto a bloccare quel tipo di iniziative che la Cina chiaramente non intende attualmente intraprendere (se mai volle farlo) ed a sostenere quelle misure che gli Stati Uniti ora non possono più per ragioni interne ed internazionali adottare, ma incapace di arginare o di menomare l'azione diplomatica economica e propagandistica che la Cina sta invece compiendo ed intensificando.
Da tempo é data per concessa la completa inutilità, anche dal punto di vista della politica americana, dei patti bilaterali degli Stati Uniti in Asia: essi sono l'eredità della politica americana di violenta sovversione anticinese tipica della fase più acuta della guerra fredda. Salvo il caso del Giappone, essi furono concepiti quale sostegno "sT btt rmäñcñte dei regimi oltranzisti anticomunisti incapaci di reggersi da soli (Kuomintang a Formosa, Syngn n Rhee in Corea), ma ritenuti, in quel periodo, il più solido e utile strumento della politica statunitense in Asia e ridotti invece ora ad essere pericolosi ed inutili parassiti dell'economia americana e paralizzante causa di remore *e di discredito a tutta l'azioñe«diplomatica del Dipartimento di Stato.
CONSIDERAZIONI SULLA NUOVA FASE DELLA POLITICA ASIATICA 25
I rigidi patti difensivi con Seul e Taipeh e la presenza di solidi interessi statunitensi organizzati a favore di Chiang e di Rhee espongono qualsiasi azione diplomatica americana al ricatto di questi regimi che sono tenuti dagli aiuti statunitensi in uno stato di fittizia solidità, su[...]

[...]IONI SULLA NUOVA FASE DELLA POLITICA ASIATICA 25
I rigidi patti difensivi con Seul e Taipeh e la presenza di solidi interessi statunitensi organizzati a favore di Chiang e di Rhee espongono qualsiasi azione diplomatica americana al ricatto di questi regimi che sono tenuti dagli aiuti statunitensi in uno stato di fittizia solidità, sufficiente a far si che rappresentino una minaccia contro il mantenimento dello statu quo in Asia, mentre non sono più un reale e stabile avamposto delle linee strategiche americane. Essi hanno infatti dimostrato negli ultimi anni, con una ripresa di nazionalismo antistatunitense, di non essere disposti a rimanere per sempre le abbandonate sentinelle avanzate di quella politica di immediata aggressione anticinese che avevano sperato di veder giungere rapidamente al successo con il rovesciamento di Mao ed una generale guerra anticomunista, ma che ora é stata accantonata dagli Stati Uniti.
Proprio sul terreno economico, la politica statunitense verso Formosa e la Corea meridionale (e per quest'aspetto le medes[...]

[...]vanzate di quella politica di immediata aggressione anticinese che avevano sperato di veder giungere rapidamente al successo con il rovesciamento di Mao ed una generale guerra anticomunista, ma che ora é stata accantonata dagli Stati Uniti.
Proprio sul terreno economico, la politica statunitense verso Formosa e la Corea meridionale (e per quest'aspetto le medesime considerazioni valgono in sostanza anche per il Viet Nam meridionale) implica le_ più_ gravi ipoteche sulla generale capacità degli Stati Uniti ad affrontare in modo vitale il problema dei paesi sottosviluppati: essa dimostra che l'attuale apparato per gli aiuti americani all'estero é concepito prevalentemente come sostentamento improduttivo a regimi ritenuti politicamente utili, non come appòggio ad una cluatiasiTolitica'zt abtreomä"' upl po eçó mic e tanto meno come aiuto libero`da' cohctizionamento politico.
Formosa, la Corea ed il Viet Nam meridionali hanno ricevuto dal 1955 al 1957 quasi un miliardo e mezzo di dollari in aiuti economici e militari (gli aiuti americani a[...]

[...]tre regimi che finora non hanno fatto nulla o quasi per intraprendere qualsiasi tentativo di sviluppo razionale ed espansivo della loro economia. L'improduttività dell'aiuto americano ed anzi la funzione sterilizzatrice dell'iniziativa economica autonoma, pubblica o privata che sia, in questi tre paesi, la sempre maggiore dipendenza della loro
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sussistenza dal cordone ombelicale dell'aiuto americano e l'instaurazione di sempre più larghi interessi finanziari e capitalistici 'äméncani, attráversö investimenti, controlli ed enti di vario tipbi elun targo monopolio del commercio estero, non soltanto bloccano le possibilità di collaborazione americana allo sviluppo di altri paesi più dinamici ed indipendenti, ma costituiscono anche un forte indizio per sostenere la tesi she_ una società .del tipo di quella americana non ha interesse per la sua propria struttura e non e disposta per il suo atteggiamento politico a dare un reale aiuto di sviluppo ai paesi arretrati senza condizioni poli siche:
Anche l'economia giapponese, che pure ha potuto recuperare lo svantaggio della sconfitta e ha rappresentato per la sua ripresa un fenomeno che trova paralleli soltanto nella Germania occidentale, si trova a dipendere dall'economia americana ed ha relativamente scarsa solidità struttu[...]

[...]r la sua ripresa un fenomeno che trova paralleli soltanto nella Germania occidentale, si trova a dipendere dall'economia americana ed ha relativamente scarsa solidità strutturale. Pur lasciando da parte le considerazioni che si potrebbero fare sul particolare carattere della ripresa industriale nipponica (e cioè sulla crescente spere quazione tra l'aumento della produzione industriale e del suo
1 livello qualitativo e l'aumento, parecchie volte più lento, del te
nore vitae dei salari li), fatto che i Giappone u
sa di di condizioni geografiche particolari è costrettol a ricorrere a ca al
commercio estero per gran parte delle sue importazioni vitali e per l'assorbimento di una percentuale anche maggiore della sua produzione e che questo movimento commerciale è largamente controllato dagli Stati Uniti, nei quali il Giappone acquista un terzo delle sue importazioni e vende un quarto delle sue esportazioni, oltre a dover ricorrere all'intervento statunitense per. coprire la totalità delle sue esportazioni invisibili, che sole possono tene[...]

[...]ne acquista un terzo delle sue importazioni e vende un quarto delle sue esportazioni, oltre a dover ricorrere all'intervento statunitense per. coprire la totalità delle sue esportazioni invisibili, che sole possono tenere in equilibrio la bilancia dei pagamenti.
Questa situazione non ha soltanto gravi ripercussioni politiche, quali l'imposizione di seguire la medesima linea degli Stati Uniti nei confronti della Cina, sia pure in contrasto con i più immediati e sentiti interessi economici nipponici, la difficoltà nello stringere contatti con i paesi neutrali e in via di sviluppo (e quindi potenzialmente interessati ad estendere le relazioni eco
CONSIDERAZIONI SULLA NUOVA FASE DELLA POLITICA ASIATICA 27
nomiche con il Giappone purché su una base di parità), il rafforzamento dei gruppi militaristi e parafascisti all'interno e l'arresto degli sviluppi democratici apertisi nel paese dopo il 1945: questa dipendenza economica rende inoltre il Giappone più sensibile di qualsiasi altro paese ad ogni ondata di recessione o di crisi negli Stati [...]

[...]icoltà nello stringere contatti con i paesi neutrali e in via di sviluppo (e quindi potenzialmente interessati ad estendere le relazioni eco
CONSIDERAZIONI SULLA NUOVA FASE DELLA POLITICA ASIATICA 27
nomiche con il Giappone purché su una base di parità), il rafforzamento dei gruppi militaristi e parafascisti all'interno e l'arresto degli sviluppi democratici apertisi nel paese dopo il 1945: questa dipendenza economica rende inoltre il Giappone più sensibile di qualsiasi altro paese ad ogni ondata di recessione o di crisi negli Stati Uniti, senza renderlo tuttavia ugualmente partecipe dei periodi di prosperità dell'economia americana.
* * *
Se il sistema dei patti bilaterali mette ora in difficoltà la politica asiatica degli Stati Uniti, non maggiore é l'efficienza dei patti plurimi, come il SEATO. Questo si é rivelato, sia ai suoi sostenitori sia ai suoi avversari, assai più vuoto e sterile di quanto avessero potuto ritenere anche coloro che ne avevano sostenuto fin da principio l'inutilità.
Esso si trova svuotato come patto difensivo dal fatto che nessuna minaccia militare cinese all'Asia sudorientale si è concretata, che la temuta attività sovversiva dei comunisti nei paesi aderenti é venuta meno o si è totalmente trasformata e che la pretesa o reale solidarietà tra i membri del patto non ha potuto essere trasferita dal terreno militare e poliziesco a quello diplomatico ed economico. Inoltre due dei membri più importanti del SEATO, la Francia e la Gran Bretagn[...]

[...] principio l'inutilità.
Esso si trova svuotato come patto difensivo dal fatto che nessuna minaccia militare cinese all'Asia sudorientale si è concretata, che la temuta attività sovversiva dei comunisti nei paesi aderenti é venuta meno o si è totalmente trasformata e che la pretesa o reale solidarietà tra i membri del patto non ha potuto essere trasferita dal terreno militare e poliziesco a quello diplomatico ed economico. Inoltre due dei membri più importanti del SEATO, la Francia e la Gran Bretagna, hanno cessato di avere un'importanza reale in Asia: la prima ha perduto tutti i suoi territori e la sua influenza nell'Asia sudorientale; la seconda controlla ancora Singapore e il Borneo settentrionale, ma ha dimostrato in occasione della concessione dell'indipendenza alla Malesia e della conclusione di un patto militare bilaterale con questo Stato, che gli sviluppi nuovi nella zona avvengono al di fuori dell'apparato del SEATO.
Sussiste così soltanto l'altro aspetto del SEATO: esso fu considerato dai tre membri asiatici (Pakistan, Filipp[...]

[...]l'Asia sudorientale; la seconda controlla ancora Singapore e il Borneo settentrionale, ma ha dimostrato in occasione della concessione dell'indipendenza alla Malesia e della conclusione di un patto militare bilaterale con questo Stato, che gli sviluppi nuovi nella zona avvengono al di fuori dell'apparato del SEATO.
Sussiste così soltanto l'altro aspetto del SEATO: esso fu considerato dai tre membri asiatici (Pakistan, Filippine e Thailandia), o piuttosto dalle classi dirigenti di questi paesi, come una garanzia al mantenimento della loro situazione sociale interna contro qualsiasi evoluzione democratica e progressiva, anche non
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violenta o comunque non effettuata attraverso la sovversione. Né la casta militare thailandese, né i proprietari fondiari spagnoleschi delle Filippine, né i grossi latifondisti del Pakistan, aderirono al SEATO per considerazioni attinenti prevalentemente alla politica estera, bensì per ottenere il palese e formale avallo degli Stati Uniti alla difesa dei loro interessi. Ne risulta che i t[...]

[...]ta militare thailandese, né i proprietari fondiari spagnoleschi delle Filippine, né i grossi latifondisti del Pakistan, aderirono al SEATO per considerazioni attinenti prevalentemente alla politica estera, bensì per ottenere il palese e formale avallo degli Stati Uniti alla difesa dei loro interessi. Ne risulta che i tre membri asiatici del SEATO sono oggi (salvo forse la Thailandia, naturaTmente prospera) 1a zona éconamicamente_ e politicamente più stagnante di tutta l'Asia, dove gran parte dei~biland— statali órdina— Cedé Ii aiuti americani) viene inghiottita dalle spese militari, precludendo ogni possibilità di sviluppo economico.
Anche partendo dal punto di vista statunitense, l'alleanza si é quindi rivelata un fallimento, perché ha un'efficienza militare nulla (mancando dell'apparato militare che, nonostante tutto, il NATO ha e non essendo sostenuta da un potenziale industriale e produttivo quale quello dei paesi europei), non ha creato un nuovo e più efficiente equilibrio sociale nei paesi interessati necessario per costituire il [...]

[...]rdina— Cedé Ii aiuti americani) viene inghiottita dalle spese militari, precludendo ogni possibilità di sviluppo economico.
Anche partendo dal punto di vista statunitense, l'alleanza si é quindi rivelata un fallimento, perché ha un'efficienza militare nulla (mancando dell'apparato militare che, nonostante tutto, il NATO ha e non essendo sostenuta da un potenziale industriale e produttivo quale quello dei paesi europei), non ha creato un nuovo e più efficiente equilibrio sociale nei paesi interessati necessario per costituire il sostegno stabile di un eventuale sforzo militare ed ha anzi bloccato quelle riforme di struttura, la riforma agraria soprattutto, che gli americani stessi erano in teoria propensi ad attuare (ritenendole un necessario passo per togliere le basi all'azione rivoluzionaria) ma che non hanno poi potuto sostenere per il timore di alienarsi l'appoggio delle uniche classi loro favorevoli e di suscitare fattori obiettivamente rivoluzionari. Anche qui inoltre si è verificato il fenomeno, già constatato nel caso dei patti [...]

[...]ica della politica da loro seguita a paragone dei vantaggi ottenuti dai neutrali: si tratta di argomenti che, nelle attuali condizioni, possono avere una presa assai maggiore che all'epoca di Bandung, e non soltanto sui gruppi di opposizione o sulla opinione pubblica generica.
Le incertezze che hanno cartterizzato le elezioni filippine del 1957 ed il colpo di Stato in Thailandia contro Pibul possono essere interpretati in questo senso. Ma ancor più profondo é lo sfaldamento del regime politico pakistano: nel Pakistan la mancata trasformazione democratica del paese su linee parallele á quella dell'India ha portato al potere una casta legata ai più retrivi interessi terrieri, presentati come un baluardo a difesa della religione islamica e come un elemento a favore della politica occidentale, Negli ultimi mesi tuttavia l'aumento delle difficoltà politiche ed economiche ha scatenato in tutti i gruppi politici un'ondata di risentimenti antioccidentali, tanto che ormai. é stata formulata dal primo ministro stesso l'ipotesi di un «rovesciamento delle alleanze » del Pakistan qualore gli Stati Uniti non aumentassero il prezzo della fedeltà dell'alleato.
In queste condizioni la funzione del SEATO e la sua efficienza quale strumento della polit[...]

[...]sentimenti antioccidentali, tanto che ormai. é stata formulata dal primo ministro stesso l'ipotesi di un «rovesciamento delle alleanze » del Pakistan qualore gli Stati Uniti non aumentassero il prezzo della fedeltà dell'alleato.
In queste condizioni la funzione del SEATO e la sua efficienza quale strumento della politica anticomunista degli Stati Uniti risultano grandemente indebolite e ciò rende una revisione della politica di Washington ancor più indispensabile di quanto lo fosse all'epoca di Bandung, quando la tesi statunitense della « difesa collettiva anticomunista ed anticinese » incontrava l'appoggio della maggioranza dei gruppi conservatori asiatici. E' sintomatico inoltre che le tendenze ad un avvicinamento agli Stati Uniti mostrate da alcuni dirigenti di paesi neutralisti all'epoca di Bandung non si siano concretate o siano state travolte da una ripresa di neutralismo. A Ceylon é caduto Kotelawala, l'uomo politico più filostatunitense esistente nell'Asia neutralista, in Birmania non vi é stata un'intensificazione dell'anticomu[...]

[...]ll'epoca di Bandung, quando la tesi statunitense della « difesa collettiva anticomunista ed anticinese » incontrava l'appoggio della maggioranza dei gruppi conservatori asiatici. E' sintomatico inoltre che le tendenze ad un avvicinamento agli Stati Uniti mostrate da alcuni dirigenti di paesi neutralisti all'epoca di Bandung non si siano concretate o siano state travolte da una ripresa di neutralismo. A Ceylon é caduto Kotelawala, l'uomo politico più filostatunitense esistente nell'Asia neutralista, in Birmania non vi é stata un'intensificazione dell'anticomunismo ed un avvicinamento a Washington.
Lo stesso vale per il caso del Cambogia e del Laos: all'epoca
JU ENRICA PISCHEL
di Bandung erano due Stati protetti dagli Stati Uniti, impegnati in un'azione repressiva anticomunista all'interno e schierati contro la Cina ed a favore del SEATO, dal quale erano indirettamente coperti. Due anni di azione diplomatica ed economica cinese e sovietica, la stabilizzazione della situazione indocinese ed alcuni sbagliati interventi di pressione statun[...]

[...]rati contro la Cina ed a favore del SEATO, dal quale erano indirettamente coperti. Due anni di azione diplomatica ed economica cinese e sovietica, la stabilizzazione della situazione indocinese ed alcuni sbagliati interventi di pressione statunitensi, ne hanno fatto due paesi neutrali, e il Laos anzi é l'unico paese non socialista retto da una coalizione a cui partecipano i comunisti. Naturalmente si tratta in questi casi di un neutralismo assai più labile e tatticistico di quello indiano e sensibile alle fluttuazioni internazionali: tuttavia anche in questo settore si sono avuti mutamenti profondi dall'epoca di Bandung e si é radicata la concezione che la stabilità e la possibilità di attuare una politica di sviluppo non passano né attraverso la garanzia militare statunitense, né attraverso la dipendenza dai soli aiuti americani.
Con ciò non si vuol negare che il SEATO e gli altri patti militari continuino a costituire una minaccia per la Cina e an. cor più per i neutrali costringendo questi ultimi a gonfiare il bilancio delle spese mi[...]

[...]oni internazionali: tuttavia anche in questo settore si sono avuti mutamenti profondi dall'epoca di Bandung e si é radicata la concezione che la stabilità e la possibilità di attuare una politica di sviluppo non passano né attraverso la garanzia militare statunitense, né attraverso la dipendenza dai soli aiuti americani.
Con ciò non si vuol negare che il SEATO e gli altri patti militari continuino a costituire una minaccia per la Cina e an. cor più per i neutrali costringendo questi ultimi a gonfiare il bilancio delle spese militari a danno di quello per lo sviluppo, in modo da contrastare la minaccia rappresentata dai vicini che potrebbero sempre invocare l'aiuto statunitense per i loro interessi particolari (e ciò vale soprattutto nel caso dell'India, sulla quale il Pakistan fa gravare attraverso la rivendicazione sul Kashmir, il pericolo di un intervento del SEATO o appoggiato dal SEATO, al quale il Pakistan ha aderito solamente in funzione antiindiana), oppure suscitare nel loro interno movimenti sovversivi a carattere reazionario [...]

[...]54, quando l'area di maggior frizione internazionale era in Asia e quando la funzione dei neutrali era necessaria per mantenere tra le varie potenze quel minimo di dialogo che permettesse di evitare la trasformazione della guerra fredda in guerra generale. Oggi un contatto diretto tra Stati Uniti ed Unione Sovietica é possibile anche senza intermediari e se può sussistere una notevole funzione per posizioni di tipo neutralista, il problema non é più quello di potenziare il neutralismo asiatico (che é un fatto ormai acquisito, almeno nella zona più vitale dell'Asia sudorientale), bensì di gettare le basi per una fascia neutrale in Europa o comunque di creare soluzioni di tipo nuovo nelle aree dove i due blocchi sono a contatto o dove esistono particolari ragioni di tensione. Ciò non implica un giudizio negativo per il neutralismo asiatico, né come fenomeno storico (essenziale nell'aver determinato l'attuale atmosfera internazionale e nell'aver impedito
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il precipitare della guerra fredda), né come forza politica tuttora valida e consolidata nella propria area, anche se non più nuova e tale da attirare attenzione e pol[...]

[...] creare soluzioni di tipo nuovo nelle aree dove i due blocchi sono a contatto o dove esistono particolari ragioni di tensione. Ciò non implica un giudizio negativo per il neutralismo asiatico, né come fenomeno storico (essenziale nell'aver determinato l'attuale atmosfera internazionale e nell'aver impedito
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il precipitare della guerra fredda), né come forza politica tuttora valida e consolidata nella propria area, anche se non più nuova e tale da attirare attenzione e polemiche.
In particolare é necessario precisare che il nuovo carattere economico dato al neutralismo dell'ingresso dell'URSS nella gara con gli Stati Uniti per lo sviluppo delle aere depresse non ha affatto modificato i principi base della politica dei neutrali asiatici (come é stato affermato da alcuni osservatori statunitensi), bensì li ha confermati. I paesi neutrali avevano infatti chiesto fin dall'inizio a tutte le grandi potenze industriali aiuti per il loro sviluppo, purché non condizionati a concessioni politiche e non cóhtr'ollàti dall'esterno[...]

[...]rategico.
Anche in questo caso non la politica dei neutrali é mutata, bensì quella delle grandi potenze: in particolare dell'URSS che prima del 1955 non poté, per ragioni strutturali, economiche, ed anche politiche mettersi in gara con gli Stati Uniti per lo sviluppo moderno dei paesi arretrati ed operare quella trasformazione del problema degli aiuti all'estero nettamente aperta dal suo intervento. L'accusa di aver sostituito un filosovietismo più o meno accentuato al neutralismo può essere ed é mossa ai neutrali asiatici soltanto dai gruppi oltranzisti statunitensi che ritengono tuttora che gli aiuti debbano essere dati solo « in premio» agli alleati fedeli e che la sfida sovietica per la « pacifica competizione » nell'aiuto ai paesi arretrati debba senz'altro essere lasciata cadere e battuta sul terreno della forza e della rigidità.
CONSID$RAZIONI SULLA NUOVA PASE DELLA POLITICA ASIATICA 33
Che poi l'aiuto sovietico o cinese costituisca un obiettivo fattore a favore di uno sviluppo progressivo in Asia, favorendo il continuo espande[...]

[...] in quanto veramente svincolato da controlli vessatori dall'esterno, non può quindi che avvicinare il giorno in cui gli interessi capitalistici stranieri saranno interamente esclusi dall'Asia meridionale o sudorientale in seguito al raggiungimento della sufficienza e dell'indipendenza da parte delle economie locali.
Il problema che molti economisti e rappresentanti degli interessi c economici statunitensi si pongono oggi, e cioè quello dei modi più adatti ad arrestare o a controbilanciare l'influenza tra sformatrice (o sovversiva' che dir si voglia) dell'"aiüto dei paesi comunisti all'Asia sudorientale, non appare quindi risolubile per chi assuma come necessaria la difesa —senza limiti di tempo dei « mercati » dell'Asia quale area di prevalente influenza economica dei paesi capitalistici e per chi consideri preminente il compito di bloccare le trasformazioni economiche d ell'Asia verso forme di più o meno sostanziale socialismo. Se gli Stati Uniti si asterranno dal dare il loro aiuto, l'Unione Sovietica e la Cina avranno vinto per manc[...]

[...] ad arrestare o a controbilanciare l'influenza tra sformatrice (o sovversiva' che dir si voglia) dell'"aiüto dei paesi comunisti all'Asia sudorientale, non appare quindi risolubile per chi assuma come necessaria la difesa —senza limiti di tempo dei « mercati » dell'Asia quale area di prevalente influenza economica dei paesi capitalistici e per chi consideri preminente il compito di bloccare le trasformazioni economiche d ell'Asia verso forme di più o meno sostanziale socialismo. Se gli Stati Uniti si asterranno dal dare il loro aiuto, l'Unione Sovietica e la Cina avranno vinto per mancanza di avversari la gara per la « competizione pacifica nello sviluppo dei paesi arretrati », se invece gli Stati Uniti daranno il loro aiuto essi favoriranno di fatto il processo di indipendenza economica dei paesi asiatici. L'altra soluzione, quella cioè di dare bensì l'aiuto ma di condizionarlo a legami politici ed economici è stata ed é tuttora tentata dagli Stati Uniti in alcuni paesi a loro vincolati da alleanze militari,
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ma i ri[...]

[...] sviluppo.
Resta inoltre il fatto che gli Stati ad organizzazione socialista sono in grado, per la loro propria esperienza in materia e per la loro struttura sociale particolare, di dare ai paesi arretrati un tipo di aiuto che mai i paesi ad iniziativa privata ed a carattere capitalistico potranno dare: non si tratta soltanto della disponibilità di materiali e di uomini che nell'organizzazione centralizzata delle economie di tipo socialista può più facilmente e rapidamente essere orientata in modo da sopperire alle esigenze dei vari paesi sottosviluppati a seconda che la situazione politica generale lo richieda, quanto del metodo di pianificazione e di mobilitazione delle masse che l'URSS sperimentò, che sta sperimentando la Cina e che fa parte integrante del processo di
costruzione socialista ».
Anche se l'URSS e la Cina smentiscono che esista da parte loro l'intenzione di fornire ai neutrali insieme all'aiuto un modello di soluzione sociale per la pianificazione, é pressocché inevitabile che i metodi di organizzazione sociale e poli[...]

[...]o ï cïii stano realizzati un cantiere od un'impresa attraverso l'aiuto di un paese socialista. Anche un solo cantiere (come ad esempio l'acciaieria di Bhilai in India) dove i tecnici sovietici creino il ritmo e l'atmosfera collettiva di entusiasmo per il compimento del piano e la trasformazione delle sorti materiali del paese, può bastare a costituire un metro di paragone con l'economia arretrata di tutta una nazione e rappresentare una spinta a più radicali trasformazioni sociali. E' chiaro inoltre che per la relativa piccolezza di queste imprese, per il loro carattere isolato e per il finanziamento esterno ricevuto, il metodo sovietico di sviluppo é in grado in questi casi di provare le sue migliori qualità senza rivelare i1 peso che per un paese intero può rappresentare lo sforzo generale e continuato di creare un'industria pesante a rapido ritmo e con le sole risorse interne.
Assai più difficile é dire se l'irrigidimento della politica sociale all'interno della Cina nell'ultimo anno e l'accantonamento
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del gradualismo che fino a due anni fa era parso contraddistinguere la « via cinese al socialismo » possano rafforzare le simpatie dei paesi neutrali verso la politica di pianificazione a seguito della constatata forte espansione della produzione cinese avvenuta in concomitanza con l'adozione della nuova politica sociale, o se invece possano irrigidire le tendenze delle nazioni asiatiche non socialiste contro ogni t[...]

[...] di dover ricorrere..: a. radicah trasfor
rt_.
..n,
mazioni sociali o se si debba preferire, quale ne sia il costo in termini umani immediati, uno sviluppo economico che bruci le tappe ed assottigliprimä che diventi incolmabile, il fossato che separa l'Asia dalle potenze industriali.
Proprio sul problema dei metodi e dei ritmi dello sviluppo e sui riflessi di esso sull'órgánizzazioñe sociale e politica si é manifestata da Bandung in poi la più profonda trasformazione nei paesi asiatici neutrali. Dal punto di vista politico il corso verificatosi negli ultimi tre anni in India, Indonesia e Birmania é stato caratterizzato soprattutto dallo sfaldamento del _gruppo_ socialmente eterogeneo che, guidò la lo ta per indipendenza e che ora si trova, per procedere alle scelte necessarie per*`Ic`sviluppo, a mettere a nudo le componenti sociali contrastanti che la lotta per la mera indipendenza politica aveva invece fuso e fatto apparire affini. D'altra parte — fenomeno parallelo ma non meno decisivo — i partitiicomurústi di uestiy Eaesi vanno[...]

[...]poggio dall'esterno al settore progressivo dell'attuale gruppo dirigente, in modo da consentirgli di premere da posizioni di forza per attuare il programma rinnovatore, dall'altro come formazione di un'alternativa ca
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pace di dirigere quella stessa politica di sviluppo che i movimenti nazionalisti fossero costretti a lasciar cadere.
Il paese dove lo sfaldamento del vecchio gruppo dirigente nazionalista potrà avere conseguenze più importanti per la situazione mondiale è naturalmente l'India, L'India di oggi é assai diversa dall'India di Bandung e più avanzata di allora sulla via dell'industrializzazione e della democrazia progressiva, comunque più lontana dal passato feudale e dal fanatismo religioso: tuttavia l'urgenza di certe scelte sociali fondamentali é oggi in India assai più pressante di quanto fosse tre anni fa ed il rinvio nelle decisioni da prendersi potrebbe implicare, ora come non mai, un pericoloso arresto per il paese ed il ritorno di situazioni e forze considerate superate.
Il gruppo al quale incombe la maggiore responsabilità nelle scelte da compiere é il partito del Congresso, non soltanto perché esso detiene il potere con maggioranza assoluta al parlamento e controlla attraverso una vasta rete di interessi le strutture economiche e politiche del paese, ma perché rappresenta la formazione politica nella quale si esprime la borghesia indiana, intesa nel[...]

[...]il ritorno di situazioni e forze considerate superate.
Il gruppo al quale incombe la maggiore responsabilità nelle scelte da compiere é il partito del Congresso, non soltanto perché esso detiene il potere con maggioranza assoluta al parlamento e controlla attraverso una vasta rete di interessi le strutture economiche e politiche del paese, ma perché rappresenta la formazione politica nella quale si esprime la borghesia indiana, intesa nel senso più lato. Quindi la scelta del Congresso é la scelta delle classi non feudali e non proletarie indiane; inoltre il Congresso è, a differenza del Kuomintag cinese nel 1927, in grado di tenere i contatti anche con vaste masse contadine. Finora Nehru, che all'epoca di Gandhi fu l'anima di sinistra del nazionalismo indiano, e più spesso un oppositore ideologico e politico delle tesi sociali del Mahatma che un pedissequo seguace, é riuscito a dominare la macchina del Congresso, questa informe federazione di movimenti diversi che ha coperto con un vago interclassismo la predominanza nel suo seno dapprima dei proprietari terrieri, poi dei rappresentanti degli interessi capitalistici e che ora si trova impegnata nella costruzione di una società che si pretende avviata al socialismo.
Nehru ha costretto il Congresso e la borghesia indiana che ne rappresenta il gruppo dirigente ad adottare in teoria e ad attuare almeno par[...]

[...] in teoria la trasformazione della società indiana secondo i principi democratico progressivi o perché questa trasformazione era ideologicamente consentanea al proprio pensiero ed economicamente favorevole ai propri interessi (e ciò vale soprattutto per le forze borghesi, sia della borghesia capitalistica sia di quella intellettuale o burocratica) o perché il moderato gradualismo sostenuto da Nehru era considerato un male minore rispetto ad una più violenta rivoluzione, oltre che un processo di cui si sarebbe potuto sabotare in pratica la continuazione (e ciò vale soprattutto per i grandi proprietari terrieri e le altre forze sopravvissute del passato semifeudale).
In particolare va notato chela litica di sviluppo non é
di per sé in India in contraddizione con gli interessi della borg hesiä ma anzi é favorevole ad essi ed inoltre che, àrrieTña—fino a che la borghesia controlla esclusivamente l'apparato economico ed amministrativo dello Stato, essa può anche vedere con favore una certa misura di pianificazione e di estensione dell'ec[...]

[...]mifeudale).
In particolare va notato chela litica di sviluppo non é
di per sé in India in contraddizione con gli interessi della borg hesiä ma anzi é favorevole ad essi ed inoltre che, àrrieTña—fino a che la borghesia controlla esclusivamente l'apparato economico ed amministrativo dello Stato, essa può anche vedere con favore una certa misura di pianificazione e di estensione dell'economia statale, per coprire i settori di minor reddito e di più gravosi investimenti nello sforzo di sviluppo. Con ciò si spiega l'adesione di forti gruppi della borghesia alla politica di pianificazione di Nehru ed anche l'adozione — per quanto paradossale ciò possa parere — di « principi socialisti » per lo sviluppo della società indiana, deliberata dal partito del Congresso nel 1955.
Ma in questi tre anni la situazione si é trasformata sotto più di un aspetto: il secondo piano quinquennale orientato sull'industria e non più, come il primo, sull'agricoltura ed i lavori pubblici, ha incontrato presso il settore finanziario e industriale della borghesia assai minor favore del primo ed é stato accettato
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soltanto da una parte della classe dirigente, cioè da quei gruppi che possono trarre ancora dal piano vantaggi superiori al nocumento loro arrecato dall'espansione del settore statale nell'industria. Benché accettato in teoria, pur essendo formulato su basi sostanzialmente modeste e comunque tali da non sovvertire il carattere della società indiana, in pratica il piano è stato in gran parte ed in[...]

[...] stato accettato
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soltanto da una parte della classe dirigente, cioè da quei gruppi che possono trarre ancora dal piano vantaggi superiori al nocumento loro arrecato dall'espansione del settore statale nell'industria. Benché accettato in teoria, pur essendo formulato su basi sostanzialmente modeste e comunque tali da non sovvertire il carattere della società indiana, in pratica il piano è stato in gran parte ed in modo sempre più evidente sabotato dalle classi abbienti: la resistenza ad ogni modifica radicale della politica fiscale (tuttora la grande maggioranza degli introiti statali deriva da dogane, dazi ed altre imposte indirette mentre_ le imposte sulle entrate e sul patrilboniä, Y sóltänto leggermente progressive
e frequentemente q esente evase, non danno che un gettito secondario), il rallentamento della formazione del risparmio o comunque del suo incanalamento a scopi produttivi, l'intensificarsi della speculazione sui beni di prima necessità, con la richiesta di assegnare al settore privato una posizione di[...]

[...]poste ad appoggiare in pieno il perseguimento e l'irrigidimento della politica pianificatrice, scegliere chiaramente e definitivamente una delle due alternative, Nehru si trova ora a sopportare le conseguenze negative di entrambe le scelte. Ha dovuto cioè decurtare ufficialmente il piano, già tanto modesto, di almeno un 15 per cento, e non ha potuto trovare soluzioni per innestare un movimento di rapida espansione della economia anche a scadenza più lontana.
D'altra parte contro di lui si è scatenata (con quel rispetto per le forme esteriori che l'enorme popolarità del primo ministro richiede pur sempre) un'ondata di attacchi da parte di gruppi politici e sociali che finora si erano schierati con il Con
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gresso ma che si rivelano ormai come un'opposizione di destra a Nehru, all'interno o al di fuori del partito di governo. Si tratta in genere di un'intensificata attività di gruppi regionalistici e se
paratisti che giocano su risentimenti locali spesso giustificati
dal cent[...]

[...]utti gli enti statali, per risuscitare e lanciare contra la politica di pianificazione (che deve ricorrere ad un certo grado di autoritarismo) quelle forze centrifughe che caratterizzarono in senso negativo tutta la storia dell'India e che dal 1947 in poi erano state tenute a freno proprio dal fattore unitario ed unificatore rappresentato dalla politica progressiva e dallo sforzo per lo sviluppo.
Un altro aspetto della lotta contro Nehru (anche più del precedente subdolo e difficile da combattere) é il rafforzarsi entro il Congresso, soprattutto nei governi regionali controllati quasi dovunque dal Partita, di consorterie locali, spesso largamente corrotte e legate ad interessi semifeudali o monopolistici. Nehru ha dovuto e potuto intervenire ad epurare i dirigenti del suo stesso partito nei casi di più grave scandalo, quando le posizioni del Congresso stavano già per precipitare sotto i colpi delle opposizioni e di personalità uscite dal Congresso proprio per denunciarne la corruzione su base locale. Nella maggior parte delle situazioni però, il primo ministro non ha potuto — per ovvie esigenze di lotta politica e per salvaguardare il suo partito contro gli avversari — porre argine ad uno stato di cose che, senza raggiungere l'aperta violazione della legge, mina la efficienza del partito di governo e lo mette comunque fuori gioco come strumento progressivo. Il gruppo di sinistra del Congres[...]

[...]tica del governo centrale, si trova cosí a dipendere su base locale da gruppi e consorterie che sono quanto mai lontani, per i loro interessi sociali diretti, dalla linea sostenuta dal primo ministro, che risulta quindi inevitabilmente compromessa e legata da queste connivenze.
Una situazione di questo tipo implica una contraddizione fondamentale in quanto le tendenze centrifughe e le minacce di
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un ritorno alla stasi rendono più che mai indispensabile ed urgente l'attuazione, e l'attuazione integrale, del piano, che viene a costituire l'elemento decisivo per rafforzare l'unità nazionale, mentre indeboliscono le stesse possibilità che a Nehru si presentano di premere sul paese per ottenere da esso il compimento del piano. Le difficoltà nelle quali si trovano il primo ministro e la sua corrente non sono casuali e inducono ancora una volta a chiedersi se la politica di pianificazione innovatrice sia affatto possibile senza essere stata preceduta da un basilare compimento della rivoluzione sociale e senza un'integrale mo[...]

[...]tativo di risolvere il problema della terra attraverso sistemi gandhiani di donazione volontaria di lotti poderi e interi villaggi e nonostante i risultati positivi dati dalla pianificazione nel settore agricolo (con un notevole aumento della produzione), non é possibile in India contare sulla mobilitazione politica ed economica delle campagne attorno ad una pianificazione progressiva, se non iniziando un processo di trasformazioni sociali assai più profonde e probabilmente anche più violente di quelle attuate finora. E' dubbio se la sinistra del Congresso saprà e vorrà dare un colpo decisamente rivoluzionario alla situazione nelle campagne, che resta il termine decisivo per il successo o l'insuccesso della lotta di ogni forza progressiva in Asia.
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Considerazioni affini potrebbero essere fatte anche per ció che concerne la popolazione urbana, tanto nei ceti operai quanto in quelli intellettuali. Cosicché in ogni settore della vita nazionale indiana la possibilità di continuare la politica di progressismo democratico e di industrializzazione perseguita d[...]

[...] Nehru, .dalle concessioni che il primo ministro ha ritenuto di dovere e poter fare a certi gruppi di destra su piano regionale e nazionale, sperando di ovviare poi ad esse con manovre interne di partita e con la sua consumata abilità di capofrazione.
Ora tuttavia questo equilibria di mosse e di interessi tenuto in piedi personalmente dal primo ministro (che accentra sulla
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sua persona più poteri ed in settori più vari che qualunque altro capo . politico) sembra avere un limite nel tempo: non tanto il limite della vita naturale di Nehru, quanto il limite dell'unità e del potere del Congresso, oppure quello della presenza di Nehxu alla testa del partitio e del governo. L'attacco pressante a Nehru da destra apre nuove prospettive: da un lato quella del possibile accantonamento di Nehru e della sua sostituzione con uomini di second'ordine graditi alle forze conservatrici, dall'altro quella di una scissione nel Congresso con la formazione di un partito conservatore, antistatalista, antisocialista e regiona[...]

[...]litica progressiva. Mentre non è da escludere l'ipotesi che Nehru stesso accetti di attenuare e di moderare la sua politica sociale, pur nella coscienza delle gravi conj seguenze implicite in questa decisione.
Infine, anche nell'ipotesi del mantenimento dell'unità del Congresso, l'apparato del partito governativo, assai macchinoso ma intaccato dall'intrinseca posizione contraddittoria di gruppi sociali e politici sui quali si basa, regge sempre più difficilmente alle spinte divergenti che lo influenzano, tanto che le ultime elezioni locali o parziali hanno rivelato un processo di sgretolamento assai più rapido e profondo di quanto ci si potesse aspettare uno o due anni fa. Il fatto più grave in questa situazione é che i benefici dell'indebolimento del Congresso sono andati più a vantaggio dei partiti della destra confessionale indù, messasi alla testa delle rivendicazioni separatistiche e conservatrici, che del partito comunista o di altri gruppi di sinistra.
La battaglia dei comunisti indiani per presentarsi come una forza capace di costituire una reale ed efficiente alternativa al Congresso, oppure di divenire un alleato in funzione propulsiva per la politica di Nehru, é ancora quindi incerta, lunga e dura._; Essi hanno potuto registrare nelle ultime consultazioni elettorali, generali o parziali, una sensibile avanzata, che li ha fatti diventare il secondo parti[...]

[...]li o parziali, una sensibile avanzata, che li ha fatti diventare il secondo partito del paese e li ha portati per la prima volta al potere nella regione di Andhara. Tuttavia va scartato il concetto semplicistico della propaganda di certi ambienti americani in base alla quale una sconfitta di Nehru e del suo metodo
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di « pianificazione democratica » implicherebbe ipso facto l'ascesa al potere dei comunisti: la probabilità assai più imminente e concreta è che la situazione' indiana scivoli a destra, e proprio per` evitare quest'ipotesi i comunisti stanno cercando di elaborare ex novo il loro programma e di inserirsi nel processo storico attuale dell'India come una forza che partecipi dall'interno alla dialettica democratica del paese.
La trasformazione del peso e delle posizioni dei comunisti indiani é stata uno degli sviluppi più importanti e meno notati verificatisi da Bandung in poi. Tre anni fa la maggioranza degli osservatori occidentali riteneva che il partito comunista in India fosse un fattore completamente superato, eliminato dal gioco per il semplice fatto che Pechino e Mosca avevano dimostrato di essere disposte a riconoscere la funzione positiva di Nehru e ad appoggiare la sua politica senza porre condizioni di ordine interno. Indubbiamente la storia del partito comunista indiano é stata delle più agitate ed incerte e, nei primi anni susseguenti all'indipendenza, la lotta estremista contro il regime di Nehr[...]

[...]isi da Bandung in poi. Tre anni fa la maggioranza degli osservatori occidentali riteneva che il partito comunista in India fosse un fattore completamente superato, eliminato dal gioco per il semplice fatto che Pechino e Mosca avevano dimostrato di essere disposte a riconoscere la funzione positiva di Nehru e ad appoggiare la sua politica senza porre condizioni di ordine interno. Indubbiamente la storia del partito comunista indiano é stata delle più agitate ed incerte e, nei primi anni susseguenti all'indipendenza, la lotta estremista contro il regime di Nehru
e la tattica insurrezionale (delle quali non si saprebbe dire facilmente se sia stata ispiratrice una generale linea politica adottata da tutti i partiti comunisti asiatici o piuttosto un'incauta adesione del partito allo stato d'animo esasperato di masse povere
e primitive) contribuirono certamente ad isolare il partito, ad indebolire le forze progressive in India, ivi compreso il gruppo di Nehru, ed ha mettere in difficoltà la politica estera generale del blocco socialista.
Ora comunque quest'atteggiamento é stato completamente rivisto e, al termine di un processo durato parecchi anni, il par tito comunista indiano ha adottato nel suo recente congresso dell'aprile scorso, una linea politica basata sull'attuazione pacifica
e democratica del socialismo, attraverso [...]

[...]a per attuare la fase borghesedemocratica ed antimperialista della rivoluzione successi assai maggiori di qualsiasi altro movimento nazionalista. Sotto una certa prospettiva il problema della collaborazione con la sinistra del Congresso presenta quindi una certa affinità con quello della collaborazione dei comunisti con i movimenti socialisti non marxisti. Data la particolarità della situazione indiana (cioè dato il livello al quale è giunta qui più che in qualsiasi altro paese emerso dal dominio coloniale, l'eliminazione dei residui del colonialismo e del feudalesimo) il problema che devono fronteggiare i comunisti in I diani non può essere risolto puramente entro gli schemi elabo1 rati in Cina da Mao per una società « semicoloniale e semifeudale »: l'India oggi è un fenomeno assai più complesso, perch' in essa coesistono residui semicoloniali e semifeudali, con vast settori borghesi ed altri semisocialisti.
Come potranno i comunisti indiani inserirsi nel gioco e portare gradualmente alla prevalenza il settore semisocialista ? A questo proposito bisogna tener presente che l'atteggiamento contro il « revisionismo » e contro tutti i tentativi di organizzare
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società di tipo socialista su basi sostanzialmente diverse da quelle dell'URSS, assunto nell'ultimo anno dai partiti comunisti e primo fra tutti dal partito comunista cinese, non sembrano consentire ai[...]

[...]a politica di Nehru. Essi quindi per ora limitano la positività della « linea Nehru » ed il loro appoggio ad essa con un giudizio derivato in generale dalle tesi della « Questione nazionale e coloniale » e della « Nuova democrazia » : essi giudicano cioè la linea di Nehru una politica « borghese » assai progressiva, obiettivamente utile e tale da essere portata fino in fondo, ma la considerano pur sempre come una fase, per quanto avanzata, di un più lungo processo rivoluzionario, il cui coronamento sarà attuato solo sotto la direzione dei comunisti.
Sotto certi aspetti la situazione indiana attuale differisce essenzialmente da quella cinese del 1927 per il fatto che, mentre nel Kuomintang le forze di carattere feudale e legate agli interessi stranieri avevano preso il sopravvento costringendo i comunisti alla lotta armata contadina, in India il prevalere degli elementi borghesi ormai delineatosi, consente l'adozione di una tattica democratica, legalitaria ed elettorale come quella finora fatta propria soltanto dai partiti comunisti dei [...]

[...]ei.
Al momento attuale essi sembrano voler inserirsi nelle contraddizioni esistenti tra Nehru ed i suoi avversari, in modo da sventare l'ipotesi di un reflusso a destra e di un rafforzamento delle forze semifeudali (che potrebbe creare una situazione affine a quella della Cina dopo il 1927) e da presentarsi al primo ministro come una forza indispensabile al successo delle sue tesi. Finora Nehru (che verso i comunisti indiani ha un atteggiamento più conciliante che in passato, lodandone l'evoluzione in senso democratico) non si é mai trovato nella necessità di contare sui
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comunisti come su un gruppo indispensabile per salvare la sua politica: egli ha sempre proceduto a concertare entro il Congresso soluzioni di compromesso da far adottare poi con criteri unanimistici dalle varie frazioni, sicché il vero gioco della politica indiana si è sempre concluso al di fuori delle sedi parlamentari e senza decisioni di stretta misura nelle quali l'appoggio comunista potrebbe essere necess[...]

[...]ehru rafforzandone la posizione e, quali che siano le obiettive conseguenze sociali dello sviluppo in India, l'aiuto sovietico non è mai stato criticato da alcuno come un contributo alle mire del partito comunista indiano, né mai sono risultate particolari « connivenze sovversive » tra l'URSS ed i comunisti indiani. Lo stesso sembra valere per la Cina e, se vi sono stati in India timori e diffidenze verso Pechino, essi si sono sempre concentrati più sull'eventualità di pressioni ed interferenze esterne dello Stato cinese su quello indiano, che su infiltrazioni dell'influenza cinese attraverso i comunisti indiani.
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!tra lo Stato sovietico ed uno Stato estero siano sostanzialmente (e non solo formalmente) separati dai rapporti tra il partita comunista dell'URSS ed il partito comunista dello Stato stesso. È proi babile che a determinare questo fatto contribuiscano fino ad un certo punto elementi tattici e come tali non duraturi, tuttavia sembra esservi da parte sovietica una certa considerazione della particolarità dei r[...]

[...]mente presentare l'India come uno Stato socialista, per quanto « diverso ». Né i comunisti indiani né quelli sovietici o cinesi sembrano, tuttavia, aver mai dato molto peso alle tesi socialiste del Congresso e non ne daranno finché esse non saranno state attuate.
***
Diverso è il processo che caratterizza lo sfaldamento della unità delle compagini nazionalisteborghesi in Indonesia ed in Birmania. La borghesia di questi paesi è stata ed è assai più debole di quella indiana, soprattutto ne è debole il settore capitalistico finanziario. Manca un capitale nazionale privato, mancano i ceti inferiori della borghesia mercantile o commerciale
Quello dell'India è quindi il primo caso nel quale i rapporti
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ed il settore esistente di economia moderna (per lo più rappresentato da piantagioni di prodotti agricoli pregiati, da aziende per l'estrazione di materie prime o piccole fabbriche di beni di consumo immediato) é tuttora controllato in gran parte dal capitale straniero. In questi due paesi é avvenuta puramente la fase anticoloniale e politica della rivoluzione e si é ben lungi dal poter parlare, come in India, di avanzato compimento della intera fase borghesedemocratica di essa.
Il carattere prevalente della società é quello semicoloniale, sa prattutto per ciò che riguarda le strutture economiche essenziali, mentre in India questa prevalenza é ce[...]

[...] e si é ben lungi dal poter parlare, come in India, di avanzato compimento della intera fase borghesedemocratica di essa.
Il carattere prevalente della società é quello semicoloniale, sa prattutto per ciò che riguarda le strutture economiche essenziali, mentre in India questa prevalenza é cessata; come in India, sopravvivono invece residui economici ed ideologici del regime feudale, in particolare nelle zone lontane dal centro, ma essi assumono più il carattere di movimenti separatisti e particolaristici che quello di palese oppressione sulle masse contadine; infine il settore moderno dell'economia che non é sotto il controllo straniero ha un certo carattere collettivisticostatalista, che sarebbe difficile definire « socialista », anche assumendo il termine nel senso più generico, e che ha invece affinità con un dominio burocratico. A differenza dell'India inoltre lo sforzo di sviluppo in questi paesi non si é ancora avviato in modo deciso e continuo ed in certi casi é stato stroncato sia da quelle forze retrive che ora lo minacciano in India sia dalle interferenze straniere.
Tuttavia l'Indonesia e la Birmania non sono neppure nelle condizioni dei paesi dell'Asia dominati da classi reazionarie, disposte a scendere a qualsiasi compromesso con gli Stati Uniti pur di conservare il loro dominio semifeudale sulla terra o il loro monopolio sul modesto settore di e[...]

[...]trollano il capitale e le imprese private. Ma proprio sul piano politico si sono recentemente create le diflicol tà per i nazionalisti progressivi indonesiani e birmani: per salvarsi dall'attacco dei loro avversari di destra, che riel caso della.
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Indonesia sono forze confessionali legate ad interessi particolaristici e semifeudali e nel caso della Birmania sono semplicemente il settore più abbiente della nuova borghesia burocratica, essi hanno dovuto rinunciare a tenere al bando dalla gestione degli affari e dalla vita politica le forze comuniste e filocomuniste, che nel 1948 gli stessi nazionalisti avevano ritenute superflue per la loro vittoria e pericolose per i loro interessi.
Né in Indonesia né in Birmania questa reimmissione dei comunisti nell'attiva direzione degli affari del paese è ancora avvenuta pienamente. In Indonesia, dove vige in linea di principio un'effettiva democrazia politica, limitata finora soltanto localmente dalle interferenze delle forze reazionarie po[...]

[...]sono tre ministri indipendenti filocomunisti) e finora sono stati vani gli sforzi del presidente Sukarno per sancire con la loro partecipazione alla direzione del paese un'alleanza di tipo fronte popolare tra. forze nazionaliste e forze comuniste.
Ora che la secessione armata della destra é stata sconfitta per l'azione tempestiva ed energica dell'esercito, ma anche per le resistenze opposte alla secessione dai gruppi socialmente e politicamente più avanzati dei lavoratori di Sumatra e di Giava, si presenta per i nazionalisti indonesiani la necessità di una scelta a breve scadenza: se essi non consolideranno rapidamente la loro politica progressiva, accantonando i personalismi ed i giochi di partito che sono stati fin qui causa di tante incertezze nella politica economica e sociale indonesiana, il sopravvento potrebbe andare ai militari, la cui fedeltà a quegli ideali di democrazia laica, repubblicana ed unitaria (che sono sempre stati la base delle tesi ideologiche dei nazionalisti indonesiani) si è rivelata assai scarsa proprio in occa[...]

[...] stati fin qui causa di tante incertezze nella politica economica e sociale indonesiana, il sopravvento potrebbe andare ai militari, la cui fedeltà a quegli ideali di democrazia laica, repubblicana ed unitaria (che sono sempre stati la base delle tesi ideologiche dei nazionalisti indonesiani) si è rivelata assai scarsa proprio in occasione delle secessione separatista di Sumatra
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alla quale hanno partecipato numerosi militari. Più sintomi inoltre sembrano indicare che la prima vittima di un « potere forte » dei militari sarebbero proprio i gruppi nazionalisti e gli interessi che ad essi fanno capo.
Per evitare la dittatura militare e il conseguente accantonamento di tutte le forze progressive che hanno finora guidato l'Indonesia, i gruppi nazionalisti devono impegnarsi più a fondo per rendere efficiente e stabile l'organizzazione democratica del paese, per iniziare una politica economica di sviluppo che ora è più urgente che mai per colmare i danni economici causati dalla secessione e dalla guerra civile. Ma da questa conferma del metodo democratico e della politica di sviluppo potrebbe trarre vantaggio soprattutto il partito comunista che guarda già alle elezioni che dovrebbero essere tenute nel 1959 come alla grande occasione di un successo di sinistra da ottenersi o attraverso la lotta dei partito comunista da solo, o attraverso un fronte tra nazionalisti e comunisti. Rinviando le elezioni il partito nazionalista si troverebbe alla mercé di quei gruppi musulmani di centro destra, che, pur avendo so[...]

[...]eciparvi sperando di poter agire come arbitri e mediatori tra un governo incapace di reprimere la rivolta ed i ribelli incapaci di ottenere una vittoria decisiva; indicendole esso deve assicurarsi un successo a sinistra in modo da non rinnovare il paralizzante equilibrio di forze opposte emerso dalle elezioni del 1955.
i' Il problema dei rapporti tra il gruppo nazionalista progresr sivo ed i comunisti é quindi in Indonesia in uno stadio assai I più avanzato che in India, dove le concessioni e la mediazione di Nehru e soprattutto la forza coesiva rappresentata dalla sua 1 personalità hanno finora rinviato quella rottura con le forze 1 di destra, che invece il radicalismo di sinistra e l'atteggiamento politico di Sukarno hanno favorito. Un appoggio da sinistra, anche a prezzo di concessioni politiche e sociali è quindi più urgente ed indispensabile (e forse anche ideologicamente più accettabile) per i nazionalisti indonesiani che per Nehru.
A differenza di quanto avviene in India, la collaborazione
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tra nazionalisti e comunisti indonesiani, (se non sarà stroncata da uria dittatura militare) non sembra destinata a porre problemi ideologici nuovi al movimento comunista nel suo complesso: questa collaborazione rientra infatti nelle vecchie tesi sulla necessità di unire comunisti e nazionalisti nella lotta contro le sopravvivenze economiche del dominio coloniale (siano esse controllate dai decrescenti interessi ola[...]

[...]eanza di questo genere, secondo le tesi di Stalin e di Mao. La probabilità di portare al successo un'alleanza nazionalistacomunista attraverso una vittoria elettorale anziché attraverso la lotta armata non costituisce di per sé un nuovo elemento nella teoria dei fronti popolari per i paesi semicoloniali e si inserisce logicamente nell'evoluzione di tutti i movimenti comunisti asiatici a favore del metodo democratico per la conquista del potere.
Più incerta é la situazione birmana e più recente la collaborazione tra filocomunisti e gruppi nazionalisti di sinistra (che tali sono le forze della Lega antifascista per la libertà del popolo, nonostante le loro professioni di fede in un socialismo più o meno fabiano). La rottura del gruppo, che fin qui resse la Birmania con un regime che in sostanza potrebbe essere definito di partito unico, é stata consumata soltanto all'inizio di giugno e solo allora, fratturatosi il potere monopolizzato in precedenza dalla Lega e dalla rete delle sue organizzazioni di massa, é stato necessario per i nazionalisti progressivi ricorrere ai voti dei filocomunisti fino allora tenuti al bando. L'aspetto principale della nuova situazione consisterà probabilmente nella definitiva liquidazione della lotta armata infierita dal 1948 in poi tra governo e partito co[...]

[...]finitiva liquidazione della lotta armata infierita dal 1948 in poi tra governo e partito comunista ufficiale, nel ritorno del partito comunista stesso alla legalità e nella sua fusione con le forze filocomuniste rimaste nella legalità ed ora alleatesi con i nazionalisti progressivi.
Questo mutamento nelle posizioni dei comunisti birmani,
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nonostante la scarsa entità che l'evento riveste rispetto alla situazione mondiale, è il più recente e sintomatico coronamento del processo svoltosi in Asia da Bandung in poi attraverso il prevalere degli sviluppi e degli interessi interni sulle ripercussioni di fatti e situazioni verificatisi fuori dello spazio di ciascun Stato asiatico. La rivolta dei comunisti birmani e la guerra ci vile da essi mossa al regime nazionalista progressivo di . Rangoon non era i atti giustificata dalla situazione interna, né dalla polihca estera del governo birmano: ma rappresentò il tentativo estremo e più irrazionale di risolvere con la violenza e ëonfidandö in~úñ `ä ütö esterno (che nel caso della [...]

[...]ltosi in Asia da Bandung in poi attraverso il prevalere degli sviluppi e degli interessi interni sulle ripercussioni di fatti e situazioni verificatisi fuori dello spazio di ciascun Stato asiatico. La rivolta dei comunisti birmani e la guerra ci vile da essi mossa al regime nazionalista progressivo di . Rangoon non era i atti giustificata dalla situazione interna, né dalla polihca estera del governo birmano: ma rappresentò il tentativo estremo e più irrazionale di risolvere con la violenza e ëonfidandö in~úñ `ä ütö esterno (che nel caso della Birmania 'non fu concesso ai comunisti locali né dell'URSS né della Cina proprio per salvaguardare la loro collaborazione con i neutrali) i problemi sociali ed economici di un paese asiatico e di rompere fa collaborazione tra i Comunisti e i gruppi democraticoprogressivi della borghesia. Ora, spostatasi sui problemi interni e concreti dei paesi asiatici l'alternativa a lunga scadenza tra i diversi sistemi di organizzazione sociale, l'insurrezione armata e la divisione tra le forze comuniste e quelle[...]



da (Mito e civiltà moderna) Vittorio Lanternari, Frammenti religiosi e profezie di libertà fra i popoli coloniali in KBD-Periodici: Nuovi Argomenti 1959 - 3 - 1 - numero 37

Brano: [...]re crescente. Alla radice di ogni rivolta politica e militare di popoli indigeni stanno effettivamente altrettanti moti di rinnovamento religioso premonitori, cioè i culti profetici di liberazione.
Essi son venuti fiorendo nell'Africa Negra, dal Sud Africa alla Rhodesia, al Tanganika all'Africa Equatoriale e Occidentale, all'Angola, al Congo all'Uganda al Kenya, ecc. Ma altri numerosissimi sono venuti sviluppandosi e via via diffondendosi, dove piú presto dove più tardi, in Melanesia, Polinesia, Indonesia e nell'America indigena settentrionale e meridionale. Di pari passa con l'urto tra cultura egemonica e culture aborigene: soprattutto via via che le conseguenze dell'urto si son fatte pressanti e sconvolgenti — specialmente a seguito delle due guerre mondiali — i movimenti profetici dei popoli indigeni si sono imposti all'attenzione delle amministrazioni coloniali e delle chiese occidentali, oltreché della cultura moderna. Essi rappresentano il prodotto spontaneo dell'urto culturale tra aborigeni e bianchi: estranei pertanto a qualsiasi propaganda o g[...]

[...]maturatasi attraverso esperienze di miseria e soggezione d'ogni sarta, a reagire contro l'oppressione, la preoccupazione, la frustrazione, su terreno religioso oltre e prima che su terreno organizzativopolitico. A tal punto ogni loro manifestazione culturale, d'ordine economico e sociale, politico, artistica, filosofico ecc., é tradizionalmente permeata di spirito religioso.
Altrettanti culti profetici hanno preceduto, accompagnato, ispirato le più crude reazioni dell'irredentismo indigeno alle invasioni territoriali dei bianchi. E ogni qualvolta le radicali pretese di espulsione degli Europei dal territorio nativo sono venute meno, definitivamente frustrate come nel caso degli Indiani delle praterie o dei Maori della Nuova Zelanda, allora altri, nuovi culti profetici sono sorti: essi annunciano e promuovono programmi di autonomismo culturale e religioso, reagendo alla politica di segregazione razzista, di assimilazione forzata, di detribalizzazione e deculturazione perseguita dalle amministrazioni coloniali nonché dalle chiese missiona[...]

[...]cultura a moderna » e si instaurano determinati, necessari rapporti con i bianchi (oltre e al di sopra della polemica anticolonialista), da un altro verso essi risultano profondamente legati alla tradizione religiosa indigena e, attraverso questa, alle varie esperienze esistenziali d'ogni cultura. Pertanto l'intero corredo miticorituale di ciascuna cultura riaffiora in ogni formazione profetica, sia pure attraverso rielaborazioni, trasformazioni più o meno consapevoli, revisioni e scelte volta per volta determinate dalle stesse esigenze di sopravvivenza e di salvezza in quanta nucleo culturale autonomo.
Da una parte i culti profetici indigeni sono documento sconcertante e inoppugnabile del dinamismo insito nelle culture a livello etnologico : e bastano da soli a far cadere come irrisoria ogni antica illazione circa una pretesa staticità della vita culturale e religiosa di queste civiltà. D'altra parte essi sanciscono, con il loro anelito di libertà, con l'ansia di salvezza terrena da cui sono animati i proseliti, la funzione profana del[...]

[...]e la caccia, viene impiegato ordinariamente il crocefisso (3). E dunque un sincretismo nel quale gli elementi portati dai missionari sono reinterpretati in funzione clamorosamente pagana, perdendo ogni valenza caratteristicamente cristiana. L'esempio è eloquente a mostrare su quale linea si svolga, anche nei successivi sviluppi, l'incontro tra due mondi culturali così eterogenei: da un lato le forme religiose indigene legate alle esigenze vitali più immediate — fecondità, fertilità, buon successo alla caccia —, dall'altro il Cristianesimo, nato dalla crisi di civiltà urbane medioorientali ed occidentali, improntato ad esigenze di tutt'altro ordine e inadeguato, almeno nelle forme genuine europee, ai bisogni religiosi locali.
(2) J. Juvelier, Relation sur le Congo du Père Laurent de Lucques (17001717). Bruxelles 1953.
(3) R. Wannijn, Objets anciens en metal du Bas Congo, « Zaire », V, 1952, 39194.
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Uno dei tratti religiosi peculiari delle culture congolesi, come si vede[...]

[...]unzione di protezione dalla magia nera.
È del 1904 il primo grande movimento profetico, ed ha carattere tipicamente feticista e insieme xenofobo. Il fondatore fu Epikilipikili, taumaturgo autore e divulgatore di un nuovo feticcio (bwanga), composto di polveri e parti di animali, dotato di speciali poteri contro ogni forza ostile, e in particolare contro la magia nera. Fu fondata un'organizzazione magica che guadagnò proseliti via via in regioni più vaste e ottenne il consenso dei capi locali. La ricetta tra l'altro doveva immunizzare gli indigeni dai proiettili sparati dai bianchi. In realtà l'organizzazione magica di Epikilipikili è il prototipo e la forma embrionale di quelle numerose società segrete (Mani di Boma, Punga o Muana Okanga fra i minatori del Katanga, Nebili degli Azande, ecc.) che nell'Africa centrale e occidentale dovevano svilupparsi, sul ceppo di precedenti associazioni tribali di mutua difesa contro la magia nera, caricandosi di una precisa funzione antioccidentale. Fatto sta che un anno dopo la costituzione della set[...]

[...] culti religiosi di libertà, i primi moti antieuropei. Se, come avvenne nel 1905 e nei successivi episodi, i fucili dei bianchi avevano la meglio contro le sedizioni e le soffocavano, era facile agli indigeni convincersi che la sconfitta dipendeva da trasgressioni commesse alle, norme cultuali. Infatti le varie associazioni segrete svolgevano riti particolari.
(4) Comhaire, « Africa », 1955, 55.
(5) De Jonghe, pp. 567.
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Più tardi, nel sudovest della stessa provincia del Kasai, i Bashilele si univano in un'analoga organizzazione fondata sull'uso di una panacea (nkisi) o feticcio, che ingerito dagli iniziati li avrebbe immunizzati da malattie e dai perniciosi effetti degli stregoni (ndoki): era la società Lukusu (—Lukoshi=Nkisi Lukoi). Ma essa doveva ben presto sboccare nel culto del «Serpente parlante » (uomoserpente), con funzione protettiva contro ogni sorta di mali. Con ciò essa appare come una forma locale di quel grande complesso di culti segreti, e delle relative società di uominibestie che rappresentano un[...]

[...]rito dagli iniziati li avrebbe immunizzati da malattie e dai perniciosi effetti degli stregoni (ndoki): era la società Lukusu (—Lukoshi=Nkisi Lukoi). Ma essa doveva ben presto sboccare nel culto del «Serpente parlante » (uomoserpente), con funzione protettiva contro ogni sorta di mali. Con ciò essa appare come una forma locale di quel grande complesso di culti segreti, e delle relative società di uominibestie che rappresentano uno dei lineamenti più notevoli della religione dell'Africa equatoriale: associazioni intese a procurarsi potenza (magica) contra ogni creatura e forza ostile. Ma qui importa sottolineare che nell'ambito dell'associazione del Serpente parlante dei Bashilele si sviluppava un mito nuovo e chiaramente antieuropeo. Dal serpente, seconda il mito, sarebbero nati alcuni profeti o messia i quali avrebbero lottato contra la nazione egemonica e scacciato i bianchi dal paese (6). Così si scorge come le varie formazioni religiose tradizionali africane, del resto già sorte con funzioni di protezione dai mali e dagli stregoni (f[...]

[...]ro lottato contra la nazione egemonica e scacciato i bianchi dal paese (6). Così si scorge come le varie formazioni religiose tradizionali africane, del resto già sorte con funzioni di protezione dai mali e dagli stregoni (feticismo, società di uominibestie), a seguito dell'aggravarsi dell'urto culturale tra indigeni e bianchi si trasformavano in senso nettamente xenofobo, antieuropeo. In realtà l'esperienza di urto coi bianchi si rendeva sempre piú drastica, e coinvolgeva tutte le forme religiose tradizionali: tanto più quelle volte già a un intento esplicitamente salvifico, di guarigione, di padroneggiamento delle forze maligne.
Secondo la credenza dei Bashilele diffusasi nel 1933 (il Congo
Belga era stato costituito come colonia belga nel 1907: il contatto europeo dava i primi frutti in campo religioso e politico insieme) — l'avventa del messia liberatore sarebbe stato contrassegnato da eventi catastrofici, cioè il ritorna collettivo dei morti, l'eclisse solare; un cane nero avrebbe fatto la sua comparsa tra i villaggi parlando agli uomini. Indi sarebbe apparso un uomo in parte bianco, in parte nero. Gli[...]

[...] virtù magica. Cominciarono di fatto a indirsi riti segreti, nottetempo, presso le tombe degli antenati; si sospese ogni lavoro di coltivazione, insomma si attese che i morti tornassero, portando seco ogni ricchezza e benessere, inaugurando un'epoca nuova e beata (7).
(6) De Jonghe, pp. 58, 613.
(7) De Jonghe, 60.
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E qui posto in tutta chiarezza e con tutte le sue connotazioni più tipiche il mito della fine e rigenerazione del mondo, che intimamente congiunto con il mito di espulsione dei bianchi sta al fondamento di infiniti culti profetici di liberazione. Il mito esprime l'esigenza di un'era di libertà e di benessere, contra l'attuale stato d'oppressione e miseria. Il ritorno dei morti, l'eclisse solare, l'avvento del cane parlante e dell'uomo bianconero, la cessazione del lavoro sono altrettante manifestazioni d'un tema mitico — lo sconvolgimento dell'ordine attuale e relativa palingenesi attuati per annuncio di un messia — che costituisce il nucleo di ogni culto pr[...]

[...]iva palingenesi attuati per annuncio di un messia — che costituisce il nucleo di ogni culto profetico. In esso rifluiscono via via le forme religiose tradizionali — mito dei morti che tornano, uso di bevande magiche, ecc. — rielaborate in vista di una funzione nuova, che non appartiene alla tradizione ma è prodotta dall'urto fra la cultura subordinata ed egemonica. La nuova funzione consiste nella liberazione dai bianchi, nell'acquisizione di un più alto livello di vita, il cui desiderio
acuito appunto dal confronto dei sopravvenuti stranieri, apportatori di un'ignota cultura industriale e di straordinari strumenti di supremazia.
E da notarsi che nell'atto stesso in cui nasce (o si rielabora) il mito della fine del mondo, esso si carica di un'attualità e concretezza che gli vien data dal rito corrispondente: infatti l'intera collettività — come s'è visto — entra, per cos' dire, nella fine del mondo, esce ritualmente dalla storia (dall'ordine), in un'atmosfera di esaltazione religiosa che, attraverso la cessazione di ogni consueta attiv[...]

[...]battesimo, la confessione, un rituale fondato su canti religiosi desunti dalla Bibbia. Ma il culto dei
(8) Andersson, 4960.
(9) Andersson. 62.
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morti restava come elemento tradizionale nel nuovo culto kimbangista. La sua azione, sincretistica nel contenuto, ma chiaramente polemica verso i colonizzatori e volta all'emancipazione religiosa dei Negri, favoriva un'atmosfera sempre più ostile ai bianchi, vagheggiava la fondazione di una « chiesa nativa » (10). Ormai perseguito dall'autorità amministrativa, Kimbangu veniva arrestato, fuggiva, ma poco dopo si sottometteva volontariamente all'arresto, anche in ciò esprimendo il suo atteggiamento di « imitatore di Cristo ». Moriva più tardi in carcere a Elisabethville nel 1950 (11).
Al di là della intransigente polemica antibianchi, il Kimbangismo rappresenta un momento notevolmente avanzato, e nello stesso tempo dimostra quale sia il preciso, inderogabile limite nel processo di rinnovamento della cultura religiosa aborigena al contatto con la cultura cristiana. In effetti nel Kimbangismo alcuni essenziali elementi della tradizione culturale aborigena — culto di guarigione, tema del ritorno collettivo dei morti, figura di un Essere supremo, ecc. — vengono riplasmati entro un complesso di nuovo genere, che costituisce un r[...]

[...]mo alcuni essenziali elementi della tradizione culturale aborigena — culto di guarigione, tema del ritorno collettivo dei morti, figura di un Essere supremo, ecc. — vengono riplasmati entro un complesso di nuovo genere, che costituisce un rinnovamento — non una semplice continuazione — della tradizione: p. es. l'iconoclastia antifeticista, che pur ha indubitabili legami con l'antistregonismo delle società segrete, é un elemento di rottura con la piú antica tradizione magica (12). D'altra parte il Cristianesimo portato dai missionari in esso viene esplicitamente reinterpretato in funzione emancipazionista, e pertanto fondamentalmente trasformato. Così ii Dio unico giudaicocristiano s'innesta sulla tradizionale figura di Essere supremo, la Bibbia é riconosciuta come fonte unica di autorità religiosa, ma viene tuttavia interpretata in funzione delle esigenze aborigene di libertà (la lotta di David e Golia diventa un'allegoria mitica della lotta religiosa di liberazione dei Negri contro i Bianchi); infine lo stesso profeta si configura come [...]

[...]ia mitica della lotta religiosa di liberazione dei Negri contro i Bianchi); infine lo stesso profeta si configura come reinterpretazione vivente di Mosè e di Cristo, del quale ultimo ripete la persecuzione, la passione, la latta spirituale per una nuova religione. In realtà i germi di emancipazione religiosa così seminati dal profeta Kimbangu dovevano ulteriormente svolgersi e fruttificare quando il profeta, mercé la sofferta prigionia, diveniva più che imitatore dei grandi fondatori religiosi, fondatore e martire egli stesso,
(10) E.alandier 1955, 42831; Andersson, 63.
(11) Andersson, 637.
(12) Si noti tuttavia che lo stregonismo e il feticismo sono fenomeni ben differenti, il primo (magia nera) avendo valore antisociale, il secondo invece essendosi volto contro il primo, a difesa della società.
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alla pari di Cristo e di Mosè, di una religione direttamente rivelata da Dio per i Negri.
In tal senso il Kimbangismo, come ogni movimento profetico, ha una sua netta ambivalenza, perché se da un lato é il prodotto d[...]

[...]el martirio. André Matsúa diveniva per i Congolesi il suc
(13) Andersson, 70.
(14) Andersson, 6995.
(15) Andersson, 96117.
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cessore di Simon Kimbangu; né la sua morte (1942) attenuò gli entusiasmi, bensì valse a diffondere l'attesa di un suo prossimo ritorno come liberatore. Da allora egli divenne un vero messia, fu denominato GesúMatsúa (16).
Il fenomeno André Matslía é dei più caratteristici. L'azione ch'egli svolse su piano prevalentemente organizzativopolitico ebbe immediati, decisivi riflessi su piano religioso. André Matsúa e Simon Kimbangu a tuttoggi fra i Congolesi delle colonie francese e belga sono assunti alla qualifica di « Re del Congo », simboli di unità e di un'epoca di libertà ansiosamente attesa. La loro spirituale presenza ispira quella nuova organizzazione religiosa che é la chiesa nativa «indigenista» del Congo, nettamente autonomista, polemica verso i missionari oltreché verso le autorità civili, politiche, amministrative, fondata sulla diretta e[...]

[...] qualifica di « Re del Congo », simboli di unità e di un'epoca di libertà ansiosamente attesa. La loro spirituale presenza ispira quella nuova organizzazione religiosa che é la chiesa nativa «indigenista» del Congo, nettamente autonomista, polemica verso i missionari oltreché verso le autorità civili, politiche, amministrative, fondata sulla diretta esperienza religiosa nativa, eppure aperta ad alcune forme cristiane (17). Per Matsúa forse ancor più che per Kimbangu vale quanto il Balandier fa giustamente osservare, che il Cristianesimo stesso, con il modello di un Messia sacrificato all'ottusa intransigenza del pubblico potere non meno che all'infamia dei nemici, con l'esempio del Martire trionfante per la fede e per la redenzione dei fedeli, il Cristianesimo stesso ha portato fra i nativi quello spirito rivoluzionario di cui s'era nutrito esso stesso al tempo delle origini, dando una nuova sanzione religiosa alle loro esigenze culturali e politiche: ed ha portato altresì la speranza messianica di un « Regno », di un « millennia », che [...]

[...]li altri profeti di quella fede novella (18). Così nasceva, o meglio si rinnovava con inopinato fervore (poiché già esso aveva avuto modo di manifestarsi anche prima, come sopra s'è vista) il messianesimo indigeno: un messianesimo improntato al modello cristiano dei missionari, ma ritorcentesi contra di essi a causa della politica colonialista delle nazioni egemoniche e delle loro chiese.
In conclusione Matsúa da quel ch'era in vita, e cioè non più che un capo politico, si trasformò — e senza sua deliberata intenzione — in un profetamessia, modello — accanto a Kimbagu — di una religione di redenzione terrena: egli è divenuto il Cristo Negro.
(16) Balandier 1955, 397416; Andersson, 11725.
(17) Balandier 1957, 2367.
(18) Balandier 1957, 237; Balandier 1955, 434.
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A delineare lo speciale carattere del culto GunzistaAmicalista proprio delle attuali chiese negre del Congo (emanate dai detti movimenti profetici), basti dire del particolarissimo sincretismo che contraddistingue il segno della croce. Desunto formalmen[...]

[...]ré Matsúa, un pugnale di antica fabbricazione, una lampada ad olio accesa, una grande V in legno con nel mezzo una croce di 'arena. Già nel manto rosso si associa, al tradizionale significato di fecondità e prestigio, l'idea di martirio dei Salvatori congolesi e dei loro discepoli. Il pugnale rappresenta la fedeltà giurata agli antenati, mentre la lampada nonché la croce derivano dal rito cristiano. Ma è nella grande V troneggiante su tutto, che più clamorosamente si esprime l'idea di rivolta e, soprattutto, di vittoria. La V altro non é che il portato culturale dell'ultima guerra mondiale, la fatidica V di Winston Churchill e degli alleati, riplasmata in funzione antibianchi come simbolico annuncio della fine della dominazione colonialista (24).
Come in effetti il GunzismoAmicalismo sia una religione di rivolta e di guerra lo dice con identica coerenza una serie di profezie, fra le quali una suona cosí: « La guerra é prossima — essa dice —... Siamo venuti ad annunciare la buona novella di Dio al mondo. Chi fa parte della nostra chiesa [...]

[...]TERNARI
del movimento), a indicare pur esso lo spirito battagliero della religione kakista, ed in una l'auspicio di vittoria. Il culto tradizionale degli antenati resta al centro anche del nuovo messianesimo Kakista, caratterizzato altresì da manifestazioni di possessione collettiva, da un culto di guarigione mediante imposizione di mani, da un nuovo impulso antistregonistico: ció che lo riallaccia alla tradizione religiosa indigena legata alle più immediate esigenze terrene (26).
L'arresto (1944), la prigionia di Simon Mpadi non impedirono al movimento di propagarsi e assumere ben più ampi sviluppi, nelle città come fra i villaggi. Da allora s'impose la personalità di Kufinu Philippe, noto come Mavonda Ntangu. Pur attraverso reiterate persecuzioni questo profeta, nativo del Congo Belga (Basso Congo) e considerato a tuttoggi « maestro dell'intero paese », cioè del Congo Belga e Francese, prosegue l'insegnamento di Kimbangu, Matsúa e Mpadi. Il culto GunziKakista di Mavonda Ntangu si svolge — onde sfuggire alle persecuzioni dei bianchi — in un luogo circoscritto ed aperto (Pendele), o sulle tombe degli antenati. Consiste in preghiere, canti, confessione — elementi d'origine c[...]

[...]re kekista è effigiato un gallo, simbolo di PietroPierre Mpadi, accanto alla fotografia di Matsúa (Balandier 1955. 458).
(27) Andersson, 140 sgg., 151 sgg., 16275.
(28) Andersson, 174.
(29) Andersson, 193.
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Così il messaggio profetico di libertà fonde indissolubilmente il momento religioso con il momento politico: perché al livello di queste culture l'esperienza sacrale tanto più insopprimibilmente accompagna le esperienze profane, quanto più queste ultime si rendono, per condizioni obiettive, angosciose e pungenti.
Nell'atmosfera messianica sviluppata nel Congo dal Kimbangismo con le sue varie emanazioni trova la sua giustificazione un particolare fenomeno che vale la pena di ricordare, promosso dall'arrivo, nel 1935, dell'Esercito della Salvezza (Salvation Army). Questa organizzazione laica avente scopi puramente umanitari, scevra da interessi istituzionali ed ecclesiastici, estranea ad ogni forma di proselitismo, si configuro ben presto all'occhio dei nativi come la controparte, sorprendentemente attraente, delle missioni cris[...]

[...]rendentemente attraente, delle missioni cristiane. Quanto queste, per i sistemi coercitivi, l'intransigenza dei metodi, il rigorismo dottrinale riuscivano invise a gran parte della popolazione, altrettanto risultava affascinante e gradita l'organizzazione della Salvezza. I nativi ben s'avvedevano che, pur riconoscendo lo stesso Dio dei missionari, i militanti dell'Esercito della Salvezza fornivano il modello di una morale religiosa infinitamente più accessibile e vicina alle loro esigenze, sostituendo p. es. al duro compito della confessione un semplice atto di contrizione. Per di più l'uniforme di tipo militare, le cerimonie che l'organizzazione indiceva tra canti battaglieri quasi di vittoria, al ritmo di tamburi e di altri strumenti di banda, fra bandiere spiegate, esercitavano sopra i nativi una suggestione di nuovo genere, per certa affinità con le loro feste pagane, e per lo spirito battagliero da cui si sentivano mossi nella loro nuova religione profetica. Dimodoché facilmente essi poterono essere indotti nell'erronea opinione che si trattasse, quasi, di una organizzazione missionaria europea con costumanze cerimoniali affini relativamente alle loro, e comunque tali[...]

[...]ema meta di ogni messianismo, potesse raggiungersi attraverso l'unica via dell'unione solidale degli indigeni d'Africa, veniva facendosi una delle idee dominanti dei vari movimenti profetici, in qualunque regione del continente sorgessero. Zaccaria Bonzo, altro profeta congolese, penetrava nell'Angola col motto « l'Africa agli Africani! ». Simon Toko nel 1949 fondava un nuovo movimento, la « Stella rossa », basato sul principio che Dio sta con i più, e perciò in Africa Egli é a fianco degli Africani. Secondo la profezia di Toko, Dio invierà un suo figliomessia incarnato in un Negro, a redenzione dei Negri (31). Così dal sincretismo negrocristiano va sviluppandosi una coscienza religiosa panafricanista — già implicita del resto nel Kimbangismo, Gunzismo e Kakismo —, fondata su una omogeneità di esperienze di fronte ai bianchi e su una crescente consapevolezza etnicoculturale determinata dallo stesso confronto con la cultura straniera egemonica.
Mentre nell'Africa equatoriale e nel Congo, fra alterne esplosioni e repressioni, in un ininte[...]

[...]Tastevin 1956.
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e di efflorescenze visibili il messianesimo indigeno s'incrementava irradiandosi a regioni vicine e lontane, venivano diffondendosi a mano a mano culti profetici anche da altre regioni africane. Nel 1925 Tomo Nyirenda, nativo del Nyassa, proclamantesi «Figlio di Dio » o Muana Lesa — con il quale nome é meglio noto —, introduceva nel Katanga, zona mineraria fra le più soggette a drastico urto sociale tra indigeni
e bianchi, il movimento Kitawala o Kitower, attivo già in Rhodesia e nel Nyassa ove ispirò a varie riprese moti sedizioni violentemente repressi. Il movimento Kitawala proviene per processo separatistico indigeno dalla congregazione americana della Watch Tower (Kitawala
o Kitower é deformazione dell'originario termine inglese), o Associazione dei Testimoni di Geova, fondata nel 1874 da Charles Taze Russell, e perciò nota anche con il name di « Russellismo ». Il movimento Watch Tower s'accentra nell'attesa millenaristica di un'era di paradiso che[...]

[...]e Russell, e perciò nota anche con il name di « Russellismo ». Il movimento Watch Tower s'accentra nell'attesa millenaristica di un'era di paradiso che seguirà, in età non lantana, allorquando la decisiva battaglia di Dio contro Satana esploderà ad Armageddon. I miscredenti saranno debellati, sulla terra regnerà la giustizia. Negatori della Trinità, della divinità di Cristo, dell'immortalità dell'anima, degli eterni castighi ultraterreni; per di più antimilitaristi ed antinazionalisti ad oltranza, i Testimoni di Geova condannano sia lo Stato sia ogni forma di organizzazione ecclesiastica come emanazione di Satana. Essi dunque avevano i migliori requisiti perché la loro ideologia apparisse ai Negri africani, tra i quali arrivassero, la controparte più positiva ed entusiasticamente accettabile della cultura religiosa dei bianchi, specialmente se confrontata con il Cristianesimo dei missionari. Infatti del profetismo indigeno che i missionari cristiani avversavano, ora i nativi venivano a scoprire, nel Russellismo, un modello vivente, anzi un emulo in pieno mondo religioso cristiano (32). Il movimento Kitawala, iniziatosi in Africa fin dal principio del secolo, reinterpretava a sua volta la dottrina russellita originaria. Il suo centro di diramazione fu l'Africa del Sud e l'Africa Centrale Britannica. Contro la minaccia di disgregazione cult[...]

[...]Witnesses, New York 1945; W. Watson, 1958, 197 sgg.
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testimonianza di legittimità alla poligamia, uno dei principi fondamentali della struttura sociale africana (33). Cosi gli indigeni trovavano, in un linguaggio culturale e religioso imprestato dai bianchi, un'ulteriore giustificazione al millenarismo emancipazionista fondato dai loro profeti. In realtà l'incontro fra profetismo africano e millenarismo russellita é fra i più sconcertanti fenomeni delle religioni moderne. Infatti entrambi esprimono, pur in mondi culturali diversi, una somigliante esigenza di rinnovamento religioso, entrambi denunciano una grave crisi culturale. Dal loro incontro risultano poste in netta evidenza le cocenti contraddizioni religiose in cui versano gli organismi ecclesiastici delle nazioni moderne. Il Russellismo, e con qualche analogia l'Esercito della Salvezza, nel loro incontro con le religioni africane profetiche, hanno fornito una giustificazione non più solamente « indigenista », ma convalidata dalla viva esperienza religiosa d[...]

[...]ono, pur in mondi culturali diversi, una somigliante esigenza di rinnovamento religioso, entrambi denunciano una grave crisi culturale. Dal loro incontro risultano poste in netta evidenza le cocenti contraddizioni religiose in cui versano gli organismi ecclesiastici delle nazioni moderne. Il Russellismo, e con qualche analogia l'Esercito della Salvezza, nel loro incontro con le religioni africane profetiche, hanno fornito una giustificazione non più solamente « indigenista », ma convalidata dalla viva esperienza religiosa dei bianchi stessi, dell'autenticità e accettabilità delle posizioni religiose native.
Per tornare al movimento religioso Kitawala e al suo divulgatore Muana Lesa, testé nominato, costui ben presto ebbe ad incorrere nelle maglie della persecuzione poliziesca. Accusato dall'autorità belga di uccidere persone battezzate, fu catturato: fuggi in Rhodesia, ma venne arrestato e impiccato. Era il 1926. Il movimento Kitawala anziché sopirsi crebbe e si propagò per esteso nella colonia belga nonché nelle colonie britanniche e f[...]

[...]imento religioso Kitawala e al suo divulgatore Muana Lesa, testé nominato, costui ben presto ebbe ad incorrere nelle maglie della persecuzione poliziesca. Accusato dall'autorità belga di uccidere persone battezzate, fu catturato: fuggi in Rhodesia, ma venne arrestato e impiccato. Era il 1926. Il movimento Kitawala anziché sopirsi crebbe e si propagò per esteso nella colonia belga nonché nelle colonie britanniche e francesi, suscitando qua e là a più riprese moti di rivolta xenofobi. Esso preconizzava, fedele al modello americano della Watch Tower, la fine di ogni autorità religiosa e politica attualmente vigente; inoltre diffondeva un'ideologia egualitaria panafricanista, ispirata alla speranza messianica dell'avvento di un'età paradisiaca sulla terra nel nome di Gesù Cristo (34). Nell'ultimo dopoguerra uno dei suoi profeti ed agitatori del Congo Belga (Prov. Orientale), Bushiri, si proclemò « Sostituto di Gesù » (Mulurnozi usa Yesu).
Un particolare fenomeno dell'immediato dopoguerra venne a improntare il movimento Kitawala: l'attesa de[...]

[...]igione negra, con un Cristo Negro, con angeli negri. Di tali esperienze doveva risentire dunque anche il movimento Kitawala, il quale per un certo periodo indulse ad una messianica attesa degli Americani visti come mitici liberatori (35). Bene si scorge da ciò come il drammatico bisogno di rinnovare religione e cultura assuma, nei movimenti nativisti, forme mitiche e millenaristiche spesso caotiche e puerili, nelle quali vanno a conglomerarsi le più elementari esperienze vissute.
Il movimento Kitawala resta a tuttoggi una fra le più estese organizzazioni religiose nativiste dell'Africa Negra (36). « Noi siamo figli di Dio e perciò non siamo tenuti a riconoscere le leggi degli uomini » : cosí suona un annuncio dei fedeli Kitawala, dato in occasione d'una rivolta nell'Uganda nel 1942. E continua: « I tempi sono mutati: non obbediremo più alle leggi temporali, perché prestare obbedienza agli uomini significa obbedire a Satana » (37).
Annuncio di un'età che porrà fine per i Negri alle alienazioni, annuncio della fine del mondo con rovesciamento imminente dell'ordine attuale, invincibilità nella rivolta, lotta contra la stregoneria: sono questi i temi comuni non solamente alle varie organizzazioni locali dei Kitawala, ma a tutti i profetismi africani, specialmente diffusi tra genti di lingua Bantu. Così in particolare tra i profetismi del SudAfrica.
Il SudAfrica fu, ancor prima dell'Africa equatoriale, uno dei maggiori epicent[...]

[...]ente dell'ordine attuale, invincibilità nella rivolta, lotta contra la stregoneria: sono questi i temi comuni non solamente alle varie organizzazioni locali dei Kitawala, ma a tutti i profetismi africani, specialmente diffusi tra genti di lingua Bantu. Così in particolare tra i profetismi del SudAfrica.
Il SudAfrica fu, ancor prima dell'Africa equatoriale, uno dei maggiori epicentri del messianesimo Negro. Nel 1892 sorse la chiesa Etiopista, il più antico modello delle chiese cosiddette «separatiste» (o « indigeniste ») — fra cui le stesse formazioni Kitawala —, fondata dal profeta Mokone. La chiesa « etiopista » (dal name « Etiopia » che secondo il linguaggio biblico (Acta Ap. 8. 27; Psalm. 68. 32) designa l'Africa) persegue un programma di reazione autonomista verso le chiese missionarie, facendo della Bibbia l'unica fonte attendibile di autorità religiosa, evitando polemicamente la terminologia « importata » dai bianchi (così « etiopista » sostituisce « africanista »). Suo dogma essenziale é « l'Africa agli Africani ». Conformemente [...]

[...]GIOSI E PROFEZIE DI LIBERTÀ FRA I POPOLI COLONIALI 73
fecondo terreno della disgregazione sociale, della forzata assimilazione e deculturazione, dell'autocentrismo politico e culturale, della segregazione razzista perseguiti dagli organismi amministrativi e religiosi (42). L'itredentismo messianico si é strutturato in altrettante formazioni che ereditano dall'originaria tradizione il carattere di religioni fermamente legate ai bisogni culturali più immediati: di religioni che esprimono e insieme intendono superare una grave crisi esistenziale la quale minaccia l'integrità storica dei rispettivi gruppi. Dalla Bibbia i vari movimenti hanno assunto via via quel linguaggio e quei contenuti millenaristici e messianici che meglio si prestano ad avvalorare la loro ansia religiosa di libertà e di salvezza, trasfigurando il biblico spirituale Regno di Dio in un mito di concreto benessere, di sicurezza, di reintegrazione sociale, politica e culturale.
Come si é visto, la storia dei movimenti profetici africani, attraverso un laborioso e vario pr[...]

[...]one missio
(42) Coleman 1955; Ross 1955; Kuper 1946; Carter 1955.
(43) Eulandier 1957, 226.
(44) Bartolucci 1958.
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nana (45). Ma recentemente si va facendo strada un'interpretazione clamorosamente contrastante e acquiescente, nella quale secondo i principii di un trasformismo religioso già sperimentato del resto anche verso il folklore « pagano » delle nostre plebi rustiche (46), le chiese native rappresenterebbero non più il documento di una fallimentare azione missionaria, bensì all'opposto il positivo effetto della predicazione cristiana: la prova dell'universalità della Chiesa, pur nella varietà, della sua unità nel molteplice (47). Mentre il mutamento delle posizioni ecclesiastiche ben si giustifica in base all'implicito, sempre più necessario riconoscimento di un nucleo irriducibile insito nelle formazioni religiose native, conviene uscire dalle valutazioni unilaterali e « di parte », per riportarsi ad un processo dialetticostorico vista nella sua complessa multivalenza.
In realtà le chiese indigeniste africane sono da intendersi nel loro ambivalente significato, in rapporto alla dialettica dei rapporti fra cultura indigena e bianca. Bisogna partire dall'esperienza diretta che ha posto gli indigeni di fronte alle missioni come di fronte ad altrettante manifestazioni concrete della potenza egemonica — accanto e in pari [...]

[...]acrimonioso contrasto, una fase di riequilibrio tra Cristianesimo e religione nativa: in cui peraltro quest'ultima reinterpreta il complesso cristiano in funzione di proprie esigenze di redenzione culturale e politica. I nuovi valori religiosi man mano portati dal Cristianesimo trovano il loro limite preciso in quella nuova, progredita consapevolezza etnicoculturale che é frutto dell'urto stesso fra le due culture, e che si concreta nella sempre più diffusa ideologia Panafricana.
La dinamica culturale e religiosa delle genti africane procede dunque da un'opposizione polemica volta contro la cultura egemonica. Da tale opposizione si creano i presupposti per una graduale trasformazione della tradizione indigena. Ma il processo di trasformazione, scelta, in
(45) Dougall 1956; Andersson 1958, 2648; Parsons 1953; Ross 1955.
(46) Cfr. il mio saggio La politica culturale della Chiesa nelle campagne: la festa di S. Giovanni, Società 1955, 1.
(47) Bissainthe 1957, 1345. Vedi anche i vari contributi in: Des Prêtres Noirs s'interrogent, Paris 1[...]

[...]lla Chiesa nelle campagne: la festa di S. Giovanni, Società 1955, 1.
(47) Bissainthe 1957, 1345. Vedi anche i vari contributi in: Des Prêtres Noirs s'interrogent, Paris 1957.
FERMENTI RELIGIOSI E PROFEZIE DI LIBERTÀ FRA I POPOLI COLONIALI 75
cremento è determinato dalle forze interne della tradizione, in opposizione alle varie coercizioni esterne: in risposta e a superamento della grande crisi storica determinata dall'urto.
Si è visto che le più numerose formazioni nativiste africane congiungono alla tendenza xenofoba ostile ai bianchi, la difesa dalla stregoneria o magia nera. Non si creda che le due manifestazioni siano del tutto indipendenti fra loro. L'avvento dei bianchi portava in Africa, e così anche in ogni altro territorio occupato, incremento di malattie sociali ed epidemiche, l'alcoolismo oltre a conseguenze altrettanto disastrose quali il crescente desiderio di facili guadagni, la corruzione morale con incremento dei furti e della prostituzione, la detribalizzazione, ecc.: malanni che, data la loro natura particolarmente [...]

[...]utt'altro ambiente culturale, fra gli Indiani delle praterie nordamericane, quando la supremazia dei bianchi portò alla segregazione dei gruppi nativi nelle riserve e ogni sorta di male fisico e morale (tbc, alcoolismo, frustrazione, ecc.) incombette su di essi dal contatto dei bianchi, il culto medicinale del peiote, già ivi esistente con funzione di guarigione individuale, si sviluppò in un culto collettivista di emancipazione e di salvazione, più che di salute. Nacque una complessa religione atta a riscattare gli indigeni dalle frustrazioni subite, a guarirli dall'alcoolismo e dai mali fisici, a realizzare insieme una emancipazione religiosa rispetto alla supremazia culturale dei bianchi: dico il Peiotismo.
Fu fondato dal profeta John Wilson verso il 1890 nelle riserve dell'Oklahoma. Ebbe rapido successo e si divulgò fra la maggior parte delle riserve, ove tuttoggi é in vigore, propagato da una serie di profeti come John Rave, Elk Hair, Albert Hensley, ecc. Il Peiotismo vuole
(48) Field 1948, 17579.
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essere [...]

[...]ristianesimo subisce altrettante tra sformazioni e reinterpretazioni che ne adattano il contenuto ai bisogni indigeni (50).
(49) Petrullo 1934; La Barre 1938; Slotkin 1956; Barber 1941.
(50) Wallace 1952 (Handsome Lake); Barnett 1957 (Shakerismo); Barrett 1911; Slotkin 1958 (Dream Dance).
FERMENTI RELIGIOSI E PROFEZIE DI LIBERTA FRA I POPOLI COLONIALI 77
I movimenti suddetti rappresentano a loro volta la fase estrema di un processo nativista più antica, che risale al primo urto violento tra Indigeni del NordAmerica e bianchi. L'epica lotta per l'indipendenza, combattuta dagli Indiani delle praterie contro i bianchi invasori, ebbe la sua ispirazione religiosa. Il grande movimento profetico della Danza degli Spiriti (Ghost Dance) fondato dal profeta Wowoka annoverò tra i suoi promotori il condottiero ribelle Sitting Bull (Toro Seduto). Fu la religione della Danza degli Spiriti a ispirare la grande rivolta dei Sioux nel 1890. Wowoka, nativo del gruppo Paiute, annunciava l'avvento imminente di un'età nuova che avrebbe segnato la liberazi[...]

[...]onomica per le tribù, il ripristino delle cerimonie, danze, società decadute per opera dei missionari e sconvolte dallo scontro con la cultura moderna, costituivano i temi salienti del messaggio profetico (51). La Danza degli Spiriti, sorta in epoca d'urto combattivo e cruento fra cultura egemonica e subordinata, é volta in senso retrospettivo alla restaurazione di un passato perduto e prospetticamente alla redenzione dei gruppi indigeni. Quando più tardi alla ormai definitiva sconfitta s'aggiunse l'esperienza di segregazione forzata nelle riserve e nuovi, più complessi rapporti vennero a stabilirsi coi bianchi, nuove forme religiose di adattamento si resero necessarie, e sorse il Peiotismo con le altre formazioni del genere.
Pertanto anche nei profetismi nordamericani distingueremo, come per l'Africa, due fasi dialetticamente congiunte, la prima (frutto dell'urto iniziale fra due culture), di natura apostolica e volta quasi unicamente alla lotta di liberazione; la successiva di natura prevalentemente organizzativoecclesiastica e riferita ad una fase di accomodamento. Tuttavia, mentre in America, date le condizioni di disgregazione sociale e segre[...]

[...] tali da dar vita, dopo la prima fase profetica, a formazioni ecclesiastiche panafricaniste, tuttora energicamente e intensamente protese alla liberazione dai bianchi.
(51) Mooney 1896, 771 sgg., 827, 903 sgg.
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Anche l'America Meridionale è stata ed è tuttora teatro di manifestazioni messianiche indigene, ripullulanti di tempo in tempo fin dal
l'età dei primi contatti coi bianchi, fra le popolazioni e le classi sociali
più misere e oppresse. Fra gli Indios del Brasile nel territorio nordoccidentale di Rio Icano sullo scorcio del sec. XIX si presentava un
messia proclamantesi « Cristo secondo ». Una grande agitazione s'impadronì delle masse che lo seguirono. Il messia guariva le malattie. Egli ammoniva i proseliti a cessare ogni lavora nei campi, perché era alle porte l'età del benessere nella quale la terra avrebbe prodotto spontaneamente frutti abbondanti. Fini col venire arrestato (52).
Vari movimenti popolari messianici sboccavano d'altra parte in aperta rivolta contra i bianchi occupanti. Così i Chiriguan[...]

[...]eta fondatore, TeUa, proclamò che i Maori erano il nuovo popolo di Dio, la Nuova Zelanda, la nuova Canaan, Geova il Dio dei Maori. Egli stesso si presentava come novello Mosè, e annunciava l'imminente espulsione dei Pakeha o Inglesi. Sarebbe stata quella la fine e il rinnovamento del mondo. Sarebbero risorti i morti per dare inizio a un'epoca nuova per i Maori. Sterminata la setta Hauhau dalla supremazia militare britannica, repressa la rivolta, più tardi si sviluppava un nuovo culto profetico, la religione Ringatu, tuttora vigente con la sua « chiesa » sincretista e nativista, atta a realizzare un riequilibrio
(55) Metraux 1957, 112.
(56) Lanternari 1956; Worsley 1957. Vedi bibliografia più ampia in appendice.
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religioso di fronte al Cristianesimo, tuttavia perseverando nei valori tradizionali e nativi (57). In Polinesia dunque, come in Africa, America settentrionale nonché in Melanesia (58), la fase apostolica dei movimenti profetici sbocca in una successiva fase organizzativa e di n assestamento religioso, in vista di una spontanea esigenza di emancipazione e nel segno di un non mai sopito nativismo creativo, innovatore.
In nessuno dei casi suddetti i movimenti religiosi di liberazione hanno effettivamente portato alla realizzazione dei loro postulati [...]

[...]temi mitici e millenaristici comuni alla maggior parte dei culti d'altre regioni fin qui esaminati. Sboccati nell'aperta lotta antiolandese, essi portavano nel 1949 alla conquista dell'indipendenza (59).
Dal panorama fin qui esposto si scorge che gli intensificad contatti tra bianchi e indigeni dell'ultimo secolo, sollecitati in particolar modo dai due grandi conflitti mondiali, hanno promosso una serie di culti nativisti in plaghe del mondo le più disparate. A ciò hanno contribuito come fattori determinanti da un lato l'intensificato processo di assoggettamento dei popoli indigeni, dall'altro l'acquisita, concomitante esperienza del dislivello economico e culturale, da parte delle popolazioni native, rispetto ai portatori della cultura europea.
Per ciò che riguarda il contrasto, che qui più c'interessa, tra religioni native e Cristianesimo, risulta dall'insieme dei dati suesposti come le società cosiddette « primitive » siano venute assumendo dall'insegnamento missionario, ed in ispecie paleotestamentario, una molteplicità
(57) Lanternari 1957; Greenwood 1942.
(58) Worsley (1957, 273) pone in evidenza che i più recenti culti profetici in Melanesia non mirano più (come i primi) al puro e semplice allontanamento dei bianchi e dei loro portati culturali, bensì tendono all'acquisizione dei loro beni e del loro potere. Tendono all'indipendenza, ma per divenire (gli indigeni) più simili agli Europei.
(59) Van Wulfften Palthe 1949, 2734; Wertheim 1956, 31112.
FERMENTI RELIGIOSI E PROFEZIE DI LIBERTA FRA I POPOLI COLONIALI 81
di elementi nei quali via via ravvisavano altrettanti modelli, espressi in linguaggio culturale occidentale e cristiano, della propria esperienza di vita. In più casi indipendenti l'uno dall'altro, dai Maori della N. Zelanda ai Kikuyu del Kenya, i nativi perseguitati dai colonialisti europei hanno trovato nelle persecuzioni subite dall'antico popolo ebraico il prototipo biblico che li autorizzava a proclamarsi discendenti delle perdute tribù d'Israele (60). La poligamia di Giacobbe, David e Salomone veniva a giustificare religiosamente la tradizionale loro poligamia incongruamente condannata dai missionari. Lo stesso profetismo emancipazionista trovava il più autentico suo modello nel Mosaismo, mentre la passione, l'arresto, la cattura, il sacrificio [...]

[...]N. Zelanda ai Kikuyu del Kenya, i nativi perseguitati dai colonialisti europei hanno trovato nelle persecuzioni subite dall'antico popolo ebraico il prototipo biblico che li autorizzava a proclamarsi discendenti delle perdute tribù d'Israele (60). La poligamia di Giacobbe, David e Salomone veniva a giustificare religiosamente la tradizionale loro poligamia incongruamente condannata dai missionari. Lo stesso profetismo emancipazionista trovava il più autentico suo modello nel Mosaismo, mentre la passione, l'arresto, la cattura, il sacrificio subito dai singoli profetifondatori nativi ha in Gesù il suo precedente più valido. Inoltre i Nativi hanno potuto rintracciare un'ulteriore convalida e autenticazione delle proprie posizioni religiose, attraverso i movimenti messianici occidentali di derivazione giudaicocristiana pervenuti fra loro, come il Russellismo.
Tale autenticità e validità, se rettamente si guarda, si regge su una notevole corrispondenza di esperienze storiche. Certo i Negri africani, gli indigeni Oceaniani e Americani oggi ripetono esperienze religiose — millenarismo, messianesimo, profetismo, attesa di liberazione e salvezza — che il Cristianesimo subì ai suoi primordi, quando i suoi ma[...]

[...]il Mosaismo era nato come prodotto dell'urto culturale fra una civiltà pastorale — fondata sul culto di un Essere supremo — che va a
(60) Kenyatta, 282; Vaggioli II, 3723. L'identificazione col popolo perseguitato d'Israele é comune a tutte le formazioni profetiche polinesiane: cfr. Lanternari 1957, 70, 778. Sulla indipendenza dei vari culti profetici considerati come fenomeni tipicamente a convergenti », a livelli culturali e in territori i piú disparati, cfr. Lowie, 1957.




82 VITTORIO LANTERNARI
insediarsi fra genti agricole e sedentarie, e la civiltà politeista di cui quelle genti erano portatrici (61). Il Messianesimo esilico era sorto a sua volta a riscatto di una sconvolgente esperienza — l'esilio — che minacciò alla radice l'esistenza del popolo ebraico.
Che dunque si tratti di conflitto interno (Cristianesimo) o determinato da urti fra eterogenee culture (Mosaismo, Profeti dell'Esilio), che il messia impetri una salvezza ultraterrena (quando il conflitto é interno) o una salvezza prevalentemente terrena [...]

[...] un itinerario religioso che la cultura occidentale percorse a suo tempo nell'atto della sua fondazione e nei suoi primi stadii. Vero è che la cultura moderna, nella sua veste ufficiale, é venuta accantonando quelle antiche esperienze tra i ricordi di una storia lontana. Tuttavia non del tutto quella storia é scaduta dal suo antico valore, né conflitti culturali e religiosi hanno mancato e mancano, fino ai tempi recenti, di ripresentare in veste più o meno rimodernata reviviscenze messianiche e profetiche: basti pensare appunto al Russellismó, al movimento dei Mormoni e di Saint Simon o — per non tornare indietro al Gioachimismo e ai movimenti ereticali del nostro MedioEvo (62) —
al Lazzarettismo nonché ai più vari movimenti di rinnovamento religioso e sociale i quali costellano il mondo culturale d'ogni paese moder
no. Essi esprimono, allo stesso titolo che presso le società primitive, una condizione di crisi di cui rappresentano ad un tempo il prodotto e il riscatto religioso.
Tuttavia conviene discriminare — per entro la varia fenomenologia dei movimenti profetici — due forme storicamente eterogenee, che contrassegnano la vasta fioritura di manifestazioni di tal sorta su terreno etnologico così come presso civiltà progredite. Mentre una grande parte
(61) L'interpretazione del profetismo Mosai[...]

[...]ciprocamente a nessuna formazione profetica d'origine « interna » mancano decisive ripercussioni all'esterno. Del resto basti pensare che qualunque urto esterno in tanto genera crisi in quanta pone internamente la società nell'alternativa di una scelta tra una via tradizionale ormai superata dai fatti e una nuova via da elaborare dal seno stesso della propria cultura.
Dobbiamo ancor precisare che nelle stesse società « primitive », accanto alle più numerose manifestazioni profetiche nate dall'urto con la cultura occidentale, non mancano crisi e conflitti di carattere interno, rifluiti in altrettante formazioni profetiche, talora determinandole. Esempi di profetismi endogeni presso società « primitive » sono le formazioni profetiche antistregoniste africane di cui s'è fatto cenno, i movimenti messianici brasiliani dei TupiGuarani precedenti o appena successivi all'occupazione portoghese del sec. XVI (64), il movimento Koreri della N. Guinea Olandese nelle fasi preeuropee (65), il culto profetico del taro degli Orokaiva nella N. Guinea Br[...]

[...] entro il mondo occidentale moderno, pur nelle loro infinite varianti, hanno una radice comune nello squilibrio fra prepotenti forze istituzionali quali Chiesa, Stato ecc., e le esigenze religiose spontanee ed incorrisposte della società.
I profetismi sorti da conflitti interculturali hanno orientamenti tendenzialmente diversi da quelli di carattere endogeno. I primi tendono a porre la via della salvezza, specie nella prima fase in cui l'urto è più sconvolgente, nell'azione immediata, nella lotta, nella polemica diretta e decisa contro le istituzioni straniere che ostilmente imperversano. Così é delle società « primitive » che si volgono contro gli europei invasori. Così é del Mosaismo, in lotta contro gli Egizi ed i Cananei. Così infine dei profeti dell'Esilio, che condannano apocalitticamente Babilonia.
A sua volta nelle formazioni profetiche a carattere endogeno la via di salvezza é rivolta all'azione religiosa e morale assai più che all'azione politica esterna. Gli esempi del Cristianesimo apostolico e degli altri piú recenti movim[...]

[...]a lotta, nella polemica diretta e decisa contro le istituzioni straniere che ostilmente imperversano. Così é delle società « primitive » che si volgono contro gli europei invasori. Così é del Mosaismo, in lotta contro gli Egizi ed i Cananei. Così infine dei profeti dell'Esilio, che condannano apocalitticamente Babilonia.
A sua volta nelle formazioni profetiche a carattere endogeno la via di salvezza é rivolta all'azione religiosa e morale assai più che all'azione politica esterna. Gli esempi del Cristianesimo apostolico e degli altri piú recenti movimenti profetici d'origine cristiana sono eloquenti. Salvarsi significa metodicamente avviarsi ad un'esistenza ultraterrena che sola può attuare la piena liberazione individuale. La salvazione si polarizza nell'escaton o fine del mondo, il cui significato perciò diventa univocamente positivo, mentre si proclama la rinuncia ai valori immediati e immanenti d'utilità terrena : di quei valori che dominano con il loro grande peso nei movimenti nativisti a livello etnologico.
(66 bis) Per il conflitto tra momento « ufficiale » e momento « popolare » della vita religiosa, vedi: Lanternar[...]

[...]ano, o addirittura oltre Oceano. Evidentemente anche in tal caso come nel profetismo cristiano le forze ostili e oppressive onde si pretendeva sfuggire agivano dall'interno della società stessa. Contrapporvisi significava voler fondare una società nuova, in una nuova dimora. Così è del Cristianesimo. Così è anche del movimento dei Mormoni, originariamente voltosi a fondare una nuova sede segregata dalla società ufficiale, esclusiva per i fedeli. Più volte la dimora paradisiaca si attua mercé la fondazione di una « città santa », che per influsso biblico può denominarsi « nuova Gerusalemme ». Quest'ultimo è il caso dei recenti movimenti messianici (sec. XIX) di Ca
FERMENTI RELIGIOSI E PROFEZIE DI LIBERTA FRA I POPOLI COLONIALI
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nudos, Joazeiro e Contestado in Brasile (67). Lazzaretti sul Monte Labro erigeva invece una chiesa: identica era la sua funzione (68).
Dalla nuova sede « santa » in tal modo fondata a volte si scatena la K guerra santa » contro le potenze ostili, ormai resesi in qualche modo esterne in virtù dell'isolamento o[...]

[...] forme religiose nuove ed autonome secondo rapporti di convivenza coi bianchi, mostrano invariabilmente che la storia religiosa dei popoli nativi e arretrati ha le sue ineliminabili esigenze, che nessuna potenza o istituzione egemonica può presumere di conculcare o ignorare. Nello sviluppo religioso di codeste popolazioni non v'è in nessun caso possibilità di supine acquiescenze. Le cosiddette conversioni sono in larga misura — come i missionari più illuminati ammettono di buon grado — più apparenti che reali, e toccano comunque la superficie più che il fondo della vita religiosa. Nessuna propaganda esterna, nessuna imposizione o proibizione proveniente dall'alto hanno il potere di frantumare l'inderogabile libertà della storia. La quale ultima ha in ciò la sua legge suprema: che gli itinerari futuri sui quali essa va a svolgersi non sono mai tronconi aggiunti da fuori agli itinerari del passato, sibbene di questi sono continuazione e germinazione spontanea. Insomma, la tradizione religiosa può trasformarsi, correggersi, superarsi: non pue) mai rinnegare se stessa: poiché annullare se stessa non é carattere della storia.
VITTORIO LAN[...]



da Paolo Alatri, Il Governo Nitti e la questione adriatica in KBD-Periodici: Nuovi Argomenti 1959 - 5 - 1 - numero 38

Brano: IL GOVERNO NITTI E LA QUESTIONE ADRIATICA (*)
Nelle sue Rivelazioni, Nitti scrisse molti anni piú tardi che quando il suo Ministero fu rovesciato, i delegati jugoslavi stavano per riprendere contatto con quelli italiani per riallacciare le trattative, interrotte esattamente un mese prima dalla crisi ministeriale italiana (1). Non pare che ciò sia de tutto esatto: il nuovo incontro non era stato ancora fissato; tuttavia é certo che se nel giugno 1920 Nitti avesse superato la crisi e fosse restato al goveron, i negoziati diretti per la soluzione della questione adriatica sarebbero stati ripresi entro breve tempo e, con ogni probabilità, portati a compimento. Giolitti, che gli succedette a c[...]

[...] ampio lavoro dallo stesso titolo di prossima pubblicazione presso l'editore Feltrinelli.
(1) FRANCESCO SAVERIO NITTI, Rivelazioni. Dramatis personae, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1948, pp. 34041.
(2) Non pare perciò fondata l'affermazione di F. S. NIrri (ibid., p. 343): « Al trattato di Rapallo segui l'accordo con la Jugoslavia: nulla era stato ottenuto che io non avessi ottenuto; anzi la situazione era stata di molto peggiorata D. Più aderente al vero RENÉ ALBRECHTCARRIÉ, Italy at Me Peace Conference, New York, Columbia University Press, 1938, p. 289, che scrive: « C'è ogni ragione di ritenere che la lunga disputa [italojugoslava] sarebbe stata portata a conclusione a Pallanza, e che, se così fosse stato, gli jugoslavi si sarebbero asicurate condizioni migliori di quelle che avrebbero ottenute di lì a qualche mese in condizioni che, sotto qualche aspetto, poterono sembrare meno favorevoli ad essi s.
IL GOVERNO NITTI E LA QUESTIONE ADRIATICA 161
della conclusione dell'accordo con la Jugoslavia per essere in grado di dare [...]

[...]etto, poterono sembrare meno favorevoli ad essi s.
IL GOVERNO NITTI E LA QUESTIONE ADRIATICA 161
della conclusione dell'accordo con la Jugoslavia per essere in grado di dare rapida attuazione al programma di smobilitazione militare, politica e psicologica del Paese, in vista di una politica di riduzione delle spese, di concentrazione interna, di ricostruzione economica, mentre Giolitti, tornato al potere con l'appoggio di una maggioranza assai più vasta di quella che appoggiava il Governo Nitti, poteva permettersi di temporeggiare; e dall'altra parte che Giolitti poté trattare in condizioni più favorevoli, per alcune congiunture internazionali determinatesi nel frattempo: infatti la posizione della Jugoslavia fu gravemente indebolita, tra il giugno e il novembre 1920, sia dall'esito del plebiscito di Klagenfurt (3), sia dal definitivo tramonto di Wilson, che aveva costituito, per tutto il tempo in cui Nitti era rimasto al potere, il maggiore appoggio di Belgrado e il più forte ostacolo a una soluzione positiva del problema fiumano; inoltre le intensificate mène francesi nell'Europa balcanica e danubiana, preoccupando la Jugoslavia e facendole intravedere il pericolo di un isolamento, la indussero a maggiore arrendevolezza di fronte all'Italia per chiudere in qualche modo il grave contrasto sul problema adriatico.
Tuttavia, anche tenuto conto di questo mutamento della situazione generale in cui si trovò a trattare Giolitti in confronto di Nitti, non ci sembra di grande importanza discutere se il Trattato di Rapallo fu più sfavorevole all'Italia dell'accordo c[...]

[...]ropa balcanica e danubiana, preoccupando la Jugoslavia e facendole intravedere il pericolo di un isolamento, la indussero a maggiore arrendevolezza di fronte all'Italia per chiudere in qualche modo il grave contrasto sul problema adriatico.
Tuttavia, anche tenuto conto di questo mutamento della situazione generale in cui si trovò a trattare Giolitti in confronto di Nitti, non ci sembra di grande importanza discutere se il Trattato di Rapallo fu più sfavorevole all'Italia dell'accordo che il precedente Governo avrebbe potuto firmare. Piuttosto, va messo in rilievo che, nell'affrontare il problema adriatico, Giolitti non soltanto poté avvalersi delle lunghe, estenuanti trattative già svolte da Nitti e dei risultati già da lui raggiunti, ma prosegui nello stesso indirizzo che Nitti aveva inaugurato nei confronti di Orlando e Sonnino. In sostanza, dunque, e salvo qualche aspetto di dettaglio, la questione adriatica fu risolta secondo le linee generali impostate e perseguite da Nitti in modo totalmente nuovo rispetto ai disordinati e impotenti tentativi del Governo precedente.
Di fronte all'agitazione prodottasi in Italia per Fi[...]

[...]se alle loro giuste proporzioni. Cosicché, in capo a pochi mesi, nell'autunno del 1919, i rapporti tra la Francia e l'Italia erano divenuti eccellenti. Tra ottobre e novembre, vi era ormai la convinzione che la Francia aiutasse concretamente il nostro Paese, il quale non trovava invece altrettanto appoggio nell'Inghilterra (4). In un'intervista a un giornale francese, Nitti poteva dichiarare: « Da che sono al Governo, faccio di tutto per rendere più cordiali i rapporti con la Francia. Ha dissipato ogni equivoco (...) Non dimenticheremo mai ciò che la Francia ha fatto per noi in questa circostanza » (5).
In quello stesso periodo, per contro, peggioravano gravemente i rapporti italoinglesi, in coincidenza con la nota di Lord Curzon consegnata il 4 ottobre da Lord Hardinge al nostro ambasciatore per deplorare la presunta inerzia del Governo italiano di fronte
(4) Cfr. il rapporto dell'ambasciatore britannico a Roma Buchanan al ministro degii Esteri Lord Curzon, 30 ottobre 1919, in Documents on British Foreign Policy, 19191939, edited by E[...]

[...]ottobre 1919, in Documents on British Foreign Policy, 19191939, edited by E. L. WOODWARD and ROHAN BUTLER, London, 1947 sgg., First Series, vol. IV, p. 143.
(5) Presse de Paris, 12 novembre 1919.
IL GOVERNO NITTI E LA QUESTIONE ADRIATICA 163
alla situazione fiumana in regime di occupazione da parte degli irregolari di D'Annunzio.
Col nuovo anno, la situazione diplomatica si capovolge. In Francia a Clemenceau succede Millerand, che si orienta più decisamente verso una politica di forza verso la Germania e la Russia sovietica, politica che Nitti, insieme con Lloyd George, è deciso a respingere. Anche la notizia di una convenzione militare francoserba, per quanto smentita, contribuisce a rendere nuovamente tesi i rapporti tra i Governi di Roma e di Parigi. Lo scontro avviene a San Remo, e da quel momento s'intensificano anche le mène di Barrère contro il Governo Nitti che arriverà a chiedere, senza peraltro ottenerlo, il richiamo dell'ambasciatore francese a Roma. Su questa base avviene il riavvicinamento sempre più stretto tra la polit[...]

[...], è deciso a respingere. Anche la notizia di una convenzione militare francoserba, per quanto smentita, contribuisce a rendere nuovamente tesi i rapporti tra i Governi di Roma e di Parigi. Lo scontro avviene a San Remo, e da quel momento s'intensificano anche le mène di Barrère contro il Governo Nitti che arriverà a chiedere, senza peraltro ottenerlo, il richiamo dell'ambasciatore francese a Roma. Su questa base avviene il riavvicinamento sempre più stretto tra la politica inglese e quella italiana.
Contrari sempre a una soluzione della questione adriatica che, con il riconoscimento dell'italianità di Fiume, sembrava ledere e sopraffare i diritti della Jugoslavia, gli Stati Uniti. Si possono mettere in rilievo — e lo abbiamo fatto altrove — le ragioni non spregevoli dell'atteggiamento americano. Rimane da notare, tuttavia, che nella querela Wilson portò uno spirito d'intransigenza e una rigidezza dogmatica che apparvero dannosi anche a Lloyd George e a Clemenceau (6) e che più di una volta, prima ancora delle trattative dirette tra Roma[...]

[...]ella questione adriatica che, con il riconoscimento dell'italianità di Fiume, sembrava ledere e sopraffare i diritti della Jugoslavia, gli Stati Uniti. Si possono mettere in rilievo — e lo abbiamo fatto altrove — le ragioni non spregevoli dell'atteggiamento americano. Rimane da notare, tuttavia, che nella querela Wilson portò uno spirito d'intransigenza e una rigidezza dogmatica che apparvero dannosi anche a Lloyd George e a Clemenceau (6) e che più di una volta, prima ancora delle trattative dirette tra Roma e Belgrado, impedirono il raggiungimento di una soluzione obiettivamente non peggiore di quella assai più faticosamente trovata soltanto nel novembre 1920 a Rapallo. In sostanza, quindi, la difesa della nazione più debole assunta dagli Stati Uniti si converti, poiché attuata con così scarso
(6) Secondo il Premier inglese, ad_ esempio, Wilson era come un predicatore che voleva riscattare l'Europa dai suoi secolari errori. « Senza dubbio l'Europa aveva bisogno della lezione — egli scrisse —, ma il Presidente dimenticava che gli Alleati avevano combattuto quasi cinque anni per il diritto internazionale » (DAVID LLOYD GEORGE, The truth about peace treates, London, Gollancz, 1938, vol. I, pp. 22324). Sui difetti di temperamento di Wilson hanno scritto tutti quelli che ebbero a trattare o a collaborare con l[...]

[...]ntroversa e realmente difficile da dirimere è quanto nell'intransigente opposizione wilsoniana ad una soluzione del problema adriatico accettabile da parte italiana vada attribuito a rigidezze e astrattismi ideologici e quanto a influenze finanziarie. Certo, i due elementi dovettero intrecciarsi, e il secondo non dovette mancare. Si disse insistentemente, allora, che gli americani avessero particolari mire sul porto di Fiume come elemento di una più vasta penetrazione nell'Europa centrale, che essi attendessero dagli jugoslavi un'arrendevolezza che non avrebbero trovato negli italiani (7); più tardi, nel periodo di vita dello Stato libero creato dal Trattato di Rapallo, gli americani progettarono l'acquisto di una parte importante del porto fiumano, su cui avrebbe dovuto esercitare la sua giurisdizione la « Standard Oil Company » (8), e in ciò si vide una specie di dimostrazione a posteriori dei motivi che avevano reso la diplomazia wilsoniana così dura, rigida, intransigente. Per contro, il banchiere americano Guggenheim, intervistato da un giornale italiano (9), dichiarò che gli Stati Uniti avrebbero dovuto preferire una soluzione italiana del problema di Fiume, perché gli jugosl[...]

[...]scopo di eliminare il pericolo di una concorrenza portuale (11). In tal senso, certamente, si adoperavano uomini come Cosulich e Sinigaglia. Wilson non mancò di scorgere questo elemento, e nella seduta del Consiglio Supremo del 13 maggio 1919 disse : « E anche possibile che i capitalisti di Trieste vogliano che Fiume sia italiana per poter a lor grado rovinare la sua concorrenza » (12). Difatti la maggioranza della popolazione fiumana, e tutti i più avveduti tra i cittadini di Fiume, furono indipendentisti o autonomisti e non annessionisti, come dimostrarono sia il plebiscito del 18 dicembre 1919 sia le vicende posteriori, sulle quali torneremo. Inserita e integrata nel sistema statuale italiano, Fiume non aveva larghe possibilità di attività e di sviluppo; e ciò si poté constatare e confermare quando più tardi gli jugoslavi, perso il controllo di Fiume, ne attuarono l'isolamento e lasciarono vuoti e inutilizzati i capaci e moderni magazzini del bacino Thaon di Revel (13), determinando l'asfissia economica che mortificò il porto e la vita della città nei decenni successivi.
Nitti, per aver preso sul problema fiumano e adriatico in genere un atteggiamento che non coincideva con quello dei nazionalisti, divenne il bersaglio delle più feroci e ingiuste accuse: uno di essi, Armando Hodnig, il fondatore della Vedetta d'Italia, lo
(11) In proposito cfr. lo scritto di GAETANO SALVEMINI nella Quarterly Review del gennaio 1918, ora nel volume Dal Patto di Londra alla Pace di Roma. Documenti della politica che non fu fatta, Torino, Gobetti, 1925, p. 97; ed anche il suo articolo su Il problema di Fiume nell'Unità del 23 novembre 1918, ora nel volume L'Unità di Gaetano Salvemini a cura di Beniamino Finocchiaro, Venezia, Neri Pozza, 1958, p. 543.
(12) Cfr. Les délibérations du Conseil des Quatre (24 mars 28 juin). Notes de l'Offi[...]

[...]unzio creò una situazione che condizionò le trattative diplomatiche condotte dal Governo Nitti. Un quesito che è giusto porsi, ma al quale non é possibile dare una risposta netta e univoca, é il seguente: l'impresa dannunziana costituì un elemento positivo o negativo per la soluzione del problema adriatico? Se ci limitiamo all'aspetto strettamente fiumano di quel problema, possiamo affermare che D'Annunzio, inserendo nella situazione un fatto compiuto sul quale si articolò la vasta mobilitazione psicologica organizzata dai nazionalisti, impedì ai negoziatori una soluzione che non implicasse il rispetto e la difesa dell'italianità di Fiume. E lecito tuttavia presumere che anche senza quel fatto compiuto nessun governo italiano avrebbe abbandonato Fiume agli jugoslavi, mentre la soluzione annessionistica, che era quella per cui si battevano D'Annunzio e i nazionalisti, non fu per allora realizzata perché non poteva esserlo. D'altra parte, in una prospettiva più ampia, cioè guardando all'intero problema adriatico e non alla sola questione di Fiume, il pronunciamento militare capeggiato da D'Annunzio, e l'elemento di rottura che egli inserì nella legittimità diplomatica internazionale, non attenuarono ma anzi resero certamente più acerba l'opposizione di Wilson a una sistemazione favorevole alle richieste italiane che al Presidente degli Stati Uniti sembrava basata sulla sopraffazione del più debole da parte del più forte (15): e in tal senso i negoziatori italiani ebbero in D'Annunzio non un aiuto ma un ostacolo.
Non vi é dubbio, poi, che allargando ulteriormente lo sguardo, cioè tenendo presente l'intero quadro delle trattative di pace, e non soltanto la questione adriatica, l'episodio di Fiume fu enormemente dannoso agli interessi nazionali italiani. Conseguenza e a sua volta causa del concentrarsi dell'attenzione sul solo ristretto problema fiumano, l'impresa di D'Annunzio confluì in quello che
(14) Nel'introduzione al volume di A. DE AMSROS, La questione di Fiume cit.
(15) Cfr. per esempio D. LLO[...]

[...] la questione adriatica, l'episodio di Fiume fu enormemente dannoso agli interessi nazionali italiani. Conseguenza e a sua volta causa del concentrarsi dell'attenzione sul solo ristretto problema fiumano, l'impresa di D'Annunzio confluì in quello che
(14) Nel'introduzione al volume di A. DE AMSROS, La questione di Fiume cit.
(15) Cfr. per esempio D. LLOYD GEORGE, op. cit., vol.. Il, p. 809.
IL GOVERNO NITTI E LA QUESTIONE ADRIATICA 167
fu il più grave tra gli errori del Ministero OrlandoSonnino, vale a dire lo scarso interesse riposto per tutte le questioni ben più importanti della sistemazione del bacino del Mediterraneo in generale e delle riparazioni; e le nefaste conseguenze di questo errore Nitti ereditò. Il suo sforzo per sdrammatizzare il problema fiumano e tutta intera la questione adriatica rientrava certamente in una visione più ampia e lungimirante, nella quale aveva gran parte anche la concezione europeistica, cioè di una sostanziale solidarietà tra le nazioni europee. Ciò spiega sia il gran conto che egli faceva dell'opinione alleata e del buon accordo tra l'Italia e i Paesi dell'Intesa, sia le speranze che egli ripose in una vera Società delle Nazioni, sia anche, infine, la sua fiducia nello sviluppo del radicalismo filosocialista, che nel suo pensiero doveva trionfare in Europa dopo la grande guerra e aprire l'èra dello sviluppo sociale.
Nelle lunghe ed estenuanti trattative, Nitti ebbe come collaboratori i due[...]

[...]in sostanza, un clericomoderato; Scialoja un liberalenazionalista. Le necessità dell'equilibrio governativo e delle alleanze parlamentari rendevano indispensabile, per un radicale come Nitti, scegliere come collaboratori alla politica estera uomini che potessero almeno attenuare l'opposizione delle frazioni di destra dello schieramento dei partiti. Tuttavia, sia con Tittoni come con Scialoja, l'accordo fu perfetto. La stampa nazionalista insisté più di una volta su presunti dissidi tra il presidente del Consiglio e il ministro degli Esteri (16), ma la documentazione che abbiamo potuto utilizzare e che abbiamo prodotto nel corso del nostro lavoro dimostra che questi dissidi erano nei desideri delle destre, ma non furono mai una realtà; se Nitti ebbe screzi con Badoglio e con Caviglia, non ne ebbe mai con Tittoni né con Scialoja. Anche le dimissioni di Tittoni non furono deter
(16) Cfr. per esempio l'articolo L'ostaggio bolscevico nell'Idea Nazionale del 22 ottobre 1919.
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minate da un contrasto o da una differenza di ved[...]

[...]ostro giudizio, Tittoni ebbe il torto di non rendersi conto, tra ottobre e novembre, anche in riferimento al passo di Hardinge presso Imperiali, che le cose si mettevano tutt'altro che bene, contribuendo così a istillare in Nitti un ottimismo sulla possibile conclusione delle trattative che il loro successivo sviluppo doveva smentire. Scialoja, a sua volta, era in sostanza uno scettico, che con lo stesso spirito collaborò nel 1920 con Nitti come più tardi collaborò con Mussolini (17). Durante il periodo in cui resse il dicastero degli Esteri, fu a lungo malato e Sforza lo definì una comparsa (18). Nitti, però, trovò in lui un « fedele e onesto collaboratore », un « uomo di grande dottrina e di acutissimo ingegno », uno « spirito chiaro e preciso » (19). Aveva una profonda preparazione giuridica ed era un tecnico della politica. internazionale.
Del resto, in confronto al suo predecessore Orlando, Nitti dimostrò la tendenza a servirsi, per le trattative, più di diplomatici. che di uomini politici e di parlamentari, e in tal senso fu sinto[...]

[...]sse il dicastero degli Esteri, fu a lungo malato e Sforza lo definì una comparsa (18). Nitti, però, trovò in lui un « fedele e onesto collaboratore », un « uomo di grande dottrina e di acutissimo ingegno », uno « spirito chiaro e preciso » (19). Aveva una profonda preparazione giuridica ed era un tecnico della politica. internazionale.
Del resto, in confronto al suo predecessore Orlando, Nitti dimostrò la tendenza a servirsi, per le trattative, più di diplomatici. che di uomini politici e di parlamentari, e in tal senso fu sinto matica la sostituzione di De Martino a Crespi come membro della. Delegazione alla Conferenza della Pace. Inoltre, Nitti rivelò una notevole capacità di utilizzare per la sua politica nettamente antinazionalista uomini che erano animati da un istintivo nazionalismo — da Tittoni a Scialoja, da Badoglio a Caviglia, da Mosconi
(17) « Sono qui — dichiarò una volta quando era ministro degli Esteri — per vedere che, almeno in politica estera, non facciamo troppe fesserie » (DANIELE VARL IZ diplomatico sorridente, ediz[...]

[...]citato da GORDON A. CRAIG and FELIX GORDON, The Diplomats. 19191939, Princeton University Press, 1953, p. 212). Cfr. anche ARTURO CARLO JEMOLO, Chiesa e Stato in Italia negli ultimi cento anni, Torino, Einaudi, 1948, p. 653.
(18) CARLO SFORZA, L'Italia dal 1914 al 1944 quale io la vidi, Milano, Mondadori, 1946, p. 89.`
(19) F. S. NITTI, Rivelazioni cit., pp. 5, 53 e 340.
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a Salata (20) — tanto che più tardi molti di essi dovevano passare armi e bagagli alla collaborazione col fascismo. Bisogna pur sottolineare il fatto che a contatto con la situazione qual era, specialmente quando si trattava di misurarsi con gli Alleati nelle trattative diplomatiche, quegli uomini erano costretti ad acquistare un realismo che era il naturale nemico di ogni atteggiamento nazionalistico. Uno di essi, Salvatore Barzilai, parlando al Senato il 15 dicembre 1920 sul Trattato di Rapallo, diede un riconoscimento prezioso di questo stato di cose: «Chi ebbe l'occasione di trovarsi a Parigi nel 1919 non può, in sua [...]

[...]o di essi, Salvatore Barzilai, parlando al Senato il 15 dicembre 1920 sul Trattato di Rapallo, diede un riconoscimento prezioso di questo stato di cose: «Chi ebbe l'occasione di trovarsi a Parigi nel 1919 non può, in sua coscienza, moltiplicare le esigenze e accrescere le censure verso i negoziatori del Trattato di Rapallo. Non può per senso di onestà! »; e dopo aver indicato il carattere contraddittorio delle richieste italiane (Patto di Londra più Fiume): « Allora io ebbi il fondato dubbio che la pace italiana non si sarebbe potuta stringere senza una formula di compromesso: ogni più sincero sforzo da molti, da troppi fu fatto, ma era fatale che un compromesso dovesse suggellare la pace »;
(20) Per quanto riguarda Badoglio, vi è un episodio che dimosrra come egli si tenesse in contatto con i nazionalisti anche nel periodo in cui collaborava con Nitti. Durante la Conferenza di San Remo, Badoglio istallò a Villa Devachan un plastico delle Alpi Giulie; Foch, appena lo ebbe osservato, esclamò: « Non c'è da scegliere fra due o più confini. Qui il confine è uno ». Ora, questa osservazione del generale francese, che non poteva essere a conoscenza se non di Badoglio (tanto che VANNA VAILATI la riferisce nel Badoglio racconta, Torino, Ilte, 1955, scritto sulla base di colloqui avuti col vecchio maresciallo d'Italia), la troviamo già riferita dal giornale dei nazionalisti human La Vedetta d'Italia (12 maggio 1920) e da Robetro Forges Davanzati nell'idea Nazionale (16 maggio 1920).
Tuttavia, nei mesi durante i quali fu Commissario straordinario militare nella Venezia Giulia, Badoglio, se non rinnegò l'antica amicizia per D'[...]

[...]e ebbe il 5 dicembre 1919 a Udine con Preziosi e Sinigaglia, Badoglio disse: « Non parliamo nemmeno delle controproposte di D'Annunzio: figuratevi se è mai possibile che io accetti di dichiarare benemeriti della Patria D'Annunzio e i suoi! » (cfr. GIOVANNI PREZIOSI, Come l'on. F. S. Nitti tradì costantemente la causa di Fiume. Per la storia del « modus vivendi » in La Vita Italiana, 15 ottobre 1920, pp. 298301). Tutto ciò dimostra che, scrivendo più tardi le sue Rivelazioni su Fiume (Roma, De Luigi, 1946), PIETRO BADOGLIO, nel clima politico mutato, diede della propria posizione di fronte a D'Annnuzio una immagine sensibilmente deformata.
Per quanto si riferisce a ENRICO CAVIGLIA, basta leggere il suo libro su Il conflitto di Fiume (Milano, Garzanti, 1948) per rilevare la debolezza del suo pensiero politico, le contraddizioni fra le tendenze nazionaliste e l'avversione contro ogni atto disgregatore della compagine dell'esercito e dello Stato costituzionale.
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sicché il nazionalista Barzilai finiva per adoperare a propos[...]

[...]o di Fiume (Milano, Garzanti, 1948) per rilevare la debolezza del suo pensiero politico, le contraddizioni fra le tendenze nazionaliste e l'avversione contro ogni atto disgregatore della compagine dell'esercito e dello Stato costituzionale.
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sicché il nazionalista Barzilai finiva per adoperare a proposito di D'Annunzio parole che avrebbero potuto essere pronunciate da Nitti: « Non vi é nessuno, per quanto illustrato dalle gesta più nobili, che possa imporsi alla volontà della Nazione »; e ricordava la necessità del pane e della ricostruzione economica.
In Nitti, se tenace fu sempre il perseguimento di fini coerenti con le premesse della sua azione politica antinazionalista, non sempre vi furono, nell'attuazione quotidiana, quella fermezza e quella abilità che sarebbero state necessarie. Lo vediamo, di fronte alle prime notizie della spedizione dannunziana, telegrafare ai generali Pittaluga e Di Robilant: «Ella sa quale é il suo preciso dovere in quest'ora » che non era la formulazione giusta di un ordine, poiché si tra[...]

[...]omandare, non dava ordini, impartiva lezioni » (21), e Giolitti che Nitti sermoneggiava, non agiva (22). Così — e pur con tutte le attenuanti che è giusto riconoscergli per le gravi conseguenze di un eventuale richiamo del Governatore della Dalmazia — Nitti fu debole nei confronti dell'amm. Millo, lasciato al suo posto fra duri rimbrotti dopo che si era compromesso con l'impegno preso di non consentire l'evacuazione della Dalmazia. Nitti scrisse piú tardi che se D'Annunzio aveva potuto preparare e compiere la sua impresa prendendo di sorpresa il Governo, si dové al fatto che Diaz e Aibricci, ai quali il presidente del Consiglio aveva affidato l'in
(21) C. SFORZA, op. cit., p. 87.
(22) GIOVANNI GIOLITTI, Memorie della mia vita, Milano, Garzanti, 1945, p. 554.
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carico di ispezionare la Venezia Giulia, erano stati a loro volta ingannati e riferirono tranquillizzandolo. Questo elemento, senza dubbio, entrò nella complessa situazione; ma non la esauriva. Nitti aveva a sua disposizione molte alt[...]

[...] il suo compito fosse esaurito e ogni precauzione fosse presa col raccomandare ai comandanti prudenza e vigilanza (23).
Bisogna però aggiungere, per delineare un ritratto non deformato della personalità di Nitti, che questo ottimismo discendeva dall'incrollabile fiducia che egli aveva nella ragione, nell'evidenza dei fatti, nel razionale, da illuminista il cui stile si caratterizzava infatti per accenti quasi volteriani. Era insomma, il suo, un piú elevato livello eticopolitico, che lo poneva al di sopra della maggior parte degli uomini politici e dei militari del suo tempo e del suo ambiente, ma, con ciò stesso, gli faceva talvolta smarrire il senso delle necessarie cautele da prendere con essi.
Anche nella laboriosa ricerca di una soluzione del problema fiumano, nella scelta tra i vari progetti che furono avanzati durante quei mesi, quasi accavallandosi, Nitti dimostrò talvolta qualche oscillazione (per esempio, sulla creazione dello Stato libero, che egli di volta in volta considerò vantaggioso perché sgradito a Belgrado in quanto s[...]

[...] economico rispetto a quello politico nella vita dello Stato e della società, che fu una delle sue caratteristiche salienti.
Anche se tardi epigoni delle infiammate passioni di quel tempo possono ancor oggi trovare motivo di scandalo nella sollecitudine di Nitti a concludere l'accordo adriatico e nella scarsa importanza ch'egli attribuiva ai dettagli territoriali, a noi sembra — in base a una concezione che siamo convinti essere al tempo stesso più idealistica e più realistica — che non solo lo sviluppo successivo degli avvenimenti internazionali che ha tanto superato i termini di quella contesa rendendoli obsoleti e mostrandone quindi al fondo il carattere artificioso e l'importanza secondaria, ma anche e soprattutto le vicende interne, con la dimostrazione del male recato all'Italia dalla insurrezione nazionalista, provino la sostanziale giustezza della visione nittiana. A Nitti stava soprattutto a cuore contrastare il passo a quella marea montante, e per far ciò bisognava chiudere la falla che si era aperta sul settore adriatico e che costituiva un se[...]

[...]sullo sfondo psicologico della `vittoria mutilata'. Con tutto questo, rimane il fatto che né gli errori dei negoziatori italiani, né la mala volontà di Lloyd George e di Clemenceau, né la ostilità di Wilson arrecarono alcun danno reale alla nazione italiana. La mancata annessione della Dalmazia all'Italia non era da deplorare. La Dalmazia non avrebbe accresciuto né le ricchezze né la sicurezza d'Italia. Era un paese povero e roccioso, abitato da più di mezzo milione di slavi fieramente nazionalisti. C'era una maggioranza italiana solo nella città di Zara, e fuori di Zara non più di ventimila italiani dispersi in un mare slavo. Minoranze nazionali annesse contro voglia non costituiscono guadagno per nessun paese. Avesse occupato la Dalmazia, l'Italia avrebbe dovuto mantenervi una parte notevole del suo esercito in permanente attrezzatura di guerra per tenere soggiogata la popolazione slava ostile. Nel caso di altra guerra europea, in cui fosse implicata l'Italia, questa sarebbe stata obbligata ad
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reva raggiungere un accordo che sgombrasse il campo da una pericolosa tensione internazionale e al tempo stesso togliesse di m[...]

[...]attrezzatura di guerra per tenere soggiogata la popolazione slava ostile. Nel caso di altra guerra europea, in cui fosse implicata l'Italia, questa sarebbe stata obbligata ad
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reva raggiungere un accordo che sgombrasse il campo da una pericolosa tensione internazionale e al tempo stesso togliesse di mezzo il principale focolaio insurrezionale a Fiume.
Nitti, come Bissolati, vedeva il pericolo molto più a destra che a sinistra (25). La sua uscita dal Ministero Orlando dopo che la stessa decisione era stata presa da Bissolati aveva definitivamente chiarito la sua fisionomia di K rinunciatario » (26). Ciò servi di
immobilizzare importanti forze militari in quella provincia per proteggere le sue 350 miglia di frontiera contro un attacco proveniente dal retroterra slavo. Siffatto esercito di occupazione avrebbe dovuto essere usato con maggior vantaggio nella protezione di altri confini italiani ben più vitali, quelli verso la Francia, o verso l'Europa centrale, o nella difesa della penisola con[...]

[...]stero Orlando dopo che la stessa decisione era stata presa da Bissolati aveva definitivamente chiarito la sua fisionomia di K rinunciatario » (26). Ciò servi di
immobilizzare importanti forze militari in quella provincia per proteggere le sue 350 miglia di frontiera contro un attacco proveniente dal retroterra slavo. Siffatto esercito di occupazione avrebbe dovuto essere usato con maggior vantaggio nella protezione di altri confini italiani ben più vitali, quelli verso la Francia, o verso l'Europa centrale, o nella difesa della penisola contro sbocchi al mare. La Dalmazia non avrebbe dato all'Italia il dominio dell'Adriatico. Il dominio del mare è assicurato dalle più potenti forze navali mobili, qualora esse possano fare assegnamento su una sola base navale bene organizzata, in un bacino circoscritto come l'Adriatico. Numerose basi navali non aggiungono niente. Esse non si muovono e non combattono. L'esperienza della guerra 19151918 dimostrò che le magnifiche basi navali dell'Adriatico orientale, benché possedute dalla marina austriaca, non permisero agli austriaci d'intraprendere nessuna importante azione navale, dato che le loro forze erano più deboli di quelle dell'Intesa. Anche se la Dalmazia fosse stata annessa all'Italia, la base navale di Cattaro s[...]

[...]a esse possano fare assegnamento su una sola base navale bene organizzata, in un bacino circoscritto come l'Adriatico. Numerose basi navali non aggiungono niente. Esse non si muovono e non combattono. L'esperienza della guerra 19151918 dimostrò che le magnifiche basi navali dell'Adriatico orientale, benché possedute dalla marina austriaca, non permisero agli austriaci d'intraprendere nessuna importante azione navale, dato che le loro forze erano più deboli di quelle dell'Intesa. Anche se la Dalmazia fosse stata annessa all'Italia, la base navale di Cattaro sulle coste orientali dell'Adriatico sarebbe rimasta fuori del controllo italiano. In un mare così piccolo, una potente flotta, appoggiata a Cattaro, sarebbe bastata a tenere a bada la flotta italiana, salvo che l'Italia avesse occupato tutta la costa orientale fino al confine albanese. In questo caso l'esercito italiano avrebbe dovuto difendere una frontiera assai più estesa che 350 miglia. Inoltre, sarebbe stata necessaria una grande flotta mercantile per trasportare dall'Italia alla[...]

[...]a. Anche se la Dalmazia fosse stata annessa all'Italia, la base navale di Cattaro sulle coste orientali dell'Adriatico sarebbe rimasta fuori del controllo italiano. In un mare così piccolo, una potente flotta, appoggiata a Cattaro, sarebbe bastata a tenere a bada la flotta italiana, salvo che l'Italia avesse occupato tutta la costa orientale fino al confine albanese. In questo caso l'esercito italiano avrebbe dovuto difendere una frontiera assai più estesa che 350 miglia. Inoltre, sarebbe stata necessaria una grande flotta mercantile per trasportare dall'Italia alla Dalmazia i rifornimenti indispensabili per l'esercito stanziato in un paese sterile ed ostile, e una forte marina avrebbe dovuto proteggere le linee di comunicazione tra quell'esercito e le sue basi in Italia. Queste forze sarebbero state distolte verso l'Adriatico dalle linee vitali per l'Italia nel Tirreno e nello Jonio. In breve, anche dal punto di vista strategico, e si potrebbe dire, specialmente dal punto di vista strategico, la conquista della Dalmazia sarebbe stata un[...]

[...]na avrebbe dovuto proteggere le linee di comunicazione tra quell'esercito e le sue basi in Italia. Queste forze sarebbero state distolte verso l'Adriatico dalle linee vitali per l'Italia nel Tirreno e nello Jonio. In breve, anche dal punto di vista strategico, e si potrebbe dire, specialmente dal punto di vista strategico, la conquista della Dalmazia sarebbe stata un grosso errore ». Queste considerazioni valgono anche rispetto a quanto dicevamo più su della relativa indifferenza di Nitti verso questa o quella soluzione tecnica del problema adriatico, l'una differente dall'altra soltanto per pochi aspetti di dettaglio.
(25) Per Nitti, cfr. per esempio il rapporto di Buchanan a Curzon, 28 ottobre 1919. in Documents on British Foreign Policy cit., vol. IV, pp. 14142. Nitti temeva un attacco jugoslavo ai « legionari » a Fiume perché esso avrebbe determinato l'iniziativa del partito militarista e reazionario e quindi l'accavallarsi della guerra interna su quella esterna. Su Bissolati, cfr. RAFFAELE COLAPIETRA, Leonida Bissolati, Milano, Fel[...]

[...]gnato la caduta del ministero Orlando ed il sorgere di quello Nitti e nell'attesa delle elezioni generali, è gran merito di Bissolati, nei suoi ultimi mesi di vita, aver serbato fede fermissima negli ideali per cui si era così coraggiosamente battuto ed aver individuato nel nazionalismo esasperato, nel dannunzianesimo ritornante, il pericolo da isolare e colpire, quello che veramente avrebbe sviato l'Italia dalla cooperazione con le nazioni, ben più che non il rumoroso massimalismo o il cattolicesimo politico organizzato ».
(26) Quando nella prima meta di dicembre 1918 si era cominciato a parlare, in seno al Governo OrlandoSonnino di cui facevano parte sia Bissolati che Nitti, delle condizioni di pace, i criteri antinazionalisti esposti dal primo erano stati condivisi da
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pretesto ai nazionalisti, che in lui vedevano uno dei loro veri e maggiori avversari, per lanciare contra di lui una furiosa campagna denigratoria, senza esclusione di colpi. Tuttavia la tesi sostenuta dai nazionalisti e ribadita da Caviglia (27) che [...]

[...]tro il governo parlamentare. Ciò in Italia come in Francia o in Jugoslavia. Infatti, se il conflitto per Fiume, in gran parte artificiosamente gonfiato dopo la guerra, costituì la bandiera dei nazionalisti italiani, non è da credere che le stesse resistenze ad un'equa e moderata soluzione del conflitto non vi fossero da parte del nazionalismo jugoslavo, altrettanto cieco e irresponsabile di quello italiano. Dati i termini del problema fiumano, e più in generale di quello adriatico, data cioè l'intricata struttura etnica dei territori in contestazione, la questione di Fiume era in qualche modo ideale per potercisi ac
quest'ultimo: cfr. l'appunto bissolatiano del 24 dicembre 1918 citato da R. COLAPIETRA, op. cit., pp. 26768.
(27) E. CAVIGLIA, op. cit., pp. 5658.
(28) Cfr. GIAMPIERO CARocci, Storia del fascismo, Milano, Garzanti, 1959, pp. 910.
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canire fra opposti nazionalismi: essa si prestava magnificamente a quella mobilitazione che gli estremisti di destra riuscirono a realizzare nel 191[...]

[...] 1918 citato da R. COLAPIETRA, op. cit., pp. 26768.
(27) E. CAVIGLIA, op. cit., pp. 5658.
(28) Cfr. GIAMPIERO CARocci, Storia del fascismo, Milano, Garzanti, 1959, pp. 910.
IL GOVERNO NITTI E LA QUESTIONE ADRIATICA 175
canire fra opposti nazionalismi: essa si prestava magnificamente a quella mobilitazione che gli estremisti di destra riuscirono a realizzare nel 1919. Certo, favorendo l'esaltazione patriottica che rendeva impossibile o almeno più difficile l'accordo, e quindi protraendo la contesa e con essa la mobilitazione, e di conseguenza ostacolando la ricostruzione economica su basi di normalità, i nazionalisti facevano gli interessi di cento grandi industriali contro quelli della grande maggioranza del Paese. Ma intanto diffondevano un veleno destinato a mettersi in circolazione nell'organismo nazionale per non più uscirne e dare i suoi frutti tossici negli anni seguenti. Per tutto il 1919, intanto, la vita dello Stato costituzionale, rappresentativo, parlamentare si svolse come sopra un vulcano, pronto ad esplodere in un terremoto da un momenta all'altro: il colpo di Stato era nell'aria, era una minaccia concreta; la « marcia di Ronchi » poteva benissimo trasformarsi in una « marcia su Roma », e più di una volta sembrò che cosí stesse per avvenire.
Nitti era agli antipodi di ogni atteggiamento nazionalistico e di ogni velleità eversiva delle istituzioni e ciò era sufficiente perché le destre lo accusassero di « disfattismo ». L'Idea Nazionale giunse ad imputargli, non appena ebbe assunto il potere, di essere « l'anti combattente » (29), ciò che era ben difficile dire dell'unico uomo politico italiano che, pur non essendosi abbandonato a demagogiche promesse come Salandra con il suo slogan « la terra ai contadini », aveva concretamente operato per istituire una rete di provvidenze in fav[...]

[...]ugno 1919.
176 PAOLO ALATRI
ordini inviati ai comandanti militari nella Venezia Giulia rivela infatti, a nostro giudizio, una sostanziale incertezza sulla migliore via da intraprendere per battere il movimento; analoga indicazione offre la accentuata differenza di tono fra la dichiarazione alla Camera del 13 settembre e quella di tre giorni dopo; e bisogna riconoscere che la linea ben presto stabilita di fronte ai « legionari » fu il risultato più delle osservazioni fatte sul luogo e delle indicazioni mandate da Badoglio che delle inclinazioni di Nitti. Comunque, il presidente del Consiglio ebbe l'avvedutezza di non pretendere di sovrapporre quelle inclinazioni ai suggerimenti che gli venivano da chi era stato mandato proprio per studiare direttamente la situazione; e dalla collaborazione tra Nitti e Badoglio nacque e si sviluppò la linea di condotta intesa a svuotare e isolare il movimento dannunziano. Questa linea produsse i suoi effetti, dapprima sdrammatizzando tutta la situazione e riportando alle sue proporzioni il movimento dann[...]

[...]ta dei « legionari » da Fiume; giacché non vi é dubbio che su questo terreno Giolitti poté valersi dell'eredità lasciatagli da Nitti.
La linea di condotta stabilita per Fiume da Nitti in collaborazione con Badoglio ebbe anche un altro effetto importante: quello
di mostrare, attraverso le vicende fiumane del dicembre 1919, che
a soli tre mesi dalla « marcia di Ronchi » D'Annunzio aveva perduto il controllo della cittadinanza, di cui non poteva più essere considerato l'esponente rappresentativo. Almeno a partire dallo sconfes
sato plebiscito del 18 dicembre, il gruppo che gravitava attorno al
comando dannunziano fu una minoranza che dominava con la forza, isolata nell'ambiente cittadino fiumano. Ciò chiari che la
soluzione annessionistica non era quella perseguita dai piú; dal che
si ebbero conferme sempre più chiare nei tempi successivi. Le elezioni fiumane per la Costituente del 24 aprile 1921, tenute in con
dizioni di maggiore libertà rispetto al periodo della dominazione dannunziana, diedero una schiacciante vittoria agli autonomisti, nonostante il tentativo di incendiare le schede fatto dal sindaco Riccardo Gigante « a capo d'un manipolo di fascisti e legiona
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ri » (30). Pochi giorni dopo quegli stessi fascisti, guidati da Francesco Giunta, occupavano a mano armata il Municipio (31); « non riuscirono però, di fronte alla sfiducia della cittad[...]

[...]iacciante vittoria agli autonomisti, nonostante il tentativo di incendiare le schede fatto dal sindaco Riccardo Gigante « a capo d'un manipolo di fascisti e legiona
IL GOVERNO NITTI E LA QUESTIONE ADRIATICA 177

ri » (30). Pochi giorni dopo quegli stessi fascisti, guidati da Francesco Giunta, occupavano a mano armata il Municipio (31); « non riuscirono però, di fronte alla sfiducia della cittadinanza e del governo, a mantenere il potere per più di due giorni e lo cedettero quindi ad un Alto Commissario italiano (avv. Bellasich) che avrebbe dovuto instaurare una normalità accettabile dalle due parti in conflitto » (32;. Dopo nuovi conflitti (2627 giugno 1921), il 5 ottobre si riunì la Costituente eletta il 24 aprile, nella quale gli autonomisti di Zanellà erano in grande maggioranza, sicché il 3 marzo 1922 gli estremisti ricorsero a un nuovo colpo di forza, alla rivolta armata: il palazzo del Governatore, ove risiedeva Zanella, fu preso d'assalto mentre un mas comandato da Giunta sparava su di esso 31 colpi di cannone. Zanella dovett[...]

[...] si indurì in una battaglia diplomatica di prestigio che in ultima analisi non diede la vittoria a nessuno. Se non fosse stato
(30) ARTURO MARPICATI, Fiume, Firenze, Casa Editrice « Nemi », 1931, p. 80. « Vittoria sicura — scrive con tipico linguaggio retorico G. BENEDETTI, Op. cit., pp. 9596 — auspicavano da ogni parte gli italiani di fede ferma; vittoria sicura era ritenuta quella del Blocco Nazionale. Ma come é possibile soltanto nei momenti più critici di un'epoca travagliata, la materialità del corpo si sovrappose alla gloria dello spirito: prevalsero il malessere, la sfiducia, la stanchezza, il desiderio del nuovo, l'allettamento, l'intravisto paradiso in terra, tutto ciò che sembrava più facile e accessibile alle necessità terrene e immediate. Ebbero elezioni vinte gli autonomi: il piccolo regno stava per sorgere a.
(31) A. MARPICATI, Op. Cit., p. 81.
(32) G. RADErrI, Profilo della storia di Fiume, in Fiume, a. I, n. 2 (aprilegiugno 1952), pp. 77 sgg.
(33) Ibid.; G. BENEDETTI, op. cit., pp. 112 sgg.
(34) R. ALBRECHTCARRIÉ, op. cit., p. VI (nella « Premessa editoriale » di JAMES T. SHOTWELL).
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per le questoni di maggior rilievo che esso implicava, il problema di Fiume avrebbe potuto essere messo da parte dagli storici come relativamente insignificante, ma[...]

[...]entanti delle varie frazioni del nazionalismo e del sovversivismo di destra: accanto al figlio di Vittorio Emanuele Orlando il figlio di Giuseppe Toeplitz,. consigliere delegato della Banca Commerciale, a capo di un ufficio « delle relazioni estere », e il genero del gen. Porro, uno degli accusati nell'inchiesta su Caporetto, tanto per citare qualche nome indicativo. Vecchia classe politica, alta finanza, militarismo dànno vita nella generazione più giovane alla forza armata di una ideologia della quale scaturirà il fascismo e la « marcia su Roma ». Nella sua biografia di Salvemini, Enzo Tagliacozzo osserva che lo storico di Molfetta accentua fin troppo la sua interpretazione e dà un peso forse eccessivo al fattore militare in paragone a quello economicosociale nella spiegazione del carattere del fascismo (36); siamo d'accordo, purché si avverta che il militarismo non é che uno degli aspetti in cui si manifestano, nel dopoguerra, gli interessi della plutocrazia nazionalista.
Di questi interessi, di questi ambienti, di questa ideologia, [...]

[...] che lo storico di Molfetta accentua fin troppo la sua interpretazione e dà un peso forse eccessivo al fattore militare in paragone a quello economicosociale nella spiegazione del carattere del fascismo (36); siamo d'accordo, purché si avverta che il militarismo non é che uno degli aspetti in cui si manifestano, nel dopoguerra, gli interessi della plutocrazia nazionalista.
Di questi interessi, di questi ambienti, di questa ideologia, Nitti é il più temibile avversario. Fornito di soda preparazione storica ed economica, conscio dei termini reali dei grandi problemi nazionali della ricostruzione, abituato a guardare più ai fatti che
(35) A. MARPICATI, op. cit., pp. 2425.
(36) ENZO TAGLIACOZZO, Gaetano Salvemini nel cinquantennio liberale, Firenze, La Nuova Italia, 1958, p. 220.
IL GOVERNO NITTI E LA QUESTIONE ADRIATICA 179
alle parole, nemico della retorica (37), Nitti é l'uomo di una borghesia moderna che punta sulla liquidazione del militarismo e sullo sviluppo industriale e finanziario. Impresa ardua, la sua, di conciliare le tendenze antinazionaliste con i compiti di capo di un governo borghese nella torbida situazione del dopoguerra (38); del contrasto tra le opposte esigenze possono essere assunti [...]

[...]onfitta di una visione moderna, radicale, dei compiti della borghesia: la borghesia già mira a una soluzione tutta diversa, che le assicuri il riacquisto dei margini politici ed economici perduti con le trasformazioni strutturali portate nel corpo sociale del Paese dalla guerra mondiale, anche a costo di sovvertire le tradizionali istituzioni parlamentari.
Obiettivamente, la confluenza tra il radicalismo nittiano e il socialismo é fatale: tanto più nella necessità della comune difesa contro le minacce e gli attentati provenienti dal sovversivismo di destra. Naturalmente sono i socialisti riformisti che si mostrano più sensibili alle ragioni di una collaborazione con l'esperimento di governo democratico instaurato da Nitti. Vi abbiamo indicato la via da seguire nella politica estera, con la ripresa delle relazioni con la Russia, dice Treves nel discorso parlamentare del 30 marzo 1920 rivolto al presidente del Consiglio; e riconosce: « Voi avete fatto quanto meglio e più nobilmente potevate fare a Parigi e a Londra
(37) « Non posso parlare senza imbarazzo — disse Nitti alla Camera il 21 dicembre 1919 — della questione adriatica. L'Italia ha una istituzione, fra le altre, che è la più importante di tutte, che è al di sopra di qualunque istituzione fondamentale dello Stato, della magistratura, del Parlamento; un'istituzione alla quale tutti s'inchinano: la retorica. E una forza che non ho mai posseduto. Noi abbiamo parlato tanti anni in tono superlativo e comparativo, che abbiamo persino dimenticato il tono positivo ».
(38) Non solo II Secolo, giornale radicale di Milano, ma anche il Corriere della Sera, conservatore ma avverso al programma annessionista dei nazionalisti e dei dannunziani, commentarono la caduta del ministero Orlando, nei loro editoriali del 21 giugno 1919[...]

[...]icale di Milano, ma anche il Corriere della Sera, conservatore ma avverso al programma annessionista dei nazionalisti e dei dannunziani, commentarono la caduta del ministero Orlando, nei loro editoriali del 21 giugno 1919, con parole aspre verso il « presidente della Vittoria » e auspicando un nuovo Ministero che abbandonasse la retorica verbalistica e facesse sul serio la smobilitazione, realizzasse le necessarie riforme e seguisse una politica più concreta. Tuttavia il 25 giugno 11 Messaggero, sulla base dei primi commenti al nuovo Ministero Nitti, notava come tutti fossero o si mostrassero scontenti, « ma per cause opposte, per ragioni che si elidono a vicenda » che fu un po' il destino di quel Governo.
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per introdurre una spirito nuovo di moderazione e di equità fra gli Alleati. Avete con l'esempio predicato per una tregua allo spirito di conquista e di cupidigia territoriale in Oriente. Avete inteso che i popoli son sazi di territori ed hanno fame di giustizia e di pace. Avete, riconosco, avete rettamente agito per[...]

[...]iustizia e di pace. Avete, riconosco, avete rettamente agito per attirare la Russia e la Germania nella comunione economica dell'Europa, principio essenziale per la ricostruzione ». E Turati nel giugno 1920, subito dopo la caduta del Governo Nitti: « L'on. Nitti prese dai socialisti le principali direttive della sua politica estera; forse avrebbe preso da essi anche molte direttive della politica interna, se i socialisti gliele avessero offerte; più volte preluse all'inevitabile, all'augurabile avvento di un governo laburista in Italia, ma l'azione, soprattutto nella politica interna, fu impari, forse per acerbità di casi e di tempi, alla fede professata; e ne venne la sua fatale caduta ».
Sono voci di socialisti riformisti: e ben si comprende. Il socialismo aveva aperta davanti a sé, nella situazione italiana del dopoguerra, due strade: o il tentativo di impadronirsi del potere con la rivoluzione per realizzare la società socialista, o l'appoggio ad un governo radicale di tipo nittiano. Diviso in un'ala massimalista rivoluzionaria solt[...]

[...]ria soltanto a parole (39) e in un'ala riformista debole e incerta, il partito socialista non seppe imboccare decisamente né l'una né l'altra strada. Le due correnti si paralizzarono a vicenda, nessuna delle sue soluzioni possibili fu tentata.
Nell'auspicare una collaborazione coi socialisti, con alcuni dei quali intratteneva rapporti attraverso il suo segretario particolare Magno, Nitti guardava naturalmente quasi esclusivamente ai riformisti. Più di una volta egli espresse l'opinione che i suoi veri avversari fossero i nazionalisti e non i socialisti, anche se questi ultimi
(39) Limitandoci alla questione fiumana, e al solo scopo di dare un'indicazione tipica della confusione di idee che regnava tra i massimalisti, ricorderemo il modo in cui l'Avanti! reagì alla spedizione dannunziana (ediz. piemontese, 28 settembre 1919): titolo su tutta la pagina: « La rivoluzione nazionalista prodromo di quella proletaria »; articolo di fondo: contro chi sostiene che la rivoluzione non si può fare perché c'è l'esercito, « Fiume ci ha dato la prova[...]

[...]na: « La rivoluzione nazionalista prodromo di quella proletaria »; articolo di fondo: contro chi sostiene che la rivoluzione non si può fare perché c'è l'esercito, « Fiume ci ha dato la prova che l'esercito non è inespugnabile, che l'esercito può passare ai ribelli, che tutto dipende dal saperlo conquistare (...). La lotta di classe è penetrata per opera dei borghesi, apertamente, nell'esercito. Noi ne siamo lietissimi. Mai era avvenuto nulla di più sovversivo fin qui nella storia politica del nostro paese a. È difficile immaginare più colossale e grossolana topica politica che questa di considerare interscambiabili il sovversivismo socialista e il sovversivismo nazionalista.
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votavano contro di lui; e nutriva la fiducia che questi non si sarebbero uniti ai primi nel tentativo di rovesciarlo (40). Quando ciò avvenne, fu la fine del suo esperimento radicale.
Si è molto insistito sulle agitazioni sociali che caratterizzarono l'anno 1919: in realtà potrebbe a più forte ragione applicarsi al Governo Nitti ciò che Frassati osservò a proposito del Governo Giolitti, che cioè reca mer[...]

[...]ca politica che questa di considerare interscambiabili il sovversivismo socialista e il sovversivismo nazionalista.
IL GOVERNO NITTI E LA QUESTIONE ADRIATICA 181
votavano contro di lui; e nutriva la fiducia che questi non si sarebbero uniti ai primi nel tentativo di rovesciarlo (40). Quando ciò avvenne, fu la fine del suo esperimento radicale.
Si è molto insistito sulle agitazioni sociali che caratterizzarono l'anno 1919: in realtà potrebbe a più forte ragione applicarsi al Governo Nitti ciò che Frassati osservò a proposito del Governo Giolitti, che cioè reca meraviglia come il grande fatto storico del dopoguerra, l'immissione del quarto stato" nella vita pubblica italiana, abbia potuto compiersi con incidenti relativamente così trascurabili (41). Del resto le agitazioni sociali non furono un fatto solo italiano ma travagliarono, in misura maggiore o minore, tutti i Paesi che aveva partecipato alla guerra.
Nitti stesso vide chiaramente quali forze Io fecero cadere: « Furono i grandi banchieri della Banca Commerciale, i grandi arricch[...]

[...]ra, l'immissione del quarto stato" nella vita pubblica italiana, abbia potuto compiersi con incidenti relativamente così trascurabili (41). Del resto le agitazioni sociali non furono un fatto solo italiano ma travagliarono, in misura maggiore o minore, tutti i Paesi che aveva partecipato alla guerra.
Nitti stesso vide chiaramente quali forze Io fecero cadere: « Furono i grandi banchieri della Banca Commerciale, i grandi arricchiti di guerra che più si agitarono per evitare un piccolo aumento del prezzo del pane che essi stessi avevano proposto e che richiesero subito dopo le mie dimissioni » (42). « Io ero nella strana
(40) Cfr. per esempio il citato rapporto di Buchanan a Curzon del 28 ottobre 1919.
(41) ALFREDO FRASSATI, Giolitti, Firenze, Parenti, 1959, p. 2.
(42) F. S. NITTI, Rivelazioni cit., p. 51. Alla lotta tra gli opposti gruppi che si contendevano il controllo della Banca Commerciale, il gruppo Marsiglia e il gruppo dei fratelli Pio e Mario Perrone, e in generale all'attività degli ambienti dell'alta finanza plutocratica, N[...]

[...]gio i Perrone pubblicavano sul Giornale d'Italia una lettera aperta che era una dichiarazione di guerra contro il gruppo avverso; ad essa ne fecero seguire altre due, pubblicate sempre nel Giornale d'Italia, il 22 e 23 maggio. Il 28 maggio si riunì allora il consiglio d'amministrazione della Commerciale; la relazione fu tenuta dal presidente Silvio Crespi (vice presidenti erano Cesare Saladini, Ettore
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situazione — spiega Nitti più avanti (43) — che gli elementi più avanzati che mi votavano contro e a cui la mia politica doveva sembrare pericolosa, avevano fiducia in me. Sapevano che comunque non avrei mai fatto opera di reazione. Sapevano che lavoravo per una monarchia democratica, non a parole ma nella essenza. Sapevano soprattutto che io volevo la ricostruzione economica. Tranne pochi scalmanati, io avevo avversari non già nemici se non in gruppi reazionari o affaristici di destre pronti a passare da parte mia se cedevo alle loro richieste e ai loro interessi ». Nitti attribuì la propria caduta ad un vero e proprio tranello tesogli sul prezzo politico[...]

[...] fiduciose in me non ostante l'apparenza di lotta per istinto, mi si trasse in inganno. Due banchieri vennero da me. Erano e si dicevano miei amici. Vennero per parlarmi dei provvedimenti necessari per avere l'equilibrio al Bilancio e di ciò che io volevo fare. Si mostrarono entusiasti dei miei provvedimenti, ma mi dissero che nel mondo degli affari anche un piccolo aumento del prezzo del pane avrebbe giustificato e reso tollerabili anche i pesi più duri per le classi ricche e che aveva valore simbolico. Così non si poteva dire nulla della mia pretesa demagogia. Io promisi.
Conti e Pietro Fenogli) e venne pubblicata, con il verbale dell'intera seduta, nel Messaggero del 5 giugno. Alla fine di maggio, di fronte al rilancio di accuse di illecite operazioni finanziarie, Nitti nominò una commissione di inchiesta « sui fatti d'accaparramento di azioni e di aumento di capitale di quelle società anonime i titoli delle quali subirono notevoli e rapide fluttuazioni di prezzo con turbamento del mercato dei valori e con danno degli azionisti a (cf[...]

[...] non solo facilmente tollerabile e che non avrebbe agito se non minimamente agli effetti del consumo. Il provvedimento era necessario. Quando io ritirai il decretolegge, dimettendomi, il governo che mi succedette dovette ripresentarlo come disegno di legge. Quelli che essendo favorevoli si erano eccitati contro, lo facevano per salvare la faccia dei loro amici d'estrema. Insomma un preteso ostruzionismo che faceva ridere e che non durò. Nulla di più ridicolo e disonorante. Ma lo scopo era uno solo: le mie dimissioni, e fu raggiunto. Ebbi poi la prova che vi era già accordo da parte del mondo di coloro che mi avevano fatto la proposta con uomini dei partiti di estrema sinistra. L'indomani che il provvedimento era pubblicato doveva nelle organizzazioni operaie scatenarsi in tutta Italia una violenta protesta per chiedere l'abolizione del decreto e le dimissioni del Ministero. L'organizzazione marciò perfettamente e non era ancora pubblicato il decreto che articoli scritti da prima e notizie da prima preparate inondarono l'Italia e i social[...]

[...]nizzazioni operaie scatenarsi in tutta Italia una violenta protesta per chiedere l'abolizione del decreto e le dimissioni del Ministero. L'organizzazione marciò perfettamente e non era ancora pubblicato il decreto che articoli scritti da prima e notizie da prima preparate inondarono l'Italia e i socialisti furono ancora ingenui da prestarsi al gioco » (44).
Non tutto é da accettarsi a occhi chiusi in questa pagina di Nitti: le masse erano molto più orientate verso la rivoluzione socialista che verso il radicalismo nittiano, e quindi va presa con beneficio d'inventario la sua affermazione che esse avevano fiducia in lui, tanto é vero che i socialisti poterono partecipare alla manovra che fece cadere il suo Governo; inoltre va tenuto presente un elemento a cui Nitti non accenna nemmeno, e cioè che il suo Governo si trovò costretto a cercare l'appoggio parlamentare e la stessa collaborazione ministeriale dei popolari, i quali d'altronde costituirono, entro il suo Gabinetto, i rappresentanti sia pure indiretti di certe istanze nazionaliste,[...]

[...]tecipare alla manovra che fece cadere il suo Governo; inoltre va tenuto presente un elemento a cui Nitti non accenna nemmeno, e cioè che il suo Governo si trovò costretto a cercare l'appoggio parlamentare e la stessa collaborazione ministeriale dei popolari, i quali d'altronde costituirono, entro il suo Gabinetto, i rappresentanti sia pure indiretti di certe istanze nazionaliste, e non esitarono a staccarsi da lui e a farlo cadere quando divenne più precisa la prospettiva di una politica di riavvicinamento all'Unione Sovietica da essi considerata con orrore. Ma la sostanza del racconto e del giudizio di Nitti resta pur sempre accettabile.
A Nitti succedette Giolitti: il quale, se condusse a conclusione
(44) Ibid., pp. 54344.
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la vicenda fiumana, inaugurò però una politica di patteggiamenti con le destre, e particolarmente con i fascisti, che doveva costituire una premessa della « marcia su Roma » (45). « Dopo la guerra — ha scritto uno studioso di quel periodo (46) — Giolitti era sostanzialmente un sopravvissuto. Il g[...]

[...]ò una politica di patteggiamenti con le destre, e particolarmente con i fascisti, che doveva costituire una premessa della « marcia su Roma » (45). « Dopo la guerra — ha scritto uno studioso di quel periodo (46) — Giolitti era sostanzialmente un sopravvissuto. Il giudizio può sembrare duro, ma é reale. Il vero problema non era ormai, infatti, né di continuare né tanto meno di rinnegare la politica giolittiana, ma di portarla su un terreno nuovo, più ampio: quello della democrazia. Il vero problema era la riforma agraria, l'esproprio della grande proprietà assenteista, l'avvento delle classi lavoratrici al governo, la Costituente. Tutto ciò era, apertis verbis o larvatamente, nel programma di Nitti. In realtà, quindi, il vero continuatore del giolittismo fu Nitti, che afferrò lui solo la sostanza del problema dell'ora: il passaggio dal liberalismo alla democrazia. Il suo tentativo falli, e quella fu veramente l'ora tragica per l'Italia. Quando Giolitti tornò al governo era ormai un revenant: il tentativo suo, inattuale, era destinato a fa[...]

[...]smo, Roma, Editori Riu niti, 1956.
(46) RAIMONDO LURAGHI, Giolitti e il fascismo, Lettera alla rivista Risorgimento di Torino, gennaio 1959, p. 28.
(47) SINIBALDO TINO, Il trentennio fascista. Rilievi ed appunti, Roma, Puccinelli, 1944, p. 62.
IL GOVERNO NITTI E LA QUESTIONE ADRIATICA 185
del 1921 con l'alleanza demoliberalfascista fu dovuta alla volontà di evitare un nuovo esperimento di governo di Nitti, che sarebbe tornato al potere con i più preparati uomini del socialismo, realizzandone postulati e principi.
Certo, quando, dopo le elezioni del '21, più di una volta in breve spazio di tempo fu tentata da parte degli schieramenti e degli uomini politici della democrazia liberale la formazione di un fronte unico che non si pub definire antifascista, ma almeno di resistenza al fascismo nelle sue mire sovversive verso lo Stato costituzionale, il candidato delle sinistre, che volevano sfociare in una forma statuale in cui il potere del Parlamento si affermasse incontrastato, anche contro alcune tradizionali prerogative della Corona, fu proprio Nitti. Ciò si dové alla prova che egli aveva dato durante i dodici mesi del suo governo nel 191920, quan[...]

[...]sovversive verso lo Stato costituzionale, il candidato delle sinistre, che volevano sfociare in una forma statuale in cui il potere del Parlamento si affermasse incontrastato, anche contro alcune tradizionali prerogative della Corona, fu proprio Nitti. Ciò si dové alla prova che egli aveva dato durante i dodici mesi del suo governo nel 191920, quando la questione adriatica, anche per i suoi addentellati con la vita politica interna, era stata la più grave che egli avesse dovuto affrontare. E se su Nitti si appuntò l'odio di tutte le forze conservatrici e reazionarie e quell'esperimento fu reso impossibile, con ciò la democrazia borghese si precluse l'ultima possibilità di conservare le forme storiche dello Stato costituzionale, ed apri definitivamente la porta al fascismo, al sovvertimento delle istituzioni liberali e parlamentari e alla ventennale dittatura.
PAOLO ALATRI



da (9 Domande sul romanzo) Carlo Cassola in KBD-Periodici: Nuovi Argomenti 1959 - 5 - 1 - numero 38

Brano: [...]cconto, e di qui l'avvicendarsi di generi letterari, di cui l'ultimo è appunto il romanzo psicologico: il solo genere letterario che soddisfi noi moderni e che pertanto é vivissimo e vitalissimo.
2) Dall'esempio che viene portato (Musil contro Hemingway) mi si chiarisce meglio il significato della domanda. Hemingway è infatti uno scrittore che, nei suoi romanzi e racconti, ha sempre mirato a dare un'emozione poetica: qualche volta c'è riuscito, più spesso no, ma questo non ha importanza. Musil invece, per quan
9 DOMANDE SUL ROMANZO 13
to ne so, perché per la verità non l'ho letto, è un tipico rappresentante di quella narrativa saggistica che ha sempre abbondato in Occidente, dai contes philosophiques del Settecento a oggi. Si tratta di un genere ibrido che riscuote molto favore, specialmente all'estero, ma che per conto mio è semplicemente insopportabile. Nella narrativa saggistica il travestimento fantastico si rivela infatti, a chiunque abbia un minimo di orecchio, assolutamente inconsistente: è un semplice pretesto ideologico e nie[...]

[...]ante di quella narrativa saggistica che ha sempre abbondato in Occidente, dai contes philosophiques del Settecento a oggi. Si tratta di un genere ibrido che riscuote molto favore, specialmente all'estero, ma che per conto mio è semplicemente insopportabile. Nella narrativa saggistica il travestimento fantastico si rivela infatti, a chiunque abbia un minimo di orecchio, assolutamente inconsistente: è un semplice pretesto ideologico e nient'altro. Più che di narrativa saggistica si dovrebbe quindi parlare di saggi romanzati.
I veri contes philosophiques in realtà li hanno scritti i russi; perché in loro l'ideologia é incorporata nell'intuizione fantastica e non viceversa. Per fare un esempio: Raskolnikov è un uomo in carne e ossa, il suo delitto e il suo castigo formano una vicenda reale; perciò noi solidarizziamo con lui e viviamo la sua storia. Poi, naturalmente, ci rendiamo anche conto del significato ideologico della storia e del carattere emblematico del personaggio. Nel Doctor Faustus, invece, la sorte di Adrian Leverkhün non ci add[...]

[...]nza.
Chi non ama la poesia, è dunque padronissimo di auspicare l'avvento della saggistica romanzata; noi che l'amiamo, continueremo a coltivarla, accontentandoci dei pochi frutti che essa dà ancora, e sperando che siano maggiori in avvenire.
3) Il mio parere è che sono scempiaggini, e aggiungo che sarebbe ora di finirla col prendere sul serio ogni trovata dello sperimentalismo avanguardistico che ci venga d'Oltralpe. La Francia, non producendo più nulla di vitale già da parecchi anni, si è specializzata nel lanciare ogni momento un nuovo « ismo », e con ciò continua a esercitare, o s'illude di continuare a esercitare il suo leadership letterario. Ma certo non è facile far capire questa evidente verità ai nostri provinciali i quali credono che Malraux, Sartre, Camus, la Beauvoir eccetera siano dei grandi scrittori. O anche magari dei cattivi scrittori, però « importanti ». Perché anche questa sciocchezza ci tocca frequentissimamente di sentir dire:
14 CARLO CASSOLA
che certi romanzi sono brutti, ma importanti, mentre altri sono magari[...]

[...] leadership letterario. Ma certo non è facile far capire questa evidente verità ai nostri provinciali i quali credono che Malraux, Sartre, Camus, la Beauvoir eccetera siano dei grandi scrittori. O anche magari dei cattivi scrittori, però « importanti ». Perché anche questa sciocchezza ci tocca frequentissimamente di sentir dire:
14 CARLO CASSOLA
che certi romanzi sono brutti, ma importanti, mentre altri sono magari belli, ma non importanti. Ma più in generale vorrei dire che é veramente fastidioso l'infantilismo di certa gente, che magari ha passato la sessantina, la quale é eternamente alla ricerca del « nuovo » (quando il nuovo é, semplicemente, la poesia), eternamente pronta a prendere sul serio le più futili mode letterarie, artistiche e culturali, eternamente preoccupata di rimaner « tagliata fuori » dalle correnti « vive » della letteratura, dell'arte e della cultura. Costoro si muniscano di telefono, di telegrafo, di radio, di telescrivente, in modo da essere sempre i primi a conoscere le importanti « novità » di Parigi, Londra o New York; e credano pure, se fa loro piacere, che la cultura consista nell'arrivar primi a sapere certe cose. Per conto nostro crediamo invece che lo star dietro a queste effimere mode sia niente altro che una distrazione e una perdita di tempo (il guaio della[...]

[...]aio della vita di oggi é che si conosce troppa gente, si legge troppo, ci si occupa di troppe cose: invece di coltivare con serietà i pochi veri interessi che abbiamo). E come esempio di serietà citiamo Pasternak, che solo di recente ha letto Proust, che non ha ancora letto Kafka, e che certo non si curerà mai di leggere RobbeGrillet. Nella storia e nella cultura del suo tempo uno ci deve vivere naturalmente, senza farsene un problema: e nulla é più paralizzante, per uno scrittore, che stare ogni momento a chiedersi cosa bisogna scrivere oggi, che cos'è « valido » e « importante » oggi. Uno scrittore dovrebbe scrivere ciò che gli sta a cuore, e non curarsi d'altro.
4) Non capisco la domanda. Il romanzo è sempre « oggettivo », nel senso che tende a risolversi in rappresentazione e racconto, anziché in effusione lirica; sia che si usi la prima o la terza persona. I due massimi scrittori dell'Ottocento, Tolstoi e Dostoievskij, hanno usato direi indifferentemente sia la prima che la terza persona.
5) Il realismo socialista in teoria è un p[...]

[...]ere trasparente, che lo stile debba essere « inavvertito », come dice Pasternak; ma
9 DOMANDE SUL ROMANZO 15
questo non significa affatto «lasciar parlare le cose ». Lo scrittore, é bene lui che parla; ma la differenza tra uno scrittore e un letterato (il « vistoso » scrittore di cui parla la domanda) sta appunto in ciò, che allo scrittore preme esprimere certe cose, mentre al letterato sta a cuore il risultato stilistico.
Mi sarebbe sembrata più interessante un'altra domanda: se sia miglior scrittore chi dice o chi si limita invece ad alludere, a suggerire. Perché una caratteristica di molti scrittori contemporanei, e addirittura la poetica dichiarata di alcuni anche tra i maggiori, é che l'alludere e il suggerire sia più suggestivo ed efficace che il dire e l'esprimere. Un tipico rappresentante di questa poetica è Hemingway. Vi ricordate il finale di Un addio alle armi? La donna amata é morta; ma delle reazioni del protagonista a questo sconvolgente avvenimento Hemingway non ci dice nulla in modo diretto: si limita a suggerircele in modo quanto mai vago: « Me ne tornai all'albergo sotto la pioggia ». Ora quel « Me ne tornai all'albergo sotto la pioggia » potrà mandare in sollucchero le anime sensibili e raffinate, che in uno scrittore apprezzano soprattutto il tratto, il garbo, la discrezione. Disgraziatament[...]

[...]ultati ottenuti da Gadda nel Pasticciaccio e anche quelli ottenuti da Pasolini nei Ragazzi di vita; ma rimane ferma la nostra avversione di principio così al pastiche linguistico come al pregiudizio neorealista che la letteratura consista in una trascrizione immediata e passiva dei dati della realtà.
8) Io credo che la storia debba essere soltanto la cornice, lo sfondo delle vicende e dei destini individuali. La storia romanzata non mi persuade più di quanto mi persuada l'ideologia romanzata.
9) Più che dei romanzieri, preferirei esprimere le mie preferenze a proposito dei singoli romanzi. E questo perché la caratteriristica di quasi tutti i maggiori scrittori del nostro secolo è di aver prodotto le loro opere migliori all'inizio della carriera, essendosi poi precocemente esauriti. È il caso di Hemingway o di Moravia, che non sono riusciti a rinnovarsi, e così pure di Joyce e di Lawrence, che sono finiti nelle secche dell'intellettualismo sperimentale o ideologico. Non c'è insomma un solo scrittore di rilievo la cui arte presenti uno sviluppo, in cui l'opera della maturità presenti qualc[...]

[...]a carriera, essendosi poi precocemente esauriti. È il caso di Hemingway o di Moravia, che non sono riusciti a rinnovarsi, e così pure di Joyce e di Lawrence, che sono finiti nelle secche dell'intellettualismo sperimentale o ideologico. Non c'è insomma un solo scrittore di rilievo la cui arte presenti uno sviluppo, in cui l'opera della maturità presenti qualcosa di nuovo rispetto all'opera della giovinezza: con l'eccezione del solo Pasternak.
Il più bel romanzo italiano di questo secolo è a mio parere Gli indifferenti di Moravia. Il romanziere che personalmente amo di più è Tozzi. Mi è piaciuto molto Signora Ava di Jovine, che ho avuto il torto di leggere solo di recente.
In tutto il mondo darei la palma a Figli e amanti di Lawrence e al Dottor Zivago di Pasternak. Poi indicherei Fiesta di Hemingway, Le grand Meaulnes di AlainFournier, il Dedalus di Joyce, forse anche qualcuno dei romanzi di Mauriac, Therèse Desqueiroux o Noeud de vipères, che per() non ho riletto da molti anni. Tra le raccolte di racconti metto in primo piano Dublinesi di Joyce e Winesburg, Ohio di Anderson.
CARLO CASSOLA



da (9 Domande sul romanzo) Alberto Moravia in KBD-Periodici: Nuovi Argomenti 1959 - 5 - 1 - numero 38

Brano: [...]che narrative sono state sempre in crisi cioé in evoluzione; e il fatto che si scrivano oggi romanzi molto diversi da quelli di uno o due secoli fa dimostrerebbe semmai che il romanzo come genere é ancora in pieno sviluppo. Il paragone con il poema epico non è probante appunto perché il poema epico mori proprio per mancanza di sviluppi e di crisi, allorché si era fossilizzato in forme immutabili e convenzionali. Del resto il poema epico è durato più di duemila anni e il romanzo, nella sua forma attuale, conta appena trecento anni di età.
Ma il romanzo partecipa senza dubbio della crisi più generale di tutte le arti. Questa crisi, per dirla in breve, é quella dei rapporti tra l'artista e la realtà. I marxisti qui hanno buon gioco facendo notare che la crisi del rapporto tra l'artista e la realtà rispecchia fedelmente l'alienazione dell'uomo in regime capitalistico; purtroppo, però, il romanzo e in genere l'arte sovietica sembrano rispec
9 DOMANDE SUL ROMANZO 39
chiare anch'essi un'analoga e forse maggiore alienazione; con questa differenza, però: che l'arte occidentale riconosce l'esistenza del
la crisi e la esprime con modi appropriati (come per esempio, per la musica, la co[...]

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chiare anch'essi un'analoga e forse maggiore alienazione; con questa differenza, però: che l'arte occidentale riconosce l'esistenza del
la crisi e la esprime con modi appropriati (come per esempio, per la musica, la composizione dodecafonica e per la pittura, l'arte astratta), mentre l'arte sovietica pretende invece di ignorarla.
Per tutti questi motivi bisognerebbe forse far risalire la crisi del rapporto tra l'artista e la realtà a cause più lontane e più sottili. Una di queste cause è senza dubbio la civiltà industriale alla quale partecipano in eguale misura così i paesi capitalisti come quelli comunisti. È probabile che la crisi delle arti sia in parte dovuta al carattere particolare della civiltà industriale la quale tende per sua natura, invincibilmente, a sostituire il prodotto artistico con quello industriale, sia direttamente con dei surrogati, sia indirettamente distruggendo le condizioni ambientali e psicologiche favorevoli alla creazione artistica. Se si considera infatti l'arte come un'altissima forma di artigianato (e lo è in cert[...]

[...]ni ambientali e psicologiche favorevoli alla creazione artistica. Se si considera infatti l'arte come un'altissima forma di artigianato (e lo è in certa misura allo stesso modo che ogni artigianato è una modesta forma di arte) si vedrà subito che essa, al pari dell'artigianato, è stata colpita a morte dalla civiltà industriale in tutti i prodotti destinati al consumo delle masse; prodotti che la civiltà industriale è in grado di fornire meglio e più rapidamente delle arti.
I surrogati che la civiltà industriale propone di sostituire al romanzo sono numerosi. Prima di tutto il cinema, poi la televisione, poi la letteratura fabbricata in serie cioè quella dei giornali, delle riviste a rotocalco, dei fumetti e degli estratti. Ma fermiamoci un momento sul cinema. Insieme alla televisione esso ha sottratto al romanzo territorii vastissimi, forse per sempre. È inutile enumerarli anche perché sono noti; si fa prima a dire ciò che è rimasto al romanzo che è precisamente ciò che la macchina da presa non sarà mai in grado di esprimere e rappresen[...]

[...]à mai in grado di esprimere e rappresentare per la insufficienza e grossolanità dei mezzi di cui dispone. È evidente che il cinema non potrà mai dirci quello che ci ha detto Proust, tanto per fare un solo esempio. Ma che cosa vuol dire ciò? Vuol dire che il romanzo vede, ad un tempo, restringersi enormemente così il campo dei suoi lettori come quello dei suoi argomenti. O meglio: il romanzo, dopo essere stato per alcuni secoli il mezzo narrativo più popolare, é
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ALBERTO MORAVIA
costretto, per forza di cose, a diventare un prodotto per pochi, un po' come il teatro.
Ma questi sono aspetti per così dire esterni del problema. Più intimamente, si potrebbe dire che ciò che il cinema e la televisione hanno sottratto al romanzo è la rappresentazione oggettiva della realtà. O per lo meno pseudooggettiva e naturalistica, che, ai fini del consumo, è lo stesso. Non è poco; e se il romanzo dovesse continuare ad essere quello che è stato durante il secolo scorso, quasi tutto.
2. — Il romanzo saggistico abbastanza curiosamente non ha niente a che fare con il romanzo a tesi dell'ottocento. Il romanzo saggistico nasce dall'evoluzione della tecnica narrativa e più precisamente dall'impossibilità e improbabilità della terza persona[...]

[...]tratto al romanzo è la rappresentazione oggettiva della realtà. O per lo meno pseudooggettiva e naturalistica, che, ai fini del consumo, è lo stesso. Non è poco; e se il romanzo dovesse continuare ad essere quello che è stato durante il secolo scorso, quasi tutto.
2. — Il romanzo saggistico abbastanza curiosamente non ha niente a che fare con il romanzo a tesi dell'ottocento. Il romanzo saggistico nasce dall'evoluzione della tecnica narrativa e più precisamente dall'impossibilità e improbabilità della terza persona sostituita ormai sempre più spesso con la prima. Questa sostituzione, nella storia recente del romanzo, sta ad indicare il momento in cui la crisi generale delle arti ossia del rapporto tra l'artista e la realtà, colpisce anche la narrativa. Infatti: la terza persona sottintendeva la rappresentazione oggettiva e la credenza nell'esistenza dell'oggetto, credenza condivisa così dal romanziere come dal lettore. Ma dal momento in cui il rapporto con la realtà entra in crisi e la realtà stessa si fa oscura, problematica e inafferrabile, la terza persona si rivela come una convenzione, cioè qualche cosa che rende impossibile [...]

[...]a realtà come qualche cosa che non si sa se esista e che, in ogni modo, esiste soltanto per ogni uomo preso singolarmente, caso per caso e senza pregiudizio di altre realtá del tutto diverse.
Ma la prima persona é un veicolo che consente l'indefinito allargamento e approfondimento del romanzo. Mentre infatti è
r
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molto difficile e comunque artificioso e spesso noioso far dire ad un personaggio in terza persona troppe più cose che non consenta la sua azione e soprattutto fargliele dire senza dare l'impressione di un indiscreto intervento dell'autore, é molto facile e del tutto legittimo che il personaggio in prima persona si abbandoni a riflessioni, ragionamenti e simili. La terza persona non consente che la rappresentazione immediata, drammatica dell'oggetto; la prima persona permette di analizzarlo, di scomporlo e, in certi casi, addirittura di farne a meno. Ma analizzare, scomporre un oggetto invece di rappresentarlo immediatamente e drammaticamente é già scrivere un saggio o per lo meno mescolare il saggio[...]

[...]ragionamenti e simili. La terza persona non consente che la rappresentazione immediata, drammatica dell'oggetto; la prima persona permette di analizzarlo, di scomporlo e, in certi casi, addirittura di farne a meno. Ma analizzare, scomporre un oggetto invece di rappresentarlo immediatamente e drammaticamente é già scrivere un saggio o per lo meno mescolare il saggio alla rappresentazione. Da questo nasce che i romanzi in prima persona sono spesso più o meno saggistici; e che il lettore il quale può trovare al cinema tutta la rappresentazione immediata e drammatica di cui ha bisogno, chiede sempre più al romanzo che esso sia anche saggio, ossia rappresentazione riflessa, mediata, indiretta. Curiosamente, i romanzi più saggistici sono quelli della memoria; ossia quelli in cui il personaggio che parla in prima persona, ricorda avvenimenti del passato. E si capisce subito perché: la materia dei romanzi di memoria per forza di cose é ordinata secondo un tempo ideale o ideologico che non é quello naturalistico delle rappresentazioni dirette e drammatiche. Questo tempo ideale o ideologico richiede un intervento continuo della riflessione, un commento continuo della ragione. Sotto quest'aspetto si potrebbe dire che La Rechèrche é tutto un immenso saggio.
3. — RobbeGrillet e gli altri che in Francia vorrebbero un[...]

[...]aturalistico delle rappresentazioni dirette e drammatiche. Questo tempo ideale o ideologico richiede un intervento continuo della riflessione, un commento continuo della ragione. Sotto quest'aspetto si potrebbe dire che La Rechèrche é tutto un immenso saggio.
3. — RobbeGrillet e gli altri che in Francia vorrebbero un romanzo visivo, ossia un romanzo nel quale niente fosse contesta bile e tutto fosse assolutamente sicuro appunto perché legato al più sicuro dei nostri sensi che é la vista, vorrebbero in fondo un romanzo in cui la realtà fosse disumanizzata, ossia restituita all'oggettività vergine e terribile che forse aveva prima della comparsa dell'uomo sulla terra. Robbe Grillet dice infatti: « È illegittimo e arbitrario scrivere "il mare sorride", perché il mare non ha una bocca e non può per questo, sorridere; é un tratto umanistico, si attribuisce al mare un carattere umano, ossia si fa una metafora. È legittimo invece dire "il mare é blu" perché lo é infatti, noi
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lo vediamo blu ». A questo si potrebbe risponder[...]

[...]to di designare una vasta distesa di acque con il nome di mare vuol dire umanizzarlo, ossia che già il fatto di designare un oggetto con una parola vuol dire incorporare quest'oggetto in un mondo umano, sottrarlo all'oggettività anonima del mondo preumano o extraumano. In altri termini la parola « mare » é oggettiva soltanto in apparenza; in realtà essa umanizza ossia soggettivizza l'oggetto appunto perché lo nomina. Si tratterà, dunque, tutt'al piú, di porre dei limiti all'umanesimo, di non farci dimenticare, per esempio, che il mare ha proprietà e caratteri che non sono umani.
Così la proposta del visivismo ossia della riduzione della realtà a quello che percepisce la vista, può avere soltanto un valore polemico e di sintomo. Del resto anche la vista sceglie ossia esprime un giudizio. E se non si vuole che scelga, allora per descrivere, poniamo, una stanza, non basteranno diecimila pagine.
5. — Il realismo socialista é un tentativo statale e autoritario di risolvere la crisi delle arti secondo un'ideologia appunto statale e autoritar[...]

[...]to per sua natura non può volere in ultima analisi se non l'interesse dello Stato, nel caso un'arte di propaganda. Ma il realismo socialista ha valore soprattutto di sintomo di una situazione che si presenta dappertutto eguale. Le soluzioni dell'arte astratta a occidente sono l'equivalente di quelle del realismo socialista a oriente. Come abbiamo già detto, le soluzioni occidentali hanno tuttavia su quelle orientali il grande vantaggio di essere più positive appunto in quanto sono più negative, ossia di riconoscere la crisi e partire da essa e non di nascondersela e pretendere di ignorarla.
6. — È difficile dare una risposta a questa domanda. Dal punto di vista della durata, si direbbe che abbiano più probabilità di essere letti in futuro i romanzieri che lasciano parlare le cose di quelli che vogliono prima di tutto essere scrittori e stilisti; e questo per la buona ragione che lo stile di uno scrittore, ancor più
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della personalità sovente rispecchia il gusto o la moda dell'epoca, che sono cose periture. D'altra parte il romanziere stilista, appunto perché rispecchia il gusto o la moda dell'epoca, é spesso piú apprezzato e ammirato dai contemporanei, del romanziere che lascia parlare le cose. Naturalmente queste due maniere di scrivere non sono fatti puramente formali, bensì determinati da modi di sensibilità originali e profondi; per questo é impossibile dire che cosa si debba o non si debba fare. Come sempre, in questi casi, c'è una soluzione e classica » che concilia i due opposti cioè lascia parlare le cose e consente di dirle da scrittori e stilisti. Ma quando mai si. é potuto definire in anticipo che cosa sia classico? La sola maniera di definirlo è di attribuire al termine un significato mor[...]

[...]rse significativo che nel maggiore romanzo storico che sia stato scritto in Italia, I Promessi Sposi, la storia non abbia alcun peso e sia soggetta alla Provvidenza ? E che nel Gattopardo, ultimo tentativo di fare un romanzo storico, la storia sia negata?
9. — I romanzieri che preferisco sono quelli che vuotano il sacco e dicono tutto quello che hanno da dire, fino in fondo, senza riguardi per il conformismo dei loro tempi e di quelli avvenire. Più particolarmente la mia preferenza va ai romanzieri « comici » di tutti i tempi: Petronio Arbitro, Apuleio, Rabelais, Cervantes, Gogol e altri.
ALBERTO MORAVIA



da Renato Mieli, La constrata evoluzione della sicilia in KBD-Periodici: Nuovi Argomenti 1960 - 1 - 1 - numero 42

Brano: LA CONTRASTATA EVOLUZIONE DELLA SICILIA
Se ci fosse un po' di proporzione tra quanto viene diffuso dalla stampa e dalla radio e quanto resta nell'opinione pubblica, a quest'ora si dovrebbe sapere molto di più sulla Sicilia. Viceversa, nonostante iI gran parlare che se ne è fatto in questi ultimi tempi, se ne sa, in fondo, quanto prima. L'isola con i suoi assillanti problemi continua ad essere vista e giudicata, in generale, secondo gli schemi mentali del passato: pittoresca, geniale ma ingovernabile, per chi la guarda dall'esterno, tormentata e incompresa per chi la sente dall'interno. Ed è inutile, a questo punto, alimentare con nuovi miti il dialogo dei sordi tra « siciliani che non si danno pace per le antiche ingiustizie di cui scontano ancora le conseguenze e « settentrionali » che sono stanc[...]

[...]ssere vista e giudicata, in generale, secondo gli schemi mentali del passato: pittoresca, geniale ma ingovernabile, per chi la guarda dall'esterno, tormentata e incompresa per chi la sente dall'interno. Ed è inutile, a questo punto, alimentare con nuovi miti il dialogo dei sordi tra « siciliani che non si danno pace per le antiche ingiustizie di cui scontano ancora le conseguenze e « settentrionali » che sono stanchi di sentirne parlare. Non c'è più nulla da ricavare da questa sterile contrapposizione. Vogliamo fare uno sforzo per capirci? Allora sarà meglio accantonare per un momento ciò che è opinabile per attenerci a ciò che è certo. Prima di confrontare le conclusioni a cui si è giunti, converrà, cioè, intendersi. sul punto da cui si è partiti, su quella realtà economicasociale di oggi che è l'inizio obbligato per qualsiasi piano di sviluppo della Regione e, ci sembra, per qualsiasi utile discorso sull'argomento.
E possibile trovarsi d'accordo, almeno, su ciò che si intende per odierna realtà siciliana? Parrebbe di si. Vi sono alcun[...]

[...]arsi d'accordo, almeno, su ciò che si intende per odierna realtà siciliana? Parrebbe di si. Vi sono alcuni dati elementari sullo sviluppo dell'isola che nessuno, a quanto consta, mette in dubbio,, Esiste, dunque, un minimo di certezza su cui si può incominciare a costruire un ragionamento. Una premessa, tuttavia, è necessaria, anche se può sembrare ovvia: i dati a cui si fa riferimento per stabilire il ritardo della Sicilia rispetto alle regioni più progredite del nostro paese presuppongono che si riconosca, senza riserve mentali, che l'isola è parte integrante della nazione, della quale deve dividere non solo la pro sperità di domani, se ci sarà, ma anche le difficoltà e responsabilità di oggi, che purtroppo non mancano. Se no, sarebbe un altro discorso.,
Non vorrei qui essere frainteso. Questa premessa non è fatta per anticipare, né tanto meno predeterminare, un giudizio sui rapporti tra. Stato e Regione; serve unicamente a fissare un criterio omogeneo di valutazione per misurare l'attuale dislivello economico e lo sforzo occor
LA CO[...]

[...]Bastano a comprovarlo due dati statistici: quello sull'occupazione e quello sul reddito. In base all'indagine effettuata dall'Istat nell'ottobre 1958 il numero degli occupati si elevava a 1.501.000 persone su una popolazione complessiva di 4.748.000 abitanti: cioè, in media, 3 occupati per ogni 10 persone economicamente inattive. Secondo le stesse rilevazioni, il reddito medio per abitante veniva stimato a L. 143.633 all'anno, equivalenti a poco più di 200 dollari U.S.A. che è il termine di riferimento adottato dall'O.N.U. per classificare precisamente i paesi. e sottosviluppati ». Se si volesse, poi, osservare più attentamente come è ripartito tra i vari rami di attività il reddito prodotto dai siciliani equale è il livello dei consumi della popolazione dell'isola, il grado di depressione da essa raggiunta non potrebbe che apparire più grave (1).
(1) Secondo uno studio del prof. Guglielmo Tagliacarne (« Moneta e credito », IV trimestre 1959) la percentuale del reddito prodotto in Sicilia, durante il 1958, nei vari rami economici, prendendo come termine di riferimento il totale prodotto per ciascun settore in Italia, fatto uguale a cento., sarebbe tosi ripartita:
Agricoltura e foreste 9,49
Pesca 18,61
Fabbricati 5,14
Industria, commercio, credito, assicurazione e trasporti 3,75
Professioni libere e servizi industriali, domestici e vari 5,68
Pubblica amministrazione 8,09
Totale reddito settore privato e pubblica ammin[...]

[...]indendo dai legami che l'uniscono al resto del paese. Il deterioramento delle condizioni di vita delle popolazioni meridionali, da un secolo a questa parte, ha insegnato qualcosa. Un tempo si poteva anche credere che bastasse l'unità politica a generare spontaneamente la parità economica, stabilendo per forza di cose un equilibrio tra le regioni arretrate e quelle avanzate, in modo analogo a quanto avviene tra vasi comunicanti. Oggi non lo pensa più nessuno. Oggi si sa che senza un intervento organico, su scala nazionale, da parte dello Stato e dell'iniziativa privata, non si colmano i dislivelli esistenti. Al contrario, a lasciar fare alle leggi, diciamo così, di natura, quei dislivelli tenderebbero ad aumentare anziché a diminuire, poiché la ricchezza tende a moltiplicarsi attorno ai « punti di accumulazione », dove è, cioè, più concentrata. Una politica economica di « non intervento » ormai non è sostenibile. È interesse riconosciuto della nazione correggere gli squilibri tra regione e regione; e dovere dello Stato operare affinché ciò avvenga. Parlare di « miglioramento » delle condizioni in Sicilia, in termini strettamente regionali, sarebbe perciò fuori luogo: sarebbe un'implicita sottovalutazione di quel fattore che ha contribuito in misura così rilevante all'impoverimento dell'isola, dopo lo sbarco di Garibaldi, e che dovrebbe contribuire ora, all'inverso, ad affrettarne lo sviluppo. Meno che mai ciò si giustif[...]

[...]ro in Italia ammontavano a 20562.000 su una popolazione di 49.779.000 abitanti. Dunque il livello di occupazione nazionale era pari al 41,3%. Dal confronto di questi due dati risulta un dislivello dell'8%, che rappresenta la frazione di popolazione siciliana che dovrebbe diventare attiva per raggiungere la media nazionale. Naturalmente poiché sulla media italiana incide la minore occupazione delle regioni meridionali, il dislivello sarebbe ancor più accentuato se si paragonasse la Sicilia al Nord. Ma già da questo primo confronto si ha una misura del divario esistente. Per colmarlo occorrerebbe che l'8% dei siciliani, ossia circa 380.000 persone, cessassero di essere « inoccupati ». È una cifra forte, che dà un'idea della mole del problema da risolvere. Per:, non vi é da lasciarsi impressionare. Intanto va detto che il livello di occupazione non può essere preso come un indice assoluto di progresso. In una determinata comunità che avesse raggiunto, un elevato grado di sviluppo potrebbe diminuire la percentuale della popolazione attiva (p[...]

[...]1 48.308 40,7%
1956 (21 aprile) 19.761 48.714 40,6%
1957 (8 maggio) 20.170 49.063 41,1%
1958 (20 ottobre) 20.761 49.617 41,8%
1959 (20 aprile) 20.562 49.779 41,3%
Se si misura ora lo scarto tra la percentuale nazionale e quella siciliana si rileva una tendenza ad una lenta diminuzione. Il divario che era di 8,4% nel 1955 si é ridotto all'8% nel 1959. Si pu? quindi desumerne che, sebbene la popolazione siciliana aumenti in proporzione un po' più della media italiana (2) 1'« inoccupazione » tende invece a decre
(2) In base al censimento effettuato il 4 novembre 1951, la popolazione residente in Sicilia, ammontava a 4.486.749, mentre la popolazione totale italiana si elevava a 47.515.537. Ossia la popolazione dell'isola rappresentava il 9,44% della popolazione nazionale. Successivamente si sono registrate le seguenti variazioni:
Data Sicilia Italia Percentuale
31.XII.1956 4.721.457 49.554.990 9,52%
31.XII.1957 4.756.271 49.895.283 9,532%,
31.XII.1958 4.794.362 50.270.665 9,537%
LA CONTRASTATA EVOLUZIONE DELLA SICILIA 119
scere m[...]

[...]
dicembre 133.458 67.813 201.271 107 44 151
1957 maggio
dicembre 114.085 45.031 159.116 101 44 145
1958 ottobre 97.410 43.297 140.707 80 42 122
1959 marzo
aprile 87.929 41.610 129.539 47 31 78
Come si vede esiste una sostanziale differenza tra le cifre degli Uffici di Collocamento e quelle dell'ISTAT (a prescindere dalla diversità delle date mensili a cui si riferiscono). Ma poiché a noi interessano le variazioni annuali più che gli ammontari assoluti, si può osservare che secondo i dati delle liste di collocamento gli iscritti alle prime due classi sarebbero diminuiti in media di 30.000 unità all'anno (dal dic. 1956 al marzo 1959) mentre, stando alle rilevazioni dell'Istituto Centrale di Statistica, il numero dei disoccupati e dei siciliani in cerca di una prima occupazione sarebbe diminuito in media di 13.000 unità all'anno (dal maggio 1955 all'aprile 1959) ovvero di circa 30.000 all'anno, se riferito al periodo 19571959. Da ciò si potrebbe desumere, con relativa approssimazione, che dall'inizio del 1957 alla p[...]

[...]nte negli anni precedenti.
(5) Analogamente a quanto si è fatto per la Sicilia, si può così compendiare l'andamento del fenomeno della disoccupazione in Italia, in base al numero degli iscritti alle prime due classi delle liste di collocamento e alle rilevazioni campionarie dell'ISTAT
LA CONTRASTATA EVOLUZIONE DELLA SICILIA 121
neamente sul piano nazionale è passato dal 92,4% al 94,7% (6). Trova così conferma l'impressione che il progresso compiuto dalla Sicilia in questi quattro anni sia stato relativamente più accentuato di quello avutosi in Italia.
Ciò non deve indurre, però, a un compiacente ottimismo. E vero: la disoccupazione che fino al 1957 era in continuo aumento, da due anni sta diminuendo. Non bisogna dimenticare tuttavia che vi sono alcuni fattori che possono aver contribuito in misura sensibile a determinare questo miglioramento in Sicilia. Due di essi, soprattutto, van
relative ai licenziati in cerca di nuova occupazione o ai giovani in cerca di prima occupazione:
Data Iscritti liste collocamento Rilevazioni ISTAT
(migliaia) (migliaia)

I classe II classe Totale Di[...]

[...]tore, ossia della tendenza ad emigrare nelle regioni settentrionali, c'é da ritenere che, dopo essere stato per alcuni anni un fenomeno di notevoli proporzioni, possa, in un avvenire non lontano, attenuarsi considerevolmente. Man mano che si andrà sviluppando il trend delineatosi negli ultimi anni, anche questo esodo di popolazioni dalle zone sottosviluppate in cerca di lavoro andrà presumibilmente assestandosi con un insediamento economicamente piú razionale.
Ad ogni modo, non vi é motivo per prevedere un peggioramento della situazione, nell'immediato avvenire. Né si può negare che vi sia stato in Sicilia un progresso che, tutto sommato, resta un fatto positivo e incoraggiante.
Se poi si esamina piú attentamente come si é sviluppato questo processo di parziale assorbimento della disoccupazione siciliana si riscontra una sostanziale disuguaglianza a seconda dei rami di attività.
Dal 1955 al 1959, secondo le indagini dell'Istat, si è registrata la seguente variazione:
Anno Agricoltura (migliaia) Occ. Disocc. Industria (migliaia) Occ. Disocc. Altre attività
(migliaia)
Occ. Disocc
1955 (maggio) 595 27 359 48 409 14
1956 (aprile) 597 36 333 55 425 16
1957 (maggio) 567 33 387 52 456 16
1958 (ottobre) 581 24 427 39 493 17
1959 (aprile) 580 7 443 31 488 9
(7) I nati in Ita[...]

[...] dei campioni, le cifre totali su cui 'si basano queste osservazioni, non possono considerarsi precise, né completamente attendibili. Tuttavia la contrazione nel ramo dell'agricoltura e l'espansione in quello dell'industria e delle altre attività, insieme con l'assorbimento sia pur limitato della disoccupa zione in tutti e tre i rami possono, senz'altro, considerarsi come indici di una variazione nella struttura delle forze di lavoro siciliane, più ampia di quella registrata nell'intero paese, durante questo periodo.
124 RENATO MIELI
redditi procapite. Vi è anche da tener presente un altro fattore che spiega perché l'isola contribuisca alla formazione del reddito italiano in misura inferiore alla media delle altre regioni. Se si calcola infatti il rapporto tra il prodotto netto della Sicilia nel 1957 e il numero degli occupati si ha una media di 460.000 lire per ciascuno, contro la media di circa 620.000 lire, calcolata in base ai corrispondenti dati nazionali. Ciò significa che la produttività media del lavoro in Sicilia arriva appen[...]

[...]0 lire per ciascuno, contro la media di circa 620.000 lire, calcolata in base ai corrispondenti dati nazionali. Ciò significa che la produttività media del lavoro in Sicilia arriva appena al 75% di quella italiana. Bisogna dunque riconoscere che lo sviluppo economicosociale dell'isola è condizionato non solo da un graduale incremento dell'occupazione, ma anche della produttività. Quanto poi a vedere se il divario di redditi rispetto alle regioni più progredite stia aumentando o diminuendo, è difficile pronunciarsi in base ai dati di cui si dispone. La seguente tabella può darne un'idea:
Reddito prodotto dal settore privato e pubblico
(dedotte le duplicazioni)
Totale Media per abitante
(milioni di lire) (lire)
Sicilia Italia Percent. Sicilia Italia
1955 533.486 3.954.000 5,36% 113.957 202.386
1956 583.741 19.790.000 5,41% 123.635 217.725
1957 657.137 11.469.000 5,73% 138.164 229.862
1958 688.627 12.288.000 5,60% 143.633 244.437
Da questi dati, raccolti ed elaborati dal Tagliacarne, sembra doversi desumere che il divario[...]

[...]ia
1955 533.486 3.954.000 5,36% 113.957 202.386
1956 583.741 19.790.000 5,41% 123.635 217.725
1957 657.137 11.469.000 5,73% 138.164 229.862
1958 688.627 12.288.000 5,60% 143.633 244.437
Da questi dati, raccolti ed elaborati dal Tagliacarne, sembra doversi desumere che il divario dei redditi procapite tra la Sicilia e l'Italia sia andato aumentando in valore assoluto, sebbene l'incremento medio siciliano sia stato ogni anno proporzionalmente piú elevato di quello italiano (26,3% contro 17,2%). Ossia dovremmo ritenere che, mentre il contributo medio della Sicilia alla formazione del reddito nazionale si mantiene basso, come risulta dalla percentuale variante dal 5,36% al 5,6%, si sono in qualche modo allungate le distanze tra il reddito medio dei siciliani e quello italiano, nonostante il più intenso ritmo di progresso registrato nell'isola. Ad ogni buon conto, non si può negare che vi sia stato in Sicilia, in questi ultimi quattro anni, un aumento del reddito molto maggiore che nel passato, anche se il divario con le regioni più sviluppate del nostro paese, non si è contemporaneamente
LA CONTRASTATA EVOLUZIONE DELLA SICILIA 125
attenuato, per effetto dei progressi registrati nel CentroNord in conseguenza della favorevole congiuntura.
A questo punto é opportuno fare una prima tappa, al termine della ricognizione effettuata. In sintesi ci sembra che si possa dire che durante questi ultimi cinque anni la Sicilia ha fatto qualche passo avanti, sia per quanto si riferisce all'occupazione che per quanto si riferisce al reddito, ma non sufficiente né a stabilire l'equilibrio con le regioni più sviluppate del paese, né a [...]

[...]effetto dei progressi registrati nel CentroNord in conseguenza della favorevole congiuntura.
A questo punto é opportuno fare una prima tappa, al termine della ricognizione effettuata. In sintesi ci sembra che si possa dire che durante questi ultimi cinque anni la Sicilia ha fatto qualche passo avanti, sia per quanto si riferisce all'occupazione che per quanto si riferisce al reddito, ma non sufficiente né a stabilire l'equilibrio con le regioni più sviluppate del paese, né a superare decisamente il confine delle zone depresse. Qualcosa si è mosso in Sicilia, ma non abbastanza per mutarne la fisionomia. Occorre spingere più a fondo la trasformazione economicosociale perché l'isola diventi un'area di sviluppo moderno. In quale senso e con quali mezzi? Questo é il problema.
Qui termina il campo di ció che é certo e incomincia quello dell'opinabile. Ma non é detto che non ci si possa intendere anche su questo terreno, aperto oltreché alle correnti di interessi, spesso contrastanti, a quell'elemento di natura che é il buonsenso. Intanto la stessa evoluzione di questi anni contiene delle indicazioni che non si possono ignorare. Che vi sia un esodo dalla campagna siciliana verso i centri più produttivi e che, in misu[...]

[...]i mezzi? Questo é il problema.
Qui termina il campo di ció che é certo e incomincia quello dell'opinabile. Ma non é detto che non ci si possa intendere anche su questo terreno, aperto oltreché alle correnti di interessi, spesso contrastanti, a quell'elemento di natura che é il buonsenso. Intanto la stessa evoluzione di questi anni contiene delle indicazioni che non si possono ignorare. Che vi sia un esodo dalla campagna siciliana verso i centri più produttivi e che, in misura diversa, affluiscano verso le attività industriali e terziarie non solo le nuove leve, ma anche aliquote di persone che avevano perduto il lavoro o che non l'avevano mai avuto, sono fatti sui quali si deve riflettere. Anzitutto c'é da osservare che essi rispecchiano una tendenza diffusa in tutto il paese. In Sicilia il fenomeno é forse più accentuato che altrove; ma ha la stessa origine. Lo sviluppo delle tecnologie produttive moderne spinge il potenziale umano a dirigersi verso le zone più sviluppate dove si vanno maggiormente concentrando gli investimenti. Così, istintivamente, per cercare di salvarsi dalla marea della miseria, i meridionali tendono a emigrare al Nord e i contadini poveri ad abbandonare l'agricoltura per l'industria. Contro questa tendenza la passività non è certo un rimedio. Occorre avere una politica che operi in modo da ristabilire l'equilibrio, favorendo una diversa composizione e distribuzione degli investimenti allo scopo di dar luogo a una migliore ripartizione del reddito nazionale. E questa politica, per essere efficace, deve tener conto dei motivi ch[...]

[...]o una diversa composizione e distribuzione degli investimenti allo scopo di dar luogo a una migliore ripartizione del reddito nazionale. E questa politica, per essere efficace, deve tener conto dei motivi che provocano l'attuale disfunzione dell'economia italiana. Per impedire ai contadini poveri di abbandonare la terra, a meno di non volerli costringere con la forza, bisogna effettuare trasformazioni tali da ren
126 RENATO MIELI
dere per essi più conveniente restarvi. Si tratta di migliorare i terreni, le tecniche e gli strumenti di coltura e lo stesso indirizzo produttivo, in base ad una conoscenza dei mercati di sbocco e delle possibilità di concorrenza. Altrimenti le riforme fondiarie rischiano di diventare una distribuzione di miseria. Ma quanto costa rimodernare l'agricoltura in modo da invogliare i contadini a non abbandonarla? E fino a qual punto é conveniente farlo?
A questi interrogativi non si pub rispondere in modo vago o approssimativo. Si tratta di una scelta che comporta una spesa molto elevata, in rapporto alle risors[...]

[...]tura in modo da invogliare i contadini a non abbandonarla? E fino a qual punto é conveniente farlo?
A questi interrogativi non si pub rispondere in modo vago o approssimativo. Si tratta di una scelta che comporta una spesa molto elevata, in rapporto alle risorse disponibili e che, per essere fruttuosa, va fatta intelligentemente con una chiara visione della prospettiva di sviluppo generale. Per la Sicilia ciò significa ragionare in termini non più di una economia di consumo locale,bensì di un'economia di scambio entro un'area di mercato molto più ampia, un'area che tende a diventare sempre più ampia. Sarebbe più che mai avventato non guardarsi attorno prima di decidere in quale senso dovrebbe essere indirizzato un rimodernamento dell'agricoltura siciliana, ossia in funzione di quale mercato dovrebbe essere impostata.
Ma é bene non equivocare su questo punto. Si è parlato di « convenienza », a proposito dei miliardi che verrebbe a costare l'ammodernamento dell'agricoltura. Convenienza per chi? P. ovvio che non si debba pensare ai vantaggi e ai profitti che potrebbe ricavarne qualche azienda privata. Lo scopo che ci si deve prefiggere é quello di assorbire il massimo numero di disoccupati nelle attivi[...]

[...]a.
Ma é bene non equivocare su questo punto. Si è parlato di « convenienza », a proposito dei miliardi che verrebbe a costare l'ammodernamento dell'agricoltura. Convenienza per chi? P. ovvio che non si debba pensare ai vantaggi e ai profitti che potrebbe ricavarne qualche azienda privata. Lo scopo che ci si deve prefiggere é quello di assorbire il massimo numero di disoccupati nelle attività produttive; la convenienza va quindi intesa nel senso più largo di utilità pubblica e non di vantaggio aziendale. Ciò non implica affatto che non si debba badare a spese né prendere in considerazione altre scelte che non siano quelle suggerite da un'immediata esigenza sociale. Non è detto cioè, nel caso nostro, che sia socialmente più conveniente, in una prospettiva di sviluppo moderno, di investire senza limiti nell'agricoltura per trattenere un numero superiore di siciliani nelle campagne, dove la redditività, nonostante tutti gli sforzi, resterebbe bassa. Può darsi benissimo che sia più conveniente assorbire una parte degli inoccupati e sottoccupati in attività industriali e terziarie. Per deciderlo, non giova richiamarsi a schemi ideali; meglio affidarsi al calcolo economico del maggior vantaggio collettivo.
Per la Sicilia non ci consta che tale calcolo sia stato fatto finora. Si è accennato a varie soluzioni di massima; ma senza specificare, con
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LA CONTRASTATA EVOLUZIONE DELLA SICILIA 127
cifre precise, che cosa si proporrebbe di fare. Da tutti è riconosciuto che tosi non si può continuare: ed é comprensibile. La cerealicoltura occupa attualmente più di un terzo dell[...]

[...]hiamarsi a schemi ideali; meglio affidarsi al calcolo economico del maggior vantaggio collettivo.
Per la Sicilia non ci consta che tale calcolo sia stato fatto finora. Si è accennato a varie soluzioni di massima; ma senza specificare, con
r
LA CONTRASTATA EVOLUZIONE DELLA SICILIA 127
cifre precise, che cosa si proporrebbe di fare. Da tutti è riconosciuto che tosi non si può continuare: ed é comprensibile. La cerealicoltura occupa attualmente più di un terzo della superficie agraria dell'isola; proporzione eccessivamente elevata se si tien conto delle necessarie rotazioni che sono infatti ovunque troppo brevi. Il rendimento quantitativo è molto basso: 11,5 q/ha in media contro circa 35 nella Valle Padana. È vero che il grano duro siciliano é qualitivamente superiore a quello tenero del Nord. Ma a conti fatti il bilancio granario dell'isola è largamente deficitario, giacché le sue esportazioni di « duro » non bastano a compensare le importazioni di « tenero ». Occorre migliorare le tecniche di coltura, riducendo l'area investita a cere[...]

[...]uantitativo è molto basso: 11,5 q/ha in media contro circa 35 nella Valle Padana. È vero che il grano duro siciliano é qualitivamente superiore a quello tenero del Nord. Ma a conti fatti il bilancio granario dell'isola è largamente deficitario, giacché le sue esportazioni di « duro » non bastano a compensare le importazioni di « tenero ». Occorre migliorare le tecniche di coltura, riducendo l'area investita a cereali sia per effettuare rotazioni più lunghe sia per far posto a colture più redditizie. Per passare dall'agricoltura estensiva, che si sviluppa sulla maggior parte della superficie dell'isola, soprattutto all'interno, a quella intensiva, che viene praticata lungo la fascia costiera (con un maggiore assorbimento di manodopera sebbene non ancora con un livello di produttività pari a quello della concorrenza straniera), bisognerebbe investire ingenti capitali, allo scopo di modificare non solo le condizioni di lavoro ma anche quelle di vita della popolazione agricola. Si tratta di costruire vie di comunicazione, di sistemare i corsi d'acqua, di procurare acqua potabile [...]

[...]allo scopo di modificare non solo le condizioni di lavoro ma anche quelle di vita della popolazione agricola. Si tratta di costruire vie di comunicazione, di sistemare i corsi d'acqua, di procurare acqua potabile e per irrigazione, di bonificare il terreno, di costruire case, stalle, scuole, farmacie, ecc. Un'impresa gigantesca, in poche parole. Fino a qual punto conviene, nell'interesse dei siciliani, impegnarvisi? L'opinione dei rappresentanti più autorevoli è controversa. Tutti concordano nel ritenere che si debba investire una cifra considerevole per trasformare l'agricoltura regionale in modo da porla su un piano di redditività competitiva nei confronti dell'Italia centrosettentrionale e di altri paesi europei. Ma tutti sembrano sottintendere che oltre ad un certo limite, di cui non viene precisata l'elevatezza, é meglio non spingersi, per convogliare piuttosto gli investimenti in altra direzione.
L'ex Presidente della Regione, Milazzo, pensa che ci siano già troppe bocche da sfamare nella campagna siciliana e che la terra sfruttata da secoli e coltivata male offra sempre minori possibilità di viverci. Torna a ripetere, a chi lo interroga su questo argomento che gli sta particolarmente a cuore, che ogni giorno nascono in Sicilia 135 nuovi candidati alla fame e che i contadini disperati non ne vogliono più sapere di sprecare la loro fatica quotidiana per quella terra ingrata. Come uscirne? Milazzo non é ottimista; e non lo nasconde. Da conosci[...]

[...]gli investimenti in altra direzione.
L'ex Presidente della Regione, Milazzo, pensa che ci siano già troppe bocche da sfamare nella campagna siciliana e che la terra sfruttata da secoli e coltivata male offra sempre minori possibilità di viverci. Torna a ripetere, a chi lo interroga su questo argomento che gli sta particolarmente a cuore, che ogni giorno nascono in Sicilia 135 nuovi candidati alla fame e che i contadini disperati non ne vogliono più sapere di sprecare la loro fatica quotidiana per quella terra ingrata. Come uscirne? Milazzo non é ottimista; e non lo nasconde. Da conoscitore
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qual è, vede la situazione molto scura, sempre più scura. Che la campagna siciliana si spopoli un po', per lui, è una necessità penosa ma forse salutare: non lo dice, ma dà l'impressione di pensarlo. L'unica via di salvezza che intravvede è nella trasformazione della coltura. Il clima della regione e la richiesta del mercato, a suo giudizio, consiglierebbero di sviluppare al massimo la coltura del cotone e del lino, che sono state finora trascurate. Per farlo, occorrerebbe per() che ci fosse la certezza di un collocamento del prodotto. Ora questa certezza non ci sarà — egli sostiene da convinto autonomista — fino a quando non sorgeranno in Si[...]

[...]ia i cotonifici e i linifici °che lavoreranno sul posto il prodotto stesso. Sull'industria del Nord' non ci si può contare; anzi non c'è da fidarsene. Occorre che i siciliani stessi costruiscano un certo numero di stabilimenti (25 o 30 al massimo) di media grandezza per la trasformazione della produzione agricola; soltanto allora sarà possibile procedere a una riconversione dalla coltura cerealicola estentiva, ormai insostenibile, ad una coltura più redditizia, che alimenti una sana attività industriale.
Il suo predecessore, La Loggia, dice che si deve procedere a una trasformazione radicale dell'economia agraria dell'isola, condannata inesorabilmente a decadere se si continua cosi. La trasformazione alla quale pensa non va confusa con la riforma fondiaria : si tratta di cosa ben diversa. Che certe modifiche della struttura sociale nella campagna siciliana, possano essere utili e perfino necessarie non lo mette in dubbio. Ma una ridistribuzione della proprietà terriera si risolverebbe in una rovina per gli assegnatari se non fosse inqua[...]

[...]modifiche della struttura sociale nella campagna siciliana, possano essere utili e perfino necessarie non lo mette in dubbio. Ma una ridistribuzione della proprietà terriera si risolverebbe in una rovina per gli assegnatari se non fosse inquadrata in un piano organico di rinnovamento della agricoltura isolana. Quello che occorre, in primo luogo, è una chiara idea di ciò che si può e si vuol fare. Bisogna studiare anzitutto quali siano le colture più adatte alla Sicilia e più convenienti in termini di sviluppo economico; poi esaminare i metodi di coltura più moderni che dovrebbero essere applicati per elevare al massimo la produttività; e infine adottare le misure necessarie per l'attuazione del programma di rimodernamento agrario. La Loggia non ritiene che si possa, allo stato attuale, dire quali riconversioni si impongano nell'indirizzo delle colture; è argomento, questo, che va studiato con la massima serietà. Ritiene invece che vi sia qualcosa da dire sul metodo. Il suo pensiero è che per liberare l'agricoltura siciliana dalla secolare arretratezza sia indispensabile liberarla dalla sua insufficiente produttività. dovuta alla mancanza di spir[...]

[...]. E finita l'epoca dell'individualismo anarchico e inconcludente. Oggi per avere un alto rendimento si deve e verticalizzare » il processo di produzione agricola, coordinando e organizzando non solo la lavorazione dei campi, ma anche la raccolta, conservazione, distribuzione e trasformazione del prodotto. Ma per farlo occorre prima di tutto consorziare i produttori. Questa é la conclusione a cui é giunto La Loggia: conclusione che ci sembrerebbe più convincente se non dubitassimo della volontà di consorziarsi dei produttori siciliani.
Per i comunisti e socialisti il problema non è tanto di un rimodernamento delle tecniche produttive quanto di una maggiore occupazione agricola attraverso una più rigorosa applicazione ed eventuale revisione della legge di Riforma allo scopo di elevare il numero degli assegnatari. Macaluso, 'che é indubbiamente la figura di maggior rilievo tra i dirigenti comunisti siciliani, ritiene che la politica di incre mento della bonifica, di trasformazione e conversione colturale, debba poggiare su tre pilastri:
1° — Ente di Riforma agraria;
2° — Consorzi di bonifica;
3° — Consorzi agrari. Questi tre strumenti, a suo avviso, vanno
completamente rinnovati, se si vuol fare una politica di sviluppo del
l'agricoltura.
Il P.C.I., più che far questione di indir[...]

[...]Macaluso, 'che é indubbiamente la figura di maggior rilievo tra i dirigenti comunisti siciliani, ritiene che la politica di incre mento della bonifica, di trasformazione e conversione colturale, debba poggiare su tre pilastri:
1° — Ente di Riforma agraria;
2° — Consorzi di bonifica;
3° — Consorzi agrari. Questi tre strumenti, a suo avviso, vanno
completamente rinnovati, se si vuol fare una politica di sviluppo del
l'agricoltura.
Il P.C.I., più che far questione di indirizzo produttivistico o di metodo nuovo, pone la sua candidatura al controllo degli strumenti operativi; e basta. Nessuno può contestare il buon diritto dei comunisti di rivendicare la loro parte di responsabilità nella direzione dell'economia agricola isolana, quando era evidente che senza di essi sarebbe venuta meno la maggioranza su cui si reggeva la Giunta Milazzo. Né si può negare che un funzionamento più democratico degli Enti di Riforma, dei consorzi di bonifica e dei consorzi agrari o una più ampia partecipazione ad essi dei contadini, che finora sono stati esclusi, potrebbe aumentarne l'efficienza. Ma il problema non é di un semplice per fezionamento . degli strumenti esistenti: il problema é dell'uso che si intende farne. In mano ai comunisti certi organi di direzione della politica agraria possono servire ad imprimere un determinato indirizzo; in mano ai monarchici possono servire all'opposto. E in mano ad en
trambi diciamo la verità —. servono solo a generare confusione e
contrasti che hanno come unica risultante l'immobilismo.
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Purtroppo c'era poco da fare[...]

[...]bbe consentito di esaudire almeno in parte ciò che il loro elettorato si attendeva da essi. Ma non era molto; e soprattutto non era sufficiente a produrre quella trasformazione delle condizioni di vita dei contadini siciliani che è una necessità improrogabile per l'isola.
Visto che con quella maggioranza si è dimostrato impossibile impostare un piano, tecnicamente preciso e politicamente realizzabile, vien da chiedersi se ce ne sarebbe un'altra più omogenea per un programma di rinnovamnto dell'economia agraria. L'impressione, finché si rimane nel campo delle ipotesi, è positiva; in sostanza i dirigenti dei principali partiti — D.C., P.C.I. e P.S.I. — non hanno un orientamento inconciliabile per quanto si riferisce allo sviluppo dell'agricoltura isolana. Anzi c'é da ritenere che se dai propositi di massima si passasse allo studio delle trasformazioni e riconversioni colturali, dell'incremento e miglioramenti della zootecnia e della riforma del credito agrario, si intenderebbero piú facilmente. Sono i rapporti tra i partiti che ostacolano[...]

[...]rimane nel campo delle ipotesi, è positiva; in sostanza i dirigenti dei principali partiti — D.C., P.C.I. e P.S.I. — non hanno un orientamento inconciliabile per quanto si riferisce allo sviluppo dell'agricoltura isolana. Anzi c'é da ritenere che se dai propositi di massima si passasse allo studio delle trasformazioni e riconversioni colturali, dell'incremento e miglioramenti della zootecnia e della riforma del credito agrario, si intenderebbero piú facilmente. Sono i rapporti tra i partiti che ostacolano, per altre ragioni, l'elaborazione e l'accordo su un programma di rimodernamento agrario e non viceversa.
LA CONTRASTATA EVOLUZIONE DELLA SICILIA 131
Sta di fatto, però, che tale programma è ancora nel limbo. Né i democristiani né i socialisti, né i comunisti hanno dimostrato finora di essere pronti a formulare uno schema di sviluppo agricolo moderno, che sia qualcosa di più che un catalogo di rivendicazioni e di aspirazioni. Insensibilità? Incompetenza? Forse anche questi motivi possono aver influito. Per:, dietro questa apparenza di inerzia si nasconde una convinzione diffusa anche se inconfessata: la convinzione che per liberare la Sicilia dalla sua arretratezza economica convenga concentrare l'attenzione e lo sforzo principale in un'altra direzione. Questa è la verità.
Studiosi e uomini politici sono ormai tutti concordi nel ritenere che l'agricoltura non basti a risolvere da sola il problema della massima occupazione in un'area sottosviluppata. Sono sopratt[...]

[...]e sarebbero indispensabili al sorgere di moderni complessi produttivi. In senso relativo, poi, la situazione é peggiore. Troppo scarso é il capitale fisso sociale dell'isola in confronto a quello di altre regioni per non costituire in partenza uno svantaggio per gli operatori economici che ragionano in termini di calcolo privato di convenienza. Di progressi ce ne sono stati molti, in questi anni; nessuno lo nega. Ma non bastano. Ci vuol molto di piú. Occorre una vasta opera di creazione e ampliamento delle infrastrutture, che contribuisca a ridurre quella insufficienza di economie esterne che ostacola lo sviluppo di nuove attività produttive in Sicilia. E per far questo occorre un'azione pubblica di ampio respiro, non più ristretta nell'ambito tradizionale delle opere indispensabili in una società civile (e purtroppo ancora scarse nell'isola), ma atta a creare certe premesse, in mancanza delle quali l'iniziativa privata non avrebbe alcuna convenienza a manifestarsi. Questa fase di preindustrializzazione non può dirsi conclusa; molto resta ancora da fare.
Molto, si; perché non basta vedere quello che manca oggi e prevedere quello che occorre per creare le condizioni necessarie al sorgere di nuove imprese domani. Man mano che si va avanti, si manifestano nuove esigenze, che non potevano essere preventivate prim[...]

[...]re che nessun piano sarebbe realistico a meno di non tener conto di questo fatto, inquadrandosi razionalmente nello schema di sviluppo nazionale. E già questo pone dei limiti al concetto di autonomia nella programmazione economica.
Ma anche per la parte che é di competenza della Regione non mancano complicazioni, inerenti ai rapporti con lo Stato. Tra le varie controversie, che non é il caso di elencare, quella, diciamo così, di fondo sembra la più ostinata e, per ragioni che vedremo meglio in seguito, la più preoccupante. Lo Stato — si dice — ha non solo diritti ma anche doveri nei confronti della Sicilia. Uno di questi, riconosciuto dalla Costituzione e dallo Statuto regionale, è di contribuire con un fondo di solidarietà a superare lo squilibrio tra l'isola e le regioni più progredite del nostro paese. La politica meridionalistica, intrapresa successivamente dal governo con la Cassa del Mezzogiorno, non pub. annullare questi impegni, conglobando il contributo dovuto alla Sicilia nella quota che le spetterebbe in base ad un criterio di ripartizione proporzionale degli aiuti alle zone sottosviluppate. In linea di diritto è una tesi che si può sostenere. Ma non sarebbe una discrimi nazione, diretta di fatto contro le altre regioni meridionali, accogliere il principio che alla Sicilia spetti un contributo proporzionalmente superiore, in virtù di obblighi assunti in [...]

[...] tesi che si può sostenere. Ma non sarebbe una discrimi nazione, diretta di fatto contro le altre regioni meridionali, accogliere il principio che alla Sicilia spetti un contributo proporzionalmente superiore, in virtù di obblighi assunti in precedenza dal governo? Comunque, si voglia giudicarla, questa rivendicazione siciliana, sarebbe certamente meno assillante se il contributo dello Stato, indipendentemente dal titolo di legittimazione, fosse più elevato e adeguato alle necessità dell'isola. Il rimodernamento delle infrastrutture siciliane richiede effettivamente di piú. Però, possono i siciliani dire di aver fatto finora il miglior uso possibile dei mezzi, sia pure insufficienti, di cui disponeva la Regione? Onestamente, quando si sente affermare, senza convincenti smentite, che alcune decine di miliardi giacciono inutilizzati da mesi nelle casse della Regione, un certo senso di disagio è difficile non provarlo. L'on. Lanza, che fu Assessore ai Lavori Pubblici nel governo La Loggia, dichiara, a chi gli chiede una spiegazione in proposito, di non essere mai riuscito ad ottenere dai funzionari di quell'Assessorato una cifra precisa delle giacenze. A quanto am[...]

[...]ntite, che alcune decine di miliardi giacciono inutilizzati da mesi nelle casse della Regione, un certo senso di disagio è difficile non provarlo. L'on. Lanza, che fu Assessore ai Lavori Pubblici nel governo La Loggia, dichiara, a chi gli chiede una spiegazione in proposito, di non essere mai riuscito ad ottenere dai funzionari di quell'Assessorato una cifra precisa delle giacenze. A quanto ammontino quei fondi nessuno lo sa: 110 miliardi? Forse più, forse meno. Pere. — precisa Lanza — solo in parte esigua può trattarsi di fondi disponibili; nella quasi totalità si tratta di fondi bloccati che non possono
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essere toccati. Gli stanziamenti per lavori pubblici hanno un percorso obbligato molto lungo. Prima che un progetto venga approvato e passi poi alla fase di attuazione, trascorrono parecchi mesi: il cosidetto tempo di maturazione. Ora, per disposizione di legge, la Regione è vincolata a non toccare quelle somme iscritte nel capitolo della spesa finché non sia venuto il momento previsto per il loro impiego, anche se qu[...]

[...]ntandoli all'opinione pubblica come amministratori incompetenti, che chiedono miliardi al paese e non si accorgono nemmeno di quelli che hanno in cassa e che non sanno spendere.
Fuori da ogni polemica, resta il fatto che un po' di chiarezza su questo argomento non sarebbe sprecata. Che vi siano decine di miliardi nelle Casse della Regione bloccati per lunghi periodi di tempo è da appurare. Ma se tosi fosse — come sembra probabile — bisognerebbe piuttosto che invocare una legge per giustificarsi, individuare un rimedio per correggere uno stato di cose svantaggioso per l'isola. E sarebbe il modo più persuasivo per dimostrare che l'autonomia non è soltanto necessaria ma anche operante in Sicilia.
***
Tutte queste considerazioni non sono che un preambolo al discorso .che più ci interessa: il discorso sulla industrializzazione. Questa è la spina dorsale del problema siciliano. Argomento, dunque, che va affrontato con la massima chiarezza se si vuol vedere sul serio quali sono gli impedimenti e quali potrebbero essere i rimedi per il progresso economico dell'isola. Ma non è facile. A volerne parlare con assoluta sincerità ci si scontra non solo contro una serie di preconcetti e di opinioni belle e fatte, che rispecchiano interessi di parte, bensì contro una quasi inestricabile rete di informazioni contrastanti e di lacune incomprensibili. Con tutta la buona volontà[...]

[...]icabile rete di informazioni contrastanti e di lacune incomprensibili. Con tutta la buona volontà riesce pressocché impossibile, in queste condizioni, formulare un giudizio conclusivo. Il problema è aperto a tutti i sensi; e bisogna avere l'onestà di riconoscerlo.
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LA CONTRASTATA EVOLUZIONE DELLA SICILIA
, L'argomento non é soltanto complicato per le ragioni di cui si è detto; è anche complesso per motivi di carattere tecnico. Per renderlo più accessibile conviene perciò procedere con un certo ordine, esaminando prima il settore relativo alla produzione di beni d'investimento, e poi quello relativo alla produzione di beni di consumo. Questo ordine, che non ha — si capisce — alcuna pretesa scientifica, ci viene suggerito oltre che da una esigenza pratica, di comodità di esposizione, anche da una considerazione che, nel caso della Sicilia, assume un certo rilievo. Si tratta di questo: l'industria di base è costituita da grandi complessi, dove le tecnologie produttive indirizzate sempre più verso l'automazione, sono spinte al massimo [...]

[...]produzione di beni d'investimento, e poi quello relativo alla produzione di beni di consumo. Questo ordine, che non ha — si capisce — alcuna pretesa scientifica, ci viene suggerito oltre che da una esigenza pratica, di comodità di esposizione, anche da una considerazione che, nel caso della Sicilia, assume un certo rilievo. Si tratta di questo: l'industria di base è costituita da grandi complessi, dove le tecnologie produttive indirizzate sempre più verso l'automazione, sono spinte al massimo e in conseguenza il capitale richiesto per ogni addetto è molto elevato. Le industrie manifatturiere, invece, assorbono maestranze molto più numerose e richiedono investimenti proporzionalmente molto meno elevati; sicché l'intensità di capitale per ogni occupato è di gran lunga inferiore. Tanto per dare un'idea: per un impianto di grandi dimensioni, come una raffineria, si calcola che occorra un investimento medio di 40 milioni per ogni occupato, mentre per una fabbrica di lavorazione di materie plastiche potrebbero bastarne due milioni per addetto. Questo sbalzo del coefficiente di utilizzazione del capitale agli effetti del massimo assorbimento nell'industria, per l'economia siciliana, che soffre soprattutto dell'eccesso di mano[...]

[...]imensioni, come una raffineria, si calcola che occorra un investimento medio di 40 milioni per ogni occupato, mentre per una fabbrica di lavorazione di materie plastiche potrebbero bastarne due milioni per addetto. Questo sbalzo del coefficiente di utilizzazione del capitale agli effetti del massimo assorbimento nell'industria, per l'economia siciliana, che soffre soprattutto dell'eccesso di manodopera, inoccupata e disoccupata, ha un'importanza più che evidente. Tuttavia non si deve dedurne automaticamente che, data tale sproporzione, si debba senz'altro concentrare lo sforzo per lo sviluppo industriale esclusivamente in direzione delle piccole e medie aziende che assorbono un maggior numero di lavoratori in rapporto agli investimenti occorrenti. Sarebbe un po' troppo semplicistico. In realtà senza un'industria di base non si sviluppa un'industria manifatturiera sana. Bisogna incominciare con creare quel tronco vitale che è l'industria pesante perché si possa formare attorno tutta la ramificazione dell'industria leggera. Questo è il fru[...]

[...] è quello elettrico. Dai dati fin qui pubblicati risulta che la produzione complessiva — termoelettrica ed idroelettrica — è salita da
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809 milioni di kWh nel 1955 a 1.145 milioni di kWh nel 1958. Con la costruzione di due dei tre gruppi della centrale Tifeo di Augusta, la disponibilità di energia elettrica nel 1959 ha raggiunto quasi i due miliardi di kWh. Un progresso c'è, dunque, stato in questi anni; un progresso che appare più rilevante se si prende come termine di riferimento la produzione del quinquennio precedente (9). Ma se si prende come termine di confronto la produzione nazionale per abitante, e più ancora il consumo procapite, si ha una nuova conferma del sottosviluppo siciliano (10). Ancora una volta si è costretti a riconoscere che tra la media nazionale e quella regionale c'è un divario che si stenta a colmare al ritmo di sviluppo attuale.
(9) L'aumento dell'energia generata dagli impianti termoelettrici ed idroelettrici in Sicilia dal 1952 al 1959 è veramente considerevole, come risulta dalla seguente tabella compilata in base ai dati pubblicati dal e Notiziario Economico Finanziario Siciliano 1958 » del Banco di Sicilia, integrati, per gli ultimi anni, da quelli resi noti dall'ANI[...]

[...]ompilata in base ai dati pubblicati dal e Notiziario Economico Finanziario Siciliano 1958 » del Banco di Sicilia, integrati, per gli ultimi anni, da quelli resi noti dall'ANIDEL:
Anno Produzione energia elettrica in Sicilia
(milioni di kwh)
1952 1955 1956 1957 1958
Produzione complessiva 537 809 851 988 1.145
% sul totale Italia. 1,8% 2,2% 2,1% 2,3% 2,5%
In valore assoluto, la produzione di energia elettrica nell'isola è, dunque, più che raddoppiata dal 1952, mentre in rapporto al totale della produzione italiana è passata dall'1,8% al 2,5%. Questo progresso trova conferma nell'aumento, altrettanto considerevole, dei consumi, registrato nel 1958, come può vedersi dai seguenti dati dell'ANIDEL:
Consumi di energia elettrica in Sicilia
(milioni di kWh)
Totale 1958 Variazione in % rispetto al 1957
Usi civili 292 14,87%
Usi industriali 478 14,31%
Usi elettrochimici ed elettrometallurgici 12,6 — 2,20%
Trazione 60,2 — 1,46%
Usi agricoli 45,8 19,64%
Totale 888,6 13,26%
Se si tiene presente che l'aumento globale dei co[...]

[...]lore assoluto e relativo, non deve farci dimenticare che l'isola con una popolazione
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LA CONTRASTATA EVOLUZIONE DELLA SICILIA

Posto in questi termini, il problema si riduce a una ripetizione di quanto si è già detto. In realtà, se si tiene conto della funzione prioritaria che la produzione energetica ha in un'economia in sviluppo, non ci si può accontentare di un ragionamento così limitato e meccanico per commisurare i progressi compiuti al fabbisogno dell'isola. Intanto si deve precisare che cosa si intenda per « fabbisogno ». Se si intende dire la richiesta attuale degli utenti, praticamente non si giustificherebbe la costruzione di nuove centrali (11). Se si pensa invece alla « richie sta potenziale » allora è un altro discorso. Ed è proprio su questo punto che si impernia la polemica sul problema dell'energia elettrica in Sicilia. Che la richiesta potenziale sia superiore a quella attuale nessuno può onestamente negarlo. Il fatto stesso che la SGES continui a costruire nuove istallazioni come quella di Augusta e a proge[...]

[...]h/abit. kWh/abit.
1957 204 166 866 728
1958 234 185 908 763
Ovviamente, dato il divario nella produzione e consumo procapite ereditato dal passato, il maggiore tasso di incremento registrato in Sicilia non è sufficiente a colmare o ridurre il dislivello esistente, ;fino a quando non si sarà raggiunto un ritmo di sviluppo molto superiore. Tuttavia non si può negare che l'indice del consumo di energia elettrica sia andato elevandosi in Sicilia più che in Italia, se si giudica in base ai seguenti dati (base 1946 = 100) dell'ANIDEL:
1946 1952 1955 1956 1957 1958
Sicilia 100 251 390 451 493 558
Italia 100 182 227 244 259 273
(11) Difatti se si dovesse prevedere un aumento annuo dei consumi di energia elettrica in Sicilia del 15% (tenendo presente che quello registrato nel 1958 è stato del 13,26%), le centrali in costruzione basterebbero largamente a coprire il fabbisogno; senza contare poi l'elettrodotto che, attraverso lo Stretto di Messina, assicura all'isola una disponibilità di energia elettrica di gran lunga superiore alla richi[...]

[...]TO MIELI
l'isola, non investirebbe certamente tanti miliardi nel settore elettrico. È superfluo quindi discuterne. Non c'è dubbio che la disponibilità di energia elettrica debba essere sensibilmente e rapidamente incrementata. Il vero motivo di controversia sta nel decidere l'entità e l'intensità dell'incremento. Può darsi che in base a un calcolo degli utili dei nuovi impianti e dell'ammortamento dei vecchi, alla grande azienda privata risulti più conveniente procedere oculatamente nello sviluppo della produzione elettrica. Non ci sarebbe nulla di strano e di inammissibile; dopo tutto all'iniziativa privata non si può chiedere di muoversi se non in vista di un profitto. Se non fa di più è affar suo; non ha senso rimproverarglielo come se fosse venuta meno al suo dovere. Piuttosto c'è da esaminare se conveniva aumentare la produzione e se si poteva abbassare il costo con un intervento dell'iniziativa pubblica nel settore energetico (12). Ed è proprio questo il fatto che sta all'origine della polemica in corso.
Si dice a questo proposito che la vera colpa dei « monopoli » consista nell'aver impedito all'iniziativa pubblica di funzionare come avrebbe dovuto in Sicilia. Siamo indubbiamente su un terreno minato; e bisogna stare attenti a dove si mettono i piedi. Per quanto imparziali si voglia essere, è difficile evitare gli errori su un argomento come questo. Gli e[...]

[...]dovuto
(12) Quest'esame, per essere utile, non va fatto partendo da pregiudiziali di carattere ideologico. Intanto si deve osservare che, secondo le conclusioni a cui sono giunti gli esperti che hanno studiato il problema, le risorse idroelettriche economicamente sfruttabili in Sicilia sarebbero valutabili a circa 888 milioni di kWh. Però, si deve subito aggiungere che tale possibilità di sfruttamento è, in buona parte, soltanto teorica e che è più conveniente, da un punto di vista tecnico ed economico, orientarsi verso la costruzione di impianti termoelettrici, ubicati nelle vicinanze dei maggiori centri di consumo.
In quanto ai costi si deve distinguere quello vero e proprio di produzione dal costo globale e finale dell'energia distribuita agli utenti. Il primo, che comprende gli oneri patrimoniali (rimunerazione del capitale, ammortamenti, imposte) e le spese d'esercizio (spese generali, per il personale, per la manutenzione e per il combustibile nel caso di impianti termici), è praticamente uguale in tutto il paese. Anzi, è piuttos[...]

[...]i maggiori centri di consumo.
In quanto ai costi si deve distinguere quello vero e proprio di produzione dal costo globale e finale dell'energia distribuita agli utenti. Il primo, che comprende gli oneri patrimoniali (rimunerazione del capitale, ammortamenti, imposte) e le spese d'esercizio (spese generali, per il personale, per la manutenzione e per il combustibile nel caso di impianti termici), è praticamente uguale in tutto il paese. Anzi, è piuttosto inferiore che superiore in Sicilia rispetto al Nord. Il secondo, che comprende anche le spese di trasporto, con relative perdite di linea dovute alle distanze dal luogo di produzione al luogo di consegna, in Sicilia, dove le utenze sono più diluite nello spazio, data la bassa densità di distribuzione, e data la irregolarità di prelievo, a causa di una maggiore concentrazione dei consumi nelle ore di massimo carico, è certamente più elevato che nelle regioni settentrionali. Ne consegue che, indipendentemente dal carattere pubblico o privato delle aziende, l'elettricità costa più cara nelle zone sottosviluppate, come la Sicilia, appunto per il minor consumo procapite e per la minor densità di utenze.
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essere destinati all'Ente pubblico, ossia all'E.S.E. Che ciò sia realmente accaduto resta ancora da dimostrare con prove circostanziate. Però non lo si può escludere. Da fonte competente, si risponde con una controaccusa; non è vero che son mancati i finanziamenti, ci sono già stati nella misura dei due terzi della spesa d'impianto ed erano disponibili anche per il rimanente terzo. È mancata invece la capacità dei dirigenti de[...]

[...] la centrale dell'E.S.E. sarebbe già entrata in funzione da un pezzo. Bastava che non si respingesse l'offerta di credito di un'impresa appaltatrice (offerta che sarebbe stata integrata e garantita dai fondi della Regione), per il timore di insinuazioni o sospetti.
Chi ha ragione? Il dirigente dell'E.S.E. o gli uomini politici che hanno sulla coscienza il rimorso di averlo collocato a quel posto? È difficile dirlo; bisognerebbe saperne molto di piú. In mancanza di una inchiesta che permetta di accertare come siano andate le cose, è più saggio sospendere qualsiasi giudizio sul passato e concentrare l'attenzione sul presente. Perché non si provvede ora a procurare il finanziamento necessario per completare l'opera intrapresa e restata a metà? Chi lo impedisce? Qui non c'entrano più i «monopoli ». Il problema, a quanto è dato capire, riguarda invece i rapporti tra Stato e Regione. Nel corso del dibattito sul bilancio all'Assemblea Regionale, nel novembre scorso, l'on. Fasino, che fu, in precedenza, Assessore all'Industria, rinfacciò al Governo Milazzo di aver ereditato otto miliardi che lo Stato si era impegnato ad erogare subito a favore dell'E.S.E. e gli rimproverò di non aver fatto nulla per approntare l'emissione di obbligazioni allo scopo di completare il programma dell'Ente. Milazzo rispose assicurando che gli otto miliardi concessi dalla Regione sui fondi corrispo[...]

[...]darietà) erano già in programma ma non dovevano essere interpretati come uno « spostamento dal livello nazionale a quello regionale » dell'impegno relativo al problema energetico. In altre parole, Milazzo insisteva per non far gravare sulle finanze regionali la spesa relativa al completamento del programma dell'E.S.E., mentre da varie parti, ed in particolare dalla D.C., lo si invitava allora ad affrettare comunque la conclusione dell'opera incompiuta, sostenendo che si sarebbe alleggerito in tal modo una grave passività.
Ma il contrasto tra iniziativa pubblica e privata in tema di energia elettrica, non può dirsi, con ciò, esaurito. Nel corso dello stesso dibat
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tito é infatti riemerso in forma piuttosto acuta. Questa volta, però, le parti erano invertite. Erano i sostenitori dell'iniziativa privata che accusavano l'E.S.E. di aver ostacolato con pretesti capziosi il decreto di autorizzazione della centrale di Termini alla Tifeo. Dunque, l'ostruzionismo a danno dell'incremento produttivo nel settore elettrico, andrebbe ora addebitato all'Ente pubblico. II colmo é che quest'accusa veniva candidamente — diciamo così — ribadita dall'Assessore delegato dell'Industria, Barone, il quale ammetteva che vi era stato da parte dell'E.S.E. un tentativo per indurre il governo a revocare quel decreto [...]

[...]esidente Milazzo ritenne allora di non dovere né approvare né sconfessare il suo, forse ingenuo, collaboratore. Ma la K gaffe » rimase; e con essa il dubbio che la politica di intervento pubblico per lo sviluppo dell'energia elettrica in. Sicilia fosse in mano di uomini che non sembravano all'altezza del compito.
***
Se si passa ad altri settori dell'industria di base la situazione appare notevolmente diversa. Nel settore chimico sono stati compiuti considerevoli progressi. Gli stabilimenti della Sincat e della Montecatini sono tra i più grandi che esistano nel nostro paese, e senza dubbio tra i più moderni. Anche la petrolchimica ha fatto in questi tempi passi avanti, che sarebbero sembrati impensabili fino a pochi anni addietro. Nessuno può contestarlo. Se polemiche vi sono state in tale campo, sono state dettate da altre considerazioni, che non hanno avuto per oggetto il disconoscimento di quanto ha fatto l'iniziativa privata in questo settore. Si é ,detto che la grande industria settentrionale, beneficiando di condizioni di estremo favore, si è avvantaggiata per costruire impianti che non hanno recato un serio contributo all'economia siciliana in quanto hanno assorbito una aliquota m[...]

[...] costruire impianti che non hanno recato un serio contributo all'economia siciliana in quanto hanno assorbito una aliquota molto scarsa della manodopera locale. L'osservazione, francamente, non regge ad una analisi serena. Le grandi aziende moderne hanno una loro economia interna che non può essere modificata da considerazioni di carattere sociale. Che sia impresa pubblica o privata, un complesso petrolchimico, se è costruito secondo le tecniche più moderne in modo da ridurre al minimo i costi di produzione, non può assorbire più di un certo numero di addetti, che é, come tutti sanno, molto limitato rispetto al capitale investito. Non c'é nulla da fare: nel ramo dell'industria di base, o si costruiscono impianti moderni ad elevata produttività che comportano una notevole intensità di
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capitale per ogni posto di lavoro, o è meglio rinunciarvi piuttosto che creare aziende destinate a soccombere di fronte alla concorrenza o a far pagare al contribuente le spese di una produzione antieconomica. Quando si è assillati, come in Sicilia, dal problema della massima occupazione, è giusto avviare gli investimenti in un'altra direzione, dove a parità di capitale sia possibile dar lavoro ad un maggior numero di persone, senza elevare i costi di produzione al di sopra di quelli della concorrenza nazionale o straniera. Ciò non significa che si debbano trascurare quelle industrie di base che hanno o dovrebbero avere un effetto moltiplicatore, stimol[...]

[...]i benefici di tali attività non rimangono nell'isola. Queste aziende, che operano in Sicilia, ma hanno la loro sede centrale a Milano invece che a Palermo, e i cui dirigenti, tecnici e maestranze sono in gran parte settentrionali, finiscono per arricchire, in mille modi, le regioni di provenienza. Se con ciò si intende criticare l'attuale sistema tributario che è quello che è, non si vede perché si dovrebbe farne una colpa ai a monopoli ». Molto più saggio e fruttuoso sarebbe studiare una riforma tale da rendere quel sistema più giusto e funzionante nell'interesse dell'isola. Se si intende, invece, protestare per i benefici che l'industrializzazione della Sicilia fa confluire verso il Nord, allora è doveroso correggere un'impressione, in parte sbagliata e in parte ingiustificabile. Si capisce: gli utili delle imprese settentrionali in Sicilia tornano alle stesse, cosi come tornano alle loro famiglie le rimesse dei tecnici e degli operai trasferitisi dal Nord per lavorare nell'isola. E non. potrebbe essere altrimenti, fino a quando non ci saranno imprese, tecnici e maestranze siciliane che provvederanno a prendere il [...]

[...]i operai trasferitisi dal Nord per lavorare nell'isola. E non. potrebbe essere altrimenti, fino a quando non ci saranno imprese, tecnici e maestranze siciliane che provvederanno a prendere il posto dei settentrionali. Ma non è giusto ignorare che, anche allo stato at tuale, una parte non irrilevante di quegli utili e soprattutto di quelle rimunerazioni rimane nell'isola, dove alimenta se non altro uno svi luppo del commercio e dei servizi. Molto più ragionevole sarebbe studiare come si potrebbe accrescere questa aliquota che va a beneficio della Sicilia invece di perder tempo in recriminazioni.
Una terza osservazione viene fatta meno di frequente, sebbene offiirebbe maggiori spunti per una critica convincente. È un fatto: che
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attorno ai grandi complessi sorti in Sicilia non si sia verificato quello sviluppo di attività indotte che sembrava dovesse manifestarsi spontaneamente. Su questo avremo occasione di soffermarci in seguito; ma non si può forse pensare che i grandi complessi abbiano una parte di responsabilità a c[...]

[...]opo da proporsi.
A conti fatti, si deve comunque riconoscere che nei settore dell'industria chimica e petrolchimica l'iniziativa privata ha dato un apporto considerevole allo sviluppo economico dell'isola, anche se l'ordine di grandezza degli investimenti effettivi é meno elevato di quello che la Confindustria avrebbe voluto far credere. Ma non si può dir lo stesso per altri settori, come quello siderurgico e quello meccanico in cui non si é compiuto alcun progresso durante questi anni. Il calcolo in termini di convenienza sembra aver dissuaso non solo i privati ma anche l'I.R.I. ad intervenire in tale direzione. Ora, se è comprensibile che la grande industria del Nord abbia ritenuto di non doversi impegnare con investimenti che non le garantivano profitti pari a quelli ottenibili altrove, meno comprensibile riesce la circospezione dimostrata dalle aziende di Stato nel declinare l'invito, ad esse ripetutamente rivolto, di creare in Sicilia un complesso siderurgico o un complesso meccanico. Intendiamoci: sarebbe sciocco mettere in dubbio[...]

[...] Nord abbia ritenuto di non doversi impegnare con investimenti che non le garantivano profitti pari a quelli ottenibili altrove, meno comprensibile riesce la circospezione dimostrata dalle aziende di Stato nel declinare l'invito, ad esse ripetutamente rivolto, di creare in Sicilia un complesso siderurgico o un complesso meccanico. Intendiamoci: sarebbe sciocco mettere in dubbio la competenza tecnica dei diri genti dell'I.R.I. Ne sanno certamente piú di noi in materia di distribuzione degli investimenti in rapporto agli utili prevedibili. Né c'è da pensare che tale atteggiamento tragga la sua origine da inconfessate finalità politiche, in quanto esso é rimasto immutato nonostante il cambiamento di governo e di indirizzo verificatosi a Palermo. Con La Loggia o con Milazzo, 1'I.R.I. non ha dimostrato alcuna inclinazione ad investire in Sicilia come invece ha fatto in altre regioni sottosviluppate della penisola.
A questa carenza di iniziativa pubblica nel settore in cui un intervento avrebbe avuto un carattere integrativo e non sostitutivo[...]

[...]un intervento. È vero che si tratta dell'E.N.I., ossia di un ente di Stato diretto da una forte e dinamica personalità. Ma ciò non toglie che si possa avere qualche perplessità sulle scelte effettuate dalle aziende a partecipazione statale.
Molto si é scritto in questi tempi a proposito del complesso industriale di Gela progettato dall'E.N.I. e approvato alcuni mesi fa dal Ministero competente. Non é il caso di sottolinearne l'importanza, che é più che evidente. Bastano pochi dati a chi vuol farsene un'idea. L'impianto di Gela dovrebbe avere tre componenti fondamentali: 1) una raffineria capace di produrre circa una tonnellata all'anno di benzina greggia e d'auto di gasolio, olio combustibile e gas liquefatto, destinati alla vendita; 2) un complesso petrolchimico capace di produrre 500.000 tonnellate all'anno di fertilizzanti azotati e 3) una centrale termoelettrica capace di produrre annualmente un miliardo di kWh di cui il 20% dovrebbe essere immesso al consumo. Complessivamente l'investimento previsto arriverebbe alla cifra considere[...]

[...]e richiedono un immobilizzo di oltre 40 milioni per addetto. Non é serio e nemmeno onesto perciò fare balenare speranze che andrebbero poi deluse. I complessi dell'E.N.I., tosi come quelli della Montecatini, ,o della Sincat, non possono risolvere il probelma della disoccupazione siciliana; possono stimolare con la loro presenza uno sviluppo produttivo che dovrebbe elevare al massimo l'occupazione. Il loro contributo alla soluzione del problema è più efficace come concorso indiretto che come apporto diretto. Non ci si deve attendere quindi miracoli da Gela : gli esperti non prevedono più di 3000 assunzioni. _
A questi ridimensionamenti psicologici si aggiungono alcune riserve circa altri aspetti del progetto. Tra le critiche che ad esso vengono mosse due sembrano meritevoli di confutazione nell'interesse della Sicilia. Si osserva che il progetto prevede la costruzione di un porto a Gela, a carico della Regione. Quanto verrà a costare quest'opera? Dieci miliardi, secondo alcuni, 20 secondo altri. E una cifra piuttosto grossa, se si pensa alle altre opere non meno necessarie e urgenti che gravano sul bilancio siciliano. Si osserva inoltre che l'entrata in funzione del complesso di Gela potrebbe aggravare la crisi nel settore dello zolfo. La desolfurazione del petrolio grezzo di Gela darebbe luogo a una produzione di zolfo di recupero a costi molto bassi e in concorrenza con quello prodotto dalle miniere siciliane. Rispondono i tecnici dell'E.N.I. che questo danno sarà evitato, poiché lo zolfo di Gela sarà in gran parte utilizzato direttamente 'e per la parte rimanente conferito all'E.Z.I. a un prezzo [...]

[...]zzo sul mercato. Con ciò non si risolve la crisi dello zolfo; né l'E.N.I. pretende di
(13) A questo proposito viene fatto osservare che l'alternativa a una produzione non economica sarebbe la rinuncia ad estrarre il petrolio di Gela, con la conseguenza di ridurre a zero le royalties spettanti alla Regione. Certo; meglio poco che niente. Ma viene il dubbio che, una volta costruito l'impianto di raffinazione, si finisca per constatare che e : più conveniente utilizzarlo per trattare il greggio nordafricano, piuttosto .che quello estratto in loco. E se così fosse anche quel poco, a cui ridurrebbero lé royalties, tenderebbe a zero.





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farlo. Quella crisi che deriva dal fatto che il prezzo internazionale é sensibilmente inferiore a quello dello zolfo prodotto in Sicilia, potrà trovare solo in parte un'attenuazione se si verticalizzerá la produzione dello zolfo, bruciando direttamente il minerale sul posto per produrre acido solforico. Anche cosí, secondo il parere dei tecnici, l'Italia non potrà affrontare le conseguenze dei M.E.C[...]

[...]dustria di base in Sicilia durante questo periodo, come si è visto, ha avuto un certo sviluppo, disuguale ma nel complesso abbastanza consistente. In alcuni settori si é andati avanti, ad esempio nell'industria chimica, in altri si è restati fermi, ad esempio in quella siderurgica; nell'insieme si è registrato un certo progresso. Ma l'industria di base — ripetiamo — non ha il potere di risolvere da sola il problema della massima occupazione, che più assilla l'economia regionale. Il settore che determina in misura preponderante il processo generale di aumento dell'occupazione e del reddito — si osserva giustamente nel rapporto del Comitato Saraceno sui risultati conseguiti nei primi quattro anni di attuazione dello « Schema Vanoni » — é costituito dall'industria manifatturiera; allo sviluppo di questa industria è legata infatti la massima quota dell'espansione dei servizi pubblici e privati e quindi la piattaforma di redditi e di investimenti che a sua volta determina l'attività mercantile, l'attività bancaria e ogni altra attività coside[...]

[...]aria e ogni altra attività cosidetta terziaria. Ora, è precisamente in questo settore che si è verificata una certa atrofia dell'organismo economico isolano. A che cosa si deve imputare questo mancato sviluppo?
Il quesito ci riconduce all'esame di quel processo di induzione che avrebbe dovuto esplicarsi attorno alle industrie di base con una germi
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nazione di attività sussidiarie. In quale misura si è avuta tale induzione? O, piuttosto, perché é così esiguo il numero delle industrie indotte?
Si prenda ad esempio Ragusa, la città del petrolio. Ebbene dal 1953, ossia da quando sono stati scoperti i giacimenti tuttora sfruttati dalla « Gulf », quali attività sono sorte? In un primo tempo vi é stato un gran fiorire di esercizi che alla stregua del livello di vita cittadino potrebbero senz'altro definirsi di lusso : alberghi, ristoranti, cinema, negozi... Poi, passata l'euforia, il boom si è arrestato. Oggi, a parecchi anni di distanza, a Ragusa manca ancora la luce e l'acqua, che vengono erogate in misura assolutamente i[...]

[...]a, senza lasciare dietro di sé, nella città, se non un cumulo di speranze deluse.
Bisogna riconoscere — e i ragusani l'hanno imparato a loro spese — che il vero punto di accumulazione di ricchezze non è il centro dove si estrae il petrolio, ma semmai, quello dove avviene la raffinazione di esso. Logico quindi che le prospettive per lo sviluppo di attività industriali indotte dalla produzione petrolifera dovessero polarizzarsi attorno ad Augusta piuttosto che a Ragusa. Ma neanche questa previsione ha trovato l'attesa conferma. Vicino ad Augusta sono sorti, infatti, i grandi complessi della Sincat a Priolo. Pere) Siracusa, che come capoluogo aspirava a diventare un centro industriale é rimasta quella che era: una stupenda città museo. Tranne il cementificio del Barone Pupillo — uno dei rarissimi esemplari di imprenditore siciliano — e lo stabilimento dell'« Eternit Siciliana », più qualche fabbrica minore, non si è visto sorgere null'altro di nuovo in questi anni. Nemmeno il progetto di creazione di una « zona industriale », dopo tante discussioni e opposizioni, si è riusciti a varare. Non si pile, dunque dire che, almeno fino a questo momento, Siracusa abbia saputo ricavare tutti i vantaggi che il sorgere dei grandi complessi industriali sembrava dischiudere.
Per ragioni che si spiegano in parte, tenendo conto della favorevole ubicazione, la città che ha più risentito o utilizzato la benefica vicinanza di Augusta, è stata invece Catania. Il maggiore dinamismo dei suoi[...]

[...]visto sorgere null'altro di nuovo in questi anni. Nemmeno il progetto di creazione di una « zona industriale », dopo tante discussioni e opposizioni, si è riusciti a varare. Non si pile, dunque dire che, almeno fino a questo momento, Siracusa abbia saputo ricavare tutti i vantaggi che il sorgere dei grandi complessi industriali sembrava dischiudere.
Per ragioni che si spiegano in parte, tenendo conto della favorevole ubicazione, la città che ha più risentito o utilizzato la benefica vicinanza di Augusta, è stata invece Catania. Il maggiore dinamismo dei suoi abitanti e soprattutto la costituzione di una ben attrezzata « zona industriale » hanno certamente contribuito ad imprimere quell'impulso che
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è mancato altrove. Si è avuto cosi uno sviluppo nel settore della media e piccola industria che è piuttosto ragguardevole, se confrontato a ciò
che si è fatto nel resto dell'isola. Una trentina di stabilimenti sono stati
costruiti o sono in corso di costruzione. Si tratta di aziende che svolgono la loro attività produttiva nei rami più svariati; lavorazione del
legno, del ferro, di materie, plastiche, resine sintetiche, vetro, ceramica,
materiali da costruzione, derivati del petrolio, medicinali, apparecchi radio, gomma, colori, vernici, tessuti e confezioni, generi alimentari e
conserve, macchine agricole, istallazioni ferroviarie, tubi di acciaio... Tutta una gamma, come si vede, che si estende su un vasto settore. Il risultato, in termini di assorbimento di manodopera, è stato che si sono creati poco più di 2000 posti di lavoro. Altri 3000 nuovi posti verranno creati quando saranno realizzati i 40 progetti di nuovi im[...]

[...]no, del ferro, di materie, plastiche, resine sintetiche, vetro, ceramica,
materiali da costruzione, derivati del petrolio, medicinali, apparecchi radio, gomma, colori, vernici, tessuti e confezioni, generi alimentari e
conserve, macchine agricole, istallazioni ferroviarie, tubi di acciaio... Tutta una gamma, come si vede, che si estende su un vasto settore. Il risultato, in termini di assorbimento di manodopera, è stato che si sono creati poco più di 2000 posti di lavoro. Altri 3000 nuovi posti verranno creati quando saranno realizzati i 40 progetti di nuovi impianti di cui si stanno attualmente istruendo le pratiche. Complessivamente, dunque, tra due o tre anni, la zona industriale avrà immesso nell'attività produttiva circa 5000 persone. Non sono molte; però non sono che un nucleo destinato, per l'effetto moltiplicatore delle attività manifatturiere, a generare attorno a sé un maggiore incremento dell'occupazione in attività terziarie ad esse connesse. Tale sviluppo a Catania ha immobilizzato finora, per i 24 stabilimenti già in eser[...]

[...]ito che ci si poneva, bisogna riconoscere che nonostante eccezioni come quella di Catania, non si é avuto quello sviluppo dell'industria manifatturiera che per induzione si sperava sarebbe stato determinato o stimolato dal sorgere di alcuni grandi impianti nel settore di base. Le ragioni possono essere varie e cumulative. Scarsità di capitale: si sa che il capitale privato siciliano non é molto ed ha comunque una propensione per gli investimenti più sicuri o più fruttuosi a breve scadenza. A Catania, però, il capitale affluito é in gran parte di provenienza straniera o settentrionale. Non vi è motivo per escludere che ciò possa ripetersi altrove e su più vasta scala. Vi è invece da osservare che sussistono ancora alcune difficoltà nel sistema creditizio, le quali possono rappresentare un serio ostacolo. I crediti che vengono in generale concessi con una oculata valutazione della solvibilità del richiedente sono spesso insufficienti a dar vita ad una attività industriale
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sana. L'industriale che riesce a ottenere dei crediti di impianto si trova poi, a stabilimento costruito, nella necessità di ipotecare il complesso delle attività disponibili per poter mettere in moto il meccanismo produttivo. Non avendo altre garanzie da of[...]

[...]a estesa, per non dire generale, opera di riqualificazione dei lavoratori e di correzione dell'indirizzo, quasi esclusivamente umanistico, della scuola creare quella preparazione moderna che fa tuttora difetto alla popolazione siciliana. E un'opera di gran respiro, che richiede tempo e perseveranza; ma tutt'altro che impossibile. Con il materiale umano dei siciliani si può essere certi di raggiungere sotto questo profilo il livello delle società più progredite.
Economie esterne: altro serio svantaggio. Tutto costa di più in Sicilia rispetto alle regioni più avanzate: a cominciare dalle fonti di energia (scarse le risorse idriche, data la irregolarità delle precipitazioni stagionali e la natura del terreno, e notevole la dispersione degli utenti) per finire con le materie prime e i semilavorati che dovrebbero essere importati (14). La insufficienza delle infrastrutture crea, in partenza, condizioni di inferiorità per un industriale siciliano nei confronti di
(14) È opinione molto diffusa che lo sviluppo industriale sarebbe stato ritardato nel nostro paese dall'alto costo dell'energia elettrica. In realtà, l'incidenza della spesa per l'energia el[...]

[...]ri incentivi di diversa natura.
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un concorrente settentrionale. Per quanto si faccia, ci vorrà molto tempo per colmare questo svantaggio ereditato dal passato.
Tutte queste condizioni sfavorevoli esistono e non si possono ignorare. Ma la vera difficoltà é nel fattore umano. Quello che manca in Sicilia sono gli imprenditori. È inutile ripetere che ciò si deve in gran parte all'opera di soffocamento compiuta dall'industria del Nord con la complicità dei poteri dello Stato, dopo l'unificazione nazionale. E vero: il protezionismo imposto per favorire l'affermarsi delle industrie, dislocate nel triangolo settentrionale, lo hanno pagato i meridionali — e tra questi i siciliani — con la contrazione delle loro esportazioni agricole e l'impoverimento della loro economia. Ma anche prima che questo processo di polarizzazione della ricchezza e della miseria nel nostro paese si sviluppasse in pieno, i siciliani avevano già quella propensione a concepire l'economia isolana piuttosto in termini di consumo l[...]

[...]ionismo imposto per favorire l'affermarsi delle industrie, dislocate nel triangolo settentrionale, lo hanno pagato i meridionali — e tra questi i siciliani — con la contrazione delle loro esportazioni agricole e l'impoverimento della loro economia. Ma anche prima che questo processo di polarizzazione della ricchezza e della miseria nel nostro paese si sviluppasse in pieno, i siciliani avevano già quella propensione a concepire l'economia isolana piuttosto in termini di consumo locale che in termini di scambio. C'é una grande verità nelle parole che il vecchio Prii.cipe del « Gattopardo » rivolge agli intraprendenti patrioti lombardi e piemontesi che cercano di scuoterlo dalla sua aristocratica e distaccata saggezza. Se avessimo voluto progredire e produrre come voi, se avessimo voluto fare anche noi qualcosa, non avremmo aspettato il vostro arrivo. Avevamo tutta l'intelligenza per riuscirvi da soli. Ma non ci interessava. Esatto: i siciliani non erano imprenditori neppure un secolo fa, non perché non ne avessero la capacità, ma perché no[...]

[...]la sua aristocratica e distaccata saggezza. Se avessimo voluto progredire e produrre come voi, se avessimo voluto fare anche noi qualcosa, non avremmo aspettato il vostro arrivo. Avevamo tutta l'intelligenza per riuscirvi da soli. Ma non ci interessava. Esatto: i siciliani non erano imprenditori neppure un secolo fa, non perché non ne avessero la capacità, ma perché non ne avevano la volontà. La loro concezione della vita, istintiva nel popolo e più o meno meditata nella classe dirigente, era diversa; più vicina a quella maturata in altri climi mediterranei che non nell'Europa occidentale. Dire che non abbiano oggi capacità imprenditoriali, non è un giudizio critico, bensì un riconoscimento di una diversa formazione storica. Non si fa dunque torto a nessuno se si constata che in Sicilia non ci sono gli uomini che abbiano la vocazione e la capacità di diventare industriali. Le poche eccezioni confermano la regola.
Si deve ammettere che non è facile dimostrare capacità imprenditoriali in un'area sottosviluppata come quella siciliana. A parte gli impedimenti oggettivi ai quali si è fatto cenno i[...]

[...]zioni confermano la regola.
Si deve ammettere che non è facile dimostrare capacità imprenditoriali in un'area sottosviluppata come quella siciliana. A parte gli impedimenti oggettivi ai quali si è fatto cenno in precedenza e le limitate disponibilità di capitale privato, vi é da tener presente che per avviare un'attività industriale occorre oggi avere una preparazione adeguata. Occorre non solo possedere una conoscenza delle tecniche produttive piú avanzate, per la progettazione degli impianti, ma anche una conoscenza del mercato, in base ad una analisi continua e aggiornata. Non è più il tempo degli industriali che credono di saper tutto da
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soli e di decidere per intuito. Non solo; ma i programmi di investimento e i progetti di impianto vanno visti in una prospettiva di anni. Vi sono insomma dei tempi tecnici indispensabili per la maturazione di un piano di attività produttiva: tempi tecnici dei quali l'imprenditore deve saper tener conto. Insomma, colmare il divario che esiste nelle capacità imprenditoriali tra le regioni sottosviluppate e quelle progredite è la vera difficoltà. Anche qui la conclusione é sempre la stessa: non si può affidare la sol[...]

[...]ioni. Però, con una legge che dovrebbe essere varata senza troppe difficoltà dall'Assemblea Regionale, questo capitale potrebbe essere portato a circa 20 miliardi, mediante un versamento anticipato di 6 miliardi che la Regione é tenuta a corrispondere alla Sofis nel prossimo triennio. Questo capitale iniziale consentirà alla Società Finanziaria di emettere obbligazioni ordinarie per un valore complessivo equivalente, ossia per altri 20 miliardi, più una serie di obbligazioni per investimenti industriali in gestione speciale per un massimo pari al quintuplo dello stesso capitale, ossia per altri 100 miliardi. Si arriva tosi ad una disponibilità teorica di 140 miliardi. Diciamo teorica perché negli stessi ambienti della Sofis si prevede che le obbligazioni ordinarie avranno un :mercato difficile e che quelle costituite in gestioni speciali dovranno con,cedere forti premi ed un elevato tasso di interesse per aver successo.
Una disponibilità di 140 miliardi può costituire un'efficace massa finanziaria di manovra. Tutto sta a vedere come vie[...]

[...]bienti della Sofis si prevede che le obbligazioni ordinarie avranno un :mercato difficile e che quelle costituite in gestioni speciali dovranno con,cedere forti premi ed un elevato tasso di interesse per aver successo.
Una disponibilità di 140 miliardi può costituire un'efficace massa finanziaria di manovra. Tutto sta a vedere come viene impiegata. Se si pensa, ad esempio, a una politica di investimenti, basata su una scelta oculata dei settori più rispondenti al fine di incrementare l'occupazione e il reddito, e a una politica di disinvestimenti, volta a ricostituire con continuità il capitale disponibile, quella cifra può rappresentare, senz'al
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tro, ciò che occorre e basta alla Sofis per svolgere la sua funzione propulsiva. Ma una politica di investimenti e di disinvestimenti che sia davvero razionale presuppone una conoscenza dell'area di mercato in
cui si deve attuare e un programma operativo ben definito nel tempo.
Ci sono questi presupposti nella mente dei dirigenti della Sofis?
In[...]

[...]ll'isola. Si creò, non a caso, una viva attesa nell'opinione pubblica alla quale si era fatto credere che quel «piano Battelle » dovesse in qualche modo contenere il segreto per liberare la Sicilia dall'arretratezza economica. Sembrava che la massima pubblicità sarebbe stata data a quell'indagine per permettere a tutti di vedere come si sarebbe proceduto a una rapida ed efficiente industrializzazione della Sicilia. E invece da allora non se ne è più sentito parlare. Tornato a Palermo con il « piano Battelle », La Cavera si é chiuso in un impenetrabile mutismo. Nessuno ha potuto sapere a quali conclusioni avesse approdato quello studio. Neppure l'ex Presidente Milazzo è riuscito a prenderne visione. Mistero. Perché tanto silenzio? Di congetture se ne potrebbero fare molte: non ultima quella di un dissenso fra il direttore La Cavera e l'on. Bianco che proprio in quei giorni era stato nominato Presidente della Sofis. Ma il contrasto fra i due dirigenti, che hanno una spiccata personalità e palese divergenza di opinioni, non spiega molto. Re[...]

[...]rebbe potuto certo tacere sui compiti spettanti alla Sofis.
Quali sarebbero state le linee fondamentali di questo piano non é dato sapere. Vari sono i problemi da risolvere e gli interessi da conci
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liare; ma alcune questioni pregiudiziali sembrano già adesso impor si all'attenzione. Quando si parla di industrializzazione e in particolare di sviluppo del settore manifatturiero, che è quello che ha la più elevata capacità di assorbimento della disoccupazione, non si può ignorare in quali termini si pone la questione nel nostro paese. Stando ai dati del rapporto del « Comitato Saraceno » del giugno scorso, il 90% dei nuovi posti di lavoro nei settori extraagricoli durante il quadrien nio 19551958 sono stati creati dalle imprese private. Più esattamente: alla fine del 1958 l'industria manifatturiera italiana occupava 4.500.000 persone, facenti capo per il 96% a imprese private e per il 4% a imprese pubbliche. Data questa struttura, c'è da chiedersi se in Sicilia l'iniziativa privata saprà dare, anch'essa, il contributo maggiore all'assorbimento della disoccupazione, in armonia con quanto avviene su scala nazionale, o dovrà essere sostituita dall'iniziativa pubblica. La soluzione di questo problema è in gran parte affidata alla Sofis. La Società potrebbe infatti assumere una serie di iniziative industriali, con una partecipazione [...]

[...]ran parte affidata alla Sofis. La Società potrebbe infatti assumere una serie di iniziative industriali, con una partecipazione maggioritaria (in virtù di una recente deroga ad una norma precedente che fissava nel 25% il massimo di partecipazione in imprese miste) stabilendo un limite di tempo per il disinvestimento della quota di avviamento. Si creerebbe in tal modo un meccanismo di riscatto, che darebbe luogo ad un processo di privatizzazione, più o meno automatico. Questo potrebbe essere uno schema per favorire la formazione di imprese private siciliane nel settore della produzione di beni di consumo: schema ingegnoso, senza dubbio, ma — come dire? — un po' troppo teorico. Se gli imprenditori siciliani non hanno dato finora segni di vita, nonostante gli aiuti e gli incentivi messi in opera dalla Regione, é piuttosto ardito pensare che lo faranno nel prossimo avvenire, perché sorretti dalla Sofis. La Cavera che di questo problema si sente investito con il fervore passionale di chi crede di avere una missione da compiere, non si nasconde affatto quanto sia arduo creare una mentalità imprenditoriale tra i siciliani. È come — egli pensa — vo ler dare da mangiare a chi é digiuno da secoli; occorre abituarlo gradualmente. Né si può fare leva sulla sete di ricchezza che in altre parti ha tanta presa sugli uomini. Con i siciliani — afferma La Cavera — bisogna far leva sul senso di giustizia e di dignità. B[...]

[...]re, non si nasconde affatto quanto sia arduo creare una mentalità imprenditoriale tra i siciliani. È come — egli pensa — vo ler dare da mangiare a chi é digiuno da secoli; occorre abituarlo gradualmente. Né si può fare leva sulla sete di ricchezza che in altre parti ha tanta presa sugli uomini. Con i siciliani — afferma La Cavera — bisogna far leva sul senso di giustizia e di dignità. Bisogna ricordarsi che preferiscono restare poveri come sono, piuttosto che essere umiliati da altri. A questo prezzo rinuncerebbero a qualsiasi ricchezza, pur di non vergognarsi di se stessi. Non si deve quindi interpretare l'insufficiente sviluppo industriale della Sicilia come un segno di
154 RENATO MIELI
inferiorità congenita dei siciliani. Chi giudica così sbaglia, e non contribuisce certo a promuovere quello sviluppo della Regione che é nell'interesse anche della nazione.
Ma La Cavera, come si diceva, non si nasconde che, anche a voler usare il metodo più appropriato, l'opera di riforma della mentalità isolana é molto ardua e di lungo respiro. E se[...]

[...] rinuncerebbero a qualsiasi ricchezza, pur di non vergognarsi di se stessi. Non si deve quindi interpretare l'insufficiente sviluppo industriale della Sicilia come un segno di
154 RENATO MIELI
inferiorità congenita dei siciliani. Chi giudica così sbaglia, e non contribuisce certo a promuovere quello sviluppo della Regione che é nell'interesse anche della nazione.
Ma La Cavera, come si diceva, non si nasconde che, anche a voler usare il metodo più appropriato, l'opera di riforma della mentalità isolana é molto ardua e di lungo respiro. E se non riuscisse? Se nonostante tutto l'impegno appassionato e i mezzi impiegati non si riuscisse a formare una classe imprenditoriale siciliana, quale situazione si verrebbe a creare? È inutile nasconderselo: se l'iniziativa privata siciliana non sarà capace di affermarsi, dovrà cedere il posto o a quella « settentrionale » o a quella pubblica, regionale e statale. Non vi é alternativa, fuori di questa.
Qui non si é più nell'ambito del certo, bensì in quello dell'opinabile. La scelta di indirizzo che[...]

[...]ardua e di lungo respiro. E se non riuscisse? Se nonostante tutto l'impegno appassionato e i mezzi impiegati non si riuscisse a formare una classe imprenditoriale siciliana, quale situazione si verrebbe a creare? È inutile nasconderselo: se l'iniziativa privata siciliana non sarà capace di affermarsi, dovrà cedere il posto o a quella « settentrionale » o a quella pubblica, regionale e statale. Non vi é alternativa, fuori di questa.
Qui non si é più nell'ambito del certo, bensì in quello dell'opinabile. La scelta di indirizzo che la classe dirigente siciliana è chiamata a compiere non si basa unicamente su un calcolo razionale dei vantaggi e degli inconvenienti prevedibili. Molti altri fattori intervengono nella determinazione di tale scelta; fattori che hanno un'importanza decisiva, anche se sfuggono ad una precisa identificazione da parte di chi é estraneo alla mentalità ambientale, e forse degli stessi siciliani. Sarebbe interessante cercare di comprendere i motivi che dall'esterno sembrano imponderabili ed hanno invece tanto peso all[...]

[...]o alla mente per analogia con il comportamento di paesi di antica civiltà che si accingono a superare oggi la loro arretratezza economica. E vien fatto di pensare che il valore che si attribuisce al superamento della povertà sia diverso da quello che si attribuisce al passo successivo, ossia alla creazione di una relativa agiatezza. Per chi deve vincere la fame, non c'è prezzo di sacrifici che sia troppo alto, ma al tempo stesso non c'è rinuncia più difficile di quella delle risorse morali di dignità e di speranza, che sono l'unico bene rimasto. L'esasperazione del sentimento nazionale o autonomistico in zone economicamente sottosviluppate non é che la testimonianza di questa difesa di un valore insostituibile per chi non ha altro nella vita. Non è quindi inspiegabile, anche se può sembrare sorprendente, che tanta carica di istintiva idealità e di fierezza si accumuli proprio nelle aree depresse. Né deve sembrarci illogico che i siciliani possano mettere nei loro calcoli di ciò che deve farsi per il progresso dell'isola una forte dose di[...]

[...]TATA EVOLUZIONE DELLA SICILIA 175
dersi conto della complessità del problema, nella viva concretezza dei suoi termini attuali.
* * *
Su un punto, credo, le idee sono chiare per tutti. La Sicilia deve industrializzarsi se vuole risolvere il suo problema di fondo, che è quello di dar lavoro alla massa di inoccupati e disoccupati e di elevare il reddito medio ad un livello per lo meno doppio di quello attuale. Ora, per industrializzarsi nel modo più rapido ed efficace, non vi è miglior strumento a sua disposizione della Sofis. Questa Società, se riuscisse a utilizzare al massimo le risorse di cui è dotata, potrebbe mobilitare un capitale considerevole in investimenti industriali, ai quali parteciperebbe, come si è detto, con una quota anche superiore al 25%. Se, tanto per fare un'ipotesi, la Sofis promuovesse un'attività industriale, impiegando tutte le sue disponibilità in imprese ove partecipasse in media con un 50% del capitale si avrebbe un investimento complessivo che si aggirerebbe attorno ai 280 milioni. Sulla base di quanto risul[...]

[...]ssa rappresenti potenzialmente la chiave per la soluzione del problema della massima occupazione in Sicilia. E questo è sentito da tutti.
Ma, per tornare a ciò che non può misurarsi con dati statistici, bisogna riconoscere a questo punto, che il funzionamento della Sofis dipenderà in larga misura dai criteri e dai metodi dei suoi dirigenti. E qui il discorso si sposta necessariamente dall'economia alla politica. Il calcolo di ciò che può essere più utile, qui deve cedere il posto al calcolo di chi può ricavarne un maggior utile. Entrano in giuoco interessi di gruppi, siciliani e non siciliani, che non consentono più di ragionare in astratto per il bene dell'isola. Nella classe dirigente regionale vi é una
156 RENATO MIEL!
divisione di opinioni e convergenza occasionale di interessi, che presenta un'immagine confusa, contraddittoria e quasi incomprensibile di quella società in evoluzione.
Cercare di spiegarsi che cosa sia il c milazzismo », non è semplice. Come fenomeno politico si può pensare che all'origine del movimento ci sia stato l'impulso a formare un secondo partito cattolico, piú sensibile alle esigenze locali e capace di sostituirsi, a breve scadenza, a quei partiti di destra, instabili e in[...]

[...] bene dell'isola. Nella classe dirigente regionale vi é una
156 RENATO MIEL!
divisione di opinioni e convergenza occasionale di interessi, che presenta un'immagine confusa, contraddittoria e quasi incomprensibile di quella società in evoluzione.
Cercare di spiegarsi che cosa sia il c milazzismo », non è semplice. Come fenomeno politico si può pensare che all'origine del movimento ci sia stato l'impulso a formare un secondo partito cattolico, piú sensibile alle esigenze locali e capace di sostituirsi, a breve scadenza, a quei partiti di destra, instabili e incoerenti come il loro elettorato. Un'idea del genere poteva incontrare all'inizio il favore di alcuni settori della gerarchia ecclesiastica, preoccupati del vuoto a destra che esiste nello schieramento politico italiano e ansiose di collaudare in Sicilia una nuova formula.
A questo si sommava una sollecitazione di altra natura. Il momento dell'industrializzazione, giunto al punto critico, diventava il momento dell'autonomia. Per le forze economiche siciliane che avevano avuto nel[...]

[...]occupati del vuoto a destra che esiste nello schieramento politico italiano e ansiose di collaudare in Sicilia una nuova formula.
A questo si sommava una sollecitazione di altra natura. Il momento dell'industrializzazione, giunto al punto critico, diventava il momento dell'autonomia. Per le forze economiche siciliane che avevano avuto nel passato una posizione dominante e si vedevano inesorabilmente scalzate e soppiantate da rivali esterni, ben più potenti, era venuta l'ora di muoversi per impedire l'insidioso processo di infiltrazione o di rassegnarsi ad essere, prima o poi, eliminate. Allarmate e umiliate dalla espansione della grande industria settentrionale e convinte di non poter contrapporre ad essa una resistenza basata sull'iniziativa privata locale, intravvidero una sola possibilità di arginarla: quella di trincerarsi dietro l'autonomia per proteggere in qualche modo la formazione di un'industria siciliana. Per esse la Sofis si configurò subito come uno strumento necessario per formare e rinvigorire una e destra economica » reg[...]

[...] a forze di sinistra per realizzare, con mezzi politici, la diga protettiva dell'autonomismo, al riparo della quale pensavano di ricostruire le loro vacillanti posizioni.
Sotto questa duplice spinta, politica ed economica, il milazzismo
LA CONTRASTATA EVOLUZIONE DELLA SICILIA 157
si é presentato per un certo verso come una nuova incarnazione di una destra siciliana, che si era andata sgretolando e consumando negli ultimi anni: un'incarnazione più sveglia e dinamica, capace di utilizzare il suo atavico qualunquismo per sviluppare una politica spregiudicata nei metodi ma tenace nei fini.
Si é detto che la politica di questa destra era obbiettivamente di sinistra. Vero fino a un certo punto. Nella fase iniziale di convergenza autonomistica, il movimento di Milazzo può aver reso un prezioso servizio al P.C.I. e al P.S.I., in quanto ha impedito il ricostruirsi in Sicilia di una maggioranza dominata dalla D.C. e, di riflesso sul piano nazionale, ha alimentato la crisi della formula Segni. Ma per quanto si riferisce allo sviluppo dell'econo[...]

[...]ire che vi sia mai stata una vera identità di obbiettivi fra le due ali su cui si reggeva il governo Milazzo. Al contrario, vi è sempre stato un inconciliabile contrasto. E ancor oggi, quel contrasto perdura: la partita, chiusa con la fine dell'esperimento Milazzo, rimane aperta all'interno della Sofis. Può darsi che, in tema di utilizzazione di questo strumento di sviluppo industriale, prevalgano le tendenze privatistiche, che avrebbero il loro più forte assertore nel Presidente della Società, Bianco; o quelle pubblicistiche, che farebbero capo al Direttore, La Cavera. Può anche darsi che, neutralizzandosi a vicenda, le due tendenze finiscano per paralizzare la Società Finanziaria siciliana, condannandola a un'azione spicciola, disordinata e inconcludente. E ancora troppo presto per fare previsioni, anche se sono già trascorsi tanti mesi dalla nomina dei due dirigenti; é sempre troppo presto per pronunciare un giudizio definitivo su una questione in cui si scontrano interessi e personalità siciliane.
Per il Partito Comunista la via da [...]

[...]asse imprenditoriale, aveva scelto l'alleanza con le sinistre per sopravvivere e riformarsi, i comunisti non potevano che incoraggiarlo e sostenerlo. Di pericoli vi era uno solo da temere: che queste formazioni fossero incapaci di fare sul serio. Non è facile sradicare dalla mente di uomini, abituati ad amministrare con criteri di altri tempi, certe deformazioni in cui si rispecchia la loro refrattarietà al progresso sia economico che sociale. E più facile, a furia di compromessi, lasciarsi contaminare dal clima di pressapochismo e di clientelismo, che si instaura dove
158 RENATO MIELI.
non c'è una volontà produttivistica seria. E il pericolo maggiore era di venir coinvolti in una gestione irresponsabile della cosa pubblica; o,
per parlar di cose più concrete, di permettere che i miliardi, di cui può
disporre la Regione e più particolarmente la Sofis, finissero per essere dissipati in opere di beneficenza a fine politico o in spese improduttive.
Ciò sarebbe stato un disastro non solo per l'isola ma anche per coloro
che si sono addossati il compito di liberarla dalla sua dolorosa arretratezza. Per il P.C.I. era necessario che l'esperimento Milazzo avesse esi
to positivo; ed era necessario che lo avesse avuto al più presto. Altrimenti le speranze suscitate dal risveglio autonomistico si sarebbero tradotte in amaro e sfiduciato risentimento.
Per il P.S.I. il problema era ancor più delicato. Avendo appoggiato, sia pur con qualche riserva ed esitazione, l'esperimento Milazzo, i socialisti comprendevano che non avrebbero potuto sottrarsi alle conseguenze di un eventuale insuccesso. Anch'essi, per la partecipazione indiretta al potere, si sentivano impegnati ad impedire il fallimento di un tentativo di progresso accelerato sul piano regionale. Per il P.S.I. che è, in campo nazionale, assertore dell'alternativa democratica, si poneva, però, l'imbarazzante dilemma se considerare o no la formula siciliana come una esemplificazione della prospettiva additata al paese. La polit[...]

[...]nsiderare o no la formula siciliana come una esemplificazione della prospettiva additata al paese. La politica di Milazzo — ci si chiedeva — era quella che si sarebbe voluto riprodurre al livello del governo nazionale? Palermo sarebbe dunque stato un banco di prova per ciò che si sarebbe dovuto ritentare a Roma. Ma il P.S.I. ha sempre esitato a considerarlo tale e non si è fidato di dare quell'esperimento a modello per il resto del paese.
Ancor più impacciata e preoccupata è stata la D.C. La frazione che
da essa si era distaccata per dar vita al movimento di Milazzo non era
quella che aveva dimostrato in precedenza di avere una propensione
per l'apertura a sinistra. Al contrario era sostanzialmente l'ala conser
vatrice del partito, allarmata dai propositi e soprattutto dai metodi di Fanfani e dei fanfaniani. Andandosene, quella frazione spostò l'equilibrio interno della DC. siciliana, che si venne a trovare cosí su posizioni più vicine a quelle dei partiti di sinistra, anche per effetto del contraccolpo subito e della preoccupazione[...]

[...] La frazione che
da essa si era distaccata per dar vita al movimento di Milazzo non era
quella che aveva dimostrato in precedenza di avere una propensione
per l'apertura a sinistra. Al contrario era sostanzialmente l'ala conser
vatrice del partito, allarmata dai propositi e soprattutto dai metodi di Fanfani e dei fanfaniani. Andandosene, quella frazione spostò l'equilibrio interno della DC. siciliana, che si venne a trovare cosí su posizioni più vicine a quelle dei partiti di sinistra, anche per effetto del contraccolpo subito e della preoccupazione di non restare tagliata fuori dal nuovo clima diffusosi nell'isola. Ne é derivata una situazione contraddittoria. La D.C. siciliana, diventata suo malgrado opposizione di destra ha continuato a professare idee più avanzate di quelle di una parte della. maggioranza formatasi attorno a Milazzo. In tema di industrializzazione, per esempio, si é arrivati a uno stato di cose veramente parados
LA CONTRASTATA EVOLUZIONE DELLA SICILIA 159
sale: l'impostazione suggerita dai fanfaniani era piú vicina a quella dei socialisti di quanto non lo fosse l'impostazione di una parte dei milazziani. Il pensiero di Lanza, La Loggia, Carollo, Lo Magro era in sostanza questo: poiché l'iniziativa privata dimostra di aver esaurito il suo interesse per nuovi investimenti in Sicilia, tocca ora a quella pubblica farsi avanti per colmare il vuoto che resta. Tocca, cioè, alle aziende di Stato, come quelle del gruppo E.N.I. e a quelle regionali, che dovrebbero sorgere ad opera della Sofis, farsi avanti con un piano organico di investimenti, ben studiato ed energicamente attuato.
Se si dovessero prende[...]

[...]tivo e associativo. Con assoluta sincerità dobbiamo rispondere che non crediamo ad un vero progresso che non sia una riforma del modo di pensare oltre che di vivere. Senza impazienze, che sarebbero ingiustificate, ma senza indulgenze, che sarebbero insidiose, i siciliani debbono rendersi conto che c'è qualcosa da cambiare nel loro costume politico, e che in una civiltà moderna le idee chiare, i programmi realistici e il gusto dell'onestà valgono più dei personalismi, polivalenti e adattabili alle circostanze del momento.
Una delle prime verità che i siciliani debbono a se stessi é di riconoscere che il fine da proporsi non è quello di distribuire l'attuale scarsa disponibilità di beni, ma di incrementare al più presto e al massimo la produzione. L'obbiettivoo per dirla in termini espliciti, è il lavoro. E il lavoro significa fatica, impegno, disciplina e sacrificio prima ancora di significare migliori condizioni di vita. E una legge di natura : bisogna produrre di più per poter consumare di piú. Non basta eliminare le
LA CONTRASTATA EVOLUZIONE DELLA SICILIA 161
ingiustizie di una struttura sociale che ha fatto il suo tempo. E necessario, si, liberare la società dalle strozzature che ne impediscono il progresso; ma non è sufficiente, se, compiuto questo passo, non si va avanti verso un aumento costante della produzione fino ad elevare il reddito regionale ad un livello degno di un paese civile.
Non é certo la volontà di lavorare, né l'intelligenza che mancano al popolo siciliano. È mancata purtroppo e continua a mancare per molti la possibilità di impiegarle. Spetta alla classe dirigente dimostrare oggi di essere capace di porre termine a questa dolorosa situazione. L'autonomia investe oggi la Sicilia di una responsabilità diretta. Ma la classe dirigente deve stare attenta a non cedere alla tentazione di una faciloneria che potrebb[...]

[...]eto di progresso. Ora è venuto il momento di lasciare da parte i miti e di cercare nella realtà siciliana gli elementi di una maggioranza omogenea, che voglia sul seriosuperare l'arretratezza economica e sociale dell'isola. Questa maggioranza c'è nella popolazione e, pur con tutte le riserve, nella sua classe dirigente; occorre avere l'onestà di individuarla e la capacità di ricomporla sulla base di un programma che non consenta equivoci. Non è
più tempo da surrogati. RENATO MIELI



da Vasco Pratolini, Firenze, marzo del ventuno in KBD-Periodici: Nuovi Argomenti 1960 - 1 - 1 - numero 42

Brano: [...]ittature, le oligarchie, come le dominazioni. Venuti a patti con la Chiesa, garantitesi questa complicità e questa innocenza, rispettati i diritti della Fede, i Tiranni i Signori gli Usurpatori, sembra sian riusciti a distruggere, di coteste lotte, perfino la tradizione orale. Se di tali cronache si giovasse la storia, il volto d'Italia apparirebbe mutato. Ma é pur questo, mascherato, il volto dell'Italia. E il segreto della sua forza, percui il più ignorante e sprovveduto degli italiani non si sente ma é cittadino del mondo, consiste nella capacità del suo popolo di ricominciare sempre daccapo. Firenze é il centro millenario ed esemplare di queste continue insurrezioni tramutatesi in sconfitte delle classi popolari. Dai Ciompi alla gente del Pignone, é diversa la mentalità, i mezzi d'attacco e di repressione, son diversi i costumi, le cognizioni, le iniziative, come identici i resultati. A una sommossa corrisponde un Michele Lando e c'è un Salvestro dei Medici che gli tiene le redini sul collo, lo guida, lo scatena e lo trattiene a seco[...]

[...]e labbra hanno lo stesso sapore. E il suo stendardo, quel giglio rosso in campo bianco, non è una stigmate sulla sua coscienza immacolata. E il gonfalone della sua città e della sua fantasia, che di un grumo di sangue ne fa un fiore e lo circonda di silenzio.
Firenze, nel medio evo, arrivava all'altezza di San Frediano; e i ponti, sull'Arno che l'attraversava, sono ancora quelli: dal Cin
2 VASCO PRATOLINI
quecento ad oggi, nessuna piena li ha più potuti sradicare. Ce n'è quattro in un chilometro; tutto il mondo .li conosce e li ammira.
Il primo, e il più a nord, é il ponte alle Grazie. Era il 1238 quando Rubaconte da Mandell°, milanese e Podestà dei Fiorentini, presenziò l'inaugurazione. Fu anche il primo ponte in muratura; perciò da allora non ha mai tentennato. Sulle sue pigne, come su quelle di Ponte Vecchio, si eressero delle piccole case dove, invece di botteghe, vi si aprirono oratori. Questo. ponte prese il nome dal suo padrino, fino al giorno in cui un'immagine sacra non incominciò ad elargire delle grazie, dentro quegli oratori.
Risalendo il corso del fiume, ponte Vecchio é il secondo, e il più antico. Lo gettarono i padri etruschi;[...]

[...], presenziò l'inaugurazione. Fu anche il primo ponte in muratura; perciò da allora non ha mai tentennato. Sulle sue pigne, come su quelle di Ponte Vecchio, si eressero delle piccole case dove, invece di botteghe, vi si aprirono oratori. Questo. ponte prese il nome dal suo padrino, fino al giorno in cui un'immagine sacra non incominciò ad elargire delle grazie, dentro quegli oratori.
Risalendo il corso del fiume, ponte Vecchio é il secondo, e il più antico. Lo gettarono i padri etruschi; poi, nell'età di Cesare, la Colonia Florentia venne ad affondarvi le sue radici. Così come appare, lo ideò Taddeo Gaddi, dicono, ma il Longhi lo nega, dopo che la gran piena del Tre Tre Tre una volta di più lo aveva scancellato, portandosi come relitti d'un naufragio i legni della sua armatura. Già da un secolo prima, in un'altra notte e di agguati e di fazioni, su quelle tavole, Buondelmonte ci aveva lasciato la vita.
Il terzo é ponte a Santa Trinita, costruito a spese dei Frescobaldi che in quel punto del fiume, ma di là, avevano le loro case. Crollò sei volte, e sei volte lo si rimise in piedi, dopo che fra Sisto e fra Ristoro domenicani l'ebbero progettato, come per dar tempo, diciamo, all'Ammannati, di rilanciare sulle acque dell'Arno il più bel ponte che mai fiume al mondo abbia lambito. [...]

[...]n secolo prima, in un'altra notte e di agguati e di fazioni, su quelle tavole, Buondelmonte ci aveva lasciato la vita.
Il terzo é ponte a Santa Trinita, costruito a spese dei Frescobaldi che in quel punto del fiume, ma di là, avevano le loro case. Crollò sei volte, e sei volte lo si rimise in piedi, dopo che fra Sisto e fra Ristoro domenicani l'ebbero progettato, come per dar tempo, diciamo, all'Ammannati, di rilanciare sulle acque dell'Arno il più bel ponte che mai fiume al mondo abbia lambito.
L'ultimo è il ponte alla Carraja. Lo stesso Ammannati disegnò la sua struttura, e senza i suggerimenti di Michelangelo, se ci sono stati, come per Santa Trinita. In origine, ancora nel secolo XIII, lo chiamavano ponte Nuovo: per distinguerlo dal Vecchio, é naturale. Se l'erano pagati gli Umiliati d'Ognissanti, bisognosi di uno scalo per le stoffe che uscivano dal loro convento, situato dirimpetto al fiume e alla porta Carrìa. Costi, essendo il ponte che incontravano per primo, facevano capo i carri provenienti dal contado, nel tempo in cui il p[...]

[...]se ci sono stati, come per Santa Trinita. In origine, ancora nel secolo XIII, lo chiamavano ponte Nuovo: per distinguerlo dal Vecchio, é naturale. Se l'erano pagati gli Umiliati d'Ognissanti, bisognosi di uno scalo per le stoffe che uscivano dal loro convento, situato dirimpetto al fiume e alla porta Carrìa. Costi, essendo il ponte che incontravano per primo, facevano capo i carri provenienti dal contado, nel tempo in cui il porto di Firenze era più a valle, ed una grossa pigna di pietra, che i fiorentini digià chiamavano il pignone, serviva all'attracco dei barconi.
Questa era la città e i suoi ponti nel giro della terza cerchia;
FIRENZE, MARZO DEL VENTUNO 3
e qui, ora cosa c'è di cambiato ? La natura del fiorentino, no. Il suo spirito non l'hanno ammorbidito né le tarde Signorie né i Granducati. Ma sempre si conquista qualcosa, che si è pagato sempre troppo caro. È per questo che ogni volta c'é qualcosa di cambiato.
Firenze medesima, al di là della sua terza cerchia, non può non essere mutata. Essa non si é estesa soltanto nei suoi[...]

[...]za, davanti alle botteghe, e alla Casa del Popolo appena devastata, col cuore in gola e il sangue avvelenato. I comignoli
6 VASCO PRATOLINI
della Fonderia fumavano; i panni dei tintori erano stesi ad asciugare, l'Arno andava lento e grosso per via delle piene di prima vera. Erano le sette di sera e il sole tramontava tutto fuoco, basso sul fiume e dietro le Cascine; avvolgeva di un riflesso accecante il ponte Sospeso, e sembrava renderlo anche più aereo, isolato nel vuoto: la luce era come se incorporasse nelle strutture i cavi che descrivendo una mezza ellissi, lo trattenevano da pilone a pilone
e dall'una all'altra riva.
Il ponte era deserto: e l'uomo a cui si pagava il pedaggio, chiuso nel suo casotto di legno come dentro una garritta, sporgeva la testa e scrutava ai due orizzonti. Gli sembrava assurdo che, alle sette di sera, non un'anima attraversasse il ponte. « Non s'é mai dato », si disse. C'era troppo silenzio, troppa calma, come un istante prima che batta il terremoto. « Stasera » egli pensò « E brinata ». Era un uomo di se[...]

[...]l'altra riva.
Il ponte era deserto: e l'uomo a cui si pagava il pedaggio, chiuso nel suo casotto di legno come dentro una garritta, sporgeva la testa e scrutava ai due orizzonti. Gli sembrava assurdo che, alle sette di sera, non un'anima attraversasse il ponte. « Non s'é mai dato », si disse. C'era troppo silenzio, troppa calma, come un istante prima che batta il terremoto. « Stasera » egli pensò « E brinata ». Era un uomo di sessant'anni, e da più di trenta stava al capo di Ponte; nemmeno le guerre erano state capaci di rimuoverlo. Egli non era dei loro, ma la gente del Pignone la conosceva. Da un secolo, poteva dire; giorno per giorno l'aveva vista attraversare il Ponte, col bel tempo e sotto il temporale, quando c'era il solleone
e quando tirava la tramontana. E quelli del Pignone conoscevano lui, e i due centesimi un tempo, poi i soldini, che dalle loro tasche erano finiti nelle sue mani. « Bona, Masi » gli dicevano. « Ci fai passare a scapaccione? ». «Sicuro, come se il ponte fosse mio », egli invariabilmente rispondeva: e ancora [...]

[...]se fosse un cane, per mettergli paura: «Pulsa via! ». Se non usciva dalla garritta, lo appestavano di fumo. Oppure veni
8 VASCO PRATOLINI
vano appiedati: « È tornato a casa il tale ? L'hai visto passare ? ». Dapprincipio aveva risposto: «Non lo conosco, ci passa tanta gente, non so chi sia ». Ora, dopo che anche a lui avevano promesso mazzolate : « Mi pare di si, mi pare di no » rispondeva. « Non sono sicuro ». Ma giorno per giorno, ormai, era più le volte che gli diceva la verità, di quelle che gli mentiva. E loro del Pignone, gli promettevano le stesse mazzolate; i ragazzi gli buttavano i rospi dentro lo sportello, i vecchi gli dicevano: « Vergógnati », e vecchi com'erano, anche piú di lui, lo minacciavano col bastone. Le donne gli versavano il soldino: « Come va signor Soffioni? ». Poi sputavano per terra e ci fregavano sopra col piede, le cimbardose.
I due carabinieri andavano su e giú, meglio lasciarli fare. Dalla parte delle Cascine, come ogni sera, c'erano quelle balie e quelle madri, non certo del Pignone, coi ragazzi per la mano, che spingevano la carrozzina. Sull'Arno, e lontano, il traghetto dell'Isolotto, un renaiolo sul barcone. Anche sull'Arno, era come non ci fosse nessuno; o per via del riflesso, non si vedeva. Il fiume scorreva con un certo moto; era cala[...]

[...]perché lui si peritava di guardare, non perché essi nascondessero la faccia. Non li guardava, ma li avrebbe potuti riconoscere, anche loro, uno per uno. Tutti dei ragazzi, comunque, che avevano fatto appena in tempo ad assaggiare la trincea; e si vedeva, non nascevano dal nulla. Del resto, nessuno glielo comandava, di andare a bastonar la gente, a purgarla, a buttare all'aria le Case del Popolo. Se rischiavano, come rischiavano, era per qualcosa più forte di loro, dovevano credere di far bene. E perché erano dei fegatacci e gli piaceva intimorire la gente. Forse, in guerra, erano stati negli Arditi. Andavano e tornavano cantando. Quando stavano zitti, non erano sui camion, erano in meno e venivano a due o tre per volta, a piedi o con un'automobile; allora succedeva qualcosa di grosso, che dopo, a stento si riusciva a sapere. Da queste spedizioni, che chiamavano punitive, non tornavano mai a vuoto, mai senza aver usato le mani; e i manganelli che ci tenevano penzoloni. Le rivoltelle le avevano dentro la fascia che gli reggeva la vita. Non[...]

[...]tti, non erano sui camion, erano in meno e venivano a due o tre per volta, a piedi o con un'automobile; allora succedeva qualcosa di grosso, che dopo, a stento si riusciva a sapere. Da queste spedizioni, che chiamavano punitive, non tornavano mai a vuoto, mai senza aver usato le mani; e i manganelli che ci tenevano penzoloni. Le rivoltelle le avevano dentro la fascia che gli reggeva la vita. Non avevano paura di farsi riconoscere; cantavano e il più delle volte erano in divisa. La camicia nera aperta sul petto anche di gennaio; o col collo alto che gli pigliava tutta la gola; i pantaloni da soldato, coi gambali, o con le mollettiere. Chi in calzoni a righe, chi vestito di tutto punto, con la lobbia che davvero pareva un signorino. Pochi portavano il fez, cotesto aggeggio lo inalberavano nei cortei; i più erano, come si dice, a zucca vuota. Così, capelli al vento e manganello tra le mani, avevano messo a sedere San Frediano, facendovi irruzione una sera ogni tanto, quando pareva se ne fossero scordati. Fino alla sera della battaglia, che loro erano una cinquantina e si trovarono di fronte altrettanta gente, molta di più. « Un buscherio ». Gli rovesciarono addosso, dalle finestre, l'olio bollente; la teppa di via San Giovanni, ne prese uno e stava per infilarlo alla cancellata del Tiratoio; un altro "fu messo al muro e sorbottato, le donne gli strizzavano i cordoni". Ci fu un morto, ma tra quelli di San Frediano; e dei feriti. Di queste cose non ci si fa mai un'idea; non le scrivono sul
lo VASCO PRATOLINI
giornale, bisogna saper leggere sotto i titoli dove dicono: una rissa, un litigio, la solita cazzottata in via del Leone. Qualche sera dopo, invece di loro, ma in mezzo qualcuno ce n'era, lo dicono questi [...]

[...]bisogna saper leggere sotto i titoli dove dicono: una rissa, un litigio, la solita cazzottata in via del Leone. Qualche sera dopo, invece di loro, ma in mezzo qualcuno ce n'era, lo dicono questi del Pignone e in San Frediano, venne l'Esercito con l'autoblindo, bloccò via San Giovanni, e circondò piazza Tasso; la Polizia, cosí protetta, fece una retata. Dopotutto, se non al Pignone, chi é in San Frediano che non é schedato ? Tra poco, non importa più essere né ladri né ruffiani; « basta ti bollino per sovversivo ». Pensatela come volete, un ordine ci vuole; sistemato San Frediano, si erano buttati sul Pignone. Un osso un po' più duro.
Come in San Frediano, anche al Pignone abitavano dei fascisti; e mentre in San Frediano erano in diversi, ma quando c'era da bussare si eclissavano, al Pignone, i fascisti si contavano sui diti, e al contrario, erano i più coraggiosi. Essi, guidavano le spedizioni. È così, dove c'é più api c'è più miele. Specie con Folco Malesci. Con l'ingegnere. Avrà avuto venticinque anni, nemmeno; non ancora di leva, era andato al fronte volontario. Era un animo irrequieto; negli ultimi tempi della guerra si era fatto aviatore. Poi era stato a Milano, era stato a Fiume. Era stato anche all'estero, aveva viaggiato. Conosceva Mussolini di persona. Sembra che D'Annunzio gli scrivesse come Garibaldi scriveva a quelli della Mutuo Soccorso. Di più. E dacché era tornato, malgrado avesse preso moglie e avuto svelto svelto due figlioli: « Ora si ripulisce il Pignone », diceva, non aveva altro pensiero. Da poco, lo chiamavano già ingegnere, aveva un'Impresa di costruzioni insieme col cognato; riusciva a tener dietro a cento cose, comprese le donnine, tuttavia non pensava che a questo: « Se il Pignone é la cittadella rossa, la farò saltare ». Suo padre che da sempre aveva la tintoria e durante la guerra l'aveva ingrandita, era ricco, ma più pesce che carne, badava alla sua azienda, ai suoi affari, in queste storie non c'entrava; lo lasciava[...]

[...] moglie e avuto svelto svelto due figlioli: « Ora si ripulisce il Pignone », diceva, non aveva altro pensiero. Da poco, lo chiamavano già ingegnere, aveva un'Impresa di costruzioni insieme col cognato; riusciva a tener dietro a cento cose, comprese le donnine, tuttavia non pensava che a questo: « Se il Pignone é la cittadella rossa, la farò saltare ». Suo padre che da sempre aveva la tintoria e durante la guerra l'aveva ingrandita, era ricco, ma più pesce che carne, badava alla sua azienda, ai suoi affari, in queste storie non c'entrava; lo lasciava fare. Tra quei tintori non mancavano i sovversivi, ma essendo operai di suo padre, l'ingegnere li rispettava. Si seppe che aveva messo incinta la figlia di un capo reparto, ed anche a questo, il padre Malesci, in virtù dei suoi quattrini, aveva posto riparo. Folco continuava per la sua strada, pigliava la gente a tu per tu, gli tirava due schiaffi: « Vai, fila! »
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FIRENZE, MARZO DEL VENTUNO
IJr
gli diceva. E chi si ribellava, questa era la voce, lo aspettava, calato il sole, e lo tuffav[...]

[...]vano piazza pulita. Oppure, certe mattine, all'alba, quegli ortolani, partivano come al solito coi barroccini per andare al mercato; e sparivano: loro, il ciuco, il barroccio e quanta c'era sopra. Era la seconda volta nel giro di due anni che succedeva; la gente del Pignone mormorava il nome dell'ingegnere, i giornali puntavano sulla teppa di San Frediano, e la Polizia, erano passati due anni, non aveva cavato un ragno dal buco. Folco era sempre più spavaldo. Smilzo com'era, sembrava di gomma, gli andava tutto bene. Ma perché presentava la faccia; perciò non si poteva credere che i due ortolani li avesse fatti sparire lui. Nemmeno al Pignone ci credevano sul serio. In un certo modo, lo temevano e lo rispettavano. Una notte che lo avevano aggredito mentre tornava a èasa, sembra con l'intenzione di seppellirlo sotto la spazzatura dell'Isolotto, non si sa come, eppure riuscì a liberarsi, e senza uno sgraffio, senza una lividura. Da allora, era diventato una jena. Aveva cambiato espressione; prima rideva sempre e ora aveva sempre il muso. No[...]

[...]i sparire lui. Nemmeno al Pignone ci credevano sul serio. In un certo modo, lo temevano e lo rispettavano. Una notte che lo avevano aggredito mentre tornava a èasa, sembra con l'intenzione di seppellirlo sotto la spazzatura dell'Isolotto, non si sa come, eppure riuscì a liberarsi, e senza uno sgraffio, senza una lividura. Da allora, era diventato una jena. Aveva cambiato espressione; prima rideva sempre e ora aveva sempre il muso. Non rispettava più nemmeno gli operai di suo padre. Passava con quello dei basettoni e l'altro, il Pomero perché rosso di pelo, uno per fianco, ed era come si aprisse il vuoto davanti a loro. Tuttavia, a fondare il Fascio del Pignone non s'era azzardato. Doveva essere la sua rabbia e la sua pena; era la sola cosa che minacciasse e non si decidesse a fare. E ora, siccome dopo l'ultima spedizione contro la Casa del Popolo, quelli del Pignone non si sa, loro, cosa vogliano fare, Folco gli ha mandato a dire, che verrà una di queste sere, quando va giù il sole e con una squadra, la Disperata o le Fiamme Nere, come t[...]

[...]nsato. Né voialtri, né loraltri, son solo. « Digli che non s'azzardino. Digli che ci andiamo noi a cercarli stasera ». E sembra, ora, che una per una, si siano vuotate le case, di lá dal ponte.
Ecco, il sole è digiá mezzo affogato in Arno, dopo l'Indiano. Come tutte k sere, il cielo é un fuoco, percui ci si vede meno che se fosse mezzanotte. I due carabinieri di guardia al ponte, quelli dalla parte del Pignone, non si distinguono proprio, forse più che il riflesso li coprono i piloni. Ma si vede quella gente che sta ferma sulla piazza.
« Cosa stanno per tramare ? », si domandava il Masi.
Egli era più vecchio di quanto non sembrava; al Pignone lo dovevano capire, invece di star 11 fermi a guardarlo, lontani quant'è lungo il ponte che pareva l'avessero più di sempre e soltanto con lui. Era più vecchio dei suoi sessant'anni e dei suoi capelli bianchi, anche se non aveva bisogno del bastone. Gli premeva il posto che occupava; la pensione o lo sborso che l'Impresa, se non l'Impresa il Comune, gli avrebbe dovuto dare. Non s'augurava venisse cotesta ora, si spaventava a pensare come avrebbe impiegato la giornata, ma non voleva, una volta tolto il pedaggio, ritrovarsi senza mangiare. Lui, e quelle due bestie, poverine! Egli era solo al mondo, abitava sul Prato, la moglie gli era morta: Da quanto? Da sempre, poverina! La sua compagnia erano due tortore che lo aspettavano la sera quando to[...]

[...]rtore che lo aspettavano la sera quando tornava a casa. II mestiere l'aveva reso taciturno; le lunghe ore, i decenni trascorsi dentro il suo stabbiolo, con tutta la gente che gli passava davanti, oh se avesse dovuto dire a tutti buongiorno e buonasera! Rispondeva se lo provocavano, e gli bastava. « Hanno sempre una tale voglia di parlare che mettendo insieme cento battute, in capo al giorno », ne sapeva su
FIRENZE, MARZO DEL VENTUNO 13
di loro più di quanto loro stessi non sapessero l'uno dell'altro, a furia di tener conversazione. Un interrotto monologo riempiva la sua giornata; il suo interlocutore era La Nazione che leggeva da cima a fondo, « con un occhio sullo stampato e un occhio a chi passa e crede non lo veda. A volte son così bischeri che invece di passare dalla corsia, cercano di scavalcare la sbarra piano piano ». E non tanto per risparmiare, quanto per la soddisfazione di buggerare me e l'Impresa di un soldino! ». Egli era amico di tutti, e di nessuno. "Ma chi vi conosce, ma chi siete?". Scontroso e affabile a giorni, secon[...]

[...]izi, si distinguono da quelli degli altri rioni; che a furia di quotarsi, un tanto la settimana, si sono costruita una Casa del Popolo, un'arena per ballarci durante la buona stagione, un pallaio. Una squadra ginnastica, la banda, dei corridori in bicicletta. Tutte queste cose Malesci e i suoi amici, gliel'hanno amareggiate e messe in pericolo. « Sarebbe il meno male » dicono. È che questa folla, questa gente, s'è vista stringere d'assedio, non più solamente in fabbrica, in Fonderia, ma dentro le proprie case. Hanno subito bastonate, intimidazioni; si son visti sparire qualcuno dalle file, senza sapere dove andare a portargli un fiore. E sono dei fiorentini, se ne vantano e non l'hanno mai dimenticato: essi non concepiscono degli avversari; ma amici o nemici. Con l'amico ci si tiene per la mano; al nemico: gli si fa "la masa". O noi o loro. La storia del Quartiere, pur giovane quanto il suo ponte, non occorre risalir lontano, si é sempre fondata su questa legge e queste ragioni. Che sono poi dei concetti elementari. Chiari come l'Arno, [...]

[...]mano; al nemico: gli si fa "la masa". O noi o loro. La storia del Quartiere, pur giovane quanto il suo ponte, non occorre risalir lontano, si é sempre fondata su questa legge e queste ragioni. Che sono poi dei concetti elementari. Chiari come l'Arno, quando é chiaro e in trasparenza si vedono sguizzare le cecoline. Anche le donne vanno in chiesa, e in confessione non hanno nient'altro da raccontare. Ora che ciascuno si sente minacciato, non sono più delle singole persone; hanno fatto cerchio diciamo. Sembra che una parola sia passata da porta a porta, da un davanzale a un finestrino, da un reparto all'altro della Fonderia, di strada in strada, e come una goccia dentro l'alambicco porta a galla i veleni e fa precipitare le buone intenzioni, viceversa, ecco, dopo l'ultima devastazione della Casa del Popolo, si
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sono dati convegno sulla piazza, nelle strade vicine, e aspettano. Non lo sanno nemmeno loro che cosa; ma li aspettano, si vedrà cosa succede. Stanno sugli usci, le donne: le giovani come le anziane; o[...]

[...]onella e via Bronzino, davanti alle botteghe e al caffé, le spalle contro gli stipiti delle porte, contro i muri, anche loro in silenzio. E né le une gli raccomandano di non trascendere, né gli altri di rientrare nelle stanze. Soltanto i ragazzi, che non sono tuttavia sul fiume questa sera, né sugli argini o i prati delle Cascine, ma li, intorno, sulla piazza e nelle strade, gridano scavalcandosi a turno sulla schiena, in un giro tondo che non è più quello che facevano da bambini. Le loro voci sottolineano quel silenzio. E una folla che aspetta; sono cento, duecento persone, quella parte del Pignone in cui più a fondo ha inciso il suo segno e la disperazione e l'ardimento insieme. Chi manca è chiuso dentro le case, e la più parte, aspetta solo che la miccia bruci, per accorrere e potersi dire che la curiosità l'ha avuta vinta sul suo proposito di restarne fuori. Del resto, la stessa folla che ora, così separata in capannelli muti che sembrano voltarsi le spalle, nessuno la controlla o la guida. I suoi Capi, coloro in cui essa ha fiducia, non sono nel Quartiere, stasera. Sono andati dal Prefetto, tutti, per dar più peso alla protesta che intendevano elevare; e siccome il Prefetto non li ha ricevuti, sono andati in Questura: costi li hanno subito fermati senza nemmeno dargli il tempo di ricomporre la salma di Gavagnini. È stata un'ingenuità, ma c'erano preparati, hanno voluto tentare. Questo, piuttosto che disorientarla, ha fatto diventare di pietra la gente del Pignone. Non é un popolo gentile, nodavvero; é capace di commuoversi per nulla: a una parola, a un gesto che lo tocchi nell'intimo del cuore; e per la stessa ragione, ha già pronto il cazzotto. Il suo equilibrio é fatto di intransigenza e di sopportazione, non conosce le mezze misure. « Una cosa di mezzo non é un uomo; e non troverebbe una donna che gli stesse vicino ». L'ingiustizia, o la subiamo o ci si ribella; rassegnarcisi non é possibile.
16 VASCO PRATOLINI
E una folla; e in mezzo ad essa, c'é il buono e il cattivo; no[...]

[...]uore; e per la stessa ragione, ha già pronto il cazzotto. Il suo equilibrio é fatto di intransigenza e di sopportazione, non conosce le mezze misure. « Una cosa di mezzo non é un uomo; e non troverebbe una donna che gli stesse vicino ». L'ingiustizia, o la subiamo o ci si ribella; rassegnarcisi non é possibile.
16 VASCO PRATOLINI
E una folla; e in mezzo ad essa, c'é il buono e il cattivo; non hanno nulla da difendere se non la loro quiete; e i piú, le loro idee di giustizia che non le registra né lo Statuto né il codice dei Tribunali. Non ancora. Anzi, le leggi che ci son ora, e che dovrebbero essere uguali per tutti, non passa giorno che non s'accorgano, una circostanza diventata per loro proverbiale, gli son contrarie. Tanto meno ci hanno qualcosa da. guadagnare. Cotesta attesa non li intimorisce e non li esalta. Sai, quando il cuore é diventato pietra e ne senti il peso? Masticano il mezzo toscano, accendono la sigaretta, sbucciano i due soldi di lupini che hanno comperato; o si aggiustano i capelli dietro la nuca, le camicette sul [...]

[...]E questi e quelle sembrano sfuggirsi anche con gli occhi, guardano davanti fisso, ciascuno di loro, come occupato da un pensiero che è come una parola d'ordine che ciascuno dà a se stesso, non venuta di fuori, non fatta circolare. Ma sua propria, privata. Ed in questo silenzio, in questa immobilità, in questa attesa, è come se si levasse un dialogo, a due e a cento voci, una lamentazione. Un coro.
« Non è possibile, non é vita ».
«Non si tiene più il fiato ».
« Non va mai giù il boccone ».
« Non si dorme la notte ».
« Sembra d'avere il cuore dentro un imbuto ».
« È una disperazione ».
« Da due anni non si sa più quello che pub succedere quando fa buio ».
« Non ci si gode più un sabato sera ».
« E una soperchieria dopo l'altra ».
« Una violenza, e il giorno dopo daccapo ».
« È la seconda volta che devastano la Casa del Popolo ».
« Hanno buttato all'aria ogni bene ».
« Hanno tirato le bombe a mano, avanti d'andar via ».
« Hanno preso il ritratto di Lenin e ci hanno pisciato sopra ». « Hanno bruciato sul ponte le bandiere ».
« Ne hanno mandati altri tre all'ospedale ».
« Ma quest'ultimo delitto, questa volta lo pagano caro ».
FIRENZE, MARZO DEL VENTUNO 17
« Per i padri di famiglia che non sono piú sicuri né sul lavoro
né dentro il loro letto ».
« Per le [...]

[...]opo daccapo ».
« È la seconda volta che devastano la Casa del Popolo ».
« Hanno buttato all'aria ogni bene ».
« Hanno tirato le bombe a mano, avanti d'andar via ».
« Hanno preso il ritratto di Lenin e ci hanno pisciato sopra ». « Hanno bruciato sul ponte le bandiere ».
« Ne hanno mandati altri tre all'ospedale ».
« Ma quest'ultimo delitto, questa volta lo pagano caro ».
FIRENZE, MARZO DEL VENTUNO 17
« Per i padri di famiglia che non sono piú sicuri né sul lavoro
né dentro il loro letto ».
« Per le donne a cui sparano tra le gambe perché si pren
dano paura ».
« Per quelle a cui hanno tentato di fare uno spregio ».
« E per gli usci verniciati con la merda ».
« Per le croci disegnate sui muri ».
« Per i figlioli che si ammalano dallo spavento ».
« Per i vecchi che non hanno piú un capello nero ».
« Per tutte queste case insieme, insomma ».
« E perché non se ne può piú ».
« Non c'è nessuno che li tenga a freno ».
« La legge é tutta dalla parte loro ».
« Mentre per noi, basta si muova un dito, si spalancano le
Murate ».
« Se non la fossa. Come per Spartaco, oggi ».
« Per Spartaco Gavagnini e per tutti quelli morti come lui ».
« E perché chi ci dovrebbe rapresentare non è buono che a
dire: State calmi, non li provocate ».
« Anche loro, via, l'altr'anno, quando si presero le fabbriche,
dettero a vedere d'aver la cacca al culo ».
« Era ogni cosa nostra, si fece una colata che non se ne aveva
memoria ».
« Erano con noi anche i soldati ».
Quando non[...]

[...]gerani ci stavano per figura, ai davanzali. Di fronte ai loro occhi, ma lontano, di lá dal ponte su cui si fissavano i loro sguardi, il gran verde delle Cascine, avvolto nell'incendio del cielo, era un orizzonte tutto nero e di fuoco. Come brucia e scoppietta una pina dopo l'altra, così era brulicante e immobile la loro attesa. E come se coteste pine, d'un tratto, si rivelassero tante bombe a mano, destinate a deflagare. Ma quali fossero le loro più nascoste intenzioni, lo dice il fatto che nessuno di loro era armato. Il dolore che li animava, era la loro corazza. Dai loro cuori pieni di veleno, e di sgomento, di irresolutezza, affioravano ai cervelli, e sembravano paralizzarli, i propositi di vendetta, di uno sterminio al quale soltanto singolarmente, ciascuno nel proprio intimo, si sentivano preparati. Inermi com'erano, la disperazione li accendeva, una gran fiamma che l'odio alimentava. Ora ch'erano folla, ciascuno si sentiva più solo e più deciso. Disarmato ma invulnerabile, aspettava la propria ora, come se il mondo si fosse fermat[...]

[...]e nessuno di loro era armato. Il dolore che li animava, era la loro corazza. Dai loro cuori pieni di veleno, e di sgomento, di irresolutezza, affioravano ai cervelli, e sembravano paralizzarli, i propositi di vendetta, di uno sterminio al quale soltanto singolarmente, ciascuno nel proprio intimo, si sentivano preparati. Inermi com'erano, la disperazione li accendeva, una gran fiamma che l'odio alimentava. Ora ch'erano folla, ciascuno si sentiva più solo e più deciso. Disarmato ma invulnerabile, aspettava la propria ora, come se il mondo si fosse fermato all'improvviso. E di momento in momento, la loro segreta ascoltazione, diventata sempre più un soliloquio.
« Qui é casa nostra e comandiamo noi ».
« È casa nostra e vogliamo vivere in pace ».
« Specie dopo una giornata di lavoro che vuol vedere l'uomo in viso ».
« Davanti alle caldaie ci sono 700 gradi di calore ».
« La fresa basta un nulla e ti porta via la mano ».
« I torni scartano soltanto se batti gli occhi ».
« Al Pignone non ci devono mai più mettere piede ».
« Non ci debbono rovinare i comizi ».
FIRENZE, MARZO DEL VENTUNO 19
« Non ci debbono interrompere sul più bello una festa da
ballo ».
« Che poi gli uomini non hanno più la testa per mettere
su famiglia ».
« Né per fare all'amore ».
Sempre con l'animo sollevato di vederceli tornare segnati ».
« O chiusi alle Murate ».
« Che non ci faccino perdere il lume degli occhi ».
« Perché anche il lupo esce dal bosco ».
«Perché anche un topo ha i denti ».
« Perché anche un coniglio mette fuori gli ugnelli ».
« Perché anche un bambino é capace di ammazzare ».
« Non attraversino il ponte, stasera ».
« Dopo tanti soprusi, Spartaco lo pagan caro ».
« Dopo tante angherie ci si deve far rispettare ».
«Dopo tanti insulti é la volta di dirvi: L'è majala! ».
« Rico[...]

[...]esti forni ».
« Vi si sotterra sotto la spazzatura dell'Isolotto ».
« Vi si impicca noi ai lampioni di via Bronzino ».
« Non passate il ponte, stasera ».
« Malesci non lo passare ».
« Vi salterà il terreno sotto i piedi altrimenti ».
« Vi si dà fuoco come a una torcia della Misericordia ».
« Ce ne avete fatte troppe, ora la dovete abbozzare ».
« Folco, diglielo. E anche tu torna a casa da un'altra parte,
stasera ».
« Non dovete passare più il ponte: né stasera né mai ».
« Per piacere, non lo dovete passare ».
« Se anche voi ci avete una famiglia ».
« Se vi sta a cuore vostra madre ».
« Se ci avete una fidanzata con cui ci fate all'amore ».
« Anche se lei lo sa ed é d'accordo, lo stesso non ci passate
sul ponte Sospeso, stasera, vi va a finir male ».
20 VASCO PRATOLINI
« Se le vostre donne sono a casa o chissà dove, noi siamo qui
e non vi lasciamo passare ».
« Quant'è vero Iddio, per il vostro bene, non lo passate ».
« Scordatevi che esiste il Pignone ».
« Folco dacci retta ».
« Se lo attraversate, trovate noi di qu[...]

[...]ui ci fate all'amore ».
« Anche se lei lo sa ed é d'accordo, lo stesso non ci passate
sul ponte Sospeso, stasera, vi va a finir male ».
20 VASCO PRATOLINI
« Se le vostre donne sono a casa o chissà dove, noi siamo qui
e non vi lasciamo passare ».
« Quant'è vero Iddio, per il vostro bene, non lo passate ».
« Scordatevi che esiste il Pignone ».
« Folco dacci retta ».
« Se lo attraversate, trovate noi di qua che vi aspettiamo ».
« Siamo di più che se si fosse fatta la chiama ».
« E le donne sono più avvelenate di noi ».
« Bolli bolli la pentola si è scoperchiata ».
« Per piacere, stasera non passate il ponte ».
« Malesci tu ci conosci. Tu sei del Pignone, lo sai chi siamo ».
« Se stasera passate il ponte, è la sera che si fa festa finita ».
« Spartaco Gavagnini per noi è più vivo ora di stamattina ».
« Spartaco era l'idea in persona ».
« Era come me e come te, Gava ».
« Era il meglio che si avesse ».
« Era il più intelligente, era il più capace ».
« Era il nostro piccolo Lenin: ti misurava uno schiaffo quan
do glielo dicevi ».
« Mi disse: bisogna far muro e contarsi, sapere con chi si
cammina ».
« Mi disse: Non si è comunisti se non ci si sa sacrificare.
Ma non farci sacrificare; mettere sotto loro, avanti che il piede
ti schiacci il collo ».
« Mi disse: ti piace proprio cotesto muso? Io non lo vorrei per
marito a peso d'oro ».
«Mi disse: com'è cresciuta questa bambina ».
« Noi siamo compagni e amici, lui era soltanto un compagno
ma due volte amico ».
« Aveva due occhi che chiamavano i baci ».
« Aveva due occhi [...]

[...] legato ».
« E per quella che hanno fatta sparire avanti di lui ».
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Il Masi era tornato davanti al suo stabbiolo. « Non mi dice nulla di buono » si ripeteva. Si tirò il berretto sulla fronte per ripararsi dal riflesso del sole, e si portò una mano alla visiera, in modo da poter seguire meglio i movimenti di quella gente del Pignone. Gli era parso che di tanti gruppi se ne fosse formato uno solo; alle finestre delle case era come non ci fosse più nessuno. D'un tratto, senti uno frigolio di freni, si voltò e vide tre automobili e in fila, i fascisti che ne discendevano, che affrontavano i due carabinieri, li disarmavano, gli legavano i polsi dietro la schiena e li spingevano dentro una delle macchine. « O questa ? » egli non ebbe il tempo di chiedersi. Istintivamente si era portato a ridosso del suo stabbiolo; e uno di quei fascisti credé si volesse nascondere. Costui, Masi non lo aveva mai visto, gli poggiò la rivoltella alla bocca dello stomaco, ma subito dalle sue spalle, Folco Malesci gridò: « È un amico, ve l'ho detto, lascialo st[...]

[...]arono come per contarsi. Il Masi li aveva digiá contati. Erano dieci, undici, mancava quello dai basettoni, e un paio erano rimasti accanto alle automobili e per tenere d'occhio i carabinieri che vi si trovavano legati. Soltanto due erano in divisa: il Pomero con la camicia nera dalle maniche rimboccate, i pantaloni da ufficiale, i gambali gialli; e uno basso, dai baffi e dai capelli neri, lo stesso che lo aveva assalito e che sembrava essere il più anziano di tutti, ma anche quello che contava meno. Stava alle spalle di Folco e quasi non si vedeva. Gli altri, erano in borghese, alcuni con la camicia nera sotto la giacca, e chi no, come Folco: elegante secondo il suo solito, si era appena tirato indietro il cappello sulla fronte. Ora avevano incominciato a parlare, con frasi brevi, non trafelate, che nondimeno tradivano la sorpresa e sottolineavano la loro irresolutezza.
« Che si fa ? ».
« Ci hanno tirato un'imboscata ».
« Qualcuno li ha avvisati ».
«Ma siamo stati noi ad avvisarli! Non ci perdiamo in considerazioni ».
FIRENZE, MARZ[...]

[...]oppo larga per lui, invece della camicia nera, portava una maglia scollata. Questo, e come stava in piedi, come si dondolava, rafforzavano l'idea di un marinaio, che fosse li per caso. Aveva il viso abbronzato dei marinai; forse per questo gli occhi sembravano tanto chiari. E una espressione, infine, sulla faccia, non come degli altri dura, risentita, accigliata, ma tranquilla, decisa, percui, non ci si spiega, era, fra tutti, quello che metteva piú paura. Ora reggeva la pistola appoggiandosela sotto il mento, mentre parlava.
Si va avanti », ripeté. « Forza ».
Falco lo fermò, secco e strisciandosi lui la canna del proprio revolver sulla gota: «Non dire bischerate, Tarbé. Non fare il pazzo, tu non hai esperienza di queste cose. Lasciami riflettere da che parte si possono pigliare ».
D'improvviso, come una risposta a queste sue parole, dall'altro capo del ponte si levò una voce d'uomo, grave, tonante: « Non azzardatevi a passare il ponte, inteso? Vi si aspetta da tutte le parti non vi azzardate ».
E subito, come per la fine di una treg[...]

[...]di una tregua, a cotesta voce se ne
24 VASCO PRATOLINI
accompagnarono altre cento, ma urli, grida, che per essere cento diventarono una sola ed unica voce, e se ne perdevano le parole. «Non v'azzardate! Non v'azzardate! D.
C'era stato un movimento, ma la folla non era venuta avanti; si era come rimescolata dentro le proprie grida. Quindi, una sassaiola si era abbattuta a metà del ponte, contro le fiancate, era ricaduta in Arno. Qualche pietra più piccola, o meglio o più fortemente diretta, era rotolata ai piedi dei fascisti. Come una salve. E di nuovo il silenzio; di nuovo quella voce:
« Malesci se ci sei, fatti sentire da cotesti delinquenti. Portali via D.
Ora Falco si era drizzato in tutta la persona, "gli sporgeva la bazza, tanto doveva essere infuriato". Tuttavia era calmo, la rivoltella in mano, si rivolse al Masi, spiaccicato di spalle contro il suo stabbiolo: « Chi è questo? » gli chiese. «Mah », il vecchio disse, un po' balbettava, un po' si dava coraggio: « O non é il Santini? Mi pare, non lo so ». Poi, rivolto ai suoi amici, Falco gli ordinò: « [...]

[...] come una fiumana nera, colorata, agitarsi +a capo del ponte, e come ondulare, trattenuta in se stessa, e contemporaneamente, una figura d'uomo, una figura di donna, un'altra donna un altro uomo, ora pareva un ragazzo, cinque, dieci figure avanzare di qualche metro, prenderlo di mira e rientrare di corsa tra la folla. Dei sassi, dei pillori, gli caddero vicino, uno gli sfiorò la testa ed egli fu costretto a scansarsi, mentre nell'incendio sempre più basso del cielo, da quel gesticolare, gli insulti, gli urli, le grida lo subissavano. Egli alzò la pistola e sparò in aria tre colpi. Subito, i suoi camerati, senza ch'egli avesse gridato « A noi! » lo avevano raggiunto, Tarbé per primo.
FIRENZE, MARZO DEL VENTUNO 25
1
«Non risolvi nulla a minacce. Andiamo avanti. Sono una massa di pecore, non li vedi? ».
Folco lo agguantò al braccio, mentre si muoveva; lo aveva arrestato sullo slancio e gli aveva fatto cadere la rivoltella, perciò Tarbé si era fermato. Raccolse la rivoltella; e gli disse:
«
E tutto qui il tuo coraggio, capitano? ».
«[...]

[...]o momento, come da dietro un gran velo di tulle, di caligine, di bruma, uscendo dall'ombra della piazza dove già era calata la sera, e sbucando sul ponte ancora colpito dai barbagli di sole, la gente del Pignone avanzava lentamente, compatta, unita, si sarebbe detto facendosi catena con le mani. Il ponte era largo cinque metri, ed essa lo riempiva, da questo a quel parapetto, dall'una all'altra grata. Erano un centinaio di persone, forse, o poco più, ma cosí strette, affiancate, parevano un esercito, un'armata. Delle donne stavano nelle prime file.
« Carogne, fermatevi », gridò Folco. Si era messo con un ginocchio a terra, per impugnare meglio la pistola e darsi come un riparo. Gli altri lo avevano imitato. « Un altro passo, e si spara ».
Gli rispose, non più il Santini, non lo si vedeva: erano tutti
26 VASCO PRATOLINI
e nessuno, che si tenevano ammucchiati: ma un urlo di donna:
«
Assassini! ». Si vide un vestito verde agitarsi, e subito venne risucchiato nel gruppo come da uno strattone.
I fascisti ne avevano approfittato per rinculare di qualche passo, e adattarsi in una posizione migliore, sui due lati: Folco, Tarbé e il Pomero davanti; gli altri alle loro spalle e dirimpetto. La folla, come i fascisti si erano fermati, anch'essa si fermi. Su quelle teste si alzavano delle spranghe, dei bastoni. Erano a metà del ponte; e in quel momento il[...]

[...]si, e subito venne risucchiato nel gruppo come da uno strattone.
I fascisti ne avevano approfittato per rinculare di qualche passo, e adattarsi in una posizione migliore, sui due lati: Folco, Tarbé e il Pomero davanti; gli altri alle loro spalle e dirimpetto. La folla, come i fascisti si erano fermati, anch'essa si fermi. Su quelle teste si alzavano delle spranghe, dei bastoni. Erano a metà del ponte; e in quel momento il sole dava gli ultimi e più. forti bagliori.
Qui, parti il primo colpo. Né Folco, né il Pomero, né Tarbé avevano sparato, ma dalle loro spalle, « quello basso, tutto nero come la pece ». In piedi, cercando la mira dentro il mucchio, una ventina di metri distante, e col riflesso che l'accecava, egli sparò due, tre volte ancora. Nella folla si apri un varco; tra urli e grida, essa si divise in due file, e sbandò e si sparse verso la piazza donde era partita. Miracolosamente, la metà del ponte rimase vuota; nessuno sotto quei colpi era caduto. Ora, dall'altro capo del ponte, impugnando i moschetti dei carabinieri, accorre[...]

[...]olpi era caduto. Ora, dall'altro capo del ponte, impugnando i moschetti dei carabinieri, accorrevano i due fascisti rimasti di guardia, e gridavano: « Stanno passando sull'Arno. Ci vogliono aggirare. Guardate, sono sui barconi ».
«Li».
«Li».
«Li».
A un ordine di Folco, la squadra era indietreggiata: protetta dai tralicci del ponte, sparava coi moschetti e i revolver sui barconi. Folco si riparava sul fianco del pilone, quasi accanto al Masi, più che mai spiaccicato contro il suo stabbialo. Il vecchio balbettò, tra l'uno e l'altro scatto dell'otturatore: «Li ho avvistati io, ingegnere. Lora, questi suoi amici, non se n'erano accorti ».
I tre barconi di renaiolo, erano carichi di gente che agitava i pugni e le mazze, facevano manovra per sfuggire alle moschettate e portarsi al largo. Uno fu sul punto di rovesciarsi; si videro tre quattro persone nuotare verso la riva. Anche costi c'erano delle donne; una di esse stava per precipitare, la sua sottana rossa si gonfiava nell'acqua; la ripresero per i capelli e lei lanciò un urlo
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F[...]

[...] gli disse, d'improvviso, accompagnò con due schiaffi, " uno per gota ", le sue parole.
Nessuno si mosse; costui restò come mummificato. Ma subito dopo, fece un passo indietro, la rivoltella in mano: «Toglietevi di mezzo », urlò. « Guarda Malesci, ti fo fare la fine di quello dianzi, sai ? Tieni ».
La rivoltella scattò a vuoto.
« Non c'era nemmeno la pallottola. Le hai tutte sprecate », lo irrise Folco.
« Anch'io », disse il Pomero, « non ho più un colpo ».
28 VASCO PRATOLINI
E i moschetti erano ormai scarichi; i carabinieri si erano portati via le giberne che non gli avevan levato. Gli altri, qualche colpo potevano spararlo ancora e Tarbé, nella tasca, ci aveva, siccome disse, due caricatori.
« Ma anche se tu avessi due ore di fuoco », disse Folco e apri lo sportello di una delle automobili, che gli apparteneva. « Via, si rientra. Li piglieremo un'altra sera. Per stasera abbiamo fatto anche troppo rumore. Sali, e non ti riprovar più a dir certe parole! »
disse a colui che aveva schiaffeggiato.
Il camerata che un momento prima,[...]

[...]erano ormai scarichi; i carabinieri si erano portati via le giberne che non gli avevan levato. Gli altri, qualche colpo potevano spararlo ancora e Tarbé, nella tasca, ci aveva, siccome disse, due caricatori.
« Ma anche se tu avessi due ore di fuoco », disse Folco e apri lo sportello di una delle automobili, che gli apparteneva. « Via, si rientra. Li piglieremo un'altra sera. Per stasera abbiamo fatto anche troppo rumore. Sali, e non ti riprovar più a dir certe parole! »
disse a colui che aveva schiaffeggiato.
Il camerata che un momento prima, con un proiettile in canna, di sicuro l'avrebbe ucciso,` gli ubbidì subito, girò la manovella per avviare il motore, e gli sedé accanto. Già le tre macchine avevano il motore acceso. E il Masi stava sgusciando a sua volta, rasente la spalletta, per raggiungere casa, l'incasso della giornata dentro il sacchetto: l'Impresa, egli pensava, avrebbe considerato le ragioni per cui abbandonava il posto avanti dell'orario.
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Solo, in disparte, era rimasto Tarbé. Il berretto tirato sulla fronte ora, gli[...]

[...]Pignone, non alle Cure, capito ? ».
« Io con mio padre non ho rapporti. Ho fatto cinque anni di marina apposta, senza gradi ».
«E io ho fatto... ».
« Ma scappi ». Guardava Folco con quei suoi occhi che sembravano non vedere, grigi ora, fermi, lo derideva. « Davanti a delle pecore. Se gli fai un bercio, scompaiono. Non l'hai visto dianzi? E tu sei tanto vigliacco, tutti voialtri sareste tanto vigliacchi, da scappare davanti a chi é più vigliacco di voi? Li affronto io solo ».
« Ti sei appena congedato, Tarbé. Questa é la tua prima azione. Non puoi sapere come stanno le cose », disse Folco.
Tarbé sembrò non sentirlo. Sorrise, " ma con la faccia amara che li disprezzava ". Disse:
« Voglio vedere tra voialtri e loro chi ha più paura ».
Cavò di tasca la pistola e avanti che Folco potesse impedirglielo, sparò due colpi in aria. Fece eco, ai due spari, come un tuono. Essi si voltarono: quella gente era ferma a metâ del ponte. Tanti più di prima, davvero una fiumana. Ora, tra i vestiti delle donne, le giacche, le tute, e giâ il cielo si era come di più illimpidito nella sera, spiccava un giovane, quasi un ragazzo pareva, scamiciato e dalla testa bendata. Quindi si udì la voce dell'uomo che aveva parlato sotto il sole e che Folco aveva chiamato Santini. " Ma questo potrebbe essere anche il Bigazzi ", pensò Masi, bloccato ora, dal nuovo spavento, tra la spalletta e il pilone.
« Non ve ne andate, no? Volete ricominciare ? ».
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30 VASCO PRATOLINI
« Badate che siamo alla disperazione », gridò una donna.
E ad essa si accompagnarono l'urlio che riempiva l'aria, il tumultuare della folla a mezzo il ponte[...]

[...]io ».
« Vieni avanti, ingegnere ».
« Belva ».
« Iena ».
« Viva Gavagnini ».
Ora, soltanto Folco e Tarbé li fronteggiavano, in piedi tra pilone e pilone; entrambi avevano in mano le pistole. Alle loro spalle, le automobili dei camerati aumentavano, pronte a partire, i giri del motore.
« Vai, Tarbé, monta, io ti vengo dietro ».
« Sicché, vuoi proprio scappare », Tarbé disse.
Il suo volto era duro e sereno, come di un ragazzo infatti, anche più giovane dei suoi anni, e che della propria caparbietà si é fatto un punto d'impegno, una ragione.
« Ma ti vuoi fare ammazzare ? », sibilò Folco. « Imbecille ». « Non ammazzano nessuno. Se ti vedono deciso sono delle pecore ».
D'un tratto, dietro di loro, due auto erano partite, ciascuna con il suo carico di camerati, alla guida e sopra gli strapuntini. « Dio, che vigliacchi », esclamò Tarbé.
C'era una carica d'odio nella sua voce che per un momento Folco ne restò non intimorito, ma sgomento. Anche il Pomero ora li richiamava; e il camerata tutto pece, colui che aveva sparato per primo, ch[...]

[...] vedono deciso sono delle pecore ».
D'un tratto, dietro di loro, due auto erano partite, ciascuna con il suo carico di camerati, alla guida e sopra gli strapuntini. « Dio, che vigliacchi », esclamò Tarbé.
C'era una carica d'odio nella sua voce che per un momento Folco ne restò non intimorito, ma sgomento. Anche il Pomero ora li richiamava; e il camerata tutto pece, colui che aveva sparato per primo, che Folco aveva schiaffeggiato, e che era il più anziano: «Dai, Tarbé, non fare il bischero sul serio », disse. Piuttosto che un'esortazione, un consiglio, era un allarme e, mentre lo sollecitava a partire, un modo di ricambiargli la sua derisione.
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Liberatosi dalla mano di Folco che lo tratteneva, e impugnando la rivoltella, lui da solo, come aveva detto, Tarbé si era mosso incontro alla folla, aveva superato i piloni, lo stabbialo dove il Masi si faceva pagare il pedaggio, era dieci, venti passi lontano. Lo si vedeva di schiena, la giacca troppo lunga gli ricadeva sulle spalle e sembrava infagottarlo, avanzare lento ma deciso. Folco era rimasto a capo del ponte, pensa[...]

[...] momento disorientata, sembrò esplodere nella sua carica di odio, di disperazione. Ancora trattenendosi compatta, si agitò in un mulinare di gesti, di grida, parve fare eco alle parole di Folco.
« Torna indietro ».
« È meglio per te ».
« Non ti ci provare ».
Erano urli che la rabbia stroncava; minacce che la provocazione di Tarbé rendeva tragicamente ridicole. E digià, inumane. Egli avanzava, puntando la rivoltella contro di loro; e sem
pre più gli si avvicinava. Ora venti, trenta passi li dividevano. Egli si trovava a un terzo del Ponte, nemmeno, e nel punto in cui
i cavi si flettevano per risalire, dopo la meta giusta, verso gli altri piloni e l'altra riva. Il ponte, come una lunghissima cuna, si stendeva, cosí sospeso ed aereo, in quella luce vespertina, oscillando
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appena dove il peso della folla lo gravava e dove più basse, e nella misura d'uomo, erano le grate che lo cintavano.
« Chi sei? Te non ti si conosce, va' via ».
Egli si era fermata, la rivoltella in pugno. Li vedeva distintamente ora, tutti e nessuno nello stesso tempo. Quelle donne che vedeva, quel ragazzo con la testa fasciata e la benda arrossata di sangue, loro che erano nelle prime file, le donne come gli uomini, più la insultavano e più facevano forza con le spalle per trattenere la massa su cui si agitavano le spranghe di ferro, i pugni chiusi, le mazze, i bastoni. Era una folla inferocita, e spaventata,
e vigliacca, lui pensava. Così, lui faceva un passo, ed essa arretrava. Più lo insultavano, più egli muoveva un piede, più andavano indietro, ammucchiati gli uni sugli altri.
Egli sorrideva, stirando le labbra, alzando la rivoltella, come per prendere la mira.
« Sono un fascista. Non vi basta ? E vengo a pigliarvi tutti, da me solo ».
Fece l'atto di puntare la rivoltella; loro non si disunirono ma arretrarono di più questa volta. Si alzarono più intense le imprecazioni e le grida.
« Fuori! », egli intimò. Si portò avanti di un passo ancora,
e agitava la rivoltella. « Tornate a casa, sparite. Io non sono il Malesci, tutti quanti siete non mi fate paura. Sgomberate il ponte
o sparo ».
« Non ti ci provare ». Questo era il ragazzo della benda, piegato in due per trattenere la massa che lo spingeva.
« Ti si brucia vivo », urlò una donna: aveva il grembiule di casa sopra il vestito nero, dei ciuffi grigi le coprivano a metà il viso.
Tarbé si alzò il berretto sulla fronte, e a gambe spalancate, piantato in mezzo al ponte come si trova[...]

[...] trovava, fece il gesto di buttar via la pistola.
« Non ho paura », gridò. " Anche disarmato " non ebbe il tempo di dire.
Nel medesimo istante, forse credendo che Tarbé stesse per sparare, forse con l'intenzione di farlo indietreggiare, o di sal
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targli addosso e batterlo in colluttazione, certo, si poté poi capire, agendo sotto un impulso tutto suo, ma che la folla alle sue spalle non poteva non avergli istigato più della sua ferita, della sua eccitazione, il ragazzo che pochi minuti prima era stato colpito di striscio alla testa dalle rivoltellate del fascista anziano, si gettò su Tarbé come doveva tuffarsi in Arno, ragazzo com'era, dall'alto della pescaja. Lo agguantò alle gambe, lo fece cadere, riuscì a disarmarlo e a gettare la rivoltella al di sopra del ponte, nel fiume. Contemporaneamente Folco vedendo coloro che avevano attraversato il fiume sul barcone risalire l'argine delle Cascine, gli aveva sparato; e d'istinto, per darsi un riparo, era saltato sull'auto, mentre il fascista anziano lanciava l[...]

[...]di sopra del ponte, nel fiume. Contemporaneamente Folco vedendo coloro che avevano attraversato il fiume sul barcone risalire l'argine delle Cascine, gli aveva sparato; e d'istinto, per darsi un riparo, era saltato sull'auto, mentre il fascista anziano lanciava la macchina sul lungarno e verso la città. Da bordo, Folco e il Pomero, continuarono a sparare, finché l'auto non scomparve lontano, dietro una voltata.
Sul ponte, la folla, una volta di più sorpresa dagli spari, subito immaginandosi un'imboscata, e che dei rinforzi fascisti la prendessero dai due lati del ponte, impazzita e dalla rabbia e dal terrore, si era sbandata. Il ragazzo lottava ancora con Tarbé che si liberò di lui, si alzò e di corsa cercò scampo dalla parte delle Cascine. Ma già coloro che erano risaliti dall'argine, un attimo intimoriti dalla sparatoria di Folco e del Pomero, ora imboccavano il ponte; e quelli sbandatisi, tornavano indietro correndo, per cui Tarbé si trovò preso lui ora, e solo, tra i due gruppi della gente del Pignone che gli si avvicinavano. Non pi[...]

[...]a e dal terrore, si era sbandata. Il ragazzo lottava ancora con Tarbé che si liberò di lui, si alzò e di corsa cercò scampo dalla parte delle Cascine. Ma già coloro che erano risaliti dall'argine, un attimo intimoriti dalla sparatoria di Folco e del Pomero, ora imboccavano il ponte; e quelli sbandatisi, tornavano indietro correndo, per cui Tarbé si trovò preso lui ora, e solo, tra i due gruppi della gente del Pignone che gli si avvicinavano. Non più donne o uomini, vecchi, ragazzi, ma esseri al di fuori di se stessi, scatenati.
Egli si mise di spalle contro la grata, il parapetto del fiume gli arrivava all'altezza della vita, alzò le braccia come per arrendersi; ma da una parte e dall'altra, i due gruppi convergevano su di lui, gli furono sopra: ora il suo corpo ondeggiava sulle loro teste e precipitava sotto i loro colpi, i loro pugni, gli sputi, le bastonate. Lo sollevavano e lo lasciavano ricadere, urtandosi, calpestandosi, ammucchiandosi su di lui, e tra loro. " Sembrava impossibile non l'avessero bell'e dilaniato ". No, non ancora.[...]

[...]ia come per arrendersi; ma da una parte e dall'altra, i due gruppi convergevano su di lui, gli furono sopra: ora il suo corpo ondeggiava sulle loro teste e precipitava sotto i loro colpi, i loro pugni, gli sputi, le bastonate. Lo sollevavano e lo lasciavano ricadere, urtandosi, calpestandosi, ammucchiandosi su di lui, e tra loro. " Sembrava impossibile non l'avessero bell'e dilaniato ". No, non ancora. Così ridotto, la faccia insanguinata, senza più giacca, senza più berretto, i capelli come spiaccicati, e la camicia a brandelli, i pantaloni su cui incespicava, " lo si vide spuntare di mezzo alla bu
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riana " e correre davanti a tutti, raggiungere la grata dalla parte più bassa, rovesciarsi sul traliccio, " mezzo sul ponte, mezzo sporto sul fiume, e poi sparire ". Si pensò fosse cascato in Arno, poteva essere la sua fortuna; l'altezza era molta, ma lui era un marinaio, avrebbe nuotato.
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Dopo, tutto ci() che si disse, malgrado le contraddizioni delle diverse testimonianze, ciascuna diversamente interessata, e per la complicità come per le intimidazioni, le omertà, i timori, fu tutto vero. Come nessuno confessò mai di essersi trovato sul ponte, quella sera, così non si riuscì ad identificare nemmeno una ch'è una delle persone che avevano preso parte al lincia[...]

[...]i, mentre si accaniva su di lui che da solo la aveva affrontata, proprio lui era il solo dei suoi nemici che inconsapevolmente essa riscattava.
" Come un fantoccio, invece ", si era girato su di sé, era sci volato fuori dal ponte, e chissà per quale forza disperata, si era. aggrappato ai ferri della grata, poi in quel po' di spazio che c'è tra la grata e l'impiantito del ponte. Casti era di legno, tutto scheggiato, si doveva fare male ma faceva più presa. La folla, vedendoselo sfuggire, non potendo più raggiungerlo se non arram picandosi sul parapetto e di lassù cercare di colpirlo coi bastoni, lo forzava coi piedi. Egli era penzoloni dal ponte: sotto di lui,. nove dieci metri, scorreva il fiume; e si teneva, ormai morto: o per via di un irrigidimento che non corrispondeva a nessuna legge naturale: con le mani disperatamente aggrappato. «Chiamava la mamma; e quelle donne, quegli uomini, forse soltanto un paio,
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forse una diecina, ma come se fossero stati centomila, gli pestavano le mani ». Lo colpivano « coi bastoni sul capo », dall'alto della grata.
Così, pr[...]

[...]
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forse una diecina, ma come se fossero stati centomila, gli pestavano le mani ». Lo colpivano « coi bastoni sul capo », dall'alto della grata.
Così, prima una mano, poi l'altra, centimetro per centimetro, il tempo parve millenni, egli abbandonò l'orlo dei tavolato, e senza un grido, precipitò nel fiume. « Andò giù ritto come si trovava »; l'Arno sembrò aprirsi e rinchiudersi. E la gente, non ancora paga, ma sempre più riducendosi le sue file, corse ai due capi del ponte, discese sugli argini, per vederne la fine. Qualcuno era saltato sui barconi e spingeva sotto al ponte. Per un momento, ed era ormai sera, ci fu un silenzio, questa volta pauroso, ossessionante. Il corpo non era riaffiorato. Già costoro forse si guardavano negli occhi, « gli tornava l'uso della ragione », quando da uno dei barconi sul fiume, si alzò un urlo, un grido:
« Eccolo là! Vuole scappare! ».
Alle ultime luci della sera, sotto il chiarore lunare, si vide, rasente l'argine delle Cascine, apparire il corpo di Tarbé, «morto, certo, ga[...]

[...]arire il corpo di Tarbé, «morto, certo, galleggiava, ma davvero sembrava che nuotasse e intendesse scappare dalla parte dell'Isolotto ». Lo raggiunsero, e quelli che stavano sull'argine, e quelli che si trovavano sul fiume; lo colpirono con le pertiche dai barconi, coi sassi, sulla testa, sul dorso, finché il corpo di Tarbé, « ora nient'altro che la carcassa », affondò lentamente, e per sempre.
Era notte ormai; c'era il chiaro di luna; e rapido più d'ogni altro il Masi, fino allora nascosto tra spalletta e pilone, come in una segreta, scantonò sul lungarno e sul Prato. Carezzava le sue tortore, mentre beccavano le molliche ch'egli aveva sparso sul tavolo; e chiuso nella sua casa, il doppio paletto, la doppia mandata, si domandava: « Domattina, io li bisogna sia. Mi verranno a interrogare. Dimmi tu cosa dovrò dire, dimmi tu cosa gli dovrò inventare? ».
VASCO PRATOLINI



da Raffaele Crivaro, Avventura di un commissario in KBD-Periodici: Nuovi Argomenti 1960 - 9 - 1 - numero 46

Brano: [...]el salotto, ha riempito le coppe, piange e mi stringe un poco il collo; mia madre è seduta in un angolo, taciturna, e mi guarda; Giuseppina, che si è tolta il grembiule e la crestina, è in piedi, é. commossa e non riesce a bere).
Tutto procedeva tranquillamente in casa con mia madre, fra i piatti succulenti che lei mi preparava e i romanzi gialli inglesi che mi compravo, le telefonate ai parenti del povero papà che avrebbero voluto abbracciarmi più spesso, e le serate che passavo nei cinema eleganti, gratis per i biglietti che mi mandavano.
Anche al commissariato dove lavoravo, che è lo stesso nel quale lavoro presentemente, mi trovavo bene; né mi mancavano le lodi dei superiori, i quali avevano capito che mi applicavo con diligenza e che non pensavo a granché d'altro. Qualche volta i sottufficiali zotici mi facevano arrabbiare, ma mi bastava fargli il viso duro per impaurirli: era brava gente.
Avrei potuto essere un uomo contento, se mia madre non avesse cominciato, ad un certo momento, a volermi forzare al matrimonio. E stata questa[...]

[...] bene; né mi mancavano le lodi dei superiori, i quali avevano capito che mi applicavo con diligenza e che non pensavo a granché d'altro. Qualche volta i sottufficiali zotici mi facevano arrabbiare, ma mi bastava fargli il viso duro per impaurirli: era brava gente.
Avrei potuto essere un uomo contento, se mia madre non avesse cominciato, ad un certo momento, a volermi forzare al matrimonio. E stata questa sua ostinazione a farmi uscire di casa.
Più generalmente, debbo dire che la mia situazione presente viene da questo: che mia madre, forse a ragione, non mi riteneva maturo per la vita. Appena mio padre era morto, nonostante io avessi trent'anni, ne aveva subito preso il posto; ma sostituendo alla fermezza ragionevole di lui una sorta di acredine perenne. Io la comprendevo. Sapevo che mi voleva molto bene, e pensavo che quella bruschezza fosse per lei stessa fastidiosa, ma le fosse indispensabile per rivalersi del suo sesso: al fine di condurre bene la famiglia e di sostenere con assiduità me, che aveva
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capito div[...]

[...]nto alla ragazza. Poi finiva svelta la sua tazza e con un pretesto se ne andava.
Io cercavo argomenti; ma finivo sempre, balbettando un po', col parlare di cinematografo. La ragazza trinciava qualche giudizio su questa o quella attrice; poi passava a parlare del suo lavoro, o a farmi domande sul mio, eventualmente sugli omicidi che avessi risolto. Io dicevo che il mio é un mestieraccio, che dovevo sempre sporcarmi con la gentaccia, e che per di più guadagnavo poco. Poi, se mia madre non tornava presto in salotto, con un pretesto mi rifugiavo nella mia stanza; e in questo caso rivedevo la ragazza un attimo nell'ingresso, per salutarla quando se ne andava. Se invece mia madre tornava prima del tempo minimo che dovevo rispettare, mi toccava ballare. Perché mia madre mi diceva « met
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ti un disco », e poi ordinava « suvvia, ballate ». Io ero impacciato, e spesso il mio corpo pesante sbagliava il ritmo; ma la ragazza m'incoraggiava. Qualche volta poggiava la sua guancia alla mia e mi si addossava. Mamma fingeva di non ve[...]

[...] mio corpo pesante sbagliava il ritmo; ma la ragazza m'incoraggiava. Qualche volta poggiava la sua guancia alla mia e mi si addossava. Mamma fingeva di non vedere.
La sera, poi, mi domandava le mie impressioni. Io tacevo, o rispondevo con rade parole, ad abbandonare l'argomento. Giuseppina origliava, nascosta dietro la porta.
In due anni saranno sfilate in casa mia trenta ragazze: alcune una sola volta, altre — quelle che mia madre riteneva le più idonee — più volte. Ma ad un certo punto la ribellione s'è fatta strada in me, e non sono riuscito a reprimerla: sicché vivevo nel timore continuo che la stizza crescente mi facesse esplodere contro mia madre. Il sangue, infatti, adesso mi affluiva copioso alla faccia ogni volta che lei al mattino entrava nella mia stanza, si sedeva sul mio letto e diceva: «Oggi viene a trovarci una ragazza simpaticissima, la figlia di... », e nominava un amico di mio padre. Io dicevo di non ricordarlo, e lei incalzava : « Ma se ti ha tenuto tante volte sulle ginocchia »; oppure: « Ma se ti ha fatto da padrino alla cresim[...]

[...]er le scale. Io al pianterreno, dov'ero frattanto arrivato, ho aperto il cancello dell'ascensore e ho infilato di forza Giuseppina nella cabina, senza dire una parola.
Poi un giorno mia madre me ne ha fatto una grossa. Forse vedendo in pericolo la sua autorità, o imminente la mia rivolta, ha fatto venire a Roma zio Alfonso.
Zio Alfonso, fratello di mio padre, vive a Napoli, é scapolo e lavora in un'industria farmaceutica. Passa come la persona più autorevole della famiglia, certo per l'aspetto serio, ma soprattutto perché la sua passione é l'araldica (ha fatto tante ricerche sulla nostra famiglia e ne parla sempre). E affabile e misurato, ma confida troppo spesso ai parenti il suo pentimento di non essersi sposato.
E entrato nella mia stanza con un sorriso commosso e mi ha abbracciato. Poi mi ha detto che era venuto a Roma per alcune ricerche araldiche da compiere in Vaticano: si trattava di giustificare un «attacco» che ad un suo amico stava molto a cuore, a Napoli non gli sarebbe stato possibile. Ha continuato parlandomi del suo lav[...]

[...] sposato.
E entrato nella mia stanza con un sorriso commosso e mi ha abbracciato. Poi mi ha detto che era venuto a Roma per alcune ricerche araldiche da compiere in Vaticano: si trattava di giustificare un «attacco» che ad un suo amico stava molto a cuore, a Napoli non gli sarebbe stato possibile. Ha continuato parlandomi del suo lavoro in fabbrica,
AVVENTURA DI UN COMMISSARIO 113
poi mi ha detto che avrei fatto bene ad interessarmi un po' di più del mio nome. « Tu che hai tempo » ha sussurrato, « faresti bene ad insistere nel distinguerti partendo proprio dall'araldica ».
Io ho tenuto a precisargli che la mia libertà è una favola. Mi è venuto naturale di alzare la voce. « Siccome dopo la laurea sono stato quattro anni senza lavorare » gli ho detto sulla faccia, «tutti mi credono un perdigiorno, un dilettante che si diverte a fare lo spauracchio dei ladri. Invece passo almeno dieci ore del giorno in ufficio ».
« Statti queto, Nicò » ha detto lo zio. « Chi la mette in dubbio, la tua diligenza? ». Ha arrotondato le labbra, e mi ha gua[...]

[...]affetto. Richiudendo la porta mi sono tornati tanti pomeriggi di festa lontani: mi portavano in giro per le case dei parenti, zio Alfonso era quello che m'incuteva la soggezione maggiore, fumava sempre ed aveva tutte le dita marroni per la nicotina.
Ho respinto ricordo e dolcezza e sono andato in cucina per redarguire mia madre. L'ho trovata che preparava un dolce con Giuseppina.
« Così non può andare, mamma » ho detto. « Adesso non ti bastano più le ragazze, adesso mi cacci in casa anche i parenti».
Mia madre non mi ha risposto; ha tratto dalla tasca un fazzoletto e si è messa a piangere. Giuseppina è andata via.
Io sono uscito e sono andato in ufficio, e quella sera ho conosciuto Wanda.
La stava interrogando il maresciallo Porzio, intorno ad una rissa assai violenta che era scoppiata la mattina su un tram. Io ero entrato da lui perché mi pareva di aver dimenticato un'agenda sul suo tavolo, e il grande corpo di Wanda mi aveva subito impressionato. Lei aveva volto di scatto il capo verso di me, e mi aveva guardato con diffidenza.
S[...]

[...]he chiunque al posto del fidanzato avrebbe reagito, anche il maresciallo. Porzio non ha risposto. Lei si è calmata, ha cavato dalla borsa uno specchio, si è guardata e mi ha sorriso. Dopo di avere firmato, ha cavato di nuovo dalla borsa lo specchio, e anche un pettine.
AVVENTURA DI UN COMMISSARIO 115
Porzio ha avuto un momento d'imbarazzo: non sapeva se poteva permetterle di rassettarsi in mia presenza. Mentre si pettinava, Wanda mi ha sorriso più largamente che prima, e mi ha mandato uno sguardo lungo con gli occhi neri bellissimi. Poi si é alzata e ha detto « la prima volta che capita in un commissariato ». In piedi era goffa, e parlava impacciata. Pareva vergognarsi delle forme abbondanti.
L'ho accompagnata alla porta. Salutandola le ho tenuto la mano a lungo, lei me l'ha stretta forte.
Dopo un minuto é tornata, più goffa. « Scusi » ha chiesto a me, « questo fatto lo saprà il principale? ».
« No » ho risposto. « Perché dovrebbe saperlo ? ».
« Sa » ha spiegato, « sono preoccupata... Oggi non è facile trovare lavoro ».
« Dove lavora ? » le ho chiesto.
« Al bar Corallo, in via Po... Faccio la cassiera ».
« Stia tranquilla, signorina » le ha sorriso il maresciallo.
Se n'é andata lanciandomi un altro sguardo lungo. Io sono andato a guardare il verbale e ho letto l'età : ventisei anni. Porzio mi ha detto : « Vedesse che tipo, il fidanzato... ».
La sera sono andato al bar Corallo. Appena mi ha visto Wand[...]

[...]o saliti in macchina e mi sono diretto verso Ponte Milvio. Passato il ponte ho imboccato la Cassia, poi ho preso una strada che mena alla Flaminia e mi sono fermato in un anfratto. Durante il tragitto siamo stati in silenzio.
Appena ho spento il motore Wanda mi ha abbracciato stretto e mi ha baciato. Io mi sono sentito avvampare in faccia, e ho cercato di ordinare le idee; ma Wanda mi ha costretto contro l'angolo dello schienale e mi ha baciato più forte, addossandomisi tutta e comprimendo con la sua faccia la mia nuca contro il finestrino. Allora l'ho respinta fino a ricollocarla al suo posto, l'ho baciata anch'io con forza e l'ho toccata un po' dappertutto.
Poco dopo siamo andati in una trattoria della Cassia. Mangiando di lena i ravioli grassi, o giocando con le posate, Wanda mi ha detto che si sentiva tanto sola: il padre era morto, la madre s'era messa a vivere con un rigattiere, e lei viveva in una stanza ammobiliata. Adesso poi aveva perso anche il fidanzato, per la rissa. Costui, che si chiamava Lucio, sosteneva che lei s'era a[...]

[...]o sola: il padre era morto, la madre s'era messa a vivere con un rigattiere, e lei viveva in una stanza ammobiliata. Adesso poi aveva perso anche il fidanzato, per la rissa. Costui, che si chiamava Lucio, sosteneva che lei s'era accorta di quei toccamenti e aveva lasciato correre. « Ho capito che donna sei » le aveva detto appena erano scesi dal tram, poco prima che lo arrestassero; le aveva dato due schiaffi e le aveva strillato « non ti voglio più vedere ». « Io invece non me n'ero accorta » ha continuato Wanda; «credevo che quello non lo facesse apposta, il tram era pieno e stavamo stretti ». Lei gli voleva bene ma era stanca. Lui faceva una brutta vita e non dava affidamento: una condanna a tre mesi per un'altra rissa, una condanna a sei mesi per atti osceni in un giardino pubblico, un'assoluzione per insufficienza di prove in un processo per truffa. Faceva il commesso in un negozio di pezzi di ricambio per automobili.
L'ho interrotta per chiederle perché non avesse detto la veritá al maresciallo.
« Non riesco a volergli male dopo [...]

[...]via Famagosta. È scesa appena io mi sono fermato e senza salutarmi s'è avviata verso il portone. Dopo qualche passo è tornata indietro, mi ha dato la mano di sfuggita e se n'è andata senza parlare.
Nei giorni successivi sono andato a prenderla tutte le sere. Andavamo in strade solitarie, e restavamo nella macchina. Generalmente parlavamo poco. Mentre eravamo fermi una luce temperata passava per i finestrini, la pelle del viso di Wanda si faceva piú scura, mi prendevano desideri pazzi che ora non so dire, ma anche pensavo che mi sarebbe piaciuto proteggerla.
Una sera che il temporale batteva sul tetto della macchina, e Wanda era più che mai abbandonata per tutto il sedile, obliqua e distorta, il suo corpo da statua mi ha emozionato. Aveva la bocca piú rossa del solito, la lingua smagliante spesso si affacciava tra le labbra per inumidirle, i tratti del viso le si erano induriti. Le ho detto: « Scendiamo, allontaniamoci un po' ».
« Tu sei matto » ha ribattuto lei, fra incredula e canzonatoria. « Con questo tempo! ».
Siamo andati qualche volta a mangiare nelle trattorie fuori mano, una volta siamo andati a Rieti. Non siamo potuti andare nella sua stanza perché a Wanda non era permesso portarci uomini: mi aveva già detto, i primi giorni, che la padrona su quel punto era irremovibile. Io mi sforzavo di trovare soluzioni, ma le possibilità ch[...]

[...] oscena mi é uscita. Mia madre ha pianto, e mi é sembrata pentita. Ma ad un tratto é corsa al telefono, e ha chiesto un'« urgentissima » con Napoli per parlare con zio Alfonso. Io le ho strappato di mano il microfono, e l'ho sbattuto in terra proprio mentre lo zio rispondeva; dal pavimento losentivo che. strillava « pronto ». Poi ho pestato con rabbia il microfono che s'è frantumato, e la voce dello zio ha taciuto. Mia madre s'è messa a piangere più forte. Giuseppina é arrivata con la valeriana e s'è messa a piangere anche lei. Le ho strillato « vattene, serva scema », e lei è corsa di là. Poi mi sono messo a passeggiare per il corridoio. Frattanto s'era fatta notte, nessuno aveva acceso le luci, e il duplice pianto risuonava per tutta la casa. Ho pensato che la cosa migliore era uscire, prendere aria. Ma quando sono arrivato al portone ho capito che non avrei potuto continuare a vivere in quel modo. Sono tornato a casa. Mia madre era distesa su un divano. Le ho detto subito di far preparare da Giuseppina la mia roba, e che la sera stess[...]

[...]potuto continuare a vivere in quel modo. Sono tornato a casa. Mia madre era distesa su un divano. Le ho detto subito di far preparare da Giuseppina la mia roba, e che la sera stessa me ne sarei andato via. Mia madre non mi ha risposto, io sono uscito. Sapevo che quella sera Wanda cominciava a lavorare alle sei, e alle sei meno dieci ero davanti al bar.
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Poco dopo l'ho vista arrivare, col passo stanco e un vestito più corto. Non aveva l'aria di disappunto che mi aspettavo. Mi ha detto che era rimasta male, ma sorridendo, come se parlasse di un'altra. Le ho fatto le mie scuse. « Tu non c'entri » ha detto lei, « tua madre vuole che tu frequenti le signore... e poi deve avermi giudicata male ». Io le ho detto che mia madre era nevrotica, lei forse non ha capito la parola e mi ha detto « non parliamone più ». Poi é entrata nel bar.
Dall'ufficio ho telefonato ad un albergo secondario del centro ed ho prenotato una stanza. Poi ho mandato un agente a casa a prendere la mia roba. Gli ho ordinato di portarmi le valigie ad un bar prossimo all'ufficio, per evitare che mia madre potesse strappargli il mio indirizzo. Alle nove sono andato in albergo. Quella sera non ho avuto voglia di vedere Wanda, e sono andato al cinema.
Nei giorni successivi ho continuato a vederla, ma non ho potuto portarla in albergo: anche a voler vincere la prevenzione, avevo già mostrato la mia tessera di funzionario quando c'[...]

[...]i. Una volta l'ho trovata che chiacchierava con Porzio, nell'anticamera. Lei era addossata al muro, Porzio le stava assai vicino e le parlava in una maniera ad un tempo ammiccante e languida, da corridoio di treno. Appena mi ha visto si é fatto serio e si é scostato.
Quelle visite mi seccavano, perché non mi pareva conveniente che in un commissariato venissero donne come Wanda a prendere i funzionari. Sicché un giorno l'ho pregata di non venire più; lei mi ha sorriso e mi ha detto « va bene ». Allora ha cominciato ad aspettarmi in un bar vicino, e presto ha fatto amicizia con la cassiera. Quando io arrivavo mi pareva che parlassero di me, con una certa complicità. Una sera ho spiegato a Wanda la necessità di una riservatezza assoluta, in un rapporto come il nostro. « Non parlare mai dei fatti nostri » le ho detto.
Abbiamo continuato a girare con la macchina, a fermarci in posti solitari, ad amarci come potevamo. Intanto, l'albergo mi disturbava sempre di più. Mi pareva di vivere in uno stabilimento industriale, per l'andirivieni contin[...]

[...]ad aspettarmi in un bar vicino, e presto ha fatto amicizia con la cassiera. Quando io arrivavo mi pareva che parlassero di me, con una certa complicità. Una sera ho spiegato a Wanda la necessità di una riservatezza assoluta, in un rapporto come il nostro. « Non parlare mai dei fatti nostri » le ho detto.
Abbiamo continuato a girare con la macchina, a fermarci in posti solitari, ad amarci come potevamo. Intanto, l'albergo mi disturbava sempre di più. Mi pareva di vivere in uno stabilimento industriale, per l'andirivieni continuo, il personale numeroso davanti al quale dovevo passare, il rumore delle macchine che la mattina pulivano i pavimenti. In più, dovevo scegliere fra lo stare nella sala in mezzo agli altri, e il ridurmi nella mia camera, dove non potevo fare nient'altro che non fosse il dormire. Sicché una sera, lungo l'Appia Antica, ho detto a Wanda: « Adesso cerchiamo un appartamento e andiamo a vivere insieme, se ti va ». Wanda
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mi ha guardato incredula, ma vedendo che non scherzavo, si é prodotta in una pantomima gioiosa: ha battuto le mani, ha saltellato coi fianchi sul sedile, mi ha baciato con foga. Poi mi ha voluto aggiustare il nodo della cravatta.
Abbiamo visto insieme diversi appartamenti ammobiliati[...]

[...] e da una stanza per il soggiorno. Wanda ha disdetto subito la stanza di via Famagosta; e quando ha portato la sua roba nell'appartamento ha pianto. Ha spiegato che quella per lei era una gioia nuova. Quando poi le ho detto che avrebbe fatto la donna di casa, e che poteva lasciare il lavoro, il pianto le si è fatto dirotto. Mi ha abbracciato a lungo appoggiandomisi, mi ha bagnato tutta la faccia e mi ha appannato gli occhiali.
Mi sentivo adesso più libero e pieno, più affondato nella vita; mi pareva di esistere come una persona nuova. Quando la mattina mi alzavo Wanda dormiva ancora, Giuseppina era lontana ed io dovevo badarmi da me. Mi alzavo in una maniera svelta, quasi sportiva. Durante la toilette non pensavo; i particolari impiccianti del corso della vita non mi pungevano piú. Anche le parole che dicevo erano diverse, come se avessi buttato via tutto il vecchio repertorio. In ufficio ero allegro, e tutto dell'ambiente mi pareva accettabile: i mobili vecchi e scalfiti, la luce blanda e triste che filtrava attraverso i vetri opachi delle finestre, l'odore delle pratiche e dell'inchiostro per timbri. Analizzavo poco le cose, mettevo meno veleno nel comando, comprendevo di piú.
Ogni giorno, adesso, telefonavo a mia madre. Lei si limitava a chiedermi notizie sulla salute, e a domandarmi se il riscaldamento, dove mi trovavo, era sufficiente; al massimo accennava a qualche novità, che per solito riguardava i parenti: sua cugina s'era aggravata, zio Alfonso era stato fatto commendatore. Per la sicurezza che le traspariva dalla vo
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ce, e per l'astensione da qualsiasi tentativo di carpirmi l'indirizzo, mi pareva che stesse ordendo fiduciosa una qualche insidia per riavermi. Ma non me ne curavo.
La sera, adesso, dall'ufficio uscivo un po[...]

[...]i e Roma era ancora occupata. L'aveva fatta salire nella sua stanza del « Plaza », adducendo che la moglie aveva bisogno di uno shampoing. Ma la moglie non c'era, forse non esisteva, e lui le aveva strappato una gonna proprio bella, comprata il giorno prima.
La maniera tranquilla nella quale Wanda ricordava il suo passato, che mi si offriva esatto e senza veli, mi aiutava a svincolarmi dal passato mio. Ne risultava una grande libertà: sempre di più si dileguava la paura di vivere. Non avevo più il gusto affannato di scandagliare le miserie delle donne, come quando dovevo accontentarmi di conoscerle nell'intuizione, in virtù degl'interrogatorî fatti a quelle che incappavano nel mio mestiere; non era più necessario che io fantasticassi sulla rovina di donne e di uomini, e me ne alimentassi per rabbonirmi. Adesso i racconti sereni che Wanda mi faceva, di stenti e di brutture, mi cancellavano ogni residuo di una giovinezza solitaria, e mi rendevano l'ansia passata accettabile come una cronaca.
Inoltre, se è vero che a sentirmi senza mia madre, così solo con Wanda di fronte alla vita, provavo qualche brivido di disperazione, tuttavia la voce di Wanda, o il suo lavarsi veloce, o il suo farsi scattare addosso le giarrettiere, o il suo girare discinta nello stesso spazio dove an
AVVENTURA DI UN C[...]

[...]o una faccia tragica: cercava di non guardare le cosce di Wanda ma non ci riusciva. Io ho portato il discorso ad una conclusione, e l'ho congedato.
Subito dopo avergli chiuso dietro la porta, ho schiaffeggiato Wanda con violenza. Lei s'è riparata la faccia, e ha negato di aver voluto mostrare alcunché. « Troia » le ho detto. « Sarai sempre una troia ». Lei si è messa a piangere. Ho guardato le lacrime che le percorrevano la faccia, ho alzato di più la voce e l'ho ingiuriata ancora. Poi un pensiero preciso mi ha attraversato il cervello: « Col maresciallo... » ho detto, e le ho tirato un altro schiaffo. Lei ha minacciato di lasciarmi; ma poi s'è messa
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a piangere più forte, e mi ha chiesto perdono. Io ho taciuto. Lei mi è venuta vicino e mi ha voluto in fretta, sul divano.
Dopo l'amore mi ha supplicato di portarla fuori. « Andiamo al luna park, fammi questo favore... Ci sono tutti quei biglietti » ha piagnucolato. (Aveva visto il giorno prima dei buoni che mi avevano mandato in omaggio, per giostre ed autopiste).
Al luna park, ha voluto innanzi tutto sparare al tiro a segno. Poi sia mo andati sulle montagne russe. Quando il vagoncino pareva che preci pitasse, rideva in una maniera brutale. Ha anche strillato, e le é uscita un po' di bava.
Qualche giorn[...]

[...]desso la lascio, scusi... ». Chi parlava con lui deve aver insistito per trattenerlo, perché Porzio ha detto .« abbia pazienza, signora, la devo proprio salutare ». Detto « signora » mi ha guardato con timore evidente, forse simultaneo al pentimento di aver pronunziato la parola superflua; poi rapido ha collocato il microfono al suo posto. Io dovevo parlargli dei lavori murari da farsi, ma il sospetto mi ha assalito, e gli ho detto « vieni da me più tardi ».
Sono tornato nella mia stanza. L'atteggiamento di Porzio mi faceva certo che chi parlava al telefono con lui era mia madre, o era Wanda. Ho fatto spazio sul tavolo perché le carte non mi distraessero.
Una tresca di Porzio con Wanda era nell'ordine del possibile, ma mi sembrava poco probabile: Porzio, se scoperto, si sarebbe rovinato; Wanda avrebbe perso cose preziose, difficili per lei a raggiungersi al di fuori di me. Era più probabile che ci fosse mia madre, all'altro capo del filo. Forse si era messa in contatto con Porzio, e da lui si aspettava notizie sul mio conto, suggerimenti sul da farsi. (Porzio conosceva bene il mondo, e tutti se ne avvedevano; tanto che talvolta mi pareva che il ruolo reciproco che svolgevamo nel nostro rapporto fosse casuale e non logico: in ispecie quando dalle sue parole traspariva una sorta di scienza sofferta ed incisiva, o quando con garbo mi moderava nell'intransigenza, e mi pareva assai più adulto di me, nonostante i soli cinque anni che fra noi passavano). Si, era più probabile[...]

[...]o. Forse si era messa in contatto con Porzio, e da lui si aspettava notizie sul mio conto, suggerimenti sul da farsi. (Porzio conosceva bene il mondo, e tutti se ne avvedevano; tanto che talvolta mi pareva che il ruolo reciproco che svolgevamo nel nostro rapporto fosse casuale e non logico: in ispecie quando dalle sue parole traspariva una sorta di scienza sofferta ed incisiva, o quando con garbo mi moderava nell'intransigenza, e mi pareva assai più adulto di me, nonostante i soli cinque anni che fra noi passavano). Si, era più probabile che la donna fosse mia madre; per quanto, se c'erano contatti fra lei e Porzio, era strano che lui il giorno prima si fosse tanto meravigliato di vedere Wanda vivere con me: giacché mia madre sapeva ormai di questa convivenza. Certo, Wan
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AVVENTURA DI UN COMMISSARIO

da aveva mostrato le cosce a Porzio con intenzione, quel giorno, e una telefonata non sarebbe stata poi tanto strana; ma era da stabilire, in questo caso, quale convenienza Wanda potesse trovare nella tresca: Porzio, sposato e con tre figli, non poteva offrirle niente; quindi bisognava ammettere che Wanda r[...]

[...]na marionetta; mi pareva che il baratro mi richiamasse. Non ho distinto due che incontrandomi si sono disgiunti per cedermi il passo, e mi hanno detto « ossequi, dottore ». Dalle stanze con la pörta aperta, insieme al rumore di macchine che battevano verbali, mi veniva un si
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lenzio insostenibile. Se quella era la vita, quando sarei riuscito a starci dentro? Quando sarei stato anch'io come Porzio? A cinquant'anni? O, non piuttosto, mai?
Porzio mi ha informato con garbo e competenza, assai concreto nella definizione dei lavori, del tutto scevro dal timore di poco prima. Ed io sono riuscito a parlargli serenamente, reprimendo bene il fondo tempestoso; gli ho offerto una sigaretta, e forse ho ecceduto nella cordialità : come il maestro che a scuola interroga il ragazzo che giudica malvagio, e si sforza di essere imparziale, e magari gli alza il voto perché non si sospetti prevenzione.
In uno dei giorni successivi ho ricevuto in ufficio una lettera di mia madre. Riconoscendo sulla busta la sua calligrafia, ho pensa[...]

[...]a) era scritto: «Quanti anni credi che possa vivere ancora tua madre? Lo sai come vivi? Pensa a tuo padre che é morto, e torna ». Non c'era firma.
Mi sono messo a pensare. Certo, regalando un po' di soldi a Wanda e tornando da mia madre, potevo liberarmi dall'impiccio che mi aveva fatto passare un'intera serata ad analizzare le mosse possibili di Porzio. Del resto, avevo ormai capito che quella specie di gioia continuata era stata da me decisa, piú che raggiunta. Era infatti bastata quella telefonata per farmi ricadere nel pozzo. Ma il ritorno avrebbe dovuto essere di specie morale: voglio dire che in questo caso avrei dovuto lasciar decidere a mia madre tutta la mia vita. Avrei dovuto scegliere una moglie fra le scimmie sue amiche, imbarcarmi in un viaggio di nozze. disporre un apparato domestico acconcio alla nuova condizione, sostenere lugubri visite domenicali, rispettare obblighi e doveri. Tanto valeva, allora, continuare a far perno sulla vita con Wanda, restare al cimento del concubinaggio, per tentare ancora una qualche riscossa[...]

[...] gli occhi languidi e non reagiva. II tonfo della sua testa che batteva contro la parete ha fatto disperato il pianto di Wanda. « È Lucio » è riuscita a dire. Poi s'è tirata i capelli. Ho lasciato la presa dell'uomo, ho tolto da una sedia la sua giacca e gliel'ho cacciata nelle mani. « Esci subito » ho balbettato. L'ho sospinto verso la porta e gli ho sferrato un calcio. Lui s'è voltato e m'ha guardato sott'occhi, per vedere se stessi per fargli più male. Aveva un profilo viscido, bruno. Sul pianerottolo gli ho dato un altro calcio, e una
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spinta. È stato per cadere a faccia avanti sugli scalini, ma ha ripreso equilibrio ed è scappato.
Sono tornato in casa avendo già deciso, nell'attimo in cui Lucio si riprendeva per fuggire, di spezzare a Wanda tutt'e due le braccia. Nel soggiorno una nebbia fitta mi ha offuscato la vista: vedevo Wanda come una lunga macchia scura. L'ho raggiunta. Si era rimessa il vestito e non piangeva piú. L'ho afferrata ai polsi. Lei s'è divincolata, s'è voltata e rapida ha aperto la finestra.[...]

[...] gli ho dato un altro calcio, e una
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spinta. È stato per cadere a faccia avanti sugli scalini, ma ha ripreso equilibrio ed è scappato.
Sono tornato in casa avendo già deciso, nell'attimo in cui Lucio si riprendeva per fuggire, di spezzare a Wanda tutt'e due le braccia. Nel soggiorno una nebbia fitta mi ha offuscato la vista: vedevo Wanda come una lunga macchia scura. L'ho raggiunta. Si era rimessa il vestito e non piangeva piú. L'ho afferrata ai polsi. Lei s'è divincolata, s'è voltata e rapida ha aperto la finestra. Con uno strattone l'ho allontanata, e sono riuscito a chiudere la finestra prima che lei strillasse. Poi mi sono lasciato andare su una sedia. Wanda è corsa nel bagno, e vi si è chiusa. Con la voce roca per la gola secca le ho strillato: « Ti dò un quarto d'ora di tempo per farti la valigia e andartene ». Poi sono uscito.
Con un tassi ho raggiunto l'ufficio. Ne ho guardato le finestre, ma nessuno vi era affacciato. Ho preso la mia macchina e sono andato poco lontano, in una strada solitaria. Mi sono fe[...]

[...]che non avrebbe potuto non tradirmi, e proprio in casa mia. E l'esecutore era stato certamente Porzio. Porzio conosceva Lucio, ed era bravo. Così, tutti mi avevano giocato poche settimane dopo la mia ribellione. La ribellione non mi era congeniale. Non aveva senso dire « mi sono mosso tardi ». Per le mie mosse doveva essere così: o troppo tardi o troppo presto, sempre. Ho sputato nella strada. Poi sono sceso dalla macchina, e ho raggiunto il bar più vicino. Ho bevuto un aperitivo, e subito dopo un cognac. Ho telefonato a casa mia, ma non mi ha risposto nessuno. Wanda aveva sloggiato, oppure preferiva non rispondere. Sono tornato alla macchina, e ho fatto un paio di giri in quei pressi. Se quelli della questura centrale fossero venuti a conoscenza del fatto, lo avrebbero deformato, ingigantito.
Sono andato in un restaurant di via Frattina. Alla frutta il cameriere, che mi conosceva, mi ha chiesto se potevo interessarmi presso la prefettura per il ricovero di un bambino suo nipote. Gli ho detto di si, e lui mi ha dato un foglio con gli es[...]

[...] signore distinto, magro; un fratello di suo padre, mi pare... Il piano l'ha fatto lui ».
« Quindi mia madre ti telefonava spesso, qui ».
« Sissignore ».
« E la signorina, non ti ha telefonato mai? ».
«No... Ma scusi, perché mi avrebbe dovuto telefonare? ».
È un mese che vivo solo. Non ne ho motivi fondati, giacché sono certo che se tornassi a casa mia madre verrebbe ormai a patti: la persuaderei a non ostinarsi a volermi vedere sposato. In più, questa condizione di scapolo solitario mi pare ingiustificata, per qualche verso eccessiva.
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Qualche volta mi prende un'ansia carezzevole di tornare da mia madre (che non mi ha più cercato), di ricomparire di sorpresa davanti a Giuseppina. Ma poi succede che debbo correre in ufficio, o che ho sonno, o che debbo lamentarmi con la serva perché le camicie sono stirate male.
Adesso, mi trattengo in ufficio più del solito e cerco di allargare i miei interessi, perché se ne giovi la carriera. Pare che nessuno sia venuto a conoscenza dei miei casi, e questo è assai importante. Con Porzio, corrono i rapporti di sempre; sebbene, una tal quale maggiore rigidità, da parte mia, stia agevolando lo svolgimento del lavoro.
La sera, vado spesso al cinema. Se non esco, mi faccio cocktails di frutta col frullatore, e leggo romanzi gialli. Ho anche comprato un fonografo, e alcuni dischi di canzoni. Ogni tanto li ascolto, mi prende uno struggimento breve e penso a Wanda, che fa all'amore chissà con chi.
RAFFAELE[...]


precedenti successivi
Grazie ad un complesso algoritmo ideato in anni di riflessione epistemologica, scientifica e tecnica, dal termine Più, nel sottoinsieme prescelto del corpus autorizzato è possible visualizzare il seguente gramma di relazioni strutturali (ma in ciroscrivibili corpora storicamente determinati: non ce ne voglia l'autore dell'edizione critica del CLG di Saussure se azzardiamo per lo strumento un orizzonte ad uso semantico verso uno storicismo μετ´ἐπιστήμης...). I termini sono ordinati secondo somma della distanza con il termine prescelto e secondo peculiarità del termine, diagnosticando una basilare mappa delle associazioni di idee (associazione di ciò che l'algoritmo isola come segmenti - fissi se frequenti - di sintagmi stimabili come nomi) di una data cultura (in questa sede intesa riduttivamente come corpus di testi storicamente determinabili); nei prossimi mesi saranno sviluppati strumenti di comparazione booleana di insiemi di corpora circoscrivibili; applicazioni sul complessivo linguaggio storico naturale saranno altresì possibili.
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