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Il segmento testuale Perché è stato riconosciuto sulle nostre fonti cartacee. Questo tipo di spoglio lessicografico, registrazione dell'uso storicamente determinatosi a prescindere dall'eventuale successivo commento di indirizzo normatore, esegue il riconoscimento di ciò che stimiamo come significativo, sulla sola analisi dei segmenti testuali tra loro, senza obbligatoriamente avvalersi di vocabolarii precedentemente costituiti.
Nell'intera base dati, stimato come nome o segmento proprio è riscontrabile in 2907Analitici , di cui in selezione 81 (Corpus autorizzato per utente: Spider generico. Modalità in atto filtro S.M.O.G.: CORPUS OGGETTO). Di seguito saranno mostrati i brani trascritti: da ciascun brano è possibile accedere all'oggetto integrale corrispondente. (provare ricerca full-text - campo «cerca» oppure campo «trascrizione» in ricerca avanzata - per eventuali ulteriori Analitici)


da Franco Fortini, Cronache della vita breve in KBD-Periodici: Nuovi Argomenti 1954 - 5 - 1 - numero 8

Brano: CRONACHE DELLA VITA BREVE
Come è noto, non esistono che diari pubblici; e se non c'è motivo di vergognarsi delle parole scritte più di quanto si faccia di quelle dette, perché non scrivere quel che si dice, perché non accettare la leggerezza, l'improntitudine, o la serietà, di quanto si pensa o si dice in fretta, nella vita breve che regaliamo al giornale, al libro, all'incontro con un amico? Una conversazione val bene un articolo.
So bene che il motto, il pensiero formulato approssimativamente, la pagina di diario hanno una lunga storia di vizi. Ma perché illudersi di averli dissolti tacendo? Fra solitudine e partecipazione, fra io e noi, c'è ancora un margine. Carocci e Moravia mi aprono queste cronache; sono un ospite riconoscente, ma non necessariamente l'unico; il diario a più voci è la vera giustificazione di un a solo iniziale. Nuovi Argamenti pub essere il luogo, oltre che di articoli e saggi, di un discorso più veloce e più rotto.
Incontro in tram G. M., intellettuale e scrittore. È stato per tre mesi in U.S.A., a spese del governo federale, ha visto questo e quello. « Siamo pieni di pregiudizi sugli americani. Non sono quello che la [...]

[...]erpretazione escatologica del movimento operaio, e una tolta per tutte, ma anche ogni nozione di progresso assoluto dell'uomo, conoscendo solo i progressi parziali e relativi di taluni aspetti dei gruppi umani. Uno storicismo coerente che non voglia essere né cinismo né relativismo né mobilismo deve dare ragione continua del proprio contrario, ossia rinnovar la confutazione dell'antistoricismo nel solo modo possibile, che è quello di spiegare il perché storico del rinnovarsi, in noi, della esigenza di mènein, di « consistere », di opporsi alla fluidità del tempo. Di fronte alla «tenace sopravvivenza» di quella volontà, sarebbe gravissimo errore quello di rimandarci alle pagine dei maestri, nelle quali le confutazioni sono state compiute una volta per tutte. La gente vuol sapere per che cosa gli uni o gli altri le propongono di sacrificare il presente.
ss
Five Years of the N.A.T.O., un supplemento del N. Y. Herald Tribune: vi si leggono alcune straordinarie pubblicità di fabbriche d'amni. La Fabrique Nationale d'Anmes de Guerre di Herstal,[...]

[...]
CRONACHE DELLA VITA BREVE 153
gono periodicamente tante degne persone a firmar proclami o a tener comizi, nell'imminenza delle elezioni. Detto questo, ci siamo chiesti: è possibile che i liberaisocialisti (definizione impropria, lo so) che scrivono sul Ponte, su Comunità, su Lo spettatore e su altre tre o quattro pubblicazioni del genere trovino la novità di cuore necessaria per costituirsi in società di studi, in Fabian Society? Risposta: no. Perché? Perché finora non l'han fatto. E possibile che lo facciano i più giovani di loro, uomini meno somiglianti all'intellettuale italiano tradizionale, e per i quali Gramsci è stato un libro decisivo? Risposta: si, ma nella misura in cui gli intellettuali del Partito Comunista aprono la conversazione con loro. E qual è la condizione perché si abbia una conversazione reale fra i comunisti e quei giovani, il cui numero va crescendo ogni giorno (e che non sono più identificabili con la massa di coloro che gli anni '47'52 respinsero fuori della presenza politica e che, a lungo, abbiamo fantasticato di « recuperare »)? La condizione è la conversazione fra i comunisti stessi; oppure uno sforzo eroico, una disciplina estrema, la rinuncia alle ambizioni accademiche, una autorganizzazione di feuo. Controprova? Le più riuscite imitazioni di quei gruppi si hanno in posizioni apertamente noncomuniste, sulle quali si trovano denari, tempo ([...]

[...]uralismo dei «Consigli »; ma, e il giudiziario? Secondo: manca, nel discorso di Della Volpe (così importante, illlluminante — ma, in genere, tutto quel che scrive ci è necessario) la controprova storica; che cosa è successo dei soviet? Come si articola realmente il potere proletario? Qual è il ruolo attuale della cuoca di Lenin nella macchina statale sovietica? La capisce, la dirige o la subisce?
O forse non si, deve chiedere a G. D. V. questo; perché il valore della sua nota è proprio nel richiamare il passato e nel prospettare il futuro, al di là delle attuali «difese dalla costituzione ». Cosi come il valore di quella di Bobbio consisteva, mi pare, nel richiedere al pensiero comunista, che
154 FRANCO FORTINI
cosa, delle « forane » create dal liberalismo, sopravvivesse alla classe che le ha generate. Di queste bandiere della borghesia se ne stanno impugnando parecchie: dalla linguistica alla logica formale, dal rispetto dei documenti a quello degli esperimenti scientifici. Tanta fretta é preoccupante. Che i rivoluzionari siano migliori[...]

[...]egime rivoluzionario. Non si fa illusioni. Sa che cosa perderebbe e che casa guadagnerebbe. Ha fatto i suoi conti, e non solo per sé. Con gente come questa non si dovrebbe aver paura di nulla.
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11 25 marzo 1953 moriva a 36 anni, a San Francisco, lo scienziato atomicò William Twitehell. Muniva circondato da agenti e da guardie del F.B.I. che impedivano alla sua famiglia, ai sudi genitori e ai suoi amici di avvicinasdo, perché Twitchell, nel delirio, dettava fonnule della bomba H.
Un numero de La Stampa (23 aprile). In terza pagina: Barrhelli parla dei tAngheri che vanno in ritardo alla messa o al concerto e se ne vengono via prima della fine. Una corrispondenza da Magonza spiega come gli Americani spiantino i boschi del Palatinato per le esercitazioni militari, addestrando i soldati all'atomica e alla lotta contro i partigiani. Una mucca meccanica è esposta a New York. Donna Francesca Ruspoli perde, per ordinanza del tribunale, il diritto di educare il figlio. « Le belle signore della Scala non avevano occhi che [...]

[...]o per l'uomo, per la sua dignita, così spudorata la buona coscienza di classe. Come le signore che, in inglese, parlano, lei presente, della serva. Tanto i cantastorie non si ascolteranno. Non sapranno che la soave voce femminile si lancerà in un delicato excursus dagli aedi omerici ai trovadori della scuola siciliana, mentre sul fondo suonano le rozze fisarmoniche dei nostri popolani. Un giorno faremo sentire questa roba ai ragazzi delle scuole perché sappiano che cos'era l'Italia del XX secolo. D'altronde, è lo stile di Life, il suicida in volo, l'apparecchio che si fracassa al suolo e, accanto alla didascalia, un diagramma pieno di numeri che permette di discernere, sulla foto, la scarpa del primo pilota, la testa tronca e proiettata del secondo... Tempo fa, c'era un « servizio » sul bambino doppio, voglio dire non un bambino a due teste, né una coppia siamese: bensì due teste, quattro spalle, quattro braccia, due cuori, ma un unico addome, due gambe. Nato in America, sopravvive grazie alle cure della scienza, che sta studiando come il m[...]

[...]artre dal recente libro di Mascolo (Le communisme) che egli ha difeso, or non è molto, dagli attacchi di Kanapa; e, mai citata, ma presente, la Weil de La condizione Operaia. La Weil concludeva male ma vedeva bene: lo sfaldamento sindacale come conseguenza del taylorismo, il significato dell'occupazione delle fabbriche nel 1936, l'invecchiamento dell'attrezzatura industriale, l'incoscienza del ceto impiegatizio dei gradi inferiori, ecc.
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«Perché non scrivere quel che si dice? ». Devo correggermi: ci sono, in realtà, le cose che si dicono e quelle che si scrivono. Quando si scrivono le cose che si dicono, queste perdono, è ovvio, il carattere parlato, perché la scrittura, qualunque essa sia, non è una trascrizione, ma una tradizione, un sistema di referenze. Decidere di lasciar documento d'una lettura, d'una impressione, d'una conversazione val quanto crederlo degno d'una funzione pedagogica, val quanto prendersi sul serio, laccio predestinato del dilettante. L'umiltà rinvia all'orgoglio. Per questo le note e i diari e gli appunti sono sempre, moralmente, postumi e si giustificano solo con l'opera omnia. Bisogna dunque confessar l'equivoco: la scrittura dell'appunto, la pubblicazione della lettera o della pagina di diario non hanno giustificazion[...]



da [Gli interventi] Gastone Manacorda in Studi gramsciani

Brano: [...]tagonisti molti elementi che poi avranno sviluppo successivamente ed anche nel pensiero di Gramsci.

Faccio pochi esempi. Prendiamo uno fra i critici più intelligenti della società italiana appena unificata, un Leopoldo Franchetti, borghese, conservatore e cosciente di appartenere alla borghesia, che accusa e critica la borghesia alla quale egli sa di appartenere, quella borghesia — egli dice — che è diventata padrona dello Sta.o e dei Comuni, perché sfrutta, impoverisce il contadino meridionale, perché — per esempio — attraverso la privatizzazione dei demani comunali, fatta nel modo che tutti sanno, ha tolto ai contadini le terre che a loro spettavano in forza delle leggi eversive della feudalità, ecc. ecc.

Ora, quando Franchetti diceva queste cose (e dopo di lui e con lui molti altri le hanno dette, ma io non devo esporlo a voi che lo sapete benissimo) aveva chiara coscienza di un fenomeno storico che si svolgeva sotto i suoi occhi e che poi la storiografia successiva ha spesso dimenticato. Specialmente una certa storiografia di carattere liberale questi fenomeni se li era dimenticati. [...]

[...]senso che il Romeo tende a sottolineare con le tesi politiche, con le posizioni filosofiche fondamentali di Gramsci, non ci sia poi un dissenso reale in quello che riguarda alcune constatazioni storiche, sebbene nel suo scritto aleggi sempre questa riserva: che in fondo le idee di Gramsci sono tesi politiche che si sovrappongono alla storia, anche se poi quando si va a vedere in concreto, stringi stringi, si può finire con l’essere d’accordo.

Perché rimane questa riserva, questa diffidenza, questa pregiudiziale negativa? Proprio perché non si è fatto lo sforzo di risalire a quelle che sono state le origini di queste idee di Gramsci; io credo che a quella letteratura critica del Risorgimento, a cui accennavo prima facendo rapidamente soltanto il nome di Leopoldo Francherai, si debba ricollegare Gramsci e che ci sia un tramite abbastanza evidente, che non è stato ancora sufficientemence messo in luce, attraverso il quale questo pensiero giunge fino a Gramsci; ed a me pare che questo tramite sia principalmente quello di Salvemini.

La ricerca sulle fonti italiane del pensiero di Gramsci è appena agli inizi. Si è insistito, e[...]

[...]quasi nessuna eccezione.

A me sembra che il nesso fra il pensiero di Gramsci e quello di506

Gli interventi

Labriola abbia ancora da essere studiato storicamente, che questo studio debba condurre a sostituire a una precesa derivazione diretta, un po’ schematica, la reale complessità del rapporto fra i due pensatori. Bisogna collocare questo rapporto nella storia culturale italiana della fine del secolo XIX e del principio del secolo XX; perché se, da un lato, è chiaro che si risale da Gramsci a Labriola attraverso Croce, che in qualche modo è discepoloantagonista di Labriola e maestroantagonista di di Gramsci; dall’altro lato, a me pare che a Labriola stesso, per quello die riguarda la sua metodologia applicata ai problemi della politica italiana, si risalga attraverso Salvemini.

Circa il rapporto fra Salvemini e Labriola come iniziatore del materialismo storico in Italia vorrei soltanto ricordare la più recente testimonianza dello stesso Salvemini in una lettera pubblicata in occasione della sua morte, su Mondo operaio. Scrive [...]

[...]ello che io sto dicendo potrebbe essere interpretato come un indulgere iad una moda. Perciò vorrei subito precisare che i riferimenti diretti di Gramsci a Cattaneo sono scarsissimi, non solo, ma ci sono alcune cose interessanti : ad esempio per due volte Gramsci cita l’edizione in volume de La città del Cattaneo della quaile egli aveva notizia, mi pare di capire, attraverso una recensione (come per molti altri libri) con il desiderio di leggerla perché sente che li troverebbe qualche cosa che lo interessa vivamente, vi troverebbe trattato quel problema di città e campagna che è uno dei temi Centrali del suo pensiero; ma Gramsci non conosce questo scritto, che prima del suo arresto non era stato mai ripubblicato. Cosi, non tricorda, Gramsci, gli scritti di carattere economico di Cattaneo. Viceversa, mi sembra di derivazione nettamente cattaneiana la critica al ’48 : il giudizio sulla politica piemontese nel ’48, la questione dei rapporti fra Piemonte e Lombardia, la Lombardia più illuminata, più evoluta rispetto al Piemonte, ecc.; idee che p[...]

[...] la consapevolezza del problema contadino italiano nasca soltanto nel primo dopoguerra, che il problema contadino giunga ad essere una realtà soltanto nel primo dopoguerra e che, quindi, Gramsci lo trasferisca arbitrariamente nel Risorgimento. Si avrebbe, secondo me, maggior ragione di. dire che laGastone Manacorda

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coscienza di questo problema culmina in Gramsci ed acquista in lui una maggiore forza e, quindi, una maggiore profondità. Perché culmina in Gramsci? Perché siamo nel momento (il primo dopoguerra, appunto) in cui di questo problema si vede e si formula già la possibile soluzione nella realtà. Ed allora, il momento in cui il contrasto sociale ereditato dal Risorgimento appare superabile nella realtà, il momento in cui si vedono già in atto le forze che possono superarlo, che possono creare un mondo diverso, questo è anche il momento in cui si raggiunge la comprensione storica dei termini reali di quel contrasto, cioè questo è il momento in cui si può effettivamente capire «come le cose sono effettivamente andate », il momento in cui si può capire [...]

[...]in cui il contrasto sociale ereditato dal Risorgimento appare superabile nella realtà, il momento in cui si vedono già in atto le forze che possono superarlo, che possono creare un mondo diverso, questo è anche il momento in cui si raggiunge la comprensione storica dei termini reali di quel contrasto, cioè questo è il momento in cui si può effettivamente capire «come le cose sono effettivamente andate », il momento in cui si può capire la storia perché si può rifarla. Questo è il momento in cui non si è più tuffati nella polemica, ma il passaggio dal momento polemico, dal momento critico, che è ancora legato all’azione, al momento storiografico deve essere colto in un nesso che è continuo, in cui non ce ad un certo punto un salto, quasi che gli uomini politici smettessero di pensare e venissero gli storici a mettere le cose a posto. Sarebbe comodo per gli studiosi di storia; ma essi, invece, debbono fare i conti anche con l'ininterrotto svolgersi della coscienza critica della realtà sociale.

Io vorrei rifarmi, a questo proposito, ad una [...]

[...]— un significato di carattere politico immediato ed ideologico e non un reale valore storico. Questa letteratura — egli dice — ha soltanto una importanza documentaria per i tempi di cui parla; nella storia — ad esempio — della polemica politica in Italia fra il 70 ed ili ’900 è chiaro che scrittori come Turiello e Mosca hanno il loro posto,, ma il loro pensiero non ha un effettivo contenuto storico.

Non entro nella sostanza della discussione, perché qui bisognerebbe distinguere fra i vari autori che cita Gramsci e dissentirei da alcuni giudizi, ma non è su questo che voglio soffermarmi; voglio dire, invece, che mi pare che il giudizio polemico contro Gramsci, che è stato lanciato prima dal Croce e poi ripreso da altri, tenda, in sostanza, ad ascrivere Gramsci stesso a questa letteratura, e per le ragioni che ho svolto mi pare che questo giudizio non corrisponda alla realtà. A questo punto, bisogna passare ai problemi storici concreti, ad esaminarli, uno per uno, cioè fare quel secondo lavoro al quale io accennavo in principio.

Mi limi[...]

[...]a, la concretezza storica di certi temi gramsciani non può più essere disconosciuta. Vorrei soltanto aggiungere, a questo proposito, per l’esatto intendimento del pensiero gramsciano, che il problema contadino del Risorgimento in Gramsci è solo un aspetto del problema più generale che Gramsci imposta, che è quello della direzione politica e delle forze rivoluzionarie sulle quali potevano fare assegnamento i partiti del Risorgimento. Dico questo, perché isolando il problema contadino e mostrandolo come centrale nel pensiero di Gramsci si rischia di dimenticare la complessità ed anche l’ampiezza della sua visione storica. Ad esempio, io ho letto con stupore che si accusi Gramsci di non avere tenuto conto deHa situazione internazionale e quindi della impossibilità di una rivoluzione agraria italiana nell’Europa del 1848 che non era la Francia del 1789. Ma questo, in Gramsci, è detto e ripetuto più di una volta, e stupisce che studiosi anche autorevoli dicano che questo aspetto nei Quaderni è trascurato, mentre c’è ad ogni pagina; ed io vi risp[...]

[...]iore modo possibile, che non c’era altra via fuori di quella di calpestare il contadiname per spremerne le ricchezze che erano necessarie per l’accumulazione del capitale, ecc. ecc., mi pare che egli idealizzi, tenda a fare di uno svolgimento storico concreto un modello, o un ideale (e non faccio questione di scelta politica, in questo caso). Ancor più, quando Romeo istituisce il confronto con la Francia, e dice che là le cose sono andate peggio perché la Rivoluzione aveva creato la piccola proprietà rurale, ecc., e contrappone lo sviluppo capitalistico italiano a quello francese come qualcosa di preferibile, ancora una volta egli idealizza la recente storia d’Italia.

Idealizzazione per idealizzazione, posto che la scelta fosse tra questi termini, posto che in Gramsci sia idealizzata la storia di Francia, mi terrei quella; ma la scelta non è questa, la scelta è fra la concretezza storica, lo stimolo, quindi, alla individuazione 'di reali problemi storici che troviamo in Gramsci, oppure la rinuncia a questo; e — fìngendo di fare storia — [...]

[...]rimendo un voto: chi studia l’opera di Gramsci incontra una grande difficoltà per il modo in cui è stata condotta l'edizione dei Quaderni del carcere. Perciò io faccio voti che si prepari presto una nuova edizione che rispecchi fedelmente l’ordine cronologico di comGastone Manacorda

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posizione dei Quaderni, per quanto è possibile, e [rispetti la collocazione che i singoli frammenti hanno in ciascun Quaderno; e non entro in particolari, perché so che la questione presenta anche varie difficoltà, (frammenti scritti due volte in Quaderni diversi, ecc.). Io mi limito a sottoporre all’attenzione del Convegno questa questione che ritengo pregiudiziale aUapprofondimento degli studi gramsciani.



da (9 Domande sul romanzo) Guido Piovene in KBD-Periodici: Nuovi Argomenti 1959 - 5 - 1 - numero 38

Brano: [...]omanzo, ma come antefatto, purché fossero poi « trasposte », « trasformate in arte ». Non ho mai
50 GUIDO PIOVENE
ben capito che cosa intendessero dire. Non poteva uscirne che una realtà dimezzata. Un ragionamento filosofico, un'indagine psicologica, ecc., o sono presentati nella loro forma più propria, più naturale, più diretta, o non sono più nulla. Il mondo è composto di uomini e di fatti, e di riflessioni sugli uomini e sui fatti. Non vedo perché un mondo artistico, oltreché rappresentato, non dovrebbe essere anche « cogitante », non dovrebbe cioè portare seco la sua fascia di pensiero. E perché questa dovrebbe essere mascherata, trasposta, trasformata.' Specie in tempi problematici come i nostri, in cui la riflessione occupa, dì necessità, il primo piano.
Se ben si guarda, poi, il vero e grande romanzo moderno soppianta il sistema filosofico e ne compie la funzione. È filosofia sul concreto, sull'esperienza. Se non si capisce questo, a mio parere, si può continuare a scrivere romanzi, ma sapendo di scrivere opere già. secondarie in partenza; e già rassegnati a vedere il romanzo sostituito, almeno come genere « maggiore » , da opere più interessanti.
3. — Se è così, perché non scri[...]

[...]dì necessità, il primo piano.
Se ben si guarda, poi, il vero e grande romanzo moderno soppianta il sistema filosofico e ne compie la funzione. È filosofia sul concreto, sull'esperienza. Se non si capisce questo, a mio parere, si può continuare a scrivere romanzi, ma sapendo di scrivere opere già. secondarie in partenza; e già rassegnati a vedere il romanzo sostituito, almeno come genere « maggiore » , da opere più interessanti.
3. — Se è così, perché non scrivere puri e. semplici saggi ? La parte romanzesca, più propriamente artistica, non diventa un pleonasma, un'appendice, un'illustrazione, una coloritura superflua ? È l'obiezione più corrente, ma, esaminandola bene, superficiale.
Anzitutto il romanzo, anche dal lato saggistico, non è un saggio, ma una tastiera di saggi, che possono toccare gli argomenti più diversi, e comporre un vero e proprio sistema di valutazione della realtà nei suoi diversi aspetti. Il romanzo stabilisce tra loro un collegamento vivo (un soffio circolare) che non potrebbero trovare altrimenti; ci obbliga ad esse[...]

[...]metafora non è mai semplicemente esplicativa, ma sempre aggiuntiva. Ancora: il romanzo capta anche l'emozione lirica, cioè anche la parte più soggettiva, più individuale nell'uomo, ne segna la presenza nella realtà, che senza di questo rimarrebbe parziale. Non esiste vero grande romanzo che non contenga pagine di abbandono poetico accanto a quelle saggisticoragionative. Il vero sag
9 DOMANDE SUL ROMANZO
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gista « adopera » il romanzo perché solo esso gli consente di raggiungere tutti i propri scopi.
4. — È implicito in questo il motivo per cui i romanzi moderni « sono scritti sempre meno in terza persona, sempre più in prima persona », che « tende sempre più ad essere la voce stessa dell'autore ». Perché l'interesse prevalente é quello di « valutare », e la rappresentazione é soprattutto un mezzo a quel fine. Si ha lo strumento di misura (la mente dello scrittore) e la sua esperienza; tutto il resto sembra superfluo; si va per la via più spiccia. Quando io trasferisco me stesso in un personaggio fittizio, o mi suddivido in parecchi personaggi fittizi, non soltanto rischio di complicare e intorbidare l'esposizione ragionata della mia esperienza, ma anche di snaturarla. Attribuendo a Tizio e a Caio esperienze e pensieri miei, devo sforzarli per ridurli alla loro misura, adattarli, almeno parzia[...]

[...], procedendo in un mondo veramente complesso.
5. — Inutile adesso rispondere per esteso ad alcune altre domande. Per esempio é chiaro che la scuola narrativa francese di cui fanno parte Butor e gli altri non può attrarmi molto. In generale, detesto tutto ciò che sa di letteratura sperimentale, che si propone direttamente problemi di linguaggio o di tecnica, oppure vuole me
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52 GUIDO PIOVENE
nomare la realtà di una sua parte indispensabile. Perché far parlare solo gli oggetti, se v'è anche un soggetto? Perché una realtà puramente visiva? Tutto questo non ha senso. Per me il grande romanzo è un tentativo di nuovo riordinamento dell'esperienza; la novità consiste nelle idee che conducono il romanziere, nella qualità dell'esperienza, negli strumenti culturali ch'egli adopera per misurarla.
È chiaro poi che scrittori come Mann, come Musil (e, fuori di qualsiasi polemica, Pasternak) mi interessano più degli altri. Trova Hemingway un grande scrittore, ma devo confessare che mi annoia un poco, non ho mai una vera voglia di leggerlo.
A mio parere, il grande romanzo ottocentesco, dei Tolstoi, dei Dostoie[...]

[...]rienza, negli strumenti culturali ch'egli adopera per misurarla.
È chiaro poi che scrittori come Mann, come Musil (e, fuori di qualsiasi polemica, Pasternak) mi interessano più degli altri. Trova Hemingway un grande scrittore, ma devo confessare che mi annoia un poco, non ho mai una vera voglia di leggerlo.
A mio parere, il grande romanzo ottocentesco, dei Tolstoi, dei Dostoievski, ecc. (tra gli italiani il Nievo) ha segnato la strada, appunto perché insegna ad includere senza paura, con la rappresentazione dei fatti, mescolandoli ad essi, saggi di carattere storico, sociologico, religioso, psicologico, filosofico, ecc., facendo così del romanzo uno strumento soggettivooggettivo (e attivo) di esperienza e di conoscenza totali. Il romanzo d'oggi, io penso, deve distinguersi da quei grandi modelli per approfondimento, grazie ai nuovi strumenti culturali acquisiti; per una maggiore coerenza « saggistica » tra le parti, per una maggiore nettezza nelle conclusioni, in conformità al carattere più « razionale » che vorremmo imprimere al nostro t[...]

[...]. Tra l'altro ha per me una grave pecca, quella di rendere più difficile la comunicazione, di condannare il proprio libro a essere meno traducibile, ossia meno universale. Non uso questa parola in senso idealistico, ma concreto; universale è per me il libro che può essere quasi egualmente apprezzato in Italia o in Australia. Il dialetto impedisce a due dei nostri maggiori poeti, il Belli e il Porta, di andare oltre i confini; non riesco a capire perché dobbiamo ripetere quest'avventura proprio oggi che il problema della comunicazione è dominante. Inoltre, il « dialettale » è quasi sempre costretto a rappresentare soltanto esseri intellettualmente e culturalmente elementari; e il « dialettalismo » fa parte della tendenza a trasformare la nostra letteratura in una
specie di grande Cottolengo delle anime e dei corpi. I suoi pregi sono l'efficacia espressiva, la vivacità, l'immediatezza; mi chiedo però se siano oggi i pregi a cui dobbiamo dare la precedenza, o se non sia questo uno dei tanti modi escogitati dalla nostra letteratura per evitare[...]



da Vitilio Masiello, Noterelle e schermaglie. Pius Julius (ossia dall'uomo del Guicciardini all'uomo della D.C.) in KBD-Periodici: Belfagor 1980 - novembre - 30 - numero 6

Brano: [...]ualmente utilizzare i resoconti provvisori, che contengono il testo stenografico degli interventi, non ancora rivisti dagli oratori, nella lingua in cui sono stati pronunciati. Come mi ha cortesemente ma fermamente precisato L. Lockefeer, Capo della divisione dell'edizione, della distribuzione e della diffusione del Parlamento europeo, tali resoconti (preziosi tra l'altro per studiare l'interazione linguistica all'interno dell'aula parlamentare, perché danno conto del plurilinguismo in essa operante) « non sono oggetto di una distribuzione esterna ». Da tutto questo si ricava non solo l'inattendibilità filologica degli strumenti che abbiamo a disposizione per ricostruire l'andamento dei dibattiti parlamentari (tanto a Roma quanto a Strasburgo), ma anche l'impossibilità per ogni elettore di venire mai a conoscenza di quello che i suoi rappresentanti hanno veramente detto nelle aule parlamentari.
PIUS JULIUS
(ossia dall'uomo del Guicciardini all'uomo della D.C.)
C'è un'immagine vulgata di Giulio Andreotti: quella di un Talleyrand « naziona[...]

[...]asburgo), ma anche l'impossibilità per ogni elettore di venire mai a conoscenza di quello che i suoi rappresentanti hanno veramente detto nelle aule parlamentari.
PIUS JULIUS
(ossia dall'uomo del Guicciardini all'uomo della D.C.)
C'è un'immagine vulgata di Giulio Andreotti: quella di un Talleyrand « nazionale », ministro di tutti i governi e politico di tutte le politiche — di centro destra, di centro, di centro sinistra, di unità nazionale — perché scettico e sornione celebrante di un'esclusiva religione mondana, quella del potere per il potere. Un incrocio, insomma, tra l'uomo del Machiavelli riciclato dalla Controriforma e l'uomo del Guicciardini di desanctisiana memoria. A voler condensare in una formula il cliché vulgato, si potrebbe dire di lui, con qualche lieve ritocco del giudizio desanctisiano, che il nostro uomo non è « uno stoico né un epicureo; anzi è piuttosto un amabile cinico ».
E c'è, a riscontro, un'immagine prevenuta e faziosa della politica democristiana in questo trentennio soprattutto per ciò che concerne i rapport[...]

[...]onfronto » e al dialogo con gli infedeli, e dei partiti della
sinistra storica la salutare liberazione dagli antichi integralismi ideologici e classistici.
Ebbene, di queste due immagini strumentali e in certo senso complementari dell'uomo e del sistema, fa ora giustizia l'ultimo libro di Andreotti, A ogni morte
NOTERELLE E SCHERMAGLIE 721
di Papa: una « cronaca », come dice opportunamente il risvolto di copertina, « di interesse eccezionale perché eccezionale è il `cronista' e altrettanto eccezionale è la posizione da cui ha potuto osservare gli avvenimenti ».
Perché Andreotti è non solo il versatile uomo di stato che tutti conoscono, ma anche intimo di papi e cardinali, fra i quali si muove con disinvolta familiarità e dai quali raccoglie confidenze riservatissime (di quelle che promanano direttamente dallo Spirito Santo) e indiscrezioni delicate. Un solo esempio, a titolo di credenziale e a garanzia dell'attendibilità del teste: Roncalli gli confida, durante il conclave del '58, la sua imminente elezione a pontefice (com'è noto un tale evento, che i profani attribuiscono a laboriosi compromessi curiali, è di stretta competenza dello Spirito Santo). E An[...]

[...]imenda? Manco per niente. Si limita, per il settantesimo compleanno dello statista, a non mandargli
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gli auguri, che invece « gli erano giunti persino da Stalin » (c'era da aspettarselo!). E De Gasperi che fa: corre in Vaticano a prosternarsi ai piedi del Papa e a chiedere perdono? Manco per niente. Con la risentita fierezza di un novello Arrigo
manda Andreotti a dire a monsignor Montini che dica a Sua Santità (già, perché a differenza di quel che credono i maligni « i governanti di parte D.C. non si incontrano che molto di rado con il Papa ») che lui, De Gasperi, « era disposto a presentarsi capolista nelle elezioni amministrative per significare tutto l'impegno che vi poneva ». Cioè per scongiurare il famigerato vulnus. Naturalmente Papa consentendo. Ma il Papa, che non era incline a interferenze, lo sconsiglia: non avesse a perdere, De Gasperi, le elezioni e con esse « anche il prestigio ». « Il Papa aveva apprezzato tuttavia la disponibilità di De Gasperi ed era stato lieto che l'avesse fatta conoscere a lu[...]

[...]NOTERELLE E SCHERMAGLIE 723
campo politico o comunque sfere di responsabilità non competenti ». Se ne vuole una prova? Un giorno Andreotti, ministro delle Finanze, riceve una pressante preghiera di « ricevere un momento madre Paschalina ». Qui nel racconto andreottiano c'è una qualche confusione di modi verbali, probabilmente imputabile ad un refuso, che ha trasformato in attivo un verbo passivo. La richiesta doveva suonare « essere ricevuto », perché è lui, il ministro, che, doverosamente ottemperando, si reca immediatamente al « magazzino privato del Santo Padre » dove trova madre Paschalina « in preda ad una vera agitazione ». Che era accaduto? « Erano comparsi per le vie i manifesti di un film avente come protagonista la Magnani e questa indossava l'abito delle Francescane missionarie ». Si poteva tollerare una simile empietà? Possibile che nessun influente uomo politico intervenisse? Perciò madre Paschalina, trattandosi di cose che non invadevano « sfere di responsabilità non competenti », si rivolge al ministro della Repubblica (che [...]

[...]te » non trovare una soluzione? No che non si poteva. Cosí come non si può non pensare, noi laici, insieme al pio ministro, al « bonum di ff usivum sui » (che sarebbe, tradotto per i profani, l'epidemia della bontà).
Ecco, è in queste occasioni che emerge dall'entomata in difetto — come diceva l'antico poeta — l'angelica farfalla: dalla scorza del politico machiavellico, l'uomo di fede e di religione, astralmente lontano dalla mondana nequizia. Perché il libro di Andreotti è poi nella sua sostanza piú vera un libro di alta edificazione: come le agiografie, i fioretti e vite di santi che ne costituiscono l'archetipo ideale. È un tripudio di buoni sentimenti. E i limiti dell'umano ne escono travolti. Pensate: muore Paolo VI e il cardinal Confalonieri, ultraottantenne, decano del sacro collegio, è delegato a celebrare il rito funebre e a tenere il discorso di circostanza. Che cosa accade normalmente in tali circostanze, nell'iniquo mondo umano? Che l'oratore ufficiale coglie l'occasione per sfogare contro il morto risentimenti e rancori. E in[...]

[...]i toccano corde struggenti per l'anima italiana, si respirano estasi celestiali. In questa società materialista e atea, anime insensibili credono forse che l'elezione di un papa sia, per l'eletto, occasione di tripudio e di esaltazione. Oh no! E lo sapeva bene don Mazzolari, che pubblicava nel '39 un librettino (per l'elezione di Pio XII) col quale Andreotti totalmente consente. « Don Primo immaginava le prime ore del nuovo Papa e lo compiangeva perché gli mancava sicuramente il sorriso della mamma (!), l'unica possibilità per poter prendere tranquillamente sonno dopo le emozioni della giornata e la "reclusione" nell'appartamento papale ».
Ilr

722 NOTERELLE E SCHERMAGLIE
gli auguri, che invece « gli erano giunti persino da Stalin » (c'era da aspettarselo!). E De Gasperi che fa: corre in Vaticano a prosternarsi ai piedi del Papa e a chiedere perdono? Manco per niente. Con la risentita fierezza di un novello Arrigo Iv, manda Andreotti a dire a monsignor Montini che dica a Sua Santità (già, perché a differenza di quel che credono [...]

[...]nno dopo le emozioni della giornata e la "reclusione" nell'appartamento papale ».
Ilr

722 NOTERELLE E SCHERMAGLIE
gli auguri, che invece « gli erano giunti persino da Stalin » (c'era da aspettarselo!). E De Gasperi che fa: corre in Vaticano a prosternarsi ai piedi del Papa e a chiedere perdono? Manco per niente. Con la risentita fierezza di un novello Arrigo Iv, manda Andreotti a dire a monsignor Montini che dica a Sua Santità (già, perché a differenza di quel che credono i maligni « i governanti di parte D.C. non si incontrano che molto di rado con il Papa ») che lui, De Gasperi, « era disposto a presentarsi capolista nelle elezioni amministrative per significare tutto l'impegno che vi poneva ». Cioè per scongiurare il famigerato vulnus. Naturalmente Papa consentendo. Ma il Papa, che non era incline a interferenze, lo sconsiglia: non avesse a perdere, De Gasperi, le elezioni e con esse « anche il prestigio ». « Il Papa aveva apprezzato tuttavia la disponibilità di De Gasperi ed era stato lieto che l'avesse fatta conoscere a lu[...]

[...]NOTERELLE E SCHERMAGLIE 723
campo politico o comunque sfere di responsabilità non competenti ». Se ne vuole una prova? Un giorno Andreotti, ministro delle Finanze, riceve una pressante preghiera di « ricevere un momento madre Paschalina ». Qui nel racconto andreottiano c'è una qualche confusione di modi verbali, probabilmente imputabile ad un refuso, che ha trasformato in attivo un verbo passivo. La richiesta doveva suonare « essere ricevuto », perché è lui, il ministro, che, doverosamente ottemperando, si reca immediatamente al « magazzino privato del Santo Padre » dove trova madre Paschalina « in preda ad una vera agitazione ». Che era accaduto? « Erano comparsi per le vie i manifesti di un film avente come protagonista la Magnani e questa indossava l'abito delle Francescane missionarie ». Si poteva tollerare una simile empietà? Possibile che nessun influente uomo politico intervenisse? Perciò madre Paschalina, trattandosi di cose che non invadevano « sfere di responsabilità non competenti », si rivolge al ministro della Repubblica (che [...]

[...]te » non trovare una soluzione? No che non si poteva. Cosí come non si può non pensare, noi laici, insieme al pio ministro, al « bonum di ff usivum sui » (che sarebbe, tradotto per i profani, l'epidemia della bontà).
Ecco, è in queste occasioni che emerge dall'entomata in difetto — come diceva l'antico poeta — l'angelica farfalla: dalla scorza del politico machiavellico, l'uomo di fede e di religione, astralmente lontano dalla mondana nequizia. Perché il libro di Andreotti è poi nella sua sostanza piú vera un libro di alta edificazione: come le agiografie, i fioretti e vite di santi che ne costituiscono l'archetipo ideale. È un tripudio di buoni sentimenti. E i limiti dell'umano ne escono travolti. Pensate: muore Paolo VI e il cardinal Confalonieri, ultraottantenne, decano del sacro collegio, è delegato a celebrare il rito funebre e a tenere il discorso di circostanza. Che cosa accade normalmente in tali circostanze, nell'iniquo mondo umano? Che l'oratore ufficiale coglie l'occasione per sfogare contro il morto risentimenti e rancori. E in[...]

[...]i toccano corde struggenti per l'anima italiana, si respirano estasi celestiali. In questa società materialista e atea, anime insensibili credono forse che l'elezione di un papa sia, per l'eletto, occasione di tripudio e di esaltazione. Oh no! E lo sapeva bene don Mazzolari, che pubblicava nel '39 un librettino (per l'elezione di Pio xi') col quale Andreotti totalmente consente. « Don Primo immaginava le prime ore del nuovo Papa e lo compiangeva perché gli mancava sicuramente il sorriso della mamma (!), l'unica possibilità per poter prendere tranquillamente sonno dopo le emozioni della giornata e la "reclusione" nell'appartamento papale ».
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Dalle mamme ai bambini, in un crescendo di francescana innocenza. Che dire, infatti, di Papa Wojtyla, il cui « trasporto verso i bambini è di una spontaneità meravigliosa. Fin dalle immagini delle prime udienze tutto il mondo ha ammirato il senso di paternità di Papa Wojtyla con le sue carezze ai piú piccoli, il suo prenderli in braccio » e perfino, in un mistico accesso di [...]



da Raffaele Crivaro, Avventura di un commissario in KBD-Periodici: Nuovi Argomenti 1960 - 9 - 1 - numero 46

Brano: [...]ualmente sugli omicidi che avessi risolto. Io dicevo che il mio é un mestieraccio, che dovevo sempre sporcarmi con la gentaccia, e che per di più guadagnavo poco. Poi, se mia madre non tornava presto in salotto, con un pretesto mi rifugiavo nella mia stanza; e in questo caso rivedevo la ragazza un attimo nell'ingresso, per salutarla quando se ne andava. Se invece mia madre tornava prima del tempo minimo che dovevo rispettare, mi toccava ballare. Perché mia madre mi diceva « met
112 RAFFAELE"CRIVARO
ti un disco », e poi ordinava « suvvia, ballate ». Io ero impacciato, e spesso il mio corpo pesante sbagliava il ritmo; ma la ragazza m'incoraggiava. Qualche volta poggiava la sua guancia alla mia e mi si addossava. Mamma fingeva di non vedere.
La sera, poi, mi domandava le mie impressioni. Io tacevo, o rispondevo con rade parole, ad abbandonare l'argomento. Giuseppina origliava, nascosta dietro la porta.
In due anni saranno sfilate in casa mia trenta ragazze: alcune una sola volta, altre — quelle che mia madre riteneva le più idonee — più vo[...]

[...]cancello dell'ascensore e ho infilato di forza Giuseppina nella cabina, senza dire una parola.
Poi un giorno mia madre me ne ha fatto una grossa. Forse vedendo in pericolo la sua autorità, o imminente la mia rivolta, ha fatto venire a Roma zio Alfonso.
Zio Alfonso, fratello di mio padre, vive a Napoli, é scapolo e lavora in un'industria farmaceutica. Passa come la persona più autorevole della famiglia, certo per l'aspetto serio, ma soprattutto perché la sua passione é l'araldica (ha fatto tante ricerche sulla nostra famiglia e ne parla sempre). E affabile e misurato, ma confida troppo spesso ai parenti il suo pentimento di non essersi sposato.
E entrato nella mia stanza con un sorriso commosso e mi ha abbracciato. Poi mi ha detto che era venuto a Roma per alcune ricerche araldiche da compiere in Vaticano: si trattava di giustificare un «attacco» che ad un suo amico stava molto a cuore, a Napoli non gli sarebbe stato possibile. Ha continuato parlandomi del suo lavoro in fabbrica,
AVVENTURA DI UN COMMISSARIO 113
poi mi ha detto che avrei[...]

[...]ho fatto lo sbaglio, e adesso lo pago... La serva mi ruba... I parenti mi danno fastidi... La sera torno a casa, e chi trovo? Nessuno... E che vuoi riparare, a sessantacinque anni? ».
« Ti ringrazio ma il matrimonio non fa per me, e so pensare da solo alla mia vita » l'ho interrotto.
« La fregatura tua è stata quella di essere figlio unico » ha ribattuto. « Questo è il fatto ».
Ci siamo messi a strillare tutti e due. Non ho un ricordo preciso perché ero in preda all'agitazione, ma devo essere stato violento e forse anche volgare, perché ad un certo momento lo zio ha detto « quand'è così... », ed è andato in cucina da mia madre. Io mi sono messo a leggere un romanzo giallo, ma una nebbia davanti agli occhi mi ha impedito di capire.
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RAFFAELE CRIVARO
Poco dopo zio Alfonso è tornato da me. « Ti saluto » ha detto. « Ti dico una cosa soltanto: non dimenticare il tuo nome ».
L'ho accompagnato alla porta. Nel corridoio ha battuto l'ombrello in terra ad ogni passo. Per salutarmi mi ha abbracciato, e mi ha baciato sulle guance. Poi quando è stato sul pianerottolo si è voltato, mi ha puntato l'ombrello sul petto, a farmi male u[...]

[...]uò andare, mamma » ho detto. « Adesso non ti bastano più le ragazze, adesso mi cacci in casa anche i parenti».
Mia madre non mi ha risposto; ha tratto dalla tasca un fazzoletto e si è messa a piangere. Giuseppina è andata via.
Io sono uscito e sono andato in ufficio, e quella sera ho conosciuto Wanda.
La stava interrogando il maresciallo Porzio, intorno ad una rissa assai violenta che era scoppiata la mattina su un tram. Io ero entrato da lui perché mi pareva di aver dimenticato un'agenda sul suo tavolo, e il grande corpo di Wanda mi aveva subito impressionato. Lei aveva volto di scatto il capo verso di me, e mi aveva guardato con diffidenza.
Stava deponendo a favore del fidanzato. Nel tram un uomo l'aveva toccata, il fidanzato se n'era accorto e aveva reagito, altri erano intervenuti. Sono rimasto ad assistere all'interrogatorio.
Mentre rispondeva, Wanda si toccava le labbra, e ogni tanto si stirava la gonna sulle cosce. Quando Porzio nelle domande si è fatto incalzante, ha strillato: ha detto che quell'uomo l'aveva toccata e pizzicat[...]

[...]mandato uno sguardo lungo con gli occhi neri bellissimi. Poi si é alzata e ha detto « la prima volta che capita in un commissariato ». In piedi era goffa, e parlava impacciata. Pareva vergognarsi delle forme abbondanti.
L'ho accompagnata alla porta. Salutandola le ho tenuto la mano a lungo, lei me l'ha stretta forte.
Dopo un minuto é tornata, più goffa. « Scusi » ha chiesto a me, « questo fatto lo saprà il principale? ».
« No » ho risposto. « Perché dovrebbe saperlo ? ».
« Sa » ha spiegato, « sono preoccupata... Oggi non è facile trovare lavoro ».
« Dove lavora ? » le ho chiesto.
« Al bar Corallo, in via Po... Faccio la cassiera ».
« Stia tranquilla, signorina » le ha sorriso il maresciallo.
Se n'é andata lanciandomi un altro sguardo lungo. Io sono andato a guardare il verbale e ho letto l'età : ventisei anni. Porzio mi ha detto : « Vedesse che tipo, il fidanzato... ».
La sera sono andato al bar Corallo. Appena mi ha visto Wanda mi ha sorriso con sicurezza, come se si aspettasse la mia visita. Subito ha chiamato il proprietario e m[...]

[...]; «credevo che quello non lo facesse apposta, il tram era pieno e stavamo stretti ». Lei gli voleva bene ma era stanca. Lui faceva una brutta vita e non dava affidamento: una condanna a tre mesi per un'altra rissa, una condanna a sei mesi per atti osceni in un giardino pubblico, un'assoluzione per insufficienza di prove in un processo per truffa. Faceva il commesso in un negozio di pezzi di ricambio per automobili.
L'ho interrotta per chiederle perché non avesse detto la veritá al maresciallo.
« Non riesco a volergli male dopo quattro anni, non me la sono sentita di andargli contro » ha risposto. Ha bevuto un po' di vino,
AVVENTURA DI UN COMMISSARIO 117
e poi « ci credi che mi ha sverginata lui? » mi ha detto con malizia. Io ho notato che mi aveva dato del tu, mi sono tolto gli occhiali e le ho preso una mano. Non ho risposto alla domanda e ho chiamato il cameriere per pagare.
Siamo usciti e siamo saliti nella macchina. « Ti accompagno a casa » le ho detto.
Abitava in un brutto palazzo di via Famagosta. È scesa appena io mi sono ferma[...]

[...]ua mi ha emozionato. Aveva la bocca piú rossa del solito, la lingua smagliante spesso si affacciava tra le labbra per inumidirle, i tratti del viso le si erano induriti. Le ho detto: « Scendiamo, allontaniamoci un po' ».
« Tu sei matto » ha ribattuto lei, fra incredula e canzonatoria. « Con questo tempo! ».
Siamo andati qualche volta a mangiare nelle trattorie fuori mano, una volta siamo andati a Rieti. Non siamo potuti andare nella sua stanza perché a Wanda non era permesso portarci uomini: mi aveva già detto, i primi giorni, che la padrona su quel punto era irremovibile. Io mi sforzavo di trovare soluzioni, ma le possibilità che mi passavano per la testa urtavano contro la necessità di salvaguardare la mia posizione: negli alberghi avrei dovuto esibire un documento, delle stanze che affittano clandestinamente diffidavo.
Sicché, un pomeriggio che mia madre doveva andare con Giuseppina a trovare una cugina ammalata, ho fatto venire Wanda a casa mia. Siamo andati subito nella mia stanza. Wanda diceva «ho freddo »; poi nel buttarmisi contr[...]

[...]a mia tessera di funzionario quando c'ero andato, giacché non avevo altri documenti addosso.
Wanda è venuta spesso a prendermi in ufficio, in quei giorni. Una volta l'ho trovata che chiacchierava con Porzio, nell'anticamera. Lei era addossata al muro, Porzio le stava assai vicino e le parlava in una maniera ad un tempo ammiccante e languida, da corridoio di treno. Appena mi ha visto si é fatto serio e si é scostato.
Quelle visite mi seccavano, perché non mi pareva conveniente che in un commissariato venissero donne come Wanda a prendere i funzionari. Sicché un giorno l'ho pregata di non venire più; lei mi ha sorriso e mi ha detto « va bene ». Allora ha cominciato ad aspettarmi in un bar vicino, e presto ha fatto amicizia con la cassiera. Quando io arrivavo mi pareva che parlassero di me, con una certa complicità. Una sera ho spiegato a Wanda la necessità di una riservatezza assoluta, in un rapporto come il nostro. « Non parlare mai dei fatti nostri » le ho detto.
Abbiamo continuato a girare con la macchina, a fermarci in posti solitari, [...]

[...]ta. Mentre camminavamo per le strade del centro mi tratteneva davanti alle vetrine dei negozi, era allegra e m'indicava ad alta voce gli oggetti esposti. Molti la notavano, e spesso mi arrivavano parole salaci.
Un giorno mi ha chiesto di portarla a ballare. Io le ho detto di no, ma lei mi ha pregato. Allora ho mandato un agente a casa a prendere un vestito scuro che avevano dimenticato di mettermi nelle valigie; e ho aspettato il primo giovedì, perché in questo giorno si ballava in un locale prossimo alla Stazione del quale conosco il proprietario, e — inoltre — perché non volevo andare nei locali la notte. Siamo entrati nel dancing presto, insieme a quelli dell'orchestra. Siccome Wanda ballava con movenze insistite, mi sono limitato ad un tango.
Com'era diversa dalle ragazze che mía madre mi cacciava in casa! Si dondolava sulle sedie, si grattava dappertutto senza pudore, al telefono strillava. Mangiando sbatteva le labbra; un giorno le ho detto « fa' piano, mi sembri un cane », e lei ha riso.
Una volta mi ha detto che era nata alla Garbatella. Quando aveva dodici anni lavava le teste da un parrucchiere del Corso, e aveva imparato a fatica le strade del [...]

[...]a salutato Porzio, che si è alzato e si è inchinato, e ha voluto aprirlo lei. « E proprio bello » ha detto appena ha estratto il frullatore dall'involucro. « Vado a vedere come sta in cucina ».
Porzio mi ha ripetuto che quel regalo era una schiocchezza, ma che partiva dal cuore, ed io dovevo badare al pensiero.
Wanda è tornata e si è seduta. Porzio ha preso a parlarmi di certi lavori murari che in ufficio ormai urgevano, ma io non l'ho seguito perché Wanda aveva intanto accavallato le gambe e le stava muovendo, in maniera che la veste le salisse. Mi sono messo gli occhiali per seguire bene la moina, e ho guardato Wanda malamente. Porzio, continuando a parlare con la voce fattaglisi adesso fessa, ha fatto una faccia tragica: cercava di non guardare le cosce di Wanda ma non ci riusciva. Io ho portato il discorso ad una conclusione, e l'ho congedato.
Subito dopo avergli chiuso dietro la porta, ho schiaffeggiato Wanda con violenza. Lei s'è riparata la faccia, e ha negato di aver voluto mostrare alcunché. « Troia » le ho detto. « Sarai sempre[...]

[...]oi sia mo andati sulle montagne russe. Quando il vagoncino pareva che preci pitasse, rideva in una maniera brutale. Ha anche strillato, e le é uscita un po' di bava.
Qualche giorno dopo, entrando una sera nella stanza di Porzio, l'ho trovato che parlava al telefono a bassa voce, confidenziale e compreso. Appena ha visto che ero io ad essere entrato ha detto « adesso la lascio, scusi... ». Chi parlava con lui deve aver insistito per trattenerlo, perché Porzio ha detto .« abbia pazienza, signora, la devo proprio salutare ». Detto « signora » mi ha guardato con timore evidente, forse simultaneo al pentimento di aver pronunziato la parola superflua; poi rapido ha collocato il microfono al suo posto. Io dovevo parlargli dei lavori murari da farsi, ma il sospetto mi ha assalito, e gli ho detto « vieni da me più tardi ».
Sono tornato nella mia stanza. L'atteggiamento di Porzio mi faceva certo che chi parlava al telefono con lui era mia madre, o era Wanda. Ho fatto spazio sul tavolo perché le carte non mi distraessero.
Una tresca di Porzio con W[...]

[...]ra » mi ha guardato con timore evidente, forse simultaneo al pentimento di aver pronunziato la parola superflua; poi rapido ha collocato il microfono al suo posto. Io dovevo parlargli dei lavori murari da farsi, ma il sospetto mi ha assalito, e gli ho detto « vieni da me più tardi ».
Sono tornato nella mia stanza. L'atteggiamento di Porzio mi faceva certo che chi parlava al telefono con lui era mia madre, o era Wanda. Ho fatto spazio sul tavolo perché le carte non mi distraessero.
Una tresca di Porzio con Wanda era nell'ordine del possibile, ma mi sembrava poco probabile: Porzio, se scoperto, si sarebbe rovinato; Wanda avrebbe perso cose preziose, difficili per lei a raggiungersi al di fuori di me. Era più probabile che ci fosse mia madre, all'altro capo del filo. Forse si era messa in contatto con Porzio, e da lui si aspettava notizie sul mio conto, suggerimenti sul da farsi. (Porzio conosceva bene il mondo, e tutti se ne avvedevano; tanto che talvolta mi pareva che il ruolo reciproco che svolgevamo nel nostro rapporto fosse casuale e no[...]

[...]o Porzio restava una persona d'onore, ed io non avrei ecceduto da una sfuriata. Però — mi sono riscosso — al telefono poteva anche essere un'amica di Porzio, alla quale lui aveva dato del lei a causa del mio ingresso nella stanza; o addirittura una donna qualsiasi che gli avesse telefonato per motivi d'ufficio: una parente di un « fermato » per avere notizie, un'affittacamere o una negoziante per pratiche relative alla licenza. Ma in questo caso perché Porzio avrebbe salutato la donna tosi affrettatamente? Poteva chiudere la telefonata in un modo limpido! E se fosse stata proprio Wanda? Se si fosse camuffata bene agli occhi miei, mostrandomisi come una ragazza semplice, bisognosa d'affetto, e fosse invece una donnaccia sempre disponibile, pronta a rischiare tutto per un'ora d'amore con questo o con quello, con Porzio, per esempio, che in fondo avevo sorpreso una volta nel corridoio dell'ufficio che la avvinceva con le parole?
Non m'importava niente, a quel punto, che mia madre mi controllasse e tramasse con Porzio. Ma invece, ridisponendo [...]

[...]t'anni? O, non piuttosto, mai?
Porzio mi ha informato con garbo e competenza, assai concreto nella definizione dei lavori, del tutto scevro dal timore di poco prima. Ed io sono riuscito a parlargli serenamente, reprimendo bene il fondo tempestoso; gli ho offerto una sigaretta, e forse ho ecceduto nella cordialità : come il maestro che a scuola interroga il ragazzo che giudica malvagio, e si sforza di essere imparziale, e magari gli alza il voto perché non si sospetti prevenzione.
In uno dei giorni successivi ho ricevuto in ufficio una lettera di mia madre. Riconoscendo sulla busta la sua calligrafia, ho pensato ad una possibile conferma dell'ipotesi del suo complotto con Porzio. Ma il tenore della lettera non era cos' liberatorio. Su un foglio abbondantemente bordato di nero (giacché frattanto sua cugina era morta) era scritto: «Quanti anni credi che possa vivere ancora tua madre? Lo sai come vivi? Pensa a tuo padre che é morto, e torna ». Non c'era firma.
Mi sono messo a pensare. Certo, regalando un po' di soldi a Wanda e tornando da mi[...]

[...]subito asciugata le mani e l'ha letta con molta attenzione. « Decidi tu » ha sorriso dopo. Io ho ostentato serenità, e ho ribattuto che non avevo niente da decidere: ero andato via di casa, e basta. Casomai avrei visto — ho aggiunto — di rimettermi con mia madre in rapporti normali. K Fai bene » ha detto lei, e mi ha restituito la lettera. Poi, fat
AVVENTURA DI UN COMMISSARIO 127
tasi improvvisamente seria : « Ma senti un po' » ha soggiunto, « perché me l'hai fatta leggere? ».
In una mattina molto limpida, della primavera che ormai era in fiore, non avevo voglia di lavorare, e soffrivo di dover stare in ufficio. M'ero affacciato alla finestra, e guardavo alcuni gatti che giocavano e rischiavano continuamente di essere investiti dalle automobili. Alle undici ha squillato il telefono. Era mia madre.
« Nicola, vai subito a casa tua » ha detto senza convenevoli.
« Perché? » ho risposto assai stupito.
« Vai a casa tua, subito... Avrai una sorpresa ».
« Che ne sai tu, di casa mia ? » ho strillato.
« Devi andare a casa tua, subito » ha ripetuto.
« Ma perché, si può sapere? ».
« Resta col dubbio, se vuoi » ha detto mia madre, ed ha interrotto la comunicazione.
Ho cercato di Porzio per dirgli che mi allontanavo, ma non l'ho trovato. Sono sceso precipitosamente, e sono salito su una camionetta. Ho detto all'agente di correre. Al portone di casa mia l'ho mandato via, e sono corso sù.
Ho aperto la porta di colpo, e ho sentito delle voci sommesse che venivano dal soggiorno. Vi sono entrato, e ho trovato Wanda ed un uomo seduti sul divano, che si abbracciavano. Lei era in sottoveste, lui in camicia. Con lo stesso colpo d'occhio ho visto sul divano a[...]

[...]levo dire le signore anziane... Sua madre ha insistito, ha parlato con mia moglie... Ci ha invitati anche a pranzo, una volta... C'era un suo parente di Napoli.. ».
«Zio Alfonso » l'ho interrotto.
« Il nome non lo so... Era un signore distinto, magro; un fratello di suo padre, mi pare... Il piano l'ha fatto lui ».
« Quindi mia madre ti telefonava spesso, qui ».
« Sissignore ».
« E la signorina, non ti ha telefonato mai? ».
«No... Ma scusi, perché mi avrebbe dovuto telefonare? ».
È un mese che vivo solo. Non ne ho motivi fondati, giacché sono certo che se tornassi a casa mia madre verrebbe ormai a patti: la persuaderei a non ostinarsi a volermi vedere sposato. In più, questa condizione di scapolo solitario mi pare ingiustificata, per qualche verso eccessiva.
430 RAFFAELE CRIVARO
Qualche volta mi prende un'ansia carezzevole di tornare da mia madre (che non mi ha più cercato), di ricomparire di sorpresa davanti a Giuseppina. Ma poi succede che debbo correre in ufficio, o che ho sonno, o che debbo lamentarmi con la serva perché le cami[...]

[...]e verrebbe ormai a patti: la persuaderei a non ostinarsi a volermi vedere sposato. In più, questa condizione di scapolo solitario mi pare ingiustificata, per qualche verso eccessiva.
430 RAFFAELE CRIVARO
Qualche volta mi prende un'ansia carezzevole di tornare da mia madre (che non mi ha più cercato), di ricomparire di sorpresa davanti a Giuseppina. Ma poi succede che debbo correre in ufficio, o che ho sonno, o che debbo lamentarmi con la serva perché le camicie sono stirate male.
Adesso, mi trattengo in ufficio più del solito e cerco di allargare i miei interessi, perché se ne giovi la carriera. Pare che nessuno sia venuto a conoscenza dei miei casi, e questo è assai importante. Con Porzio, corrono i rapporti di sempre; sebbene, una tal quale maggiore rigidità, da parte mia, stia agevolando lo svolgimento del lavoro.
La sera, vado spesso al cinema. Se non esco, mi faccio cocktails di frutta col frullatore, e leggo romanzi gialli. Ho anche comprato un fonografo, e alcuni dischi di canzoni. Ogni tanto li ascolto, mi prende uno struggimento breve e penso a Wanda, che fa all'amore chissà con chi.
RAFFAELE CRIVARO



da Sebastiano Timpanaro, Il Marchesi di Antonio La Penna in KBD-Periodici: Belfagor 1980 - novembre - 30 - numero 6

Brano: [...], 73 s., 93).
Nella prolusione padovana del 1923 Filologia e filologismo (in Scritti minori, Firenze 1978, rii, p. 1233 ss.: d'ora innanzi indicherò, seguendo il La Penna, questa silloge con SM), al cui esame il La Penna dedica il cap. viii, uno dei piú penetranti del suo libro, Marchesi conduce contro lo « studio delle
IL « MARCITESI » DI ANTONIO LA PENNA 633
fonti » una polemica che, in ciò che ha di giusto, è una battaglia di retroguardia, perché critica un metodo di scomposizione meccanica dell'opera d'arte e di riduzione del poeta a imitatore passivo dei suoi antecessori, che non era stato proprio nemmeno di tutta la filologia positivistica (anche il positivismo aveva avuto, nelle scienze naturali e umane piú ancora che nella filosofia, i suoi uomini d'ingegno e di genio) e che, comunque, era stato già superato proprio dalla migliore filologia tedesca (se con qualche seria ricaduta in un discutibile neoumanesimo e nazionalismo, non importa qui discutere). Di quel ben piú complesso e raffinato modo di porre il problema del rapporto t[...]

[...]resco in senso immediato e triviale, bensí dotato di cultura, di raffinato senso ritmico, esprimentesi in una lingua piena di espressività e di forza vitale, ma non « volgare ». Si confronti l'accenno a Plauto nella recensione già citata al Leo (SM, in, p.. 1108) con ciò che nella Storia della letteratura latina (i`, p. 75) si dice di Plauto poeta « ellenistico », non « ignorante di genio », ma « grande poeta » e perciò « uomo di grande cultura: perché l'arte si alimenta di conoscenza e di studio: altrimenti è improvvisazione artistica di breve durata »; si vedano ancora, nella Storia (vol. cit., pp. 7375), i paragrafi sulla lingua plautina (che « non è quella del volgo, com'è mala consuetudine ripetere ») e sulla metrica; e si riconoscerà ben chiaro l'influsso del Leo. A proposito dell'origine dei cantica c'è perfino un accenno alle due teorie del Leo e di Eduard Fraenkel (derivazione dalla lirica ellenistica o dai cantica tragici?): dalla lettura del Leo Marchesi era passato, sia pure nei limiti di una rapida e non approfondita informazio[...]

[...]o e di Eduard Fraenkel (derivazione dalla lirica ellenistica o dai cantica tragici?): dalla lettura del Leo Marchesi era passato, sia pure nei limiti di una rapida e non approfondita informazione, alla conoscenza di lavori plautini della scuola del Leo.
Come si vede, qui fa capolino una concezione del rapporto fra ispirazione poetica e « cultura » che contrasta, felicemente, con la concezione tipica di Marchesi. Felicemente ma isolatamente (non perché Marchesi fosse succube del mito romantico del poeta « sublime ignorante », ma perché tra cultura e poesia rimaneva secondo lui, come si è detto, un iato). La lettura di Leo non solo non ha spinto Marchesi a rivedere il proprio metodo critico, ma, cosa alquanto strana, non ha nemmeno influito sulla sua visione dell'intera letteratura arcaica latina, che rimane particolarmente infelice (basti pensare all'incomprensione per Ennio, su cui vedi le osservazioni giustamente dure di La Penna, p. 76, e per
IL « MARCHESI » DI ANTONIO LA PENNA 635
Terenzio). E del resto su Plauto stesso il Marchesi non ha pressoché nulla di originale da dire: il capitolo della Storia su Plauto rimane [...]

[...]a dei valori, se non si accetta il « persuadere » solo come una fase preliminare, provvisoria, di un'attività che tenda al raggiungimento del « convincere » (magari come ad una mètalimite), la giustificazione stessa della critica estetica vien meno: si tratterebbe in tal caso di un esercizio avvocatesco, di un'abile e insinuante sopraffazione da parte del critico sul lettore, il quale finirebbe col rinunciare a un proprio precedente giudizio non perché errato o insufficiente (di giudizio errato non si può parlare se il giudizio è sempre soggettivo e, come tale, inconfutabile), ma solo per la propria « mi
636 SEBASTIANO TIMPANARO
nore bravura » a difenderlo contro il critico. Ma non è questa la sede per cercar di sviluppare questa mia opinione. Qui si deve rimanere aderenti al tema La PennaMarchesi. E si deve constatare che il vivo amore di La Penna per la poesia, unito al ben giusto fastidio per recenti indirizzi di studio della letteratura che non sono né « scientifici » né « assiologici », ma hanno soltanto delle velleità scientistiche [...]

[...] affatto pretendere di racchiudere in questa definizione una personalità eticamente e psicologicamente cosí complessa). Qualche citazione ci farà meglio capire il fascino che, malgrado tutte le riserve già accennate e altre che accenneremo, Marchesi esercita su La Penna:
Chi riduce la critica a disquisizioni metodologiche, potrebbe parlare, con sarcasmo, di arti f ex additus artifici; sia pure; ma, se l'arti f ex additus è un artista autentico, perché dovremmo rifiutare i nuovi doni delle Muse? (p. 40).
Egli [...] rimane come uno dei maggiori criticiartisti che abbia avuto il Novecento italiano [...1. Per quante differenze ci dividano, nella concezione storica e nel metodo, dalla critica della prima metà del secolo, ricordo Marchesi, Valgimigli, Perrotta come uomini che sapevano ricevere i doni delle Muse con mani delicate; né a quel tempo né prima né dopo sono mancati studiosi delle lettere che fanno pensare ai porci rufolanti tra le perle. Onoriamo questo amico delle Muse con misura e con rispetto della verità; può darsi che, una volta [...]

[...]convinto che il buon gusto fosse, per ripetere un'espressione che abbiamo visto usata metaforicamente dal La Penna, un « dono delle Muse » largito a spiriti eletti: poeta et criticus nascuntur, non
IL « MARCHESI» DI ANTONIO LA PENNA 637
fiunt. E di questa aristocratica certezza di possedere il buon gusto si appagava, senza sentire il bisogno di motivarla. Nei momenti in cui si sentiva socialista o comunista (di momenti bisogna parlare, proprio perché il suo comunismo non era né teoricamente fondato, né basato su una militanza costante) vagheggiava un'umanità alla quale, tutta, i doni delle Muse potessero essere elargiti; ma questa era, in fondo, una speranza lontana e tutt'altro che certa; e se qualcuno gli avesse parlato di distinzione tra
« convincere » e « persuadere », il suo antiscientismo e la sua stessa vocazione retorica lo avrebbero indotto a rispondere che il « persuadere » è via alla verità (alla verità umanamente calda, non alla gelida e presuntuosa
« esattezza ») piú sicura e feconda che il « convincere ».
Confesso che, pr[...]

[...]ane rammentate da La Penna il De Sanctis parlava della « scuola liberale » e della « scuola democratica », legava strettamente la storia politica alla letteraria, affiancava, d'altra parte, all'opera di storico un'attività di critico militante, per il « reale » contro l'« ideale », per una cultura dell'Italia unita borgheseavanzata con forti cautele « antiutopistiche ». Se nell'immediato dopoguerra si esagerò in « desanctisismo di sinistra », fu perché non si videro i limiti (d'indirizzo politico e, connessi con questi, anche di gusto estetico) di una prospettiva storica e critica che tagliava fuori Cattaneo, Pisacane, la prima scapigliatura, e fondamentalmente non capiva nemmeno Leopardi. Tuttavia nello Studio sul Leopardi, l'ultima opera rimasta incompiuta, c'è un'esigenza di ricerca filologicostorica e addirittura di preparazione bibliografica, di metodo
« tedesco ». Che cosa di tutto ciò ereditò Marchesi? Direi nulla, anche a volersi limitare al « gusto », che In Marchesi è sempre collegato con uno psicologismo, con una predilezione pe[...]

[...] « evitare l'insonnia, la miseria, la follia »
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(SM, ii, p. 669 s., in uno scritto del 1910: il passo, non breve, è tutto da leggere, e con ragione il La Penna, p. 35 s., ne sottolinea la centralità per capire Marchesi). Al pari della filosofia, la scienza « non potrà mai svelare l'arcano della vita » (Il poema di Lucrezio, Torino, « Quaderni ACI », [1950], p. 16). L'opera di Tacito « non teme fallimento: perché le idee cadono, solo il dubbio rimane » (Tacito, Messina 1924, p. 252; un po' diverso nell'espressione, ma non nel contenuto, in Tacitoz, 1942, p. 186); e nello stesso Tacito parlerà di « quella superstizione o finzione chiamata volgarmente la verità » (p. 295, cit. anche da La Penna, p. 68). Le citazioni — anche da scritti di varia letteratura e meditazione — si potrebbero moltiplicare.
Ciò che non possono dare filosofia e scienza, può darlo, anche se non interamente, l'arte. A volte (vedi l'accenno, forse troppo fugace, di La Penna, p. 36) sembra che l'arte, per Marchesi, sia dotata di que[...]

[...]ben diversa dall'orgogliosa sicurezza filosofica e scientifica) senza le quali la vita si sarebbe immeschinita, si sarebbe abbassata al vegetare di quel « volgo » verso cui, come abbiamo visto e ancora vedremo, il socialista e comunista Marchesi non riuscí mai a superare un aristocratico disprezzo. Nella conferenza su Lucrezio, dopo aver detto le parole già da noi riportate, che la scienza non potrà mai svelare l'arcano della vita, aggiungeva: « Perché se lo potesse un giorno, sarebbe morta la poesia »: una cosa, dunque, da non auspicare. E nella seconda edizione del Seneca (MessinaMilano 1934', p. 404) dichiarava: « Solo lo smarrimento e il dubbio aprono le porte dell'infinito allo spirito umano che la certezza costringerebbe nell'angustia e nell'inerzia di una immobile contemplazione ». Nell'atto stesso in cui condanna la certezza filosoficoscientifica, Marchesi sembra rifiutare anche la certezza religiosa. E nel capitolo del Seneca dedicato al problema della morte, Marchesi non considera, pare, come un progresso il passaggio del suo auto[...]

[...]ione del critico), Marchesi fa consistere il vero valore della letteratura latina non nell'esaltazione dei valori civici, nell'attaccamento al mos maiorum politico ed eticoreligioso, ma nell'appartarsi da questa romanità ufficiale, nell'esprimere quell'« umanità perenne » di cui si è detto. Questo criterio di valutazione resterà sostanzialmente costante anche piú tardi, anche nella Storia della letteratura latina. Ennio è svalutato (e frainteso) perché « chi si fa cantore delle glorie nazionali è poeta che impone alla propria fantasia limiti che l'arte non ha: ed è poeta destinato a morire ». Catullo e in genere i poetae novi sono amati (fin dal giovanile volumetto su Elvio Cinna, cfr. La Penna, pp. 56) in quanto disgregatori di valori tradizionali. Lucrezio è grande per la sua prospettiva cosmica e il suo senso doloroso della vita, per la sua implicita (e anche esplicita) svalutazione della partecipazione alla vita pubblica con le sue ambizioni e le sue meschinità 3. I poeti augustei, mediocri quando si fanno esaltatori della romanità e de[...]

[...], che reca il segno di un faticoso rifacimento, anche se il giudizio complessivo su Seneca non muta).
Quanto a Tacito, il La Penna ha, come si è visto, indicato le ragioni per cui questo patriota, imperialista, conservatore in politica interna ha tuttavia profondamente interessato Marchesi. Oserei dire che, per alcuni aspetti (soprattutto per l'acutezza di certi giudizi politici, cfr. La Penna, p. 65 s.), il Tacito è superiore al Seneca proprio perché l'identificazione fra il critico e il suo autore è meno immediata. Forse, però, Marchesi ha visto troppo poco in Tacito la coscienza (ad un livello piú profondo del livello « patriottico ») dell'iniquità dell'imperialismo romano e del suo avviarsi alla decadenza,, nonostante l'età « aurea » di Nerva e di Traiano. Egli accenna — ed è vero — che Tacito narra senza un moto di pietà i massacri di barbari compiuti dai soldati romani; soltanto tardi, negli Annali, si farebbe strada talvolta un moto di « ammirazione e di riverenza a quei barbari eroici » (p. 165, 2a ed. p. 158); ma anche qui — nei d[...]

[...]efigge scopi « civili » anziché « umani » non è certamente, secondo Marchesi, un principio valevole per la sola letteratura latina. Marchesi stesso si richiama a Heine come modello di poeta « umano » accostabile a Marziale, dichiara
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che « il contenuto dell'arte nei Reisebilder è piú universale che negli Châtiments », sostiene che « quanto piú il poeta parla di sé, tanto piú gli avviene di parlare degli altri ». Proprio perché l'uomo è fondamentalmente sempre uguale, l'individualità piú profonda, spogliata degli elementi contingenti, coincide con l'universalità (SM, i, p. 201; cfr. La Penna, p. 32 s.).
D'altra parte, però, Marchesi non ha prediletto la letteratura latina a caso; e non a caso, aggiungerei, ha prediletto, nella letteratura latina, l'età imperiale. Il mondo romano, per l'estensione che assunse, per il carattere multinazionale e sopranazionale che sempre piú acquisí (mentre gli antichi valori civici si dissolsero e divennero motivo più di rimpianto che di sincero orgoglio, e nessun tentativo di restau[...]

[...]ivava da una pregiudiziale mancanza di vera ammirazione. Specialmente quella lunga stagione della letteratura greca che era strettamente legata alla vita della polis, o comunque alla partecipazione a comunità politiche, ristrette e coese, recava, per lui, un vizio d'origine: il « cittadino » aveva, in certa misura, reso angusto l'« uomo »! Proprio nell'Epilogo della Storia (u°, p. 468) si legge: « La letteratura latina è più popolare della greca perché piú della greca ha accostato la moltitudine all'opera letteraria e ha empíto di folla i teatri e le sale di recitazione f...]; perché, senza danno dei grandi artisti, che sono intangibili, dell'attività artistica ha fatto un incitamento e un sollievo valevole per tutti. La letteratura latina è anche più moderna della greca, e più della greca ha influito e operato in tutte le nuove letterature, appunto perché essa è stata creata non da una regione — come la letteratura ellenica — ma da un mondo che si estendeva dal Mediterraneo all'Atlantico ». Presa alla lettera, nella sua prima parte, questa asserzione è, sia detto senza venir meno al rispetto per la memoria di Marchesi, una vera assurdità; e assurdità non minori vi sono nelle righe che abbiamo omesso, indicando l'omissione con punti sospensivi. Parrebbe che Marchesi non abbia saputo, sulla funzione del teatro in Atene, ciò che sa ogni studente di liceo. Lascia soprattutto sconcertati (anche per
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chi ricor[...]

[...]olitici, cosicché non si era nemmeno avuta, specie dalla guerra annibalica in poi, quella coesistenza di imperialismo rapace e di democrazia all'interno della polis che vi era stata nell'Atene periclea. E nella creazione dell'Impero avevano avuto una parte importante alcuni capi, alcuni « uomini forti » che Marchesi, disprezzatore della poesia politica e celebrativa, ammirava, anche, certo, per il suo invincibile aristocraticismo, ma soprattutto perché da un lato, comprimendo il potere dell'oligarchia senatoria, avevano esercitato un'azione, in qualche modo, « popolare » (a proposito di Cesare questo motivo, di chiara origine mommseniana, è indicato dal La Penna, p. 34; e in generale direi che Marchesi, giudice storicopolitico non sempre ugualmente acuto, raggiunge il massimo di appassionata lucidità nel disprezzo per l'oligarchia senatoria), dall'altro avevano fatto acquisire allo Stato romano quell'estensione e quel carattere cosmopolitico che avevano conferito alla letteratura latina la sua « universalità ».
Da questo punto di vista l'i[...]

[...]irei che Marchesi, giudice storicopolitico non sempre ugualmente acuto, raggiunge il massimo di appassionata lucidità nel disprezzo per l'oligarchia senatoria), dall'altro avevano fatto acquisire allo Stato romano quell'estensione e quel carattere cosmopolitico che avevano conferito alla letteratura latina la sua « universalità ».
Da questo punto di vista l'imperialismo diventava, paradossalmente ma non illogicamente, superiore al patriottismo, perché era una via alla dissoluzione delle angustie nazionali. Una frase come quella che leggiamo nell'Epilogo della Storia (ii`, p. 468): « Perché la civiltà va oltre la nazione ed è, per sua intima e prepotente natura, imperiale: se per impero s'ha da intendere la vasta unità civile delle genti », letta in periodo fascista poteva prestarsi a gravi fraintendimenti, e di questo rischio Marchesi si curò troppo poco; tuttavia il contesto dimostra che fondamentalmente l'impero era visto da Marchesi diversamente che dai latinisti fascisti, come la negazione della romanità chiusa e patriottarda. Poco sopra egli accenna agli scrittori latini provenienti dalla Gallia, dalla Spagna, dall'Africa: « scrittori che sono romani, se anche portano nei [...]

[...]rte e per la morte »!
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vano e dicevano che per opera dei Romani la terra era divenuta patria comune ».
Certo, sarebbe non troppo difficile raccogliere dalle pagine di Marchesi un controflorilegio di passi di condanna del dispotismo, di rivendicazioni libertarie e vagamente sociali. Ma in complesso prevalse in lui l'idea che la creazione di questa « patria comune » valesse il prezzo del dispotismo piú o meno illuminato, perché ciò che si era perduto in libertà politica si era guadagnato in libertà interiore. « Il principato aveva soppresso le lotte di fazione e le libertà politiche, ma aveva stimolato la libertà individuale. L'individuo che prima viveva per le fazioni, ora vive per se stesso e sente di piú se stesso, ed è meno cittadino e piú uomo » (Storia, II', p. 37).
6. La formazione tardoottocentesca di Marchesi. — Anche per un nemico della filosofia come Marchesi non si può rinunciare a chiedersi in quale clima culturale e ideologico si sia formata (e poi, eventualmente, sviluppata e mutata) la sua visione d[...]

[...]aloga a quella tentata e ritentata per il Leopardi, a fare di Lucrezio un poeta « religioso », a negare l'entusiasmo scientifico e la lucidità razionale che nel suo poema coesistono sempre con la tragicità, e che sono anch'essi fonti di poesia — fu enunciata da H.J.G. Patin in un saggio dal sottotitolo brillante: Du poème de la Nature. L'Antilucrèce chez Lucrèce (in Études sur la poésie latine, I, Paris 1868, p. 117 ss.) e ottenne molta fortuna, perché s'inseriva assai bene nel positivismo angosciato dell'ultimo Ottocento. Un documento significativo di questo tipo di lucrezismo è, pur con un certo ritardo, il libro di Spartaco Borra, Spiriti e forme affini in Lucrezio e in Leopardi (Bologna 1911). Ma anche un lucreziano, tutto sommato, piú « entusiasta » che « desolato » come l'anticlericalissimo Gaetano Trezza, nel suo Lucrezio (Firenze 1876', la ed. 1870) diceva: « In quella calma che ti pare olimpica senti un'acre inquietudine che ti accusa un dolore dominato ma non vinto », parlava di « sgomento dell'infinito », di « pianto compresso »,[...]

[...]ica) presenta il problema del lucrezismo rapisardiano. Il Rapisardi tradusse Lucrezio (La Natura, Milano 1880, Torino 18822, questa seconda volta con una prefazione di Trezza, in cui si esalta Lucrezio piú come « lirico » che come espositore dell'epicureismo). La versione, malgrado qualche enfasi rapisardiana e qualche caduta stilistica, è tutt'altro che disprezzabile. In una curiosa epistola in versi A Lucrezio premessa alla traduzione (curiosa perché incomincia con un ragguaglio sulle edizioni critiche del poema, dagli umanisti fino al Lachmann, molto lodato dal Rapisardi in sonanti endecasillabi, e al Munro) il poeta latino è esaltato come distruttore della superstizione, precursore di Galileo e di Darwin; e del motivo dell'Antilucrèce non c'è traccia. Ma, nel Rapisardi, prometeismo antireligioso e aspirazioni religiose si alternarono sempre, e già pochi anni dopo, nella prefazione e nella chiusa del Giobbe e nelle Poesie religiose, risuonano accenti di quel lucrezismo tardoottocentesco.
SEBASTIANO TIMPANARO
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conferenza mar[...]

[...] prime) Novecento. « Volontà di potenza », « slancio vitale » sono concetti e sentimenti estranei a chi sentiva tutta la propria vita dominata da « ansietà e sazietà », a chi diceva: « le cose, appena le tocco, mi diventano vecchie » (cfr. Franceschini, op. cit., p. 21), a chi si identificava soprattutto in Seneca (in quel Seneca cosí poco amato da Nietzsche), ossia in un « preparatore alla morte ». Con molte riserve parlerei anche di estetismo, perché Marchesi non ha mai pregiato l'arte per l'arte, ma ha visto in essa, come s'è detto, un modo di rappresentare il dramma umano e di consolare (parzialmente) dall'infelicità. Chiamerei estetizzanti solo alcune prose meno felici di Marchesi, quelle (frequenti soprattutto nel Libro di Tersite) in cui l'autore si rivolge a una non meglio identificata signora, con un tono fra il galante e lo gnomico. Ma queste pagine non aggiungono alla figura di Marchesi nessun tratto importante.
Anche la dicotomia, ben osservata dal La Penna (p. 55 s.), tra una filologia strettamente e un po' aridamente tecnica [...]

[...]a accettare in quanto ineluttabile, come un fenomeno della natura, come l'evoluzione biologica a cui molti socialisti di quell'epoca accostavano lo sviluppo storicosociale. Negli anni Novanta, Arturo Graf, aderendo al socialismo, scriveva a Turati: « Io accetto tutta, ne' suoi fondamenti, la dottrina socialista; non per la promessa che arreca di una maggiore felicità avvenire (io credo a una infelicità crescente col crescere della coscienza); ma perché riconosco in essa l'anticipazione teoretica di un fatto assolutamente ineluttabile, voluto dalla legge di evoluzione, e che certo sarà il fatto piú grande e piú mirabile della storia umana » (F. Turati attraverso le lettere di corrispondenti, per cura di A. Schiavi, Bari, Laterza, 1947, p. 116).
Simili adesioni al socialismo, per lo piú, durarono poco. Ai primi del Novecento, Pascoli non era piú socialista da tempo, e Graf cessò di esserlo. Non fu questa la parabola di Marchesi. Eppure anche in lui, accanto alla componente umanitaria, ebbe un notevole peso quel fatalismo che abbiamo notato o[...]

[...] diritti individuali », Marchesi plaudi).
Passata la fase violenta della rivoluzione, sarà la « moltitudine » capace di creare una nuova civiltà? Marchesi sembra negarlo: « Niuno può raddrizzare le gambe agli storpi »; volere « far migliore » la moltitudine è pazzia; e ciò vale per la società in assoluto, « tutta quella che fu e sarà sempre » (p. 555). Il finale dell'articolo accenna vagamente ad una maggiore giustizia sociale (molto vagamente, perché la nozione stessa di giustizia sociale svanisce se si ritiene che il proletariato sia una marmaglia inguaribilmente inferiore), ma si sofferma sul terribile prezzo che ciò costerà: perdita dell'« amore », vuoto « al posto di Dio che irraggiava di beatitudine le anime delle sue creature e dell'imperadore che movea oste per la sua gente » (curioso, sul finire di questo articolo oraziano, questo rimpianto « medievale »). Che avremo al posto di tutto ciò? « I nuovi
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canti del lavoro? Oh forse, no. » L'unica speranza è che « noi » (noi intellettuali umanisti[...]

[...]o minor misura), presentavano lezioni sicuramente giuste e non congetturali; e cercarono di districare la genealogia dei codici A. Ma questa operazione doveva riuscire soltanto assai piú tardi (e pur sempre imperfettamente: gli studiosi piú recenti, certo molto meritevoli, ostentano tuttavia troppa baldanza); e le lezioni di A accolte dal Richter erano ancora, di gran lunga, troppo poche, e troppe le congetture, non piú felici di quelle del Leo. Perché apparisse chiaro quanto di buono si poteva ancora ricavare da A (anche senza affrontare il problema dei rapporti genealogici all'interno di questa famiglia) e di quante congetture inutili andasse sbarazzato il testo delle tragedie di Seneca, dovevano venire, dal 1926 in poi, gli studi di Gunnar Carlsson, che rimangono fondamentali, sebbene in alcuni casi il Carlsson si sia spinto troppo oltre.
Marchesi non aveva nel 1908 e non ebbe nemmeno piú tardi l'attitudine ad affrontare complessi problemi di genealogia dei codici (non la ebbero nemmeno, è bene ricordarlo, filologi suoi coetanei o suoi [...]

[...]nati, egli dette una sommaria notizia dei manoscritti fiorentini, soffermandosi con particolare predilezione sul Riccardiano 526 (sec. xiii: cfr. pp. 29, 3337). A proposito delle lodi che il Marchesi tributa a questo codice, il La Penna fa un'osservazione che, del tutto giusta in moltissimi casi, non mi sembra giusta nel caso specifico: « Una curiosa trappola riservata ai conservatori in critica del testo è nel sostenere lezioni manoscritte solo perché manoscritte, anche quando sono frutto di emendamenti di copisti dimostrabili in base alla storia del testo ». Ora, il Marchesi (p. 29) non loda il Riccardiano in quanto trasmettitore di lezioni risalenti all'archetipo o comunque a un ramo di tradizione genuina: loda il co pi s t a del Riccardiano in quanto assennato editore medievale, che, attenendosi fondamentalmente ad A ma attingendo anche ad E o a suoi apografi,
664 SEBASTIANO TIMPANARO
e talvolta congetturando con prudenza (« introdusse di suo emendamenti congetturali e ritocchi »), dette un buon testo eclettico, precorrendo talvolta c[...]

[...]nten
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dermi: anche nell'ultimo Marchesi la filologia, pur tanto meglio apprezzata e praticata, rimase un'attività marginale.
9. Tommaso Fiore e gli « intellettuali disorganici ». — Se ora, dopo essermi soffermato cosí a lungo sul Marchesi di La Penna (mettendo a dura prova la pazienza dell'eventuale lettore), non mi soffermo sul piú breve saggio su Tommaso Fiore interprete di Virgilio (pp. 107131), non è perché non lo consideri degno del precedente, ma soltanto perché lo spazio ormai manca e perché in questo caso non avrei da esprimere osservazioni o aggiunte, ma soltanto consensi. Dirò solo che questo scritto, pur nella sua concisione, dà piú di quanto il titolo prometta: il La Penna non parla soltanto del saggio di Fiore su Virgilio, ma anche di quelli su SainteBeuve e su Tommaso Moro, e delle dispense di un suo corso universitario su Ovidio. Su Virgilio e su SainteBeuve le pagine del La Penna sono preziose anche per l'interpretazione diretta di questi autoli, non soltanto per comprendere e valutare il giudizio che ne dette Tommaso Fiore (del quale, d'altronde, il La Penna traccia di [...]



da Recensione di Diego Lanza su Raymond Williams, Marxismo e letteratura, Bari, Laterza, 1979, pp. 288 in KBD-Periodici: Belfagor 1980 - novembre - 30 - numero 6

Brano: [...]1
RAYMOND WILLIAMS, Marxismo e letteratura, Bari, Laterza, 1979, pp. 288.
Per Marx, ricorda Williams, « tutta la teoria `separata' è ideologia, mentre la teoria genuina — la `conoscenza reale positiva' — è l'articolazione della `coscienza pratica' » (p. 94). Questa opposizione, anche se stinta col tempo e spesso volontariamente cancellata dalla stessa tradizione del pensiero marxista, esercita su Williams un forte fascino. Fascino inquietante, perché Williams sa bene che tutta la sua riflessione non può non essere `separata', né d'altra parte è personaggio da ripiegare sul consolante ossimoro di una `pratica teorica'.
Tutto il suo libro, che Laterza ha fatto bene a offrire al pubblico italiano in tempi brevi, vive in questa contraddizione: fare i conti con la tradizione senza la sicurezza di un'ottica che solo una diversa coscienza pratica collettiva potrebbe offrire. Cosí le riflessioni di Williams assumono il tono e le cadenze del discorso a se stesso, della discussione del proprio itinerario intellettuale, come egli dichiara nella viv[...]

[...]n certo grado di sanzione — nel corso di altre argomentazioni, e date le difficoltà intrinseche a ogni formulazione di tal fatta —, è indubbiamente vero; ma è anche significativo il fatto che, ogni volta che Marx s'è impegnato in un'analisi approfondita, o ha individuato la necessità di siffatta analisi, abbia dimostrato al tempo stesso flessibilità e specificità nell'uso dei suoi stessi termini » (pp. 1034). Si è citata per esteso questa pagina perché, al di là della sua importanza specifica per illuminare un importante passaggio dell'argomentazione di Williams, chiarisce bene lo stile intellettuale dell'autore, il suo genuino desiderio di indagine, mai paralizzato dall'osservanza sacerdotale ad un presupposto testo sacro. Marx è studiato, non soltanto citato. E la validità del suo pensiero è da Williams dimostrata e non presupposta.
Cosí egli distingue con molta chiarezza tra determinazione e determinismo, indicandone non solo la diversità, ma l'appartenenza ad opposti stili di pensiero: « Fu cosí che, con amara ironia, una dottrina crit[...]

[...]on molta chiarezza tra determinazione e determinismo, indicandone non solo la diversità, ma l'appartenenza ad opposti stili di pensiero: « Fu cosí che, con amara ironia, una dottrina critica e rivoluzionaria, si mutò — non solo in pratica, ma anche a questo livello di principio — in quelle vere e proprie forme di
RECENSIONI 743
acquiescenza e reificazione contro cui un senso alternativo di `determinazione' s'era proposto di operare » (p. 114). Perché? Perché, cosí facendo, si rimuove proprio il significato fondamentale della critica marxiana alla presunzione borghese di impermeabilità tra sociale e individuale, tra materiale e spirituale. Il senso del materialismo marxista non consiste per Williams nel rovesciamento del rapporto gerarchico di dipendenza, che conserva intatta la visione di una realtà rigidamente bipartita, ma al contrario nell'indicazione critica di come la realtà nella sua concretezza materiale sia profondamente unitaria, articolata, dialettica. Perciò Williams annota: « La subordinazione di tutte le attività umane (fatte salve a[...]

[...]ma la sua forza consiste nel saper condizionare a sé gli altri possibili sistemi ideologici. « Si potrebbe affermare a buon diritto », soggiunge Williams, « che tutte, o quasi tutte, le iniziative e i contributi — anche quando si situano su posizioni palesemente alternative o di opposizione — sono in pratica legati all'egemonico: la cultura dominante produce cioè, e limita al contempo, le sue stesse forme di controcultura» (p. 151). In che modo? Perché è questo il vero problema, non solo storiografico e perciò ricostruttivo, ma anche storico e quindi propositivo, di una pratica di rinnovamento. Secondo Williams, « i modi di dominio operano una selezione dell'intera gamma della pratica umana, e di conseguenza la escludono. Ciò che essi escludono può spesso apparire come di pertinenza dell'ambito personale o privato, o naturale, o metafisico; anzi, di norma, proprio uno di questi termini viene usato per definire l'area esclusa, poiché ciò che il dominante ha effettivamente in pugno è la definizione dominante del sociale » (p. 166). Quel che v[...]

[...]Da una parte c'è la strada larga e ben battuta della sostanziale autonomia del testo.
746 RECENSIONI
Il testo può, anzi deve, venir considerato, analizzato, notomizzato in quanto tale, staccato cioè dalla figura del padre autore divenuta ormai irrimediabilmente opaca, ma disarticolato anche dal contesto della sua produzione. La critica testuale semiologica si pone quindi, e a ragione, come la piú fedele erede della critica testuale filologica, perché ne mutua l'assunto teorico fondamentale, essere cioè il testo, al di là di ogni accidentalità fenomenologica, una pura essenzialità trascendentale.
Ma c'è un'altra via d'uscita per la critica dopo lo scacco della morte dell'artista: riportare l'opera non all'immagine enfatica di un creatore individuale, ma al complesso quadro istituzionale e ideologico della sua produzione e della sua fruizione. $ senza dubbio in questa direzione che si muove Williams, e per questo il terreno piú importante appare proprio quello delle mediazioni specifiche. Dietro i generi, le convenzioni, le forme, devono c[...]



da Giovanni Mari, Ritratti critici contemporanei. Louis Althusser in KBD-Periodici: Belfagor 1980 - luglio - 31 - numero 4

Brano: [...]usser, ed in particolare la sua « autocritica », non riguarda tanto la ricerca del nesso che intercorre tra la fase politica successiva al 1968 e la enunciazione della « crisi generale del marxismo », bensí la individuazione del nesso (cioè del « primato » di quale politica) che intercorre tra la fase aperta dal 1956 e la « deviazione teoricista » di tale filosofia. In altre parole, esiste una radice politica di questa « deviazione » filosofica? perché questa « deviazione » nel periodo di difesa del marxismo e di « ritorno alle fonti » (anni Sessanta)? anche a quali errori o deviazioni di tipo politico si può far risalire l'idealismo filosofico di cui Althusser si autocritica? Il filosofo francese non dice niente in proposito, egli si sofferma solo sulle radici teoriche del proprio « teoricismo » e « razionalismo » (Spinoza, Bachelard, una certa influenza dello strutturalismo, ecc.), come se il « primato » della politica si esercitasse solo dal momento in cui viene riconosciuto e in un solo senso, quello positivo.
Queste stesse questioni, [...]

[...]imato della teoria sulla pratica, insistenza unilaterale sulla teoria; ma piú precisamente: razionalismo speculativo », EA, p. 22, nota 20), difende senza alcuna esitazione gli effetti politici ed ideologici ottenuti da questa filosofia « speculativa »: « Ma, e questo è certamente piú importante, alcune tesi che noi attaccavamo hanno dovuto fare marcia indietro: cioè le tesi umaniste, storiciste, ecc. » (EA, p. 40). Ora la difficoltà è tutta qui perché Althusser, dopo aver rivendicato il primato della pratica sulla teoria (in Elementi di autocritica questo primato è rivendicato anche quando si definisce « principale » la giusta tendenza politica dei primi saggi, rivolti contro le « pseudospiegazioni » del xx Congresso e contro gli assalti dell'ideologia borghese, e « secondaria » la loro « deviazione » filosofica), e dopo aver riconosciuto che nei saggi degli anni '60'65 egli ha sostenuto una filosofia razionalista e speculativa, conclude difendendo gli effetti politici ed ideologici determinati dall'inter
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vento di quest[...]

[...] p. 103).
Che Althusser possa stabilire questo tipo di connessione tra due aspetti essenziali della congiuntura politica (il xx Congresso e la questione del « giovane Marx »), connessione in cui tra l'altro già opera evidentemente l'idea di un primato della pratica sulla teoria, si spiega con due elementi, uno politico ed uno teorico. Quello politico, su cui non ci soffermeremo, riguarda il tipo di critica che Althusser compie dello stalinismo: perché se per un verso egli non esita a denunciare l'« ammorbante e implacabile sistema di governo e di pensiero » di Stalin, per l'altro non intende ridurre né Stalin né la III Internazionale alla « deviazione staliniana », ed ammette l'esistenza di « meriti » storici di Stalin. Una posizione, in altre parole, che non intende fare, come invece fanno certi umanisti marxisti, tabula rasa di una complessa esperienza del movimento operaio, e che per molti versi si può ricondurre a certe posizioni del Pcc. Quello teorico è rappresentato dalla tesi dell'« antiumanesimo teorico di Marx », del rifiuto, cio[...]

[...]ltri caratteri): l'ideologia è un fenomeno permanente della società (anche di quella comunista) con precise funzioni pratiche e l'atteggiamento nei suoi
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confronti va stabilito volta per volta con criteri strettamente politici (si può fare « Una (eventuale) politica marxista dell'ideologia umanista », PM, p. 206). Ciò che lo studioso francese combatte è dunque soltanto la riduzione del marxismo ad una ideologia umanistica, sia perché il marxismo non è un'ideologia (è una filosofia e una scienza della storia), sia perché tale riduzione farebbe cadere il marxismo sotto l'influenza dell'ideologia dominante, essendo l'umanesimo una componente essenziale dell'offensiva ideologica della borghesia volta a mettere da parte la lotta di classe in nome dell'Uomo. Ebbene questo gruppo di tesi che qui abbiamo assai schematicamente ricordato, e che si presentano sostanzialmente identiche in tutta la prima fase della ricerca di Althusser, sono elaborate dal filosofo francese proprio a partire dai suoi interventi sul giovane Marx. I quali, quindi, si presentano, da un lato, come rivolti contro le pseudospiegazioni del xx Co[...]

[...]termina una rottura (rupture) ideologica nei confronti dell'ideologia e della filosofia borghese ed una richiesta, da parte di questa « rivoluzione filosofica », della « `rottura' (coupure e, in italiano, tra virgolette) epistemologica », dopo la quale soltanto è possibile il non ritorno alla filosofia della storia. « Dicendo: `la rottura epistemologica' è la prima, ed essa è nello stesso tempo `rottura' filosofica, commettevo dunque due errori. Perché, nel caso di Marx, la prima è la rivoluzione filosofica — e questa non è una 'rottura' » (RJL, p. 78). Non è piú la scienza a creare la filosofia, ma è questa, in posizione « centrale », e sotto la spinta della scelta ideologica e politica, a permettere la rivoluzione scientifica imponendo un nuovo « oggetto » alla riflessione (non piú l'uomo, il soggetto, ecc., ma le forze produttive, i rapporti sociali di produzione, ecc.): « è la posizione politica (di classe) a occupare il posto determinante, ma è la posizione filosofica che occupa il posto centrale, poiché è essa che assicura il rapporto[...]

[...]utocritica lo definisce un'« impostura ». Contro queste tendenze opera la « topica », cioè la posizione della filosofia, opera la filosofia: in Althusser cambiano, e radicalmente, sia la posizione nella « topica », sia la concezione della filosofia, ma non muta mai la funzione antisociologista e antieconomicista, e quindi anche, come vedremo, antistoricista ed antiumanista, della filosofia. Ma è sufficiente definire questo tipo di « centralità » perché la filosofia sia messa realmente in grado di assolvere a questa funzione? Perché questa « centralità », che può apparire un privilegio ed una eccezionalità (la filosofia è partecipe sia del pratico sia del teorico, e dei loro rispettivi oggetti), di fatto è anche assenza e debolezza. La filosofia non ha un proprio oggetto, né una vera
e propria autonoma proposta: le Tesi su Feuerbach si limitano ad « annunciare » una nuova posizione filosofica che gli scritti successivi non elaboreranno. Essa è essenzialmente criticità. È attraverso la critica filosofica dell'ideologia e della filosofia dell'uomo e della storia borghese che secondo Althusser si rendono « visibili » alla [...]

[...]omando di questa politica e del suo oggetto. Ma la filosofia non entra in merito alle forme di questo « comando », essa non sembra in grado di pensare una articolazione della linearità della successione, né di rendere piú complessa e non totale ed universale l'omogeneità ai contenuti di classe.
4. Il problema della filosofia marxista costituisce senza dubbio il tema centrale di tutta la ricerca di Althusser (EMP, p. 136), nonché della sua vita, perché in essa è racchiusa l'idea di un nuovo rapporto tra lavoro intellettuale e militanza politica, l'idea di un lavoro filosofico relativamente autonomo che è anche intervento politico, e quella di una militanza politica che non può esaurirsi nell'attivismo pratico. Il problema della filosofia di Marx è anche il problema di come essere comunisti in filosofia.
Althusser pone con chiarezza i termini generali del problema della filosofia marxista sin dallo scritto con cui si apre il Per Marx, « I `manifesti filosofici' di Feuerbach » (1960): Marx non ha mai esplicitamente formulato la sua « filosof[...]

[...] vitale per il movimento operaio e i suoi alleati (e tuttora lo considero) che questa differenza fosse pensata. Per ottenerlo, non potevo fare altro che pormi al livello della nuova filosofia, prodotta da Marx nella sua rivoluzione scientifica... Ho ancora questa convinzione. La formulerei in altro modo da Per Marx e Leggere « Il Capitale », ma ritengo di non essermi sbagliato nell'indicare nella sua filosofia il luogo da cui si può capire Marx, perché in essa si riassume la sua posizione (EMP, pp. 1356).
Si è già visto come il giudizio che Althusser formula circa il carattere
e vitale » per il movimento operaio ed i suoi alleati della conquista di una chiara percezione e concezione della « differenza radicale di Marx » è riconducibile alla congiuntura politica e teorica apertasi col xx Congresso. Qui vorrei tentare, molto brevemente, di avanzare una risposta al problema posto nel secondo paragrafo del presente scritto circa il nesso che può intercorrere tra la « deviazione teoricista » della filosofia della prima fase della ricerca di Al[...]

[...]xista, della sua « novità » e « specificità », che è appunto l'obiettivo di Leggere il Capitale. Nel primo periodo della sua ricerca Althusser particolarmente è influenzato (« affascinato ») da quei passi dell'Introduzione del '57 in cui Marx sostiene che il modo in cui il pensiero conoscitivo « si appropria del mondo » è quello di « salire dall'astratto al concreto ». Oltreché dall'affermazione di Lenin che « le idee di Marx sono tutte efficaci perché sono vere » (« è perché la teoria di Marx era `vera', che ha potuto essere applicata con successo, e non perché è stata applicata con successo che essa è vera », Lc, p. 62). In questo modo, per Althusser, che sostiene una posizione rigorosamente antiempirista ed antipragmatista, né l'inizio, né la fine del discorso scientifico di Marx trovano nella realtà il proprio criterio di verità: escluso l'esterno, la realtà, non rimane che sostenere la « interiorità radicale del criterio »: la « pratica teorica è criterio di se stessa, contiene in sé i principi definiti di convalida della qualità del suo prodotto » (Lc, p. 62).
Si pone a questo punto il problema di come questa interpretazione del pensiero di Ma[...]

[...]me dell'ideale? La novità della riflessione di Althusser consiste nel suo rifiuto della soluzione storicista, cioè di quella posizione che pensa di risolvere questa difficoltà mediante una dottrina delle « astrazioni reali » o delle « astrazioni storicamente determinate », basata sulla tesi della esistenza di una « corrispondenza biunivoca » tra pensiero e realtà, tra sviluppo logico del pensiero e sviluppo della storia. E ciò, sia per la forma, perché alle categorie ed agli oggetti reali competerebbe ugualmente il « mutamento », sia per il contenuto, perché a determinati concetti corrisponderebbe un determinato stadio dello sviluppo storico: « La storia avrebbe in qualche modo raggiunto questo punto, prodotto questo presente specifico eccezionale in cui le astrazioni scientifiche esistono allo stato di realtà empiriche, dove la scienza, i concetti scientifici esistono nella forma del visibile dell'esperienza come altrettante verità a ciel sereno » (Lc, p. 132).
Il Capitale, insomma, come una « deduzione logicostorica ». Lo storicismo è definito da Althusser una forma di empirismo in quanto individua nelle categorie delle qualità reali in qualch[...]

[...]mologica ». Se invece essa è già una generalità scientifica, il prodotto è una nuova conoscenza scientifica.
Tale lavoro di trasformazione appartiene interamente al « processo di pensiero », ed il suo prodotto, il « concreto di pensiero » (la conoscenza), è distinto dal « concreto reale » (l'oggetto reale) nei cui confronti, questo il punto importante, possiede un « effetto di conoscenza ». La coppia di tesi avanzata da Althusser è antiumanista perché non mette in campo alcun « soggetto della conoscenza » (trascendentale o empirico), bensí un « modo di produzione determinato di conoscenze », un « apparato di pensiero, fondato e articolato nella realtà naturale e sociale » (Lc, p. 42). Ed è antistoricista perché nega ogni « corrispondenza », non solo tra i due « oggetti », ma anche tra il processo di pensiero e lo sviluppo storico. Questa seconda distinzione si presenta in due forme: nella produzione del « concreto di pensiero », che si presenta come una « totalitàarticolatadi pensiero », una Gliederung, una connessione organica e gerarchizzata di concetti; e nello sviluppo della dimostrazione e nel discorso scientifico in cui si manifesta la « dipendenza sistematica che lega tra loro i concetti nel sistema della totalitàdipensiero » (PM, p. 72). Ebbene il meccanismo che produce l'« effetto di conosc[...]

[...]amente confermata dall'adesione di Althusser all'interpretazione di Materialismo ed empiriocriticismo avanzata da Dominique Lecourt, secondo il quale il riflesso di Lenin sarebbe un « riflesso senza specchio », un « riflesso attivo » estraneo ad ogni teoria sensistica della conoscenza 3. Inoltre, se l'osservazione avanzata è giusta, lo storicismo e l'empirismo, almeno come li definisce Althusser, risultano davvero messi definitivamente al bando? Perché questa identità strutturale appare comunque come il risultato di una qualità essenziale del reale che trapassa nel pensiero. Non siamo di fronte ad una sorta di empirismo della struttura? di storicismo senza storia?
Seconda osservazione. L'idea, in generale, di conoscenza scientifica che Althusser propone non è altro (a parte quelle che Althusser definisce le proprie « aggiunte ») che il modo in cui il Capitale permette di conoscere la formazione sociale capitalistica, il modo in cui il Capitale, funziona a questo scopo conoscitivo. In particolare la nozione di « meccanismo » dell'« effetto [...]

[...]. In È facile essere marxisti in filosofia? Althusser dopo aver riaffermato la tesi della « conoscenza come produzione » e del « primato dell'oggetto reale sull'oggetto di conoscenza », ed aver precisato che la tesi di questo primato prevale su quella della « distinzione tra oggetto reale e oggetto di conoscenza », si sofferma sul tema degli effetti della conoscenza sul reale. Egli nota come la « conoscenza del reale `cambia' qualcosa nel reale, perché vi aggiunge per l'appunto la sua conoscenza... però tutto accade come se questa aggiunta si annullasse da sola nel suo risultato » (p. 157). Il problema del meccanismo che produce l'« effetto di conoscenza » è scomparso, sostituito dalla tesi dell'incorporamento e dell'annullamento della distinzione tra i due « oggetti » non appena essa viene posta: « La distinzione tra oggetto di conoscenza e oggetto reale presenta quindi questo paradosso: che è posta solo per essere annullata. Ma non basta: per essere annullata, deve continuamente essere posta » attraverso la « produzione di nuove conoscenz[...]

[...]concetti di « astrazione », di « processo di pensiero », di « metodo di esposizione » e di « inizio » di una scienza, e ciò in relazione ad una nuova valutazione del discorso scientifico del Capitale. In particolare Althusser cerca di trarre alcune conseguenze dalla tesi di Duménil che l'« astrazione » di Marx si costituisce per esclusione: « Se Marx pensa nel
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l'astrazione, il cui processo è un processo di concretizzazione, è perché Marx pensa mediante l'astrazione è perché ogni posizione di un concetto, dunque ogni apertura di un campo teorico `interno', è nello stesso tempo esclusione dell'esterno, dunque chiusura del campo. L'apertura del campo è in relazione alla sua chiusura, che implica, in ogni momento, di fare astrazione dell'esterno » (p. 19). Per questa via Althusser può pervenire ad alcune importanti conclusioni circa l'unità del Capitale, cioè dell'« ordine » dei suoi concetti espresso nel « metodo di esposizione ». Infatti il discorso scientifico del Capitale non presenta un solo « ordine di esposizione ». Se ne esiste uno « maggiore » (majeur) (« v[...]

[...] valore). Siamo ormai evidentemente assai lontani dall'idea della
« totalitàdipensiero » del Capitale sostenuta in Leggere « Il Capitale »: non piú una sola « totalità logica », bensí « diverse » « totalità logiche ». Una sorta di pluralismo di logiche ineguali e disparate coesistenti in un medesimo discorso scientifico. In Marxismo oggi, infine, Althusser liquida come imprudente l'affermazione di Lenin che le « idee di Marx sono tutte efficaci perché sono vere », ed introduce, quindi, una netta distinzione tra verità ed efficacia delle idee che ribalta le posizioni sostenute in Leggere « Il Capitale ». La verità compete alla « forma teorica » delle idee di Marx, l'efficacia politica a quella « ideologica » (Marx esprime le « proprie idee due volte in due forme differenti ») : « se anche le idee fossero vere e f ormalmente dimostrate, non potrebbero essere in sé storicamente attive, ma lo possono solo nelle forme ideologiche di massa, acquisite nella lotta di classe » (Mo, p. 118).
6. Nella sua ricerca del pensiero filosofico di Marx, Alt[...]

[...]orto »: nell'ideologia non si esprime una visione distorta e immaginaria della realtà, bensí il rapporto necessariamente « immaginario » dell'uomo con questa realtà. L'ideologia è ciò che permette di rappresentare l'investitura della realtà da parte della « volontà » e della « speranza », quindi una realtà in movimento (immaginario), intrisa di finalità e di valori, immediatamente posta in un orizzonte trascendente il dato di fatto, l'esistente, perché nella rappresentazione di questo vi include per definizione l'attività. Come dire, se nella scienza l'uomo è solo di fronte alla realtà, nell'ideologia egli è sempre in compagnia della propria speranza o della propria nostalgia. A sua volta la scienza dell'ideologia è ciò che permette di pensare questa compagnia, questa associazione, cioè questo rapporto. Una compagnia in cui l'uomo, tra l'altro, può associarsi agli altri uomini: le forme ideologiche di massa.
Ma in Ideologia e apparati ideologici di Stato (TATE) Althusser introduce delle novità rilevanti nel proprio ragionamento al fine di [...]

[...] del quale i soggetti sono « interpellati », divengono, cioè, suoi « specchi » e « riflessi »: uno sdoppiamento del Soggetto nei soggetti. Ciò comporta un assoggettamento di questi ultimi, il loro mutuo riconoscimento, e quello tra loro ed il Soggetto. Un assoggettamento di cui Althusser sottolinea il carattere spontaneo e « libero »: « l'individuo è interpellato come soggetto (libero) affinché si sottometta liberamente agli ordini del Soggetto, perché `compia da solo' i gesti e gli atti del suo assoggettamento » (TAIE, p. 119).
Per quanto riguarda la connessione che si può rilevare tra lo sviluppo della riflessione di Althusser sull'ideologia e la « svolta » nella congiuntura politica si deve almeno richiamare l'articolo su « La Pensée » nel 1969, A propos de l'article de M. Verret sur « Mai etudiant », in cui Althusser definisce il movimento degli studenti una « rivolta ideologica » di segno complessivamente progressivo che fa parte della lotta di classe internazionale contro l'imperialismo. Non è difficile, mi sembra, mettere in relazio[...]



da Franco Fido, Saggi e studi. Giacinta nel paese degli uomini: interpretazioni delle «villeggiature» in KBD-Periodici: Belfagor 1980 - luglio - 31 - numero 4

Brano: [...]o i Medebach al teatro Sant'Angelo è preso dal Chiari, e l'abate bresciano andava affermandosi come il piú deciso campione, a Venezia, dei diritti delle donne. Si leggano, tra i numerosi esempi che potrei citare, questi versi della Pastorella fedele, composta nel 1754, cioè precisamente fra La sposa persiana e 1'Ircana in Jul/a:
TURPINo: Guarda in Città, in campagna: guarda per ogni banda, La femmina ubbidisce, e l'uom sempre comanda.
CEFISA : Perché le prime donne diedero all'altre il crollo, Lasciandosi dagli uomini metter i piè sul collo. Dalla padrona morta, che avea molta perizia, Ho inteso dir piú volte che questa è un'ingiustizia. Del par uomini e donne del Ciel son la fattura; Madre del par benefica con tutti è la natura. L'uom rapi il primo luogo; a noi lasciò il secondo; Perché l'uomo superbo vuol esser solo al mondo. [...] Noi piú di lui capaci d'amor siamo, e di sdegno; Noi di beltà il vinciamo, noi lo vinciam d'ingegno.
10 Per altre fanciulle capaci di maneggiare le armi v. per es. Zandira nella Dalmatina: « Barbaro, cedi il ferro, o di mia man ti uccido... » (Iv, 4).
GIACINTA NEL PAESE DEGLI UOMINI: INTERPRETAZIONE DELLE « VILLEGGIATURE » 379
Per tenerci soggette, come piú ad esso aggrada,
Diede a noi donne il fuso, l'uomo impugnò la spada.
Ci mandino alla scuola, mettanci un ferro a lato:
Arrossirà un Dottore, arrossirà un soldato.
Oppresse ed avvilite, [...]

[...]l disagio con cui la signora si adatta alla perpetua dimensione teatrale della vita patrizia, esasperata dalla paradossale clausura in campagna: pubblico scambio di complimenti, recitazioni d'avventure di viaggio o galanti, bons mots, pungenti malignità, ma anche teatro segreto dei sentimenti, secondo le teorie dell'amore clandestino, o « alla parigina », professate da don Paoluccio. Come un diplomatico che decida di mentire al suo interlocutore perché questi, scartata l'ipotesi troppo ovvia della menzogna, si aspetta da lui la verità, cosí i discreti amanti della Villeggiatura dovrebbero scambiarsi studiate attenzioni solo per evitare che la loro pubblica indifferenza sia interpretata come « occulta parzialità » (III, 13).
Tra la brutale franchezza di don Ciccio e di don Gasparo da un lato, gli allusivi ed elusivi silenzi di don Paoluccio dall'altro, il linguaggio della passione che Lavinia vorrebbe ascoltare e impiegare non ha piú corso. Troppo borghese in fondo per l'atmosfera di edonistica disponibilità in cui sono perfettamente a loro[...]

[...]lleggiatura (il grasso di don Ciccio, il letto di donna Lavinia) qui espressioni come d'autunno e gli altri, ripetute instancabilmente, significano l'aberrazione di voler sacrificare l'autosufficienza e la privacy borghese « all'eccesso del lusso, del dispendio e dell'incomoda soggezione », come scrive l'autore nella prefazione alla commedia (Opere, y 1021).
Dunque l'imitazione del villeggiare patrizio è dannosa non tanto economicamente, quanto perché espone l'intimità dell'« interno » borghese a una prova a lungo andare non evitabile, ma evidentemente prematura e pericolosa per un ceto su cui Goldoni sta perdendo le sue illusioni. Nella grisaglia autunnale di una natura assente il privato, che in altre commedie sta ai borghesi goldoniani come un vestito stretto, minaccia di scoppiare e di lasciarli nella imbarazzante nudità dei loro sentimenti. Sarà questo uno dei grandi temi della trilogia.
2. Una delle ragioni che resero memorabile l'adattamento teatrale delle Villeggiature ad opera di Giorgio Strehler fu la piena consapevolezza da par[...]

[...]ento cose, e voi perdete il tempo ... Le ore passano, si ha da partire da Livorno innanzi sera »: Smanie, i, 1, Leonardo), per un altro il disordine e l'apparente casualità dell'azione dopo l'arrivo, materializza per gli spettatori il labirinto in cui si trovano chiusi i protagonisti.
Un'ultima osservazione di carattere strutturale che gli stessi atti ii e iii delle Avventure suggeriscono, riguarda l'abbondanza e l'importanza dei monologhi: non perché l'autore non riesca a tradurre in dialogo e azione 1'animus dei personaggi, ma perché — di nuovo accade di pensare a Cecov — questi borghesi parlano di sé, « si dicono » e si ascoltano molto piú di quanto non ascoltino gli altri. Vedremo meglio tale aspetto della trilogia quando ci occuperemo di Giacinta, personaggio monologante per eccellenza.
Parlando delle sue tre commedie sulla villeggiatura Goldoni scrive: « nella prima si vedono i pazzi preparativi; nella seconda la folle condotta; nella terza le conseguenze dolorose che ne provengono. I personaggi principali sono di quell'ordine di persone che ho voluto prendere precisamente di mira, cioè di un rango civile, non nobile[...]

[...] 14, sia riservato alla sobria dichiarazione di Paolino a Brigida, e alla lunghissima confessioneripulsa di Giacinta a Guglielmo.
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debiti che egli lascia in città, dai capricci e dalle spese della sorella Vittoria, ma soprattutto dalla gelosia che gli cagiona la decisione di Filippo, suo vicino in campagna e padre di Giacinta da lui amata, di invitare con loro in villa il giovane Guglielmo. E stata Giacinta a insistere col padre perché l'invito sia mantenuto, anche dopo che lei si è promessa a Leonardo, per « guarire » quest'ultimo da una gelosia che la offende e che potrebbe aggravarsi dopo il matrimonio 15. Ma nelle Avventure Giacinta si innamora davvero di Guglielmo, e deve lottare contro di lui e contro di sé per tener fede alla parola data a Leonardo. Nel Ritorno, per mortificare la propria passione, la ragazza architetta un matrimonio fra Guglielmo e Vittoria e sposa Leonardo. Questi, seguendo i consigli del mercante Fulgenzio, accetta in conto di dote una proprietà del suocero a Genova, dove la coppia andrà a vivere.[...]

[...]ccedere alla dimensione della « conversazione » senza disgregare irreparabilmente il privato si accentua nell'isolamento spaesante della villeggiatura. E per una specie di « ritorno del rimosso », la precaria soluzione che Filippo e Leonardo, Giacinta e Vittoria sembrano aver trovato a tale problema, è quella di aggrapparsi disperatamente al codice delle convenienze.
Is In questo senso Zelinda rappresenta l'opposto di Giacinta: « Ero disperata, perché non vi credevo geloso » (Inquietudini, ni, 20).
GIACINTA NEL PAESE DEGLI UOMINI: INTERPRETAZIONE DELLE « VILLEGGIATURE » 389
Le tre Villeggiature sono percorse da una minuziosa, affannosa casistica delle bienséances: dalla quantità di posate necessaria in villa (« In campagna si suol tenere tavola aperta. Convien essere preparati »: Smanie, r, 1, Leonardo), alle lunghe discussioni su come disporre gli invitati ai tavoli da gioco (Avventure, II, 8), al problema delle partecipazioni e delle visite da fare al ritorno dalla campagna (« Mi ha fatto vedere una lista di trentasette case, alle qual[...]

[...]e, signora (n, 4);
[a Giacinta] Vuole la convenienza, che quando si riceve una lettera, si risponda (III, 8).
Sulla scorta degli esempi citati si potrebbe giustamente osservare che Guglielmo invoca il decoro e la creanza soprattutto per non impegnarsi troppo con Vittoria, e avanzare la sua causa con Giacinta. Ma che non si tratti solo di espedienti tattici, bensí di riflessi connaturati, ce lo dice proprio Giacinta quando spiega alla cameriera perché si è innamorata di lui:
« la sua civiltà, la sua politezza; quella maniera sua insinuante, dolce, patetica, artifiziosa, mi ha, mio malgrado, incantata, oppressa, avvilita ... quelle continue finezze, quelle parole a tempo, quel trovarsi vicini a tavola, sentirmi urtare di quando in quando (sia per accidente, o per arte), e poi chiedermi scusa ... » (Avventure, ii, 1).
« Carattere freddo e flemmatico » (come leggiamo due volte in dieci righe nella prefazione alla Avventure), « carattere che non arrivo ancora a
comprendere » (rincalza Leonardo nel Ritorno, i, 9), Guglielmo vive tutto ed esc[...]

[...]rmina come vedremo la condotta di Giacinta, fra la ragazza e il vecchio amico di casa Fulgenzio.
3. Giacinta, che si definisce esattamente una « fanciulla saggia e civile » (Avventure, in, 3), appartiene al gruppo delle borghesi goldoniane piú evolute, come Giannina, la spigliata e studiosa olandese dei Mercatanti (1753); d'altra parte l'autore poteva contare sul « temperamento » della Bresciani, l'attrice destinata a interpretarla sulla scena, perché una plausibile emotività venisse a insidiarne la canonica e lodevole flemma. Cosí si potrebbe dire che la protagonista della trilogia è una GianninaIrcana mise en situation, cioè immersa in una realtà equidistante dagli estremi ugualmente f avolosi della schiavitú persiana e dell'emancipazione nordica.
L'arma principale di Giacinta è l'intelligenza, un'intelligenza che gli esegeti delle Villeggiature hanno rilevato specialmente nelle scene delle Smanie in cui mortifica maliziosamente Vittoria (iI, 12), o convince il padre a fare il contrario di ciò che aveva deciso, lasciandolo per di piú pi[...]

[...] bravamente vestita. Ho fatto una buona passeggiata in giardino, ho raccolto i miei gelsomini, e ho goduto il maggior piacere di questo
mondo. PAOLINO: Cosí veramente qualche cosa si gode. Ma che cosa
godono i nostri padroni? ».
Ma la ragione piú profonda del comportamento di Giacinta si farà chiara, senza ricorrere a ipotesi « infratestuali » come quella ricordata, quando avremo risposto alla domanda che sta veramente al centro della storia: perché Giacinta non rompe il fidanzamento con Leonardo, usando col padre la sua brillante dialettica, e facendo leva sull'argomento plausibilissimo che la situazione economica del giovane è molto piú difficile di quanto tutti pensassero?
Con la consueta lucidità, Giacinta è perfettamente consapevole dell'onorevole scappatoia che le si offre, eppure la rifiuta:
... se mio padre fosse debole a segno di volermi sagrificare, sarei io obbligata ad acconsentire alla mia rovina? No, non sarei obbligata ... Che cosa mi ha trattenuto finora dal recedere da un impegno che non è indissolubile, e preferire ad[...]

[...]er esempio Il filosofismo delle belle pubblicato nel 1753 dall'abate Giovanni De Cataneo « per distogliere le donne dal vano amore della filosofia » (Natali 1955, r 137) induce l'abate G. Melani a sostenere l'ottima disposizione delle fanciulle alle scienze nel suo Libro delle donne (parte r, 1757).
Nel tempo di cui ci stiamo occupando, a cavallo fra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta, questa « guerra di abati » si fa piú fitta e piú seria, perché vi si riflettono posizioni e interessi non solo letterari. Basta rileggere certi articoli di Baretti nella « Frusta », scritta e pubblicata a Venezia a partire dall'ottobre 1763 (sull'anonimo La dama cristiana nel secolo. Lettere familiari del Marchese di... al Conte di... suo amico: n. n; e specialmente sul Tradimento scoperto negli amoreggiamenti e nelle conversazioni tra uomini e donne, di Giambattista Bonomo: n. xvi) per riconoscere in Aristarco Scannabue un partigiano del cattolicesimo antiascetico professato dai suoi amici della Compagnia di Gesti (cfr. Neri 1899), in un momento in cui [...]

[...]eazioni dei suoi personaggi femminili.
Pieno di simpatia per l'aspirazione delle fanciulle alla cultura e alla libertà, ma anche di rispetto per i prudenti valori e le strutture difensive della borghesia veneziana, Goldoni s'era dapprima limitato a celebrare in commedie diverse l'educazione liberale delle straniere (come nei Mercatanti già ricordati) e la vocazione casalinga delle sue concittadine, come nella Buona famiglia del 1755:
ISABELLA: Perché non fa insegnare anche a me, signor padre, che imparerei tanto volentieri le lettere?
FABRIZIO: Figliuola mia, le lettere non sono per voi. Non dico già che non aveste ingegno atto ad apprenderle, che so benissimo altre valenti donne averle egregiamente apprese; ma le cure devono essere distribuite. La briga della casa non è poca briga, sapete? e le donne vi si adattano meglio; e voi, o qui o altrove, avrete bisogno d'essere istruita in ciò piú che in altro; e i lavori di mano che fate voi altre donne, sono utili alla famiglia quanto le arti che proprie sono dell'uomo. Contentatevi di far qu[...]



da Giacomo Debenedetti, Ultime cose su Saba in KBD-Periodici: Nuovi Argomenti 1958 - 1 - 1 - numero 30

Brano: [...] a un suo critico: « tu che se non sei stato proprio il mio De Sanctis, poco — molto poco, ti c'é mancato ». Queste parole mettono a nudo un sogno che Saba probabilmente coltivò per tutta la vita: trovare, per il Canzoniere, un critico come il De Sanctis. Oggi, se dovessimo deporre un fiore sulla tomba del nostro amico, gli diremmo che il suo De Sanctis non gli occorreva piú: l'aveva già trovato, e proprio nella persona di Francesco De Sanctis. Perché Saba verifica, a suo modo, l'augurio e l'ammonimento che il De Sanctis, negli ultimi tempi del proprio lavoro, rivolgeva alla poesia italiana: di liberarsi dall'ideale, dal non so che, di risolversi una buona volta a diventare una poesia tutta cose. Naturalmente, il nostro fiore non dovrebbe rimanere un tributo soltanto affettivo, convenzionale, come una lode da epitaffio. Perciò soggiungeremmo che il De Sanctis, se per miracolosa longevità fosse vissuto fino a poter leggere il Canzoniere, forse non vi avrebbe trovato la poesia che raccomandava. Toccava a noi di trovarvela, e solo perché abbi[...]

[...]ana: di liberarsi dall'ideale, dal non so che, di risolversi una buona volta a diventare una poesia tutta cose. Naturalmente, il nostro fiore non dovrebbe rimanere un tributo soltanto affettivo, convenzionale, come una lode da epitaffio. Perciò soggiungeremmo che il De Sanctis, se per miracolosa longevità fosse vissuto fino a poter leggere il Canzoniere, forse non vi avrebbe trovato la poesia che raccomandava. Toccava a noi di trovarvela, e solo perché abbiamo imparato a leggere, anche se molto meno bene del De Sanctis, tanti anni dopo di lui.
Adesso però il nostro turno di critici, con Saba, pare concluso; ormai ci converrebbe di cedere la parola. Noi abbiamo accompagnato, un po' scortato, quella poesia negli anni in cui si apriva al più pieno rigoglio: l'abbiamo aiutata, se non é presunzione, a farsi capire; forse perfino un poco a capirsi, se non é presunzione anche peggiore. Perché era anche una poesia difficile, nella sua estrema facilità di accesso, e durava fatica a vincere il sospetto di quella che in Francia Albert Thibaudet chiamava,
(1) Discorso letto al x Circolo della Cultura e delle Arti » di Trieste per le Celebrazioni di Saba, il 10 dic. 1957.
GIACOMO DEBENEDETTI
con un calembour su un celebre titolo di Benda, la trahison des clairs: il tradimento, non già dei chierici, ma dei chiari. Comunque, i nostri di allora erano discorsi che valevano, più o meno, per il tempo piccolo di un poeta vivo e scrivente. Ora è venuta la volta dei discorsi per il tempo gran[...]

[...]artenenti alle minoranze ufficialmente perseguitate. Un dramma che, per motivi sciagurati, fini col rientrare esso pure in una atroce normalità.
Di suo, semmai, Saba aggiunse a quel dramma una preesistente, atavica angoscia di perseguitato: di uomo che automaticamente abbozza il gesto di ripararsi dal diluvio, anche quando il cielo è ancora sereno. E questo era un tratto più suo, che merita di essere segnalato al di fuori delle singole vicende, perché spiega i trascoloramenti di confidenza e di allarme che si susseguono, e talora si fondono, nella sua poesia. Spiace di fare appello ai ricordi, perché costringono a parlare in prima persona. Ma insomma, il primo ricordo che conservo di lui, un Saba 1923, presentatosi con un vestito blu e un berretto da ciclista all'uscio di una casa di Torino, dove era venuto a conoscere un suo critico « vergognosamente giovane » (come poi scrisse), mi riporta l'immagine di un uomo dallo sguardo limpidissimo, pronto a passare dalla dolcezza all'aggressività; e tuttavia in quello sguardo la pupilla aveva improvvisi guizzi sfuggenti, come di chi si guardi le spalle. Erano gli automatismi di quell'angoscia da perseguitato ? Poteva anche essere un umano ritegno[...]

[...] « vergognosamente giovane » (come poi scrisse), mi riporta l'immagine di un uomo dallo sguardo limpidissimo, pronto a passare dalla dolcezza all'aggressività; e tuttavia in quello sguardo la pupilla aveva improvvisi guizzi sfuggenti, come di chi si guardi le spalle. Erano gli automatismi di quell'angoscia da perseguitato ? Poteva anche essere un umano ritegno per risparmiare all'interlocutore il disagio di sentirsi decifrato troppo in fondo. Ma perché proprio allora, quando la sua fama a lungo aspettata cominciava a salire; quando la pienezza dei suoi giorni (« un lago cristallino è la maturità una sosta, una pace ») venuta a coincidere con la breve, ma generale e contagiosa distensione del primo dopoguerra, l'aveva incoraggiato a tessere gli episodi più felicemente scorrevoli del Canzoniere, a mutare la « serena disperazione » della prima età adulta nelle ilari, giocose, sollevate malinconie dell'Amorosa spina e di Preludio e Canzonette, perché proprio allora Saba confidava agli amici di voler scrivere un'autobiografia in prosa, nella q[...]

[...]ata cominciava a salire; quando la pienezza dei suoi giorni (« un lago cristallino è la maturità una sosta, una pace ») venuta a coincidere con la breve, ma generale e contagiosa distensione del primo dopoguerra, l'aveva incoraggiato a tessere gli episodi più felicemente scorrevoli del Canzoniere, a mutare la « serena disperazione » della prima età adulta nelle ilari, giocose, sollevate malinconie dell'Amorosa spina e di Preludio e Canzonette, perché proprio allora Saba confidava agli amici di voler scrivere un'autobiografia in prosa, nella quale avrebbe confessato un cupo, sgomentevole segreto e che si proponeva di intitolare « Memorie di un uomo malnato » ? Doveva, dunque, trattarsi di un riflesso quasi biologico, provocato da una cronica diffidenza
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per i momenti favorevoli, per i piccoli, benigni incerti del mestiere di vivere. Fatto sta che egli metteva il broncio di fronte a ciò che doveva allietarlo, ed effettivamente lo allietava. Aveva paura della gioia che pure confessò con umile gratitudine in alcuni soli[...]

[...]tà contro quei pericoli.
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Nella sua poesia le cose, rimanendo fedelmente identiche a se stesse, articolano subito un discorso del tutto esplicito, che pronunzia e sillaba tutti i suoi nessi: cioè i nessi delle cose tra loro, e delle cose col nostro sentimento, nonché il modo come queste cose entrano a far parte dei nostri eventi, divenuti essi stessi cose da toccarsi con mano. Un cantare, dunque, che è anche un discorrere, perché in Saba le cose che si fanno poesia non sono soltanto viste o sentite. Sono anche pensate, come occorre per ogni discorso sensato. Qui però bisogna ammettere il grave paradosso, dimostrato sperimentalmente vero dal Canzoniere: sono pensate si, ma pensate col cuore. E il cuore, senza offesa per il cervello, antico depositario della facoltà di strappare l'assenso, rimane l'organo più sicuro per ottenere il consentimento.
***
Saba aveva in uggia la critica per dissertazioni. Preferiva che si esprimesse per immagini. Se ora egli ci regalasse un po' della sua grazia d'autore di raccontini e favo[...]

[...]uel muso che si allunga e si affila e par che cerchi, e ha già trovato, la sua inverosimile strada; quel nuoto che si tende contro i vortici, i salti, inventa meravigliosamente un itinerario negli ingorghi rilucenti tra i sassi, supera in salita la spinta avversa delle cateratte, evita i mulinelli impraticabili, e in quel guizzo é già più a monte.
La prima e più interessata morale dell'apologo è che i buongustai preferiscono il salmone di fiume perché, nello sforzo di risalire la corrente, si é fatto più sostanzioso. Di questa morale accetteremo soltanto la parte positiva, che allude ai pregi acquistati da Saba nel cammino contro la corrente. Respingiamo la
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parte negativa, cioè il confronto con gli altri che in apparenza sarebbero andati con le acque o rimasti nel gran mare. Quelli di loro che contano hanno trovato, anche in mezzo al salso, le scaturigini pure. I lettori di poesia sono naturalmente passionali, si coltivano l'autore prediletto con una parzialità settaria, come i fanatici di un campione sportivo. E si[...]

[...] grandi dei nostri giorni, Saba Montale Ungaretti, insieme con tutti quelli che in altre nazioni mostrano come il nostro secolo, a furia di credersi impoetico e rissoso, stia dimenticandosi di essere un ragguardevole secolo di poesia. Ma nelle gare tra poeti vale questa sacrosanta ingiustizia: che chiunque taglia il traguardo é un primo arrivato. Forse la morale del nostro apologo ci ha deviato in una parentesi che però era utile aprire, proprio perché ci si augurerebbe di poterla chiudere per sempre.
Torniamo all'itinerario di Saba, che era il succo più vero dell'apologo. Supponiamo che il Canzoniere capiti nelle mani di un lettore di tra due o trecent'anni, armato di alcuni strumenti della stilistica, ma privo di qualunque scheda biografica. Costui conchiuderà, soprattutto sulle prime parti, che quella é l'opera di un poeta del secondo Ottocento, emerso con doti più meritorie dalla costellazione dei maestri minori che, a fatica, con risultati stridenti, cercarono di tenere in caldo la poesia italiana negli anni di eclissi seguiti alla mo[...]

[...]disgustoso per convincersi della narrabilità di un vero non romanzato; Saba accettò un confronto analogo per dimo strarsi la canta'bilità di un vero non idealizzato.
Ma il suo verismo è più sostanziale: non innova soltanto la materia delle immagini, é esso medesimo a suggerire con che mondo Saba deve cimentarsi. A noi quei soldati dei Versi militari, e il soldato Saba tra loro, paiono esattamente i commilitoni di Turiddu o di 'Ntoni Malavoglia. Perché la vita militare sia sta. ta un tema elettivo del verismo é un piccolo indovinello letterario che porta la sua soluzione tra le righe. Verga si limitò a farci sentire l'eco degli anni di caserma, i suoi giovanotti ce li mostra quando tornano congedati; Saba si mette dentro alle giorna te in uniforme, elimina l'aneddoto alla De Amicis, afferra gli scorci: e dove un narratore farebbe bozzetti, lui poeta riesce a fare sonetti coi dovuti requisiti lirici.
Qualche anno dopo, l'altra tappa decisiva del Canzoniere é Trieste e una donna. Anche qui, chi volesse cinicamente ridurre l'episodio centrale[...]

[...]partiene senza dubbio alla Lina, protagonista della poesia; ma potrebbe essere anche di Santuzza o della Mena. E in quale punto, divenuto irreperibile, di Nedda o di Vita dei campi avevamo sentito prorompere questa rabbia d'amore: « quante lacrime m'ero ribevute alla salute del mio vile cuore! », di una platea
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litá veramente rusticana, che riesce a portarsi in una limpida, insperata posizione di canto?
Ma Saba, appunto perché introduceva, lui per il primo, un verismo genuino nella poesia lirica, doveva garantirsi che ne venisse fuori una poesia di quella buona, con le carte in regola. I dati di cui disponeva (la sua cultura, le sue letture, le ha raccontate lui a più riprese negli scritti in prosa) non gli offrivano che una possibilità: controllare se quella ispirazione era capace di ricostruire le forme esemplari della poesia italiana. E allora, eccolo arruolato nel suo tradizionalismo di stampi metrici, di ossequi linguistici. Una poesia di cose, che lo ha vincolato a una ortodossia passatista di forme: due gran[...]

[...]l marito e costretta a vivere a carico della famiglia (« Per me, per lei, che il dolore struggeva trafficavano i suoi cari nel Ghetto »). Quella madre espiò la colpa, certamente rinfacciatale, di un matrimonio « misto » e subito fallito, con una dignità orgogliosa che dovette irrigidirsi in una specie di rigorismo. Nella sua casa i sorrisi, gli abbandoni espansivi parvero probabilmente trasgressioni a una meritata penitenza, qualcosa di vietato perché peccaminoso. Una specie di
MI
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ulteriore clausura nel relativo senso di clausura rimasto appiccicato ai muri del Ghetto. (« Sono essi stessi le porte dei loro Ghetti », diceva Zangwill degli ebrei rimasti in quei loro borghi, dopo che gli statuti liberali avevano dato la libera uscita). Non facciamo però il quadro troppo nero: quella cittadella ebraica, ormai chiusa soltanto da recinti immaginari, era una rocca di teneri e soccorrevoli affetti; era un benevolo, protettivo riparo dopo i confronti col mondo, per gli ebrei ancora abbastanza nuovo, in cui vigeva più apert[...]

[...]ttimo dalla linea invisibile di una musica non scritta, ma di cui l'aria serba la presenza e l'impronta.
Non ci saremmo permessi questo accostamento ai libretti d'opera, se non ci richiamasse a una parentela ben più rivelatrice del Canzoniere. Oggi ci pare — ci dispiace solo che la strettezza
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del tempo non ci consenta di darne tutte le prove necessarie — che Saba abbia veramente adempiuto il suo compito di poeta proprio perché, senza saperlo, senza proporselo, é riuscito a comporre, con le sole parole e la musica delle parole, un vasto e trascinante melodramma. Lui parlava piuttosto di « romanzo ». Ma il romanzo presuppone certe coerenze di sviluppo, un giuoco di cause e di effetti tra il prima e il poi. Il melodramma invece, proprio nei suoi esemplari più grandiosi, può permettersi perfino un andare assurdo, bislacco della trama; pensiamo ai melodrammi più melodrammi, al Trovatore, alla Forza del Destino: non molti di noi saprebbero riassumerne le storie, ma non ce ne importa. Quei grossi garbugli devano funzionar[...]

[...]i, a questi effetti, il gesto che virtualmente apre e quello che effettivamente chiude il Canzoniere. Il primo è la chiamata di Saba alla poesia, come è ricordata in uno dei sonetti autobiografici. Il ragazzo, che sognava giacendo in riva al mare, ha avuto quella visione e promessa di gloria, e balza in piedi, e veramente squilla:
E' possibile, o Ciel, che questo sia?
i
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Con un moto simmetrico, e tanto più significativo perché senza dubbio involontario, il poeta si congeda dal suo libro. Ormai è anziano; ma in quel momento, come sorretto da un « tutti » dell'orchestra, perdutamente canoro, ritrova l'antico squillo:
Ho in cuore di una vita il canto
dove il sangue fu sangue, e il pianto pianto.
Para. troppo teatro d'opera. E certo Saba non va cercato qui, dove la sua generosa persuasione di comunicare, la sua prodigalità umana lo travolgono a un eccesso di fiducia. Prendiamolo allora in uno dei suoi punti più sicuramente alti, l'inizio dell'Appassionata:
Tu hai come il dono della santità
nacque con te, ti segue [...]

[...]ntire di aver battuto la grande via italiana del melodramma, con un'impresa che poteva parere d'altri tempi, e viceversa era nuova e per tanti aspetti anticipatrice nella poesia. Gli parve che la più autentica chiave per capirlo l'avesse data Quarantotti Gambini, quando lo aveva avvicinato a Verdi. Non credo che la sua soddisfazione derivasse soltanto da un paragone che inorgoglirebbe qualsiasi artista dei più grandi. Forse egli gioì soprattutto perché Verdi, oltre ad essere Verdi, é la personificazione del melodramma. Anche a Saba, per quel suo prepotente bisogno di far balzare le cose sotto gli occhi, é capitato suppergiù come a Verdi, per un gran tratto della sua vita: gli intenditori dicevano che non sapeva la musica, che sapeva male la musica. Si dava però che quella musica mal fatta e sommaria, riprovevole e scorretta per i maestri di Conservatorio, saltava le ribalte e mirava al cuore. Anche Saba, proprio e quanto più faceva poesia con tutte le regole, poté per un pezzo essere giudicato come uno che non sapeva la poesia.
18 GIACOMO [...]


precedenti successivi
Grazie ad un complesso algoritmo ideato in anni di riflessione epistemologica, scientifica e tecnica, dal termine Perché, nel sottoinsieme prescelto del corpus autorizzato è possible visualizzare il seguente gramma di relazioni strutturali (ma in ciroscrivibili corpora storicamente determinati: non ce ne voglia l'autore dell'edizione critica del CLG di Saussure se azzardiamo per lo strumento un orizzonte ad uso semantico verso uno storicismo μετ´ἐπιστήμης...). I termini sono ordinati secondo somma della distanza con il termine prescelto e secondo peculiarità del termine, diagnosticando una basilare mappa delle associazioni di idee (associazione di ciò che l'algoritmo isola come segmenti - fissi se frequenti - di sintagmi stimabili come nomi) di una data cultura (in questa sede intesa riduttivamente come corpus di testi storicamente determinabili); nei prossimi mesi saranno sviluppati strumenti di comparazione booleana di insiemi di corpora circoscrivibili; applicazioni sul complessivo linguaggio storico naturale saranno altresì possibili.
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