Brano: [...], 73 s., 93).
Nella prolusione padovana del 1923 Filologia e filologismo (in Scritti minori, Firenze 1978, rii, p. 1233 ss.: d'ora innanzi indicherò, seguendo il La Penna, questa silloge con SM), al cui esame il La Penna dedica il cap. viii, uno dei piú penetranti del suo libro, Marchesi conduce contro lo « studio delle
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fonti » una polemica che, in ciò che ha di giusto, è una battaglia di retroguardia, perché critica un metodo di scomposizione meccanica dell'opera d'arte e di riduzione del poeta a imitatore passivo dei suoi antecessori, che non era stato proprio nemmeno di tutta la filologia positivistica (anche il positivismo aveva avuto, nelle scienze naturali e umane piú ancora che nella filosofia, i suoi uomini d'ingegno e di genio) e che, comunque, era stato già superato proprio dalla migliore filologia tedesca (se con qualche seria ricaduta in un discutibile neoumanesimo e nazionalismo, non importa qui discutere). Di quel ben piú complesso e raffinato modo di porre il problema del rapporto t[...]
[...]resco in senso immediato e triviale, bensí dotato di cultura, di raffinato senso ritmico, esprimentesi in una lingua piena di espressività e di forza vitale, ma non « volgare ». Si confronti l'accenno a Plauto nella recensione già citata al Leo (SM, in, p.. 1108) con ciò che nella Storia della letteratura latina (i`, p. 75) si dice di Plauto poeta « ellenistico », non « ignorante di genio », ma « grande poeta » e perciò « uomo di grande cultura: perché l'arte si alimenta di conoscenza e di studio: altrimenti è improvvisazione artistica di breve durata »; si vedano ancora, nella Storia (vol. cit., pp. 7375), i paragrafi sulla lingua plautina (che « non è quella del volgo, com'è mala consuetudine ripetere ») e sulla metrica; e si riconoscerà ben chiaro l'influsso del Leo. A proposito dell'origine dei cantica c'è perfino un accenno alle due teorie del Leo e di Eduard Fraenkel (derivazione dalla lirica ellenistica o dai cantica tragici?): dalla lettura del Leo Marchesi era passato, sia pure nei limiti di una rapida e non approfondita informazio[...]
[...]o e di Eduard Fraenkel (derivazione dalla lirica ellenistica o dai cantica tragici?): dalla lettura del Leo Marchesi era passato, sia pure nei limiti di una rapida e non approfondita informazione, alla conoscenza di lavori plautini della scuola del Leo.
Come si vede, qui fa capolino una concezione del rapporto fra ispirazione poetica e « cultura » che contrasta, felicemente, con la concezione tipica di Marchesi. Felicemente ma isolatamente (non perché Marchesi fosse succube del mito romantico del poeta « sublime ignorante », ma perché tra cultura e poesia rimaneva secondo lui, come si è detto, un iato). La lettura di Leo non solo non ha spinto Marchesi a rivedere il proprio metodo critico, ma, cosa alquanto strana, non ha nemmeno influito sulla sua visione dell'intera letteratura arcaica latina, che rimane particolarmente infelice (basti pensare all'incomprensione per Ennio, su cui vedi le osservazioni giustamente dure di La Penna, p. 76, e per
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Terenzio). E del resto su Plauto stesso il Marchesi non ha pressoché nulla di originale da dire: il capitolo della Storia su Plauto rimane [...]
[...]a dei valori, se non si accetta il « persuadere » solo come una fase preliminare, provvisoria, di un'attività che tenda al raggiungimento del « convincere » (magari come ad una mètalimite), la giustificazione stessa della critica estetica vien meno: si tratterebbe in tal caso di un esercizio avvocatesco, di un'abile e insinuante sopraffazione da parte del critico sul lettore, il quale finirebbe col rinunciare a un proprio precedente giudizio non perché errato o insufficiente (di giudizio errato non si può parlare se il giudizio è sempre soggettivo e, come tale, inconfutabile), ma solo per la propria « mi
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nore bravura » a difenderlo contro il critico. Ma non è questa la sede per cercar di sviluppare questa mia opinione. Qui si deve rimanere aderenti al tema La PennaMarchesi. E si deve constatare che il vivo amore di La Penna per la poesia, unito al ben giusto fastidio per recenti indirizzi di studio della letteratura che non sono né « scientifici » né « assiologici », ma hanno soltanto delle velleità scientistiche [...]
[...] affatto pretendere di racchiudere in questa definizione una personalità eticamente e psicologicamente cosí complessa). Qualche citazione ci farà meglio capire il fascino che, malgrado tutte le riserve già accennate e altre che accenneremo, Marchesi esercita su La Penna:
Chi riduce la critica a disquisizioni metodologiche, potrebbe parlare, con sarcasmo, di arti f ex additus artifici; sia pure; ma, se l'arti f ex additus è un artista autentico, perché dovremmo rifiutare i nuovi doni delle Muse? (p. 40).
Egli [...] rimane come uno dei maggiori criticiartisti che abbia avuto il Novecento italiano [...1. Per quante differenze ci dividano, nella concezione storica e nel metodo, dalla critica della prima metà del secolo, ricordo Marchesi, Valgimigli, Perrotta come uomini che sapevano ricevere i doni delle Muse con mani delicate; né a quel tempo né prima né dopo sono mancati studiosi delle lettere che fanno pensare ai porci rufolanti tra le perle. Onoriamo questo amico delle Muse con misura e con rispetto della verità; può darsi che, una volta [...]
[...]convinto che il buon gusto fosse, per ripetere un'espressione che abbiamo visto usata metaforicamente dal La Penna, un « dono delle Muse » largito a spiriti eletti: poeta et criticus nascuntur, non
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fiunt. E di questa aristocratica certezza di possedere il buon gusto si appagava, senza sentire il bisogno di motivarla. Nei momenti in cui si sentiva socialista o comunista (di momenti bisogna parlare, proprio perché il suo comunismo non era né teoricamente fondato, né basato su una militanza costante) vagheggiava un'umanità alla quale, tutta, i doni delle Muse potessero essere elargiti; ma questa era, in fondo, una speranza lontana e tutt'altro che certa; e se qualcuno gli avesse parlato di distinzione tra
« convincere » e « persuadere », il suo antiscientismo e la sua stessa vocazione retorica lo avrebbero indotto a rispondere che il « persuadere » è via alla verità (alla verità umanamente calda, non alla gelida e presuntuosa
« esattezza ») piú sicura e feconda che il « convincere ».
Confesso che, pr[...]
[...]ane rammentate da La Penna il De Sanctis parlava della « scuola liberale » e della « scuola democratica », legava strettamente la storia politica alla letteraria, affiancava, d'altra parte, all'opera di storico un'attività di critico militante, per il « reale » contro l'« ideale », per una cultura dell'Italia unita borgheseavanzata con forti cautele « antiutopistiche ». Se nell'immediato dopoguerra si esagerò in « desanctisismo di sinistra », fu perché non si videro i limiti (d'indirizzo politico e, connessi con questi, anche di gusto estetico) di una prospettiva storica e critica che tagliava fuori Cattaneo, Pisacane, la prima scapigliatura, e fondamentalmente non capiva nemmeno Leopardi. Tuttavia nello Studio sul Leopardi, l'ultima opera rimasta incompiuta, c'è un'esigenza di ricerca filologicostorica e addirittura di preparazione bibliografica, di metodo
« tedesco ». Che cosa di tutto ciò ereditò Marchesi? Direi nulla, anche a volersi limitare al « gusto », che In Marchesi è sempre collegato con uno psicologismo, con una predilezione pe[...]
[...] « evitare l'insonnia, la miseria, la follia »
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(SM, ii, p. 669 s., in uno scritto del 1910: il passo, non breve, è tutto da leggere, e con ragione il La Penna, p. 35 s., ne sottolinea la centralità per capire Marchesi). Al pari della filosofia, la scienza « non potrà mai svelare l'arcano della vita » (Il poema di Lucrezio, Torino, « Quaderni ACI », [1950], p. 16). L'opera di Tacito « non teme fallimento: perché le idee cadono, solo il dubbio rimane » (Tacito, Messina 1924, p. 252; un po' diverso nell'espressione, ma non nel contenuto, in Tacitoz, 1942, p. 186); e nello stesso Tacito parlerà di « quella superstizione o finzione chiamata volgarmente la verità » (p. 295, cit. anche da La Penna, p. 68). Le citazioni — anche da scritti di varia letteratura e meditazione — si potrebbero moltiplicare.
Ciò che non possono dare filosofia e scienza, può darlo, anche se non interamente, l'arte. A volte (vedi l'accenno, forse troppo fugace, di La Penna, p. 36) sembra che l'arte, per Marchesi, sia dotata di que[...]
[...]ben diversa dall'orgogliosa sicurezza filosofica e scientifica) senza le quali la vita si sarebbe immeschinita, si sarebbe abbassata al vegetare di quel « volgo » verso cui, come abbiamo visto e ancora vedremo, il socialista e comunista Marchesi non riuscí mai a superare un aristocratico disprezzo. Nella conferenza su Lucrezio, dopo aver detto le parole già da noi riportate, che la scienza non potrà mai svelare l'arcano della vita, aggiungeva: « Perché se lo potesse un giorno, sarebbe morta la poesia »: una cosa, dunque, da non auspicare. E nella seconda edizione del Seneca (MessinaMilano 1934', p. 404) dichiarava: « Solo lo smarrimento e il dubbio aprono le porte dell'infinito allo spirito umano che la certezza costringerebbe nell'angustia e nell'inerzia di una immobile contemplazione ». Nell'atto stesso in cui condanna la certezza filosoficoscientifica, Marchesi sembra rifiutare anche la certezza religiosa. E nel capitolo del Seneca dedicato al problema della morte, Marchesi non considera, pare, come un progresso il passaggio del suo auto[...]
[...]ione del critico), Marchesi fa consistere il vero valore della letteratura latina non nell'esaltazione dei valori civici, nell'attaccamento al mos maiorum politico ed eticoreligioso, ma nell'appartarsi da questa romanità ufficiale, nell'esprimere quell'« umanità perenne » di cui si è detto. Questo criterio di valutazione resterà sostanzialmente costante anche piú tardi, anche nella Storia della letteratura latina. Ennio è svalutato (e frainteso) perché « chi si fa cantore delle glorie nazionali è poeta che impone alla propria fantasia limiti che l'arte non ha: ed è poeta destinato a morire ». Catullo e in genere i poetae novi sono amati (fin dal giovanile volumetto su Elvio Cinna, cfr. La Penna, pp. 56) in quanto disgregatori di valori tradizionali. Lucrezio è grande per la sua prospettiva cosmica e il suo senso doloroso della vita, per la sua implicita (e anche esplicita) svalutazione della partecipazione alla vita pubblica con le sue ambizioni e le sue meschinità 3. I poeti augustei, mediocri quando si fanno esaltatori della romanità e de[...]
[...], che reca il segno di un faticoso rifacimento, anche se il giudizio complessivo su Seneca non muta).
Quanto a Tacito, il La Penna ha, come si è visto, indicato le ragioni per cui questo patriota, imperialista, conservatore in politica interna ha tuttavia profondamente interessato Marchesi. Oserei dire che, per alcuni aspetti (soprattutto per l'acutezza di certi giudizi politici, cfr. La Penna, p. 65 s.), il Tacito è superiore al Seneca proprio perché l'identificazione fra il critico e il suo autore è meno immediata. Forse, però, Marchesi ha visto troppo poco in Tacito la coscienza (ad un livello piú profondo del livello « patriottico ») dell'iniquità dell'imperialismo romano e del suo avviarsi alla decadenza,, nonostante l'età « aurea » di Nerva e di Traiano. Egli accenna — ed è vero — che Tacito narra senza un moto di pietà i massacri di barbari compiuti dai soldati romani; soltanto tardi, negli Annali, si farebbe strada talvolta un moto di « ammirazione e di riverenza a quei barbari eroici » (p. 165, 2a ed. p. 158); ma anche qui — nei d[...]
[...]efigge scopi « civili » anziché « umani » non è certamente, secondo Marchesi, un principio valevole per la sola letteratura latina. Marchesi stesso si richiama a Heine come modello di poeta « umano » accostabile a Marziale, dichiara
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che « il contenuto dell'arte nei Reisebilder è piú universale che negli Châtiments », sostiene che « quanto piú il poeta parla di sé, tanto piú gli avviene di parlare degli altri ». Proprio perché l'uomo è fondamentalmente sempre uguale, l'individualità piú profonda, spogliata degli elementi contingenti, coincide con l'universalità (SM, i, p. 201; cfr. La Penna, p. 32 s.).
D'altra parte, però, Marchesi non ha prediletto la letteratura latina a caso; e non a caso, aggiungerei, ha prediletto, nella letteratura latina, l'età imperiale. Il mondo romano, per l'estensione che assunse, per il carattere multinazionale e sopranazionale che sempre piú acquisí (mentre gli antichi valori civici si dissolsero e divennero motivo più di rimpianto che di sincero orgoglio, e nessun tentativo di restau[...]
[...]ivava da una pregiudiziale mancanza di vera ammirazione. Specialmente quella lunga stagione della letteratura greca che era strettamente legata alla vita della polis, o comunque alla partecipazione a comunità politiche, ristrette e coese, recava, per lui, un vizio d'origine: il « cittadino » aveva, in certa misura, reso angusto l'« uomo »! Proprio nell'Epilogo della Storia (u°, p. 468) si legge: « La letteratura latina è più popolare della greca perché piú della greca ha accostato la moltitudine all'opera letteraria e ha empíto di folla i teatri e le sale di recitazione f...]; perché, senza danno dei grandi artisti, che sono intangibili, dell'attività artistica ha fatto un incitamento e un sollievo valevole per tutti. La letteratura latina è anche più moderna della greca, e più della greca ha influito e operato in tutte le nuove letterature, appunto perché essa è stata creata non da una regione — come la letteratura ellenica — ma da un mondo che si estendeva dal Mediterraneo all'Atlantico ». Presa alla lettera, nella sua prima parte, questa asserzione è, sia detto senza venir meno al rispetto per la memoria di Marchesi, una vera assurdità; e assurdità non minori vi sono nelle righe che abbiamo omesso, indicando l'omissione con punti sospensivi. Parrebbe che Marchesi non abbia saputo, sulla funzione del teatro in Atene, ciò che sa ogni studente di liceo. Lascia soprattutto sconcertati (anche per
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chi ricor[...]
[...]olitici, cosicché non si era nemmeno avuta, specie dalla guerra annibalica in poi, quella coesistenza di imperialismo rapace e di democrazia all'interno della polis che vi era stata nell'Atene periclea. E nella creazione dell'Impero avevano avuto una parte importante alcuni capi, alcuni « uomini forti » che Marchesi, disprezzatore della poesia politica e celebrativa, ammirava, anche, certo, per il suo invincibile aristocraticismo, ma soprattutto perché da un lato, comprimendo il potere dell'oligarchia senatoria, avevano esercitato un'azione, in qualche modo, « popolare » (a proposito di Cesare questo motivo, di chiara origine mommseniana, è indicato dal La Penna, p. 34; e in generale direi che Marchesi, giudice storicopolitico non sempre ugualmente acuto, raggiunge il massimo di appassionata lucidità nel disprezzo per l'oligarchia senatoria), dall'altro avevano fatto acquisire allo Stato romano quell'estensione e quel carattere cosmopolitico che avevano conferito alla letteratura latina la sua « universalità ».
Da questo punto di vista l'i[...]
[...]irei che Marchesi, giudice storicopolitico non sempre ugualmente acuto, raggiunge il massimo di appassionata lucidità nel disprezzo per l'oligarchia senatoria), dall'altro avevano fatto acquisire allo Stato romano quell'estensione e quel carattere cosmopolitico che avevano conferito alla letteratura latina la sua « universalità ».
Da questo punto di vista l'imperialismo diventava, paradossalmente ma non illogicamente, superiore al patriottismo, perché era una via alla dissoluzione delle angustie nazionali. Una frase come quella che leggiamo nell'Epilogo della Storia (ii`, p. 468): « Perché la civiltà va oltre la nazione ed è, per sua intima e prepotente natura, imperiale: se per impero s'ha da intendere la vasta unità civile delle genti », letta in periodo fascista poteva prestarsi a gravi fraintendimenti, e di questo rischio Marchesi si curò troppo poco; tuttavia il contesto dimostra che fondamentalmente l'impero era visto da Marchesi diversamente che dai latinisti fascisti, come la negazione della romanità chiusa e patriottarda. Poco sopra egli accenna agli scrittori latini provenienti dalla Gallia, dalla Spagna, dall'Africa: « scrittori che sono romani, se anche portano nei [...]
[...]rte e per la morte »!
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vano e dicevano che per opera dei Romani la terra era divenuta patria comune ».
Certo, sarebbe non troppo difficile raccogliere dalle pagine di Marchesi un controflorilegio di passi di condanna del dispotismo, di rivendicazioni libertarie e vagamente sociali. Ma in complesso prevalse in lui l'idea che la creazione di questa « patria comune » valesse il prezzo del dispotismo piú o meno illuminato, perché ciò che si era perduto in libertà politica si era guadagnato in libertà interiore. « Il principato aveva soppresso le lotte di fazione e le libertà politiche, ma aveva stimolato la libertà individuale. L'individuo che prima viveva per le fazioni, ora vive per se stesso e sente di piú se stesso, ed è meno cittadino e piú uomo » (Storia, II', p. 37).
6. La formazione tardoottocentesca di Marchesi. — Anche per un nemico della filosofia come Marchesi non si può rinunciare a chiedersi in quale clima culturale e ideologico si sia formata (e poi, eventualmente, sviluppata e mutata) la sua visione d[...]
[...]aloga a quella tentata e ritentata per il Leopardi, a fare di Lucrezio un poeta « religioso », a negare l'entusiasmo scientifico e la lucidità razionale che nel suo poema coesistono sempre con la tragicità, e che sono anch'essi fonti di poesia — fu enunciata da H.J.G. Patin in un saggio dal sottotitolo brillante: Du poème de la Nature. L'Antilucrèce chez Lucrèce (in Études sur la poésie latine, I, Paris 1868, p. 117 ss.) e ottenne molta fortuna, perché s'inseriva assai bene nel positivismo angosciato dell'ultimo Ottocento. Un documento significativo di questo tipo di lucrezismo è, pur con un certo ritardo, il libro di Spartaco Borra, Spiriti e forme affini in Lucrezio e in Leopardi (Bologna 1911). Ma anche un lucreziano, tutto sommato, piú « entusiasta » che « desolato » come l'anticlericalissimo Gaetano Trezza, nel suo Lucrezio (Firenze 1876', la ed. 1870) diceva: « In quella calma che ti pare olimpica senti un'acre inquietudine che ti accusa un dolore dominato ma non vinto », parlava di « sgomento dell'infinito », di « pianto compresso »,[...]
[...]ica) presenta il problema del lucrezismo rapisardiano. Il Rapisardi tradusse Lucrezio (La Natura, Milano 1880, Torino 18822, questa seconda volta con una prefazione di Trezza, in cui si esalta Lucrezio piú come « lirico » che come espositore dell'epicureismo). La versione, malgrado qualche enfasi rapisardiana e qualche caduta stilistica, è tutt'altro che disprezzabile. In una curiosa epistola in versi A Lucrezio premessa alla traduzione (curiosa perché incomincia con un ragguaglio sulle edizioni critiche del poema, dagli umanisti fino al Lachmann, molto lodato dal Rapisardi in sonanti endecasillabi, e al Munro) il poeta latino è esaltato come distruttore della superstizione, precursore di Galileo e di Darwin; e del motivo dell'Antilucrèce non c'è traccia. Ma, nel Rapisardi, prometeismo antireligioso e aspirazioni religiose si alternarono sempre, e già pochi anni dopo, nella prefazione e nella chiusa del Giobbe e nelle Poesie religiose, risuonano accenti di quel lucrezismo tardoottocentesco.
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conferenza mar[...]
[...] prime) Novecento. « Volontà di potenza », « slancio vitale » sono concetti e sentimenti estranei a chi sentiva tutta la propria vita dominata da « ansietà e sazietà », a chi diceva: « le cose, appena le tocco, mi diventano vecchie » (cfr. Franceschini, op. cit., p. 21), a chi si identificava soprattutto in Seneca (in quel Seneca cosí poco amato da Nietzsche), ossia in un « preparatore alla morte ». Con molte riserve parlerei anche di estetismo, perché Marchesi non ha mai pregiato l'arte per l'arte, ma ha visto in essa, come s'è detto, un modo di rappresentare il dramma umano e di consolare (parzialmente) dall'infelicità. Chiamerei estetizzanti solo alcune prose meno felici di Marchesi, quelle (frequenti soprattutto nel Libro di Tersite) in cui l'autore si rivolge a una non meglio identificata signora, con un tono fra il galante e lo gnomico. Ma queste pagine non aggiungono alla figura di Marchesi nessun tratto importante.
Anche la dicotomia, ben osservata dal La Penna (p. 55 s.), tra una filologia strettamente e un po' aridamente tecnica [...]
[...]a accettare in quanto ineluttabile, come un fenomeno della natura, come l'evoluzione biologica a cui molti socialisti di quell'epoca accostavano lo sviluppo storicosociale. Negli anni Novanta, Arturo Graf, aderendo al socialismo, scriveva a Turati: « Io accetto tutta, ne' suoi fondamenti, la dottrina socialista; non per la promessa che arreca di una maggiore felicità avvenire (io credo a una infelicità crescente col crescere della coscienza); ma perché riconosco in essa l'anticipazione teoretica di un fatto assolutamente ineluttabile, voluto dalla legge di evoluzione, e che certo sarà il fatto piú grande e piú mirabile della storia umana » (F. Turati attraverso le lettere di corrispondenti, per cura di A. Schiavi, Bari, Laterza, 1947, p. 116).
Simili adesioni al socialismo, per lo piú, durarono poco. Ai primi del Novecento, Pascoli non era piú socialista da tempo, e Graf cessò di esserlo. Non fu questa la parabola di Marchesi. Eppure anche in lui, accanto alla componente umanitaria, ebbe un notevole peso quel fatalismo che abbiamo notato o[...]
[...] diritti individuali », Marchesi plaudi).
Passata la fase violenta della rivoluzione, sarà la « moltitudine » capace di creare una nuova civiltà? Marchesi sembra negarlo: « Niuno può raddrizzare le gambe agli storpi »; volere « far migliore » la moltitudine è pazzia; e ciò vale per la società in assoluto, « tutta quella che fu e sarà sempre » (p. 555). Il finale dell'articolo accenna vagamente ad una maggiore giustizia sociale (molto vagamente, perché la nozione stessa di giustizia sociale svanisce se si ritiene che il proletariato sia una marmaglia inguaribilmente inferiore), ma si sofferma sul terribile prezzo che ciò costerà: perdita dell'« amore », vuoto « al posto di Dio che irraggiava di beatitudine le anime delle sue creature e dell'imperadore che movea oste per la sua gente » (curioso, sul finire di questo articolo oraziano, questo rimpianto « medievale »). Che avremo al posto di tutto ciò? « I nuovi
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canti del lavoro? Oh forse, no. » L'unica speranza è che « noi » (noi intellettuali umanisti[...]
[...]o minor misura), presentavano lezioni sicuramente giuste e non congetturali; e cercarono di districare la genealogia dei codici A. Ma questa operazione doveva riuscire soltanto assai piú tardi (e pur sempre imperfettamente: gli studiosi piú recenti, certo molto meritevoli, ostentano tuttavia troppa baldanza); e le lezioni di A accolte dal Richter erano ancora, di gran lunga, troppo poche, e troppe le congetture, non piú felici di quelle del Leo. Perché apparisse chiaro quanto di buono si poteva ancora ricavare da A (anche senza affrontare il problema dei rapporti genealogici all'interno di questa famiglia) e di quante congetture inutili andasse sbarazzato il testo delle tragedie di Seneca, dovevano venire, dal 1926 in poi, gli studi di Gunnar Carlsson, che rimangono fondamentali, sebbene in alcuni casi il Carlsson si sia spinto troppo oltre.
Marchesi non aveva nel 1908 e non ebbe nemmeno piú tardi l'attitudine ad affrontare complessi problemi di genealogia dei codici (non la ebbero nemmeno, è bene ricordarlo, filologi suoi coetanei o suoi [...]
[...]nati, egli dette una sommaria notizia dei manoscritti fiorentini, soffermandosi con particolare predilezione sul Riccardiano 526 (sec. xiii: cfr. pp. 29, 3337). A proposito delle lodi che il Marchesi tributa a questo codice, il La Penna fa un'osservazione che, del tutto giusta in moltissimi casi, non mi sembra giusta nel caso specifico: « Una curiosa trappola riservata ai conservatori in critica del testo è nel sostenere lezioni manoscritte solo perché manoscritte, anche quando sono frutto di emendamenti di copisti dimostrabili in base alla storia del testo ». Ora, il Marchesi (p. 29) non loda il Riccardiano in quanto trasmettitore di lezioni risalenti all'archetipo o comunque a un ramo di tradizione genuina: loda il co pi s t a del Riccardiano in quanto assennato editore medievale, che, attenendosi fondamentalmente ad A ma attingendo anche ad E o a suoi apografi,
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e talvolta congetturando con prudenza (« introdusse di suo emendamenti congetturali e ritocchi »), dette un buon testo eclettico, precorrendo talvolta c[...]
[...]nten
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dermi: anche nell'ultimo Marchesi la filologia, pur tanto meglio apprezzata e praticata, rimase un'attività marginale.
9. Tommaso Fiore e gli « intellettuali disorganici ». — Se ora, dopo essermi soffermato cosí a lungo sul Marchesi di La Penna (mettendo a dura prova la pazienza dell'eventuale lettore), non mi soffermo sul piú breve saggio su Tommaso Fiore interprete di Virgilio (pp. 107131), non è perché non lo consideri degno del precedente, ma soltanto perché lo spazio ormai manca e perché in questo caso non avrei da esprimere osservazioni o aggiunte, ma soltanto consensi. Dirò solo che questo scritto, pur nella sua concisione, dà piú di quanto il titolo prometta: il La Penna non parla soltanto del saggio di Fiore su Virgilio, ma anche di quelli su SainteBeuve e su Tommaso Moro, e delle dispense di un suo corso universitario su Ovidio. Su Virgilio e su SainteBeuve le pagine del La Penna sono preziose anche per l'interpretazione diretta di questi autoli, non soltanto per comprendere e valutare il giudizio che ne dette Tommaso Fiore (del quale, d'altronde, il La Penna traccia di [...]