Brano: [...]« La fantasia (come la memoria) astrae dalla realtà quello che le serve »,
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dirà nell'Avvertenza alla ristampa delle Metamorfosi (Torino 1967, p. 11). È un pensiero che ha poco o nulla da spartire con ogni forma di « realismo », previa intesa che non usiamo la parola, secondo invece la proposta del Venturi, come sinonimo di « non imitazione », perché allora finiremmo per cadere in una specie di gioco nominale (ad esempio, per Pavese, si è dovuta inventare la formula, che sta come un ossimoro, di « realismo simbolico ») e dovremmo riprendere da capo ogni concetto: cosa, è ovvio, che quand'anche ne fossimo capaci, sarebbe fuori luogo. Qui piuttosto ci interessa dire che la poetica di Lalla Romano non va ascritta, se non in modi estremamente indiretti e condizionali, al grande (ottocentesco) alveo realista e meno ancora può patire l'etichetta, ancor piú angusta, di neorealista. Ne fa fede non tanto l'esordio poetico, che avvenne nel 1941 con la raccolta Fiore pubblicata dall'editore Frassinelli di Torino e che si collocava [...]
[...]e proprio esordio narrativo che avvenne di contromano con Le metamorfosi (1951), un'antologia di sogni secchi e concreti, che passò, pour cause, sotto silenzio. Né bastano a smentita, tacendo d'altri pochi minimi, l'appetito curioso e non sorprendente di Sereni o l'« interessata » attenzione di Bo, che proprio allora veniva investigando, con prudenza, sul neorealismo all'apice.
Abbiamo detto per inciso della formula a cui si è fatto ricorso per Pavese e per l'altro variare la formula auerbachiana, ai casi della Romano proponendo per lei le formule forse più quiete di « realismo allusivo » o di « realismo memoriale » o ancora di « realismo analogico » (« Trasformazione e analogia sono l'essenza dell'arte » [ Le parole cit., p. 52]. E nel Diario di Grecia: « È una di Alberobello, dal gran corpo a uovo con una piccola testa in cima; per cui alla mia immaginazione fertile di analogie essa appare come un'incarnazione del monumento tipico del suo paese »1). Con ciò intendiamo per un verso prendere le distanze dall'accanita officina di Pavese e p[...]
[...] o di « realismo memoriale » o ancora di « realismo analogico » (« Trasformazione e analogia sono l'essenza dell'arte » [ Le parole cit., p. 52]. E nel Diario di Grecia: « È una di Alberobello, dal gran corpo a uovo con una piccola testa in cima; per cui alla mia immaginazione fertile di analogie essa appare come un'incarnazione del monumento tipico del suo paese »1). Con ciò intendiamo per un verso prendere le distanze dall'accanita officina di Pavese e per l'altro variare la formula auerbachiana, ai casi della Romano sorprendentemente adattabile, di realismo « figurale » (dr. Mimesis, Torino, Einaudi, 19562, ii, pp. 339343).
Lasciamo pur da parte Le metamorfosi, che sono anch'esse, a ben vedere, una prova estrema di raffigurazione, e pensiamo al felicissimo incipit di Maria, la « servente au grand coeur »: esordi e chiuse sono sempre, nella Romano, vere e proprie chiavi della volta:
Quando entrammo nella nostra casa, c'era già Maria. Eravamo di ritorno dal
viaggio, e camminammo in punta di piedi, perché era mezzanotte.
Io non conoscev[...]
[...] Romano giovane alla lettura di Combray, « che il suo libro l'avesse già scritto Proust », ibidem) la Recherche sarà ricordata pigramente da piú di un critico. Questo è accaduto specialmente con La penombra che abbiamo attraversato (1964), un libro che ebbe molti consensi ma che da qualcuno fu iscritto frettolosamente alla temperie liricomemoriale degli anni '30'40 e giudicato tardivo.
Salinari su « Vie Nuove » (22 ottobre 1964) fece il nome di Pavese per segnare uno spartiacque oltre il quale non notava — pur facendo nel caso specifico alcune concessioni — che ricalchi, e coagulò il suo dissenso nella formula gravemente limitativa della « letteratura in calzoncini corti ». Non cosi Giansiro Ferrata su « Rinascita » (22 agosto 1964), che richiama si il clima « poeticomemorialistico » tra le due guerre, ma per affermare: « Questo romanzo della Romano va proprio a colpire certi nodi caratteristici dell'antica questione, con una forza che le dà un interesse ben nostro e attuale », o per osservare, molto persuasivamente, e citiamo in questo ca[...]
[...] L'uomo che parlava solo. (Il « parlare da sola » sarà curiosamente annotato ne La Penombra come un tratto della Romano bambina: « Io "parlavo da sola", e la mamma mi lasciava fare, non mi interrompeva », p. 21). L'uomo che parlava solo è il romanzo piú « obiettivo » di Lalla Romano, anche se poi la storia narrata in prima persona e lo stile cosí netto (ma un'ombra di inautentico vi si annida a tratti nel ritmo, specie dei dialoghi, che sente di Pavese) rendono l'opera facilmente apparentabile alle altre.
Cosí ci pare che sia di Tetto murato. Ma Tetto murato conta di piú soprattutto per il segno lievitato delle figure, incardinate in un'atmosfera ferma, chiusa, perfetta e insieme misteriosa, fiabesca, quasi magica, un'enclave nel clima della guerra che sta come un sogno vagamente shakespeariano (« come quando si sogna e si sa di sognare » 3), una « metamorfosi » continuata (« ... cosa sarebbe stato, un giorno, Tetto murato, se non un sogno? », p. 81). In Tetto murato il gioco segreto delle affinità elettive che tramano i rapporti dei prota[...]