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da Saverio Montalto, Memoriale dal carcere in KBD-Periodici: Nuovi Argomenti 1953 - 7 - 1 - numero 3

Brano: MEMORIALE DAL CARCERE (*)

IlLmo Signor Giudice Istruttore di P...

Durante la mia vita rasentai più volte l’aldilà, ma si vede che il crudo destino mi riservava prove più dure della morte.

E, per non annoiare di troppo la Giustizia, vengo subito ai fatti che più di tutti hanno, da dodici a tredici anni a questa parte, sconvolto la mia esistenza. Se potessi, veramente, ne farei a meno di raccontare, giacché, al solo pensarle certe cose, sento un freddo agghiacciante nelle vene e che il cuore cessa di battere e che 1*anima rimane sbigottita e atterrita. Oh, come un giorno agognavo di poter raccontare certi fatti della mia vita con la mente sgombra e serena! Ma i Fati, forse per loro ragioni speciali, non hanno permesso ed

io raccolgo le ultime forze che mi avanzano e mi sottometto ancora una volta alle loro imposizioni! E se non temessi di essere tacciato da pusillanime dal resto degli uomini, oserei affermare che in certi momenti delFindividuo, solo il nulla può essere Tunica ancora di salvezza. Perché, perché, mi domando, Tu, o regolatore del Mondo, hai voluto scegliere me per attore a rappresentare una delle più[...]

[...]degli uomini, oserei affermare che in certi momenti delFindividuo, solo il nulla può essere Tunica ancora di salvezza. Perché, perché, mi domando, Tu, o regolatore del Mondo, hai voluto scegliere me per attore a rappresentare una delle più orribili tragedie della realtà ? Non ero parte anch’io del tuo complesso organismo, oppure sono stato uno degli indegni? Non mi sembra, perché anch’io, per la mia poca parte, ti ero servito al comun scopo di bene! E spero almeno riconoscerai, che la tua intenzione non è stata quella di far rivivere un secondo Caino!

(*) L’autore del presente memoriale, Saverio Montalto, era un modesto impiegato comunale in un paese qualunque della Sicilia. Aveva fatto la prima guerra mondiale con le classi più giovani, era stato ferito e fatto prigioniero. Ritornato al suo paese natale ed ottenuto un posto di impiegato nel comune di un paese vicino, si era dato ad una vita disordinata confondendosi con la borghesia inutile e vana che lo circondava. Però non ne era soddisfatto. Innamoratosi di una ragazza di quella borghesia, si accorse a sue spese come, in tale ambiente, l’amore non sìa un sentimento apprezzabile. Riprese la sua vita dissipata, trascinato dal demone dell’immaginazione e della sensualità, finché non si trovò avvinto nelle reti di una famiglia insidiosa, dove era caduta pure la sorella, sposa infelicissima.

A questo punto Saverio Montalto si ritira dalla società, preferendo la solitudine della sua cameretta in una modesta casa di affitto. Uno scrittore che lo conosce gli offre la sua amicizia, incoraggiandolo; e Saverio Montalto incomincia a leggere e aMEMORIALE DAL CARCERE

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Incomincio coll’anno 1927. Nella mia casa nativa di M... mio zio Arciprete era morto da due anni, le mie due sorelle maggiori erano sposate per i fatti loro una a M... stesso e l’altra a R.« e perciò in famiglia erano rimasti mio padre, il quale ancora abbastanza vegeto accudiva ai lavori della piccolissima proprietà che avevamo, e mia sorella Anna ventiquattrenne che accudiva alle faccende domestiche. Io, dato che ormai avevo il posto di applicato comunale definitivo a N..., andavo e venivo soffermandomi di quando in quando anche la notte a M... Io, è notorio, ho voluto sempre bene ai miei parenti facendo nei limiti del possibile non lievi sacrifici per loro, ma per questa mia sorella poi nutrivo, fin d’allora, un affetto speciale. Me la ricordavo piccina piccina di quando la mamma ci aveva abbandonati morendo e quel che contava di più era il fatto che vedevo che lei sapeva comprendermi bene anche nei discorsi un po* fuori del comune, sia perché aveva fatto la sesta elementare e letto abbastanza, sia perché come intelligenza di donna si elevava al disopra delle altre che io conoscevo. E, del resto, come può nascere un vero affetto ed una vera amicizia anche fra familiari senza una comprensione perfetta e reciproca? E qui non posso fare a meno a non ricordarmi di quando ultimamente i componenti la famiglia Armoni, ed in ispecie mia moglie e mio cognato Giacomo, non sapendo che cosa rispondere ad alcune parole di mia sorella, sentendosi punti sul vivo e che non potevano fare a meno a non riconoscere la loro meschinità, esclamavano sarcasticamente: « Già, ci dimenticavamo che è intelligente come il fratello! ».

Da tuttociò ognuno può immaginare, dato anche che ormai mio zio Arciprete non c’era più e quindi la responsabilità* della famiglia

scrivere, scoprendo, accanto al mondo meschino della provincia, un altro mondo, più Ubero e puro, quello della fantasia e del pensiero.

Sposa poi in circostanze poco chiare una ragazza di quella famiglia che aveva preso a dominarlo, ricattandolo sp[...]

[...]intelligente come il fratello! ».

Da tuttociò ognuno può immaginare, dato anche che ormai mio zio Arciprete non c’era più e quindi la responsabilità* della famiglia

scrivere, scoprendo, accanto al mondo meschino della provincia, un altro mondo, più Ubero e puro, quello della fantasia e del pensiero.

Sposa poi in circostanze poco chiare una ragazza di quella famiglia che aveva preso a dominarlo, ricattandolo specialmente con la persecuzione della sorella, da lui amata teneramente, e si chiude sempre più in un suo segreto dolore. Infine, scoppia fulminea e travolgente la tragedia: uccide la sorella, ferisce la moglie ed il cognato.

Perchè lo fece? In questo memoriale, scritto in sua difesa nel carcere, durante il periodo istruttorio, vi è una risposta: un tentativo sincero e profondo di spiegare quelli che sono i motivi misteriosi delle azioni umane. Si ha non solo un documento umano di grande valore, malgrado le probabili riserve consigliate dalla difesa, ma una rappresentazione di vita, pregevolissima. L’autore ha saputo scavare nel mondo tenebroso delle sue passioni, dominandole con la forza della sua fantasia trasfiguratrice. Schiavo degli altri, nella condizione più orribile che si possa immaginare, si è reso libero da sé, con la forza dello spirito. Parole alate e accenti commossi miracolosamente gli sono sgorgati dal cuore colmo di angoscia: un uomo, sofferente nella sua nudità, si è rivelato.126

SAVERIO MONTALTO

ce l’avevo quasi tutta io, giacché su mio padre, uomo di campagna ed avanzato in età, non si poteva tener molto conto, come trepidavo e ci tenevo a collocar bene questa mia sorella innalzandola se mi fosse stato possibile, fino alle stelle. C’erano state già diverse ambasciate di matrimonio, ma quando per una ragione e quando per un’altra ancora non si era potuto stringere definitivamente con nessuno.

Un bel giorno venni a sapere da una donna fidata che frequentava la nostra casa a M... che c’era un giovanotto che gestiva a T... un negozietto di tessuti per conto del padre, il quale aveva un altro negozio di tessuti a N... e che questo giovanotto recandosi spesso a M... per ragione del suo commercio vedendo mia sorella se n’era innamorato. Mia sorella a sua volta se n’era innamorata di lui pazzamente e inoltre ora si corrispondevano per mezzo di lettere. Mi disse anche che mia sorella aveva timore di dirlo a me, ma che presto il giovanotto a nome don Giacomo Armoni si sarebbe accostato a me per chiedere la sua mano; Io rimasi assai addolorato e perplesso come mai mia sorella aveva fatto ciò senza farmi sapere nulla e pregai pel momento la donna di sorvegliarla e di non dirle niente che io sapevo già il fatto almeno finché non mi fossi informato del come e del quanto.
[...]

[...]sorella aveva fatto ciò senza farmi sapere nulla e pregai pel momento la donna di sorvegliarla e di non dirle niente che io sapevo già il fatto almeno finché non mi fossi informato del come e del quanto.

A N... venni a sapere che veramente c’era un assai modesto commerciante di tessuti a nome don Cesare Armoni oriundo da T..., che

10 conoscevo già di vista, padre del Giacomo e di altra numerosa prole, ma che lui ed in ispecie la moglie non ne volevano sapere affatto di questo matrimonio del figlio e ciò non solo perché c’era prima una figlia da collocare sicuramente, a dir loro, con un professionista o medico o avvocato, ma anche perché principalmente pretendevano che

11 loro figlio così bello, così grande affarista, così temuto che dove passava lui tremava la terra ecc. ecc. doveva sposare almeno almeno una principessina milionaria e di alto lignaggio e non mai una donna povera e di basse condizioni sociali come mia sorella. Seppi anche che il Giacomo era un giovanottino di primo pelo installato con una botteguccia di tessuti [...]

[...]fessionista o medico o avvocato, ma anche perché principalmente pretendevano che

11 loro figlio così bello, così grande affarista, così temuto che dove passava lui tremava la terra ecc. ecc. doveva sposare almeno almeno una principessina milionaria e di alto lignaggio e non mai una donna povera e di basse condizioni sociali come mia sorella. Seppi anche che il Giacomo era un giovanottino di primo pelo installato con una botteguccia di tessuti nella via Vecchia di T... rinomata allora nel paese perché ci abitava il fior fiore della prostituzione e che il giovanottino non solamente spandeva e spendeva, come si suol dire, interesse e capitale, ma per quanto ambiva passare per valoroso capo dell’onorata società, il che, naturalmente, i delinquenti locali glie lo lasciavano fare, sempre, s’intende col loro tornaconto e guadagno. Per allora non seppi altro, ma in seguito venni ad appurare ancora che i genitori non solo erano orgogliosi e contenti di questo comportamento del loro Giacomo,MEMORIALE DAL CARCERE

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ma che una volta, dato che una persona bempensante del paese di T... aveva cercato di mettere in guardia il padre della p[...]

[...]i ad appurare ancora che i genitori non solo erano orgogliosi e contenti di questo comportamento del loro Giacomo,MEMORIALE DAL CARCERE

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ma che una volta, dato che una persona bempensante del paese di T... aveva cercato di mettere in guardia il padre della piega presa dal figlio, il padre, anziché ringraziare la gentile persona, rispose a male parole concludendo con boria che suo figlio era all’altezza di sapere quello che faceva e che nessuno doveva permettersi d’ingerirsi negli affari suoi.

Ritornato a M... chiamai mia sorella e la misi al corrente di tutto supplicandola e scongiurandola di desistere dalla sua malsana idea insistendo principalmente sul fatto che lei era molto più grande di lui e che perciò ne veniva di conseguenza che lui, dopo sposati, presto se ne x sarebbe stancato e sicuramente l’avrebbe abbandonata. Ma lei non volle sentire ragione e mi disse che quand’anche i genitori del suo amato non avessero voluto acconsentire presto al matrimonio, lei avrebbe atteso finché lui non si fosse emancipato e reso libero ed indipendente da loro. Per il fatto della differenza d’età aggiunse che lei era sicura del fatto suo. Mi disse anche che l’affetto di fratello era un conto e l’affetto di fidanzato era un altro e che era inutile insistere perché lei ormai non poteva ritornare più sui suoi passi. Io rimasi costernato ed appresi solamente in quel momento quale forza e potenza adopera la natura per poter perpetuare la specie. Non sapevo p[...]

[...]tto di fidanzato era un altro e che era inutile insistere perché lei ormai non poteva ritornare più sui suoi passi. Io rimasi costernato ed appresi solamente in quel momento quale forza e potenza adopera la natura per poter perpetuare la specie. Non sapevo più che fare e che combinare ed intanto pensavo che se quell’individuo aveva soggiogato fino a quel punto mia sorella doveva essere effettivamente un essere temibile e straordinario. Mi chiusi nella mia stanza, mi vidi avvilito ed annichilito mentre sentivo che un freddo caratteristico di paura m’invadeva per tutte le membra. Quell’individuo, attraverso l’immaginazione, dato che ancora neanche lo conoscevo, aveva soggiogato anche me!

All’indomani mattina mentre scendevo verso N... mi vedo avvicinare a metà strada da un giovanotto, il quale, tenendo la testa bassa ed un comportamento più da maffioso che da persona perbene, mi disse : « Io sono il fidanzato di vostra sorella! ».

Io intesi che il solito fremito di paura , mi agghiacciò, ma mi dominai con un grande sforzo di volontà e risposi : « Ah sì ? E che cosa volete? ».

« Voglio chiedervi la sua mano! ».

«A me? Prima di me c’è mio padre! Io non conto! ».

«No! So che voi contate tutto!».

«Ma vi sembra regolare chiedermi voi la mano direttamente, così in mezzo alla strada? Anzitutto voi siete figlio di famiglia senza128

SAVERIO MONTALTO

nessuna posizione e quindi non potete sostenere il peso di una nuova famiglia, e, poi, c’è anche che i[...]

[...]rella! ».

Io intesi che il solito fremito di paura , mi agghiacciò, ma mi dominai con un grande sforzo di volontà e risposi : « Ah sì ? E che cosa volete? ».

« Voglio chiedervi la sua mano! ».

«A me? Prima di me c’è mio padre! Io non conto! ».

«No! So che voi contate tutto!».

«Ma vi sembra regolare chiedermi voi la mano direttamente, così in mezzo alla strada? Anzitutto voi siete figlio di famiglia senza128

SAVERIO MONTALTO

nessuna posizione e quindi non potete sostenere il peso di una nuova famiglia, e, poi, c’è anche che i vostri genitori non acconsentono che voi vi sposiate! Fate venire i vostri genitori e poi si vedrà! ».

« I miei genitori per ora non possono venire! Ma non importa! Voi intanto mi ammettete in casa e poi quando ritornerò dal soldato mi sposerò! ».

« Ma avete pensato che non è giusto ammettere in casa un ragazzo come voi figlio di famiglia? E poi mia sorella ha ventiquattr’anni e voi appena diciotto. Che l’uomo sia più grande in età è meglio, ma per la donna non è così! ».

« Io non sono un ragazzo come voi dite, perché io mi sento più a posto di coloro che sono grandi! Riguardo poi alla differenza d’età ho molto piacere che sia proprio così! Ed allora accettate o non accettate? ».

«Pel momento, mi dispiace; ma non posso accettare nulla».

Il giovanotto a questo punto si allontanò senza, se ben ric[...]

[...]ttr’anni e voi appena diciotto. Che l’uomo sia più grande in età è meglio, ma per la donna non è così! ».

« Io non sono un ragazzo come voi dite, perché io mi sento più a posto di coloro che sono grandi! Riguardo poi alla differenza d’età ho molto piacere che sia proprio così! Ed allora accettate o non accettate? ».

«Pel momento, mi dispiace; ma non posso accettare nulla».

Il giovanotto a questo punto si allontanò senza, se ben ricordo, neanche salutare.

Passarono diversi mesi. Io intanto cercai di dissuadere sempre più mia sorella con ogni mezzo compreso quello di allontanarla momentaneamente da M... mandandola a R... dall’altra mia sorella sposata, ma tutto fu tentato inutilmente.

In seguito venni a sapere che il giovanotto frequentava da qualche tempo più allo spesso M..., che forse mia sorella ora lo riceveva in casa di nascosto durante l’assenza mia e di mio padre, che il giovanotto quando andava a M... si faceva accompagnare da gente equivoca, che una sera era venuto a tu per tu coll’altro mio cognato di M... sopraffacendolo e minacciandolo, non so più, se con la rivoltella o altro e che infine aveva spavaldamente affermato che lui comandava ovunque e che, o presto o[...]

[...]fu tentato inutilmente.

In seguito venni a sapere che il giovanotto frequentava da qualche tempo più allo spesso M..., che forse mia sorella ora lo riceveva in casa di nascosto durante l’assenza mia e di mio padre, che il giovanotto quando andava a M... si faceva accompagnare da gente equivoca, che una sera era venuto a tu per tu coll’altro mio cognato di M... sopraffacendolo e minacciandolo, non so più, se con la rivoltella o altro e che infine aveva spavaldamente affermato che lui comandava ovunque e che, o presto o tardi, avrebbe aggiustato i conti anche con me. Tutto ciò, come era da prevedersi, servì ad aumentare sempre più il mio fondo trepido e pauroso per cui rimanevo stordito e intontito senza sapere più come regolarmi e le decisioni da prendere.

Fu verso questo periodo che una mattina di buon’ora a N... intesi bussare alla porta. Andai ad aprire e ti vedo entrare mio padre. Capii subito dalla sua faccia che doveva essere successo qualcosa di grave e per poco il mio cuore non cessò di battere. Si sedè e mi raccontò colle lagrime agli occhi che durante la notte aveva sorpreso il Giacomo Armoni nella stanza di mia sorella. Mi disse che aveva cercato di reagire, ma che lui, dato che era giovine e più forte, aveva avuto il sopravMEMORIALE DAL CARCERE

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vento. Allora mio padre li aveva lasciati al loro destino e se n’era allontanato di casa. Io pregai mio padre di andare momentaneamente a stabilirsi dall’altra mia sorella a R... e lui pazientemente se ne andò. Come si fu allontanato mi sdraiai sul letto colla faccia affondata nel cuscino e non so per quanto tempo vi rimasi immobile e senza coscienza. Non so più quando mi alzai e quanti giorni rimasi in casa senza vedere nessuno. In certi momenti sentivo un desiderio ardente di rompere e distruggere tutto, di prendere la pistola e scappare e fare non so che cosa per vendicarmi a qualunque costo, ma quando poi si trattava di dover mettere in atto i miei piani, la paura, divenuta ora più forte che mai, mi teneva immobile al mio posto. Fu questa la prima volta che pensai al suicidio, ma avvicinatomi ad un certo punto al tiretto ove c’era l’arma, la stessa paura mi teneva legate le braccia. Pensavo con raccapriccio: «A che serve possedere la pistola quando non si ha la forza di adoperarla al momento opportuno? » e fui tentato di prenderla ed andarla a buttare in un pozzo vicino. Ma ancora la stessa paura non mi lasciava buttare neanche l’arma nel pozzo. Quando dopo diversi giorni uscii fuori perché non potevo fare più a meno, camminando per la via tenevo la testa bassa, giacché avevo la sensazione che la gente, già a parte dei fatti miei, mi sorridesse sardonicamente in faccia. Anzi, tutte le persone che mi passavano vicino, avevo l’impressione che mormorassero sordamente: «Vile, vile! Ah, ah! Che campi a fare ormai? Sì, sì; non solo vile, ma anche becco! Ah, ah! ». E ci volle molto tempo perché mi persuadessi in qualche modo che poi, in fondo, la gente si preoccupava dei casi miei tanto e non quanto. Mi rammento che in questo periodo un giorno incontrandomi col mio collega Giovanni Mollica, mi disse: «Ho saputo che Giacomello è fidanzato con tua sorella. Stai attento che dopo che le mangia quello che ha, la piglia a bastonate e la caccia via ». Io finsi di non capire e così passò anche questa. Superata la vera crisi decisi, in via [...]

[...]sto periodo un giorno incontrandomi col mio collega Giovanni Mollica, mi disse: «Ho saputo che Giacomello è fidanzato con tua sorella. Stai attento che dopo che le mangia quello che ha, la piglia a bastonate e la caccia via ». Io finsi di non capire e così passò anche questa. Superata la vera crisi decisi, in via d’accomodamento provvisorio, di abbandonare mia sorella al suo destino e pregai anche mio padre e le altre mie sorelle di non occuparsene più neanche loro. Ma non era questa la vera via d’uscita, perché ora più di prima amavo mia sorella e benché mi sforzassi di non pensare più a lei, in alcuni istanti sentivo inavvertitamente che l’anima sanguinava per la sua perdita e che nel contempo l’avvilimento mi abbatteva sempre più e che la paura di dovermi incontrare da un momento all’altro con quell’individuo, mi atterriva anche sempre più. Infatti, quando alcuni mesi dopo andai a M... per prendermi i libri e le altre cose che mi occorre130

SAVERIO MONTALTO

vano, in modo di non avere occasione di ritornarci più, e m’incontrai nella mia casa coll’Armoni, e con un’altra faccia che neanche ebbi la forza di guardare, per poco non svenni dalFavvilimento e dalla paura ed entrai ed uscii muto e fuori di me e senza sapere ove ero e ove mi trovavo.

Dopo qualche tempo credei di aver trovato il rimedio di tutti i mali: avevo comprato da poco l’automobile e mi misi a scorazzare di qua e di là insieme agli amici in cerca di felicità attraverso ogni sorta di svago e divertimento colla speranza di far tacere il tormento che per partito preso tenevo celato in fondo al cuore. Qualcuno in quel tempo mi prese per pazzo, e credo che non aveva tutti i torti, perché sciupavo a destra e a [...]

[...] la forza di guardare, per poco non svenni dalFavvilimento e dalla paura ed entrai ed uscii muto e fuori di me e senza sapere ove ero e ove mi trovavo.

Dopo qualche tempo credei di aver trovato il rimedio di tutti i mali: avevo comprato da poco l’automobile e mi misi a scorazzare di qua e di là insieme agli amici in cerca di felicità attraverso ogni sorta di svago e divertimento colla speranza di far tacere il tormento che per partito preso tenevo celato in fondo al cuore. Qualcuno in quel tempo mi prese per pazzo, e credo che non aveva tutti i torti, perché sciupavo a destra e a manca non solo tutto quello che guadagnavo ma anche ciò che avevo potuto realizzare vendendo parte della mia poca proprietà e quando non potevo avere danaro diversamente prendevo a prestito presso banche e privati che mi davano credito.

Arrivai così verso la metà del 1930 e mi trovavo oberato di debiti e mezzo rovinato. In questo frattempo erano avvenuti vari mutamenti. Gli Armoni erano falliti ed avevano liquidato tutto rimanendo sul lastrico, e, del res[...]

[...]pavo a destra e a manca non solo tutto quello che guadagnavo ma anche ciò che avevo potuto realizzare vendendo parte della mia poca proprietà e quando non potevo avere danaro diversamente prendevo a prestito presso banche e privati che mi davano credito.

Arrivai così verso la metà del 1930 e mi trovavo oberato di debiti e mezzo rovinato. In questo frattempo erano avvenuti vari mutamenti. Gli Armoni erano falliti ed avevano liquidato tutto rimanendo sul lastrico, e, del resto, non poteva andare altrimenti, data la loro stupidaggine ed inettitudine, tanto vero che quando si voleva nel paese dire che un individuo era veramente sciocco, si esclamava : « È più stupido di don Cesare Armoni! ». Ultimamente veramente avevano riaperto il negozietto, ma non c’era più nulla e se vendevano qualche scampolino non bastava per il pane e tutti si domandavano come facevano proprio a vivere. Avevo saputo anche, e ciò m’importava più di tutto, che mia sorella aveva venduto tutta la sua parte di proprietà che aveva, realizzando circa ventimila lire, e, che quasi tutto questo danaro aveva già mandato al suo fidanzato Giacomo Armoni, e più che fidanzato al suo amante, giacché nel paese di M... e viciniori si era sparsa la voce da tempo che l’Armoni l’aveva posseduta già, dato che da molto tempo prima che fosse partito per soldato, facevano vita comune e quasi maritale. Seppi pure che in quei giorni mia sorella stava contrattando per vendersi anche la casa, giacché l’amante le chiedeva insistentemente ancora altro danaro, ma siccome della casa figuravo io il proprietario, mandai a dire ad un certo Pantaleone Nicodemo che limitava e che perciò voleva comprarla di non fare alcun passo perché la casa era mia e così la casa non fu venduta. Intanto dopo alcuni mesi il Giacomo Armoni ritornò dal soldato e venni a sapere che ora che mia sorella non aveva più nulla cercava di allontanarsi pian piano e che nonMEMORIALE DAL CARCERE

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intendeva più sposarla. Mia sorella di questo fatto aveva avuto anche lei sentore ed aveva dichiarato che quando diventava certa e sicura che l’Armoni non l’avesse più sposata sarebbe andata a gettarsi di notte tempo in un pozzo vicino al paese. Più tardi venni a sape[...]

[...]i sentore ed aveva dichiarato che quando diventava certa e sicura che l’Armoni non l’avesse più sposata sarebbe andata a gettarsi di notte tempo in un pozzo vicino al paese. Più tardi venni a sapere ancora che se io mi fossi messo in mezzo impegnandomi di sborsare agli Armoni una data cifra, forse poi il Giacomo ed i suoi genitori avrebbero acconsentito al matrimonio. Pensai: «Ormai è senza onore e senza dote e se non la sposa lui non la sposerà nessuno. E certamente finirà o nel pozzo o chi sa come. Mi conviene perciò far qualunque sforzo e sacrificio purché la sposi immediatamente ». E poi, benché cercassi di rimanere persuaso al contrario, l’amavo sempre ed ora più di prima giacché la sapevo maggiormente in pericolo. Mi recai a M... dal mio amico Avv. Giulio Sacerdote, lo misi al corrente di tutto e

10 pregai d’intromettersi lui nella faccenda e di aggiustare ogni cosa al più presto possibile. L’amico Sacerdote si prestò fraternamente ad accomodare tutto e difatti dopo alcuni giorni mi vidi arrivare in casa

11 Giacomo Armoni, il quale senza tanti preamboli mi disse : « Se volete che sposi vostra sorella mi dovete dare cinquemila lire! ».

« Sta bene! » dico io. « Sposatela immediatamente che l’avrete ».

« Ma io li voglio subito! ».

«Subito, subito, non ve le posso dare. Ma non dubitate che non appena sarete sposati ve le darò ».

Per quel giorno se ne andò; ma dopo pochi giorni ritornò per dirmi che non poteva sposare subito anche perché non aveva trovato casa e che in casa sua non c’era spazio sufficiente per alloggiare una nuova famiglia. Io gli risposi che poteva sposare subito lo stesso giacché pel momento lui e mia sorella potevano venire ad abitare con me dato che avevo cinque stanze ed abitavo solo, che non era il caso di fare inviti o altro, che per le poche spese di matrimonio ci avrei pensato io ed anche per il loro mantenimento finché non si fossero messi in condizioni di non avere bisogno di nessuno. Lui accettò e così decidemm[...]

[...]che in casa sua non c’era spazio sufficiente per alloggiare una nuova famiglia. Io gli risposi che poteva sposare subito lo stesso giacché pel momento lui e mia sorella potevano venire ad abitare con me dato che avevo cinque stanze ed abitavo solo, che non era il caso di fare inviti o altro, che per le poche spese di matrimonio ci avrei pensato io ed anche per il loro mantenimento finché non si fossero messi in condizioni di non avere bisogno di nessuno. Lui accettò e così decidemmo che all’indomani saremmo andati insieme ai suoi a M... per riconciliarmi con mia sorella. Difatti all’indomani mattina andammo a M..., ci riabbracciammo con mia sorella piangendo entrambi lungamente senza poterci dire una parola e ritornammo ad amarci c volerci bene come un tempo. Quel giorno fu uno dei giorni più felici della mia vita.

Il matrimonio si celebrò verso gli ultimi giorni di dicembre di quel 1930. Mia sorella conservava ancora duemila lire che consegnò132

SAVERIO MONTALTO

al suo Giacomo, il quale parte diede a suo padre e parte tenne per sé per recarsi a Palermo insieme a mia sorella per qualche giorno in viaggio di nozze. Dopo alcuni giorni ritornarono e così vennero a stabilirsi presso di me nella casa che abitavo anche ultimamente.

Questa la vera storia ed i fatti che mi costrinsero a mettermi in relazione con la famiglia Armoni, la quale mi portò in seguito nel baratro profondo in cui mi trovo.

I primi a frequentare allo spesso la mia casa furono i genitori e la sorella Aurora di mio cognato di qualche anno maggiore di lui e cioè ventiquattrenne. I due gemelli allora undicenni venivano per fare qualche servizietto e per trasportare Pacqtia dal vicino pozzo o dalla vicina fontana, il fratello Lorenzo l’attuale insegnante si trovava volontario a fare il, corso di allievo sergente, il fratello Giovanni c’era ma faceva solo qualche apparizione improvvisa e poi scappava via e le altre due sorelle Elena ed Iva l’attuale mia moglie che venivano dopo l’Aurora si vedevano anche loro raramente, perché impegnate, dicevano loro, l’Elena all’assesto della casa e la Iva a stare in permanenza nel negozio specie quando non c’era presente il padre, per vendere qualcosa di ciò che ancora vi era rimasto. Io, dato che li sapevo in ristrettezze, i presenti, e specialmente i genitori e l’Aurora, i quali erano, ripeto, in quel periodo i più assidui in casa mia, li facevo restare spesso a pranzo con noi o a cena. Dopo un certo tempo me ne accorsi che sia la madre che la figlia se ne venivano da noi tutte addobbate e impomatate e che non tralasciavano occasione per mettere in mostra la loro bellezza e le loro qualità personali. La madre principalmente, ad ogni minimoché, non faceva altro che magnificare la sua bellezza di quand’era giovane, che, del resto, si poteva vedere anche oggi che aveva circa quarantasei anni (e forse si avvicinava ai cinquanta) e che era madre di otto figli. Della sua bontà poi, del suo sapere fare come economia e come donna di casa, della sua onestà principalmente e di tante cose e rose che non ricordo più, non c’era neanche d’avere la più minima idea, giacché era stata sempre la regina di N... e contorni e tutte le altre donne le quali si credevano per davvero signore perbene, in confronto a lei dovevano nascondersi, giacché tutte sommate assieme non valevano nemmeno il dito mignolo del suo piede; e, a questo punto, quando ci trovavamo soli, soleva aggiungere: «Ma sono stata sfortunata! Non per causa mia, ma per causa di mio marito, di quello stupido, di quello sciocco che non ha voluto ascoltare le mie parole, perché sennò ora non ci troveMEMORIALE DAL CARCERE

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remmo a questo stato e con una figlia di ventiquattr’anni in casa. E non perché non ha avuto matrimoni a bizzeffe, perché tutto il mondo conosce la sua straordinaria bellezza, la sua grande onestà ed ingenuità, la sua intelligenza che ciò che vede cogli occhi fa con le mani, senza p[...]

[...]ando ci trovavamo soli, soleva aggiungere: «Ma sono stata sfortunata! Non per causa mia, ma per causa di mio marito, di quello stupido, di quello sciocco che non ha voluto ascoltare le mie parole, perché sennò ora non ci troveMEMORIALE DAL CARCERE

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remmo a questo stato e con una figlia di ventiquattr’anni in casa. E non perché non ha avuto matrimoni a bizzeffe, perché tutto il mondo conosce la sua straordinaria bellezza, la sua grande onestà ed ingenuità, la sua intelligenza che ciò che vede cogli occhi fa con le mani, senza parlare poi di quello che sarebbe capace di fare lei in una casa che son sicura che dal niente la farebbe salire alle stelle. Anche ora abbiamo un matrimonio per le mani, un certo Mico Spezzano di R... che sta diventando pazzo, ma io non voglio perché so che suo padre è un uomo di quelli... mi capite? Ma ci ha colpa mio marito! Ma lui me l’ha pagata! Sapete che io non lo voglio più vedere e che siamo divisi? È da tanto tempo che dormiamo ognuno per conto nostro. Ed è stato anche per causa sua che i miei fr[...]

[...]le mani, un certo Mico Spezzano di R... che sta diventando pazzo, ma io non voglio perché so che suo padre è un uomo di quelli... mi capite? Ma ci ha colpa mio marito! Ma lui me l’ha pagata! Sapete che io non lo voglio più vedere e che siamo divisi? È da tanto tempo che dormiamo ognuno per conto nostro. Ed è stato anche per causa sua che i miei fratelli, quello che sta qui a N... e quello dell’America mi hanno abbandonata e non vogliono più saperne di me. Ma a me interessa poco anche di loro. Mi accontento che le mie figlie ed i miei figli facciano i servi, ma da loro non vado. Però io spero che il Signore m’aiuterà e che quanto prima sposo le mie figlie, giacché per i maschi non ci penso affatto, e così poi voglio divertirmi e scialarmi, perché io ancora sono giovane e bella ed è proprio ora che incomincio a gustare e a capire che significa divertimento, perché fino ad ora, si può dire, che sono stata una ragazzina ingenua! Io e voi non sembriamo di eguale età, non è vero? », Io sorridevo e non potevo fare a meno a non acconsentire a tuttocciò che diceva. La figlia poi sembrava per davvero un’angela calata dal paradiso: nei modi, nel comportamento, nella benevolenza verso mia sorella, per quanto verso di me si mantenesse alquanto riservata e noncurante: si notava in lei solamente un certo incedere risoluto, altero e spigliato che mentre da un lato la rendeva più attraente ed intraprendente dall’altro poteva far pensare piuttosto ad una donna navigata, ma nel resto tutto a meraviglia. La madre inoltre quando parlava di mia sorella e di me, ma in ispecie di mia sorella, sembrava addirittura che le volassimo entrambi dagli occhi. Dato ormai che il destino aveva voluto così ella ci considerava già più che figli e non c’erano parole adatte per potere esprimere tutto l’affetto che nutriva per noi due. Certo il suo Giacomo bello, il suo Giacomo meraviglioso, il suo Giacomo grande ed immenso era sempre la pinna del suo cuore, ma noi, noi eravamo ancora qualcosa più di lui! Anche don Cesare ed il resto dei figli, quantunque meno espansivi, si dimostravan[...]

[...] e non c’erano parole adatte per potere esprimere tutto l’affetto che nutriva per noi due. Certo il suo Giacomo bello, il suo Giacomo meraviglioso, il suo Giacomo grande ed immenso era sempre la pinna del suo cuore, ma noi, noi eravamo ancora qualcosa più di lui! Anche don Cesare ed il resto dei figli, quantunque meno espansivi, si dimostravano a quell’epoca affettuosi, obbedienti e riverenti. Giacomo ora verso di me sembrava avere anche soggezione e sottomissione e mi fece ricredere in gran134

SAVERIO MONTALTO

parte di tutta la mia paura che un tempo avevo nutrito verso di lui. Ed io ci credevo a tutto, avevo considerazione e compassione perché la sfortuna aveva voluto metterli in quelle condizioni e mi attaccavo sempre più a loro, perché vedevo che ormai mia sorella era felice e ciò m’interessava più di tutto. Un vero conoscitore del mondo al mio posto forse avrebbe pensato: «Guarda com’entri, e di cui tu ti fidi: non t’inganni l'ampiezza dell’entrare ». Ma io non conoscevo ancora la vita, dappoiché, fino allora, benché avessi già trentatré anni, avevo semplicemente vissuto la vita e, sia pure, attraverso varie vicende più

o meno dolorose. E la vita per essere conosciuta occorre che sia pensata e meditata e non solamente [...]

[...]l suocero di mia sorella aveva incominciato, oltre al resto, a chiedere spesso benché sotto titolo di prestito, specie quando non poteva aggiustare diversamente per la spesa giornaliera, del danaro, che io facevo di tutto per dare, sia perché non volevo figurare che stavo in brutte acque sia che mi sentivo obbligato per le cinque mila lire che avevo promesso a mio cognato Giacomo. Per fortuna che allora godevo anche della nona categoria di pensione per una ferita riportata in guerra e così in qualche modo me la cavavo bene. Avevo smesso anche da un pezzo di andare al circolo, non facevo più spese inutili e pazzesche e dato ora che c’era mia sorella, quando non avevo altro da fare, o restavo in casa oppure mi recavo dagli Armoni ovvero andavo a sedermi nel loro negozio. In uno di questi giorni mi vidi chiamare dal sarto Antonio De Vincenzo da N... per dirmi che mio cognato prima di sposare gli aveva ordinato un vestito, ma dato che poi lui si era rifiutato di darlo in credito, giacché lo sapeva cattivo pagatore, mio cognato ora, a sua volta, gli aveva mandato a dire che il vestito non lo voleva più. Il De Vincenzo quindi prima di convenirlo in giudizio si era rivolto a.me per dirmi come doveva regolarsi. Io parlai con Giacomo e siccome Giacomo insistè che il vestito non lo .prendeva più, io dopo un lungo lavorio persuasi il sarto di venderlo ad un altr[...]

[...] sua volta, gli aveva mandato a dire che il vestito non lo voleva più. Il De Vincenzo quindi prima di convenirlo in giudizio si era rivolto a.me per dirmi come doveva regolarsi. Io parlai con Giacomo e siccome Giacomo insistè che il vestito non lo .prendeva più, io dopo un lungo lavorio persuasi il sarto di venderlo ad un altro, ché se anche non avesse realizzato il suo vero prezzo, la differenza glie l’avrei rimborsata io. Ma la mia preoccupazione erano sempre le cinquemila lire che avevo promesso per quanto loro ora non avevano più il coraggio di dirmi niente dato tutto quello che giornalmente spendevo per loro. Cercai di fare altri debiti, ma nonMEMORIALE DAL CARCERE

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trovai. Cercai di vendere a M... quell’altro poco di proprietà che mi rimaneva, ma ormai non acquistava più nessuno, per la scomparsa del danaro, ed anche se ci fosse stato qualcuno a voler comprare intendeva acquistare a prezzi irrisori. Anche mia sorella, ora che poteva vendere la casa, non trovò più chi l’acquistasse, giacché da quindici mila lire che prima offrivano ora volevano comprarla solamente per cinquemila; e lei, anzi mio cognato, con cinquemila non poteva fare proprio nulla, poiché allora aveva in mente di rimettere su il negozio di suo padre, e sicuramente avrebbero mangiato anche questa somma senza concludere niente altro di buono. Io allora, un giorno che mi trovavo solo in casa con mia sorèlla, la chiamai e le dissi: «Senti Anna! Vedi che io ancora le cinquemila lire non le ho potute trovare, penso che le troverò per ora. E poi, come sai, a nostro padre debbo badare io ed anche a nostra sorella di R..., dato che anche lei si trova un po’ male, di tanto in tanto debbo mandare qualcosa. Per te e per tuo marito, per il momento, ci penserò io a tutto ed anche per la sua famiglia per quanto posso. Intanto cercherò di sposarmi, giacché ormai che tu sei a posto, posso farlo senz’altro e così con la dote che prenderò si aggiusterà ogni cosa. E poi, se anche oggi vi dessi queste cinquemila lire, cosa fareste? Il negozio non ve lo potete impiantare sicuramente, perché cinquemila lire non ba[...]

[...]are io ed anche a nostra sorella di R..., dato che anche lei si trova un po’ male, di tanto in tanto debbo mandare qualcosa. Per te e per tuo marito, per il momento, ci penserò io a tutto ed anche per la sua famiglia per quanto posso. Intanto cercherò di sposarmi, giacché ormai che tu sei a posto, posso farlo senz’altro e così con la dote che prenderò si aggiusterà ogni cosa. E poi, se anche oggi vi dessi queste cinquemila lire, cosa fareste? Il negozio non ve lo potete impiantare sicuramente, perché cinquemila lire non bastano neanche per le tasse che si debbono pagare. Perciò conviene aspettare, perché intanto forse i tempi cambieranno e da cosa nasce cosa ».

«Per me figurati! Era per te che io mi preoccupavo, perché pensavo che volessi stare libero. Ma ormai che è così, per noi tanto di guadagnato. Significa che quando ti sposerai poi se ne parlerà. Del resto neanche Giacomo ha detto più nulla, perché sa bene che con cinquemila non c’è niente da fare e che se ne andranno di qua e di là senza alcuno profitto. Io penso però che le voleva per Aurora, ma ormai che hanno scombinato il matrimonio, credo che non ci pensa più neanche lui. E poi come potevano fare? Se non hanno, come si dice, neanche per comprarsi il pane? Come facevano a dare le diecimila lire che il padre di Spezzano chiedeva? ».

Passarono diversi mesi. In questo frattempo mi era capitato un fatterello degno di essere raccontato. Ad un certo punto me n’ero accorto che la madre di mio cognato anziché venire da noi in compagnia della figlia, preferiva venire piuttosto sola ed allo spesso. Un giorno, non ricordo più come fu, ci trovammo soli in cucina mentre si preparava da mangiare. Io stavo, essendo la cucina alquanto piccola,136

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in un punto che per uscire e scendere giù, dovevo passare assolutamente dietro le [...]

[...]e con mia sorella più affettuosa che mai. Ma io ormai avevo capito tutto e, benché in fondo l’amassi, cercavo di evitarla il più che mi fosse possibile, perché avevo un certo timore che si potesse accorgere di qualche cosa mio cognato ed un matrimonio tra me e lei, per un complesso di circostanze, specie economiche come ognuno può immaginare, non era mai possibile e particolarmente in quel momento. Una sera infatti, che mio cognato ci trovò soli nella stanza da lavoro, dato che mia sorella si era allontanata momentaneamente non ricordo più per quale motivo, io rimasi assai male e cambiai colore. Ma lui trovò la cosa semplice e naturale come se nulla fosse, o per lo meno credè opportuno di trovarla, e così io, come Dio volle, dopo un po’ ripigliai l’aspetto normale di prima. Seppi in seguito da mia sorella, forse a questo proposito, che mio cognato un giorno aveva chiamato la madre e le aveva detto: «Oh mamma! Non credi che fra mio cognato ed Aurora ci sia qualche cosa? Tu lo sai che lui non la può sposare! ».

«Oh figlio mio bello! E tu sai che tua madre è donna di permettere certe cose? Tu ormai capisci[...]

[...]on la può sposare! ».

«Oh figlio mio bello! E tu sai che tua madre è donna di permettere certe cose? Tu ormai capisci e puoi sapere da te stesso l’onore e la grande illibatezza di tua madre e di tutta la tua famiglia. Aurora poi, non solo che è la perla fra le perle di N... e di tutto il mondo, ma data la sua intelligenza e la sua accortezza, può stare anche in mezzo ad un reggimento di soldati ».

Mio cognato si tranquillizzò e così non se ne parlò più.

Siamo arrivati così verso la fine di agosto del 1931. E mentre mi trovavo a M... ove mi recavo ogni anno per stare un po’ di tempo con mio padre, m’incontrai colla nostra parente ed amica certa donna Maria, la quale mi domandò : « È vero che Anna ha un bambino maschio di tre mesi? ».

Io mi mortificai e risposi che veramente sapevo che doveva sgravare nel mese di ottobre. Donna Maria rimase anche lei male e conMEMORIALE DAL CARCERE

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tinuò : « Scusate, io non sapevo. Così avevo sentito. La gente ne dice di tutti i colori! ».

Ritornato da M... appresi dopo qualche mese a N... che nel paese, non si sa come, si era sparsa la voce che io ero fidanzato ufficialmente con Aurora. E difatti dopo qualche giorno incontrandomi col podestà Angelo Spurio mi domandò : « È vero che sei fidanzato colla figlia di Armoni? Stai attento che se tu la sposi, sarò io il primo a non guardarti più in faccia! ». Distaccatomi da lui mi rammentai come diversi anni prima e quando ancora non conoscevo di fatto la famiglia Armoni, una sera al circolo alcuni amici miei compagni di giuoco, parte dei quali ora si trovano al mondo dell’aldilà, parlando sardonicamente di Aurora dissero che anche la madre [...]

[...]a non conoscevo di fatto la famiglia Armoni, una sera al circolo alcuni amici miei compagni di giuoco, parte dei quali ora si trovano al mondo dell’aldilà, parlando sardonicamente di Aurora dissero che anche la madre una volta si era messa in testa che doveva sposare Iginio Milano, il quale rappresentava allora il più ricco signore di N..., e che perciò la figlia non poteva fare a meno a non seguire le orme della madre e ciò per un’altra fissazione che, a quell’epoca, sembra avesse avuta l’Aurora per un giovane figlio di signori di N... Intesi fare il nome poi di un altro individuo col quale si malignava che l’Aurora avesse avuto dei rapporti piuttosto intimi, ma io in quel momento m’interessavo così poco di certi fatti, che ci ridevo anch’io sopra e mi divertivo ad ascoltarli. Seppi più tardi che la ragione vera per cui la madre di mio cognato era nemica col fratello dimorante a N... era ben diversa di come l’aveva raccontata lei. Pare che un tempo mentre il geometra Anguria era fidanzato coll’Aurora preferiva corteggiare più la madre che la figlia; ed allora venuta la cosa all’orecchio del fratello, questi chiamò il cognato don Cesare Armoni per metterlo in guardia di ciò che si vociferava nel paese. Don Cesare si adontò e pronto rinfacciò il fratello di sua moglie con ira ammonendolo che doveva impicciarsi solamente delle cose di casa sua e non di quelle degli altri. D’allora in poi rimasero tutti nemici. A questo proposito mi viene a mente che verso gli ultimi tempi mia sorella un giorno mi diceva che la suocera di tutti parlava male in N... tranne del geometra Anguria e della sua famiglia e che una volta aveva solennemente dichiarato che quella donna che avesse sposato il geometra Anguria poteva reputarsi la donna più fortunata della terra, perché il geometra Anguria era il servo delle donne.

Ad ottobre sgravò mia sorella ed io dovetti pensare a tutto compreso all’onorario della levatrice ed ai viaggi dell’automobile di andata e ritorno dalla Marina di C..., considerato che la levatrice condotta138

SAVERIO MONTALTO

di N... non si era potuta chiamare perché era nemica colla madre di mio cognato. Fu verso questo periodo se non mi sbaglio che pregai il podestà di prestarmi duemila lire, il quale gentilmente me le diede e di ciò gli sono stato sempre grato, non solo perché altri non me le avrebbe date sicuramente, ma per quanto le avevo di grande ed urgente necessità. Non ricordo bene neanche se in questo frattempo dovetti vendere la macchina o poco dopo dato che ormai non la potevo più tenere.

Guarita mia sorella decisi di fidanzarmi e così un giorno le dissi:

« Anna, ormai intendo sposarmi, non solo perché così voialtri vi metterete subito a posto, ma anche per sfatare ciò che si dice per il mio fidanzamento con Aurora. Io vorrei sapere chi è stato che ha potuto mettere in giro questa fandonia! ».

«Io non certo e credo neanche tu. E Giacomo neanche perché sa bene che se tu non sposi una con dote, siamo tutti rovinati ».

«Ma come possono pretendere certe cose,[...]



da Renato Mieli, La constrata evoluzione della sicilia in KBD-Periodici: Nuovi Argomenti 1960 - 1 - 1 - numero 42

Brano: LA CONTRASTATA EVOLUZIONE DELLA SICILIA
Se ci fosse un po' di proporzione tra quanto viene diffuso dalla stampa e dalla radio e quanto resta nell'opinione pubblica, a quest'ora si dovrebbe sapere molto di più sulla Sicilia. Viceversa, nonostante iI gran parlare che se ne è fatto in questi ultimi tempi, se ne sa, in fondo, quanto prima. L'isola con i suoi assillanti problemi continua ad essere vista e giudicata, in generale, secondo gli schemi mentali del passato: pittoresca, geniale ma ingovernabile, per chi la guarda dall'esterno, tormentata e incompresa per chi la sente dall'interno. Ed è inutile, a questo punto, alimentare con nuovi miti il dialogo dei sordi tra « siciliani che non si danno pace per le antiche ingiustizie di cui scontano ancora le conseguenze e « settentrionali » che sono stanchi di sentirne parlare. Non c'è più nulla da ricavare da questa sterile contrapposizione. Vogliamo fare uno sforzo per capirci? Allora sarà meglio accantonare per un momento ciò che è opinabile per attenerci a ciò che è certo. Prima di confrontare le conclusioni a cui si è giunti, converrà, cioè, intendersi. sul punto da cui si è partiti, su quella realtà economicasociale di oggi che è l'inizio obbligato per qualsiasi piano di sviluppo della Regione e, ci sembra, per qualsiasi utile discorso sull'argomento.
E possibile trovarsi d'accordo, almeno, su ciò che si intende per odierna realtà siciliana? Parrebbe di si. Vi sono alcuni dati elementari sullo sviluppo dell'isola che nessuno, a quanto consta, mette in dubbio,, Esiste, dunque, un minimo di certezza su cui si può incominciare a costruire un ragionamento. Una premessa, tuttavia, è necessaria, anche se può sembrare ovvia: i dati a cui si fa riferimento per stabilire il ritardo della Sicilia rispetto alle regioni più progredite del nostro paese presuppongono che si riconosca, senza riserve mentali, che l'isola è parte integrante della nazione, della quale deve dividere non solo la pro sperità di domani, se ci sarà, ma anche le difficoltà e responsabilità di oggi, che purtroppo non mancano. Se no, sarebbe un altro discorso.,
Non vorrei qui essere frainteso. Questa premessa non è fatta per anticipare, tanto meno predeterminare, un giudizio sui rapporti tra. Stato e Regione; serve unicamente a fissare un criterio omogeneo di valutazione per misurare l'attuale dislivello economico e lo sforzo occor
LA CONTRASTATA EVOLUZIONE DELLA SICILIA 115
rente per colmarlo. Ne deriva perciò una regola: quella di dire, in cifre assolute, il minimo indispensabile sulle condizioni odierne dell'isola, per concentrare invece l'attenzione sui dati relativi allo sviluppo comparato di essa rispetto alla nazione.
Che la Sicilia sia un'area sottosviluppata è un fatto su cui non ci sono dubbi. Bastano a comprovarlo due dati statistici: quello sull'occupazione e quello sul reddito. In base all'indagine effettuata dall'Istat nell'ottobre 1958 il numero degli occupati si elevava a 1.501.000 persone su una popolazione complessiva di 4.748.000 abitanti: cioè, in media, 3 occupati per ogni 10 persone economicamente inattive. Secondo le stesse rilevazioni, il reddito medio per abitante veniva stimato a L. 143.633 all'anno, equivalenti a poco più di 200 dollari U.S.A. che è il termine di riferimento adottato dall'O.N.U. per classificare precisamente i paesi. e sottosviluppati ». Se si volesse, poi, osservare più attentamente come è ripartito tra i vari rami di attività il reddito prodotto dai siciliani equale è il livello dei consumi della popolazione dell'isola, il grado di depressione da essa raggiunta non potrebbe che apparire più grave (1).
(1) Secondo uno studio del prof. Guglielmo Tagliacarne (« Moneta e credito », IV trimestre 1959) la percentuale del reddito prodotto in Sicilia, durante il 1958, nei vari rami economici, prendendo come termine di riferimento il totale prodotto per ciascun settore in Italia, fatto uguale a cento., sarebbe tosi ripartita:
Agricoltura e foreste 9,49
Pesca 18,61
Fabbricati 5,14
Industria, commercio, credito, assicurazione e trasporti 3,75
Professioni libere e servizi industriali, domestici e vari 5,68
Pubblica amministrazione 8,09
Totale reddito settore privato e pubblica amministra
zione, dedotte le duplicazioni 5,60
Da queste cifre risulta che la Sicilia, con una popolazione pari a circa il 9.5% di quella italiana, contribuisce in una misura proporzionalmente molto inferiore alla formazione del reddito nazionale e soprattutto al reddito prodotto nel settore dell'industria, commercio, ecc.
In quanto alla media dei consumi per abitante, sempre secondo lo stesso studio del Tagliacarne, prendendo come base i numeri indici consueti (numero radioabbonati, spese annue tabacchi, spese annue spettacoli, consumo annuo energia elettrica per illuminazione, lettori di « Selezione », autovetture private, motociclette e ciclomotori), fatta uguale a cento 1a media nazionale, si avrebbe per il 1958 il seguente quadro per la Sicilia:
Radioabbonati 66
Spesa tabacchi 73
Spesa spettacoli 71
Consumo energia elettrica per illuminazione 58
Lettori « Selezione » 62
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Ma non è sull'intensità della miseria che si deve fissare lo sguardo, anche se umanamente vien naturale farlo; bensì sull'evoluzione in corso. La domanda a cui dobbiamo sforzarci di dare una risposta è se in questi ultimi anni le condizioni economiche dei siciliani siano andate migliorando o peggiorando. E poiché il concetto di « miglioramento » è di per se stesso relativo, presupponendo un confronto nello spazio e nel tempo, sarà bene dire subito che i termini di paragone ai quali intendiamo richiamarci sono rispettivamente la situazione economica nazionale e il quadriennio (19551959), che costituisce una prima parte del periodo previsto per l'attuazione dello « Schema Vanoni ».
Il perché di questa scelta è abbastanza evidente. Non si può comprendere l'evoluzione economica della Sicilia, isolandola dal contesto nazionale. Non si può pensare a un progresso di essa, prescindendo dai legami che l'uniscono al resto del paese. Il deterioramento delle condizioni di vita delle popolazioni meridionali, da un secolo a questa parte, ha insegnato qualcosa. Un tempo si poteva anche credere che bastasse l'unità politica a generare spontaneamente la parità economica, stabilendo per forza di cose un equilibrio tra le regioni arretrate e quelle avanzate, in modo analogo a quanto avviene tra vasi comunicanti. Oggi non lo pensa più nessuno. Oggi si sa che senza un intervento organico, su scala nazionale, da parte dello Stato e dell'iniziativa privata, non si colmano i dislivelli esistenti. Al contrario, a lasciar fare alle leggi, diciamo così, di natura, quei dislivelli tenderebbero ad aumentare anziché a diminuire, poiché la ricchezza tende a moltiplicarsi attorno ai « punti di accumulazione », dove è, cioè, più concentrata. Una politica economica di « non intervento » ormai non è sostenibile. È interesse riconosciuto della nazione correggere gli squilibri tra regione e regione; e dovere dello Stato operare affinché ciò avvenga. Parlare di « miglioramento » delle condizioni in Sicilia, in termini strettamente regionali, sarebbe perciò fuori luogo: sarebbe un'implicita sottovalutazione di quel fattore che ha contribuito in misura così rilevante all'impoverimento dell'isola, dopo lo sbarco di Garibaldi, e che dovrebbe contribuire ora, all'inverso, ad affrettarne lo sviluppo. Meno che mai ciò si giustifiche
Indice motorizzazione 62
Media dei 6 numeri indici 65
Se si pone in confronto questa media dei 6 indici dei consumi per abitante con il corrispondente indice del reddito prodotto per abitante nel 1958, che è stato calcolato a 58,8 per la Sicilia (media Italia 100) si ha un rapporto pari a 1,11. Ció significa che durante il 1958 si è consumato — relativamente — nell'isola in una proporzione maggiore di quanto si è prodotto.
LA CONTRASTATA EVOLUZIONE DELLA SICILIA 117
rebbe dopo la presentazione del « Piano Vanoni » che ha precisamente tra i suoi obbiettivi principali quello dello sviluppo del Mezzogiorno e del pieno impiego: due obbiettivi essenziali per la Sicilia. Per questi motivi ci sembra che il miglior modo per valutare adeguatamente il problema siciliano sia quello di vedere quali progressi si siano eventualmente verificati in relazione allo sviluppo dell'economia italiana, in questi quattro anni di applicazione dello « Schema Vanoni ».
Il primo punto da esaminare è quello riguardante l'occupazione. Secondo le rilevazioni dell'Istituto Centrale di Statistica le forze di lavoro in Sicilia, al 20 aprile 1959, ammontavano a 1589.000 su una popolazione complessiva di 4.767.000 persone. Il livello di occupazione, ossia il rapporto tra popolazione attiva e popolazione residente, era pari al 33,3%. Alla stessa data, le forze di lavoro in Italia ammontavano a 20562.000 su una popolazione di 49.779.000 abitanti. Dunque il livello di occupazione nazionale era pari al 41,3%. Dal confronto di questi due dati risulta un dislivello dell'8%, che rappresenta la frazione di popolazione siciliana che dovrebbe diventare attiva per raggiungere la media nazionale. Naturalmente poiché sulla media italiana incide la minore occupazione delle regioni meridionali, il dislivello sarebbe ancor più accentuato se si paragonasse la Sicilia al Nord. Ma già da questo primo confronto si ha una misura del divario esistente. Per colmarlo occorrerebbe che l'8% dei siciliani, ossia circa 380.000 persone, cessassero di essere « inoccupati ». È una cifra forte, che dà un'idea della mole del problema da risolvere. Per:, non vi é da lasciarsi impressionare. Intanto va detto che il livello di occupazione non può essere preso come un indice assoluto di progresso. In una determinata comunità che avesse raggiunto, un elevato grado di sviluppo potrebbe diminuire la percentuale della popolazione attiva (per una minore partecipazione ad esempio di vecchi o di donne al processo produttivo) con un compensativo incremento della produttività. Non è questo il caso della Sicilia. L'isola è certamente al disotto del livello normale di occupazione. Tuttavia è difficile dire quanto essa sia al disotto perché la stessa media nazionale non può ancora considerarsi, allo stato delle cose, co me normale.
Comunque vi è un eccesso di popolazione che potrebbe lavorare enon cerca nemmeno lavoro in Sicilia, tanto è convinta che sia inutile cercarlo. E questa tara dell'economia isolana deve essere eliminata. Si
118 RENATO MIELI
tratta ora di vedere se stia scomparendo o no, e con quale velocità e ampiezza si modifichi la percentuale delle forze di lavoro. Se si prende in esame il periodo 19551959 si ha il seguente quadro delle variazioni rilevate:
Anno Forze di lavoro (migliaia) Popolazione residente Percentuale
(migliaia) f. lav./p. res.
1955 (8 maggio) 1.493 4.616 32,3%
1956 (21 aprile) 1.506 4.658 32,3%
1957 (8 maggio) 1.555 ' 4.695 33,1%
1958 (20 ottobre) 1.623 4.748 34,2%
1959 (20 aprile) 1.589 4.767 33,3%
Il rapporto tra popolazione attiva e popolazione totale è andato lentamente crescendo in questi cinque anni. Nello stesso periodo si é avuto su scala nazionale un analogo aumento della percentuale come risulta dalla seguente tabella :
Anno Forze di lavoro (migliaia) Popolazione residente Percentuale
(migliaia) f. lav./p. res.
1955 (8 maggio) 19.661 48.308 40,7%
1956 (21 aprile) 19.761 48.714 40,6%
1957 (8 maggio) 20.170 49.063 41,1%
1958 (20 ottobre) 20.761 49.617 41,8%
1959 (20 aprile) 20.562 49.779 41,3%
Se si misura ora lo scarto tra la percentuale nazionale e quella siciliana si rileva una tendenza ad una lenta diminuzione. Il divario che era di 8,4% nel 1955 si é ridotto all'8% nel 1959. Si pu? quindi desumerne che, sebbene la popolazione siciliana aumenti in proporzione un po' più della media italiana (2) 1'« inoccupazione » tende invece a decre
(2) In base al censimento effettuato il 4 novembre 1951, la popolazione residente in Sicilia, ammontava a 4.486.749, mentre la popolazione totale italiana si elevava a 47.515.537. Ossia la popolazione dell'isola rappresentava il 9,44% della popolazione nazionale. Successivamente si sono registrate le seguenti variazioni:
Data Sicilia Italia Percentuale
31.XII.1956 4.721.457 49.554.990 9,52%
31.XII.1957 4.756.271 49.895.283 9,532%,
31.XII.1958 4.794.362 50.270.665 9,537%
LA CONTRASTATA EVOLUZIONE DELLA SICILIA 119
scere molto lentamente: troppo lentamente perché si possa pensare che, di questo passo, la soluzione sia in vista, entro un ragionevole periodo di tempo (3).
Fin qui si é considerato quello che potrebbe essere il potenziale umano tuttora improduttivo e si é constatato quanto resta da fare in Sicilia per raggiungere il livello italiano in tema di occupazione. Ma se si considera l'attuale stato di cose, per quanto si riferisce all'offerta di lavoro nell'isola, la situazione appare un po' meno preoccupante. Tuttavia non c'è per ora da compiacersene troppo. Oltre ai siciliani « inoccupati », che attualmente non hanno speranza di trovare lavoro, vi sono anche i « disoccupati », ossia i licenziati in cerca di nuova occupazione e le ultime leve in cerca di prima occupazione. Secondo le liste di collocamento, gli iscritti in queste due classi erano passati da circa 200.000 alla fine del 1956 a meno di 130.000 nella primavera del 1959. Stando invece alle stime dell'Istituto Centrale di Statistica, il loro numero corn
(3) Dalle due tabelle di cui sopra, risulta che lo scoperto tra la percentuale delle forze di lavoro in rapporto alla popolazione residente in Sicilia rispetto all'Italia, ha seguito dal 1955 al 1959 questa evoluzione:
1955 8,4%
1956 8,3%
1957 8%
1958 7,6%
1959 8%
In base ai dati relativi al CentroNord si avrebbe avuto, invece, il seguente quadro:
Anno Forze di lavoro Popolaz. res. Percentuale Scarto pert. Sicilia
(migliaia) (migliaia) f.l.,p.r. pere. Nord
1956 11.937 27.224 43,8% 11,5%
1957 12.247 27.376 44,7% 11,6%
1958 12.625 27.644 45,6% 11,4%
Ne deriva che l'inoccupazione siciliana poteva essere stimata a 388.000 persone nel 1956 e a 380.000 persone nel 1958, calcolando in base alla media italiana, mentre sarebbe stata di 535.000 persone nel 1956 e di 541.000 persone nel 1958, rispetto ai dati del CentroNord. Praticamente si può dire che le variazioni registrate in questo periodo non hanno contribuito in misura apprezzabile a coprire il deficit di occupazione in Sicilia rispetto al livello nazionale.
120 RENATO MIELI
plessivo sarebbe passato da 130.000 nel maggio del 1955 a 78.000 nell'aprile dell'anno scorso (4). In entrambi i casi risulta che vi è stata una diminuzione sensibile del numero dei disoccupati[...]



da Enrica Pischel, Considerazioni sulla nuova fase della politica asiatica in KBD-Periodici: Nuovi Argomenti 1958 - 7 - 1 - numero 33

Brano: CONSIDERAZIONI SULLA NUOVA FASE
DELLA POLITICA ASIATICA
Molti problemi e molte situazioni si sono trasformati in Asia dalla conferenza di Bandung in poi. I mutamenti verificatisi negli ultimi tre anni non sono stati di carattere drammatico o spettacolare come quelli susseguitisi in questa zona del mondo a ritmo incalzante dal 1945 al 1955: nessun impero é crollato nella disfatta, nessuna rivoluzione di centinaia di milioni di uomini si è verificata, non è stata data l'indipendenza a nessun grande paese, alcun conflitto internazionale ha attirato sull'Asia l'attenzione ed il timore dei popoli del mondo.
I fatti verificatisi recentemente in Asia ed i nuovi fenomeni dei quali bisogna tener conto non sono tali da attirare imme
diatamente l'attenzione. I oblemi di attualità » oggi sona al
di fuori dell'Asia: vertono sulla recessione e sul disarmo, sul
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l'equilibrio tra le due maggiori potenze nucleari e sulle nuove tecniche. A pochi anni di distanza già sembra possibile a più di un occidentale domandarsi che cosa mai abbia indotto il mondo nell'età dell'automazione e dei missili a considerare per un momento le vicende dei prigionieri coreani o le azioni dello scalzo esercito di Ho Chi Minh elementi decisivi nel determinare il corso dell'attuale processo storico e le sorti della pace mondiale.
E2pure_.è chiaro ad una riflessione più profonda che l'attuale situazione internazionale é stata determinata strettamente dal l'enorme oso obiettivo rappresentato dagli eventi, del ..mondo asiatico ed africano dalla fine della guerra in poi e che la presenza delle nuove nazioni indipendenti è un fattore decisivo in ogni sviluppo. Ancor più decisivo di questo elemento ormai acquisito è il processo attualmente in corso in Asia sul piano delle scelte politiche, sociali ed economiche per il problema dello sviluppo e dell'industrializzazione. Queste scelte, assai più di altri
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fattori, sono il banco di prova della capacità dei due sistemi sociali in lotta nel mondo di offrire soluzioni verso un avvenire stabile e progressivo ai paesi ora entrati nella dialettica della storia mondiale. Non si tratta di un problema di aiuti dall'esterno o di pressioni politiche e militari esercitate parimenti dall'esterno: si tratta della possibilità di esprimere soluzioni nuove, dinamiche e particolari per problemi che prima non si erano presentati; e di esprimere queste soluzioni dall'interno delle nuove società e in base alle forze sociali esistenti sul posto.
Un esame generale della situazione è tanto più difficile in quanto essa si evolve a ritmo assai più lento che nel periodo 19451955, in settori più occulti ed imponderabili, modifica di fatto le situazioni consolidate sia dal punto di vista economico sia da quello psicologico, batte vie a volte inaspettate e divergenti e lascia per molto tempo intatte le apparenze esteriori, precipitando poi su fatti che sono assolutamente incomprensibili senza un'analisi particolareggiata delle situazioni locali. Inoltre la teorizzazione e la stessa esposizione dei fenomeni in corso incontrano difficoltà perché gli osservatori esterni sono spesso ispirati dall'interesse politico e sociale del mondo dal quale provengono o non riescono a sottrarsi all'influenza di luoghi comuni assunti ad assolute verità sull'Asia, mentre le forze locali, oltre ad essere impegnate nella fase iniziale di una nuova esperienza non sempre possono fare esplicitamente il punto della situazione, sottoposte come sono alle esigenze della lotta e della polemica con i loro avversari.
Alcuni giudizi ed elementi che valsero per la situazione asiatica fino all'epoca di Bandung sembrano poter rimanere tuttora base della nuova indagine: ad esempio appare sempre valida la asserzione di carattere marxista che il processo in corso in Asia. è un processo di liberazione dalla dipendenza economica e sociale imposta dell'imperialismo, cioè non solo dalla colonizzazione diretta e formale delle vecchie potenze europee, ma anche dalla nuova ed indiretta dominazione statunitense, che é oggi la più forte influenza esterna che preme contro la liberazione completa dell'Asia. Altrettanto valido appare il giudizio
i
CONSIDERAZIONI SULLA NUOVA FASE DELLA POLITICA ASIATICA 19
sullacorrelazione tra le trasformazioni interne sociali ed econo miche soprättüttó quelle riguardanti il regime di proprietà terriera) e l'effettiva concretezza dell'emancipazione dal dominio straniero, nonché quello sull'obiettiva utilità, per il fronte rivoluzionario socialista di tutti i paesi, di qualsiasi indebolimento dell'influenza imperialista in Asia.
Il problema che oggi è in gioco in Asia consiste nell'indivi duare se ed in quale misura le forze borghesi si stiano effettiva mente dimostrandöincapaci di' dar vita ad una società indipendente e in sviluppo in Asia; se la permanenza del governo nelle mani della borghesia nazionale nei paesi nuovi implichi una menomazione dell'indipendenza economica verso il mondo esterno o l'incapacità di condurre a termine la rivoluzione antifeudale nelle campagne; se i princi î_ ele soluzioni elaborati da MaoTsetung sulla base dell'esperienza della rivoluzione cinese, debbano o passano avere validità fuori dell'ambito della Cina; quali possano essere in ogni paese le forze ed i modi, _per trasformare gradualmente e pacificamente il regime borghesenazionalista (diverso da luogo a luogo a seconda del rapporto sul quale ciascuna borghesia si trova sia con le forze feudali sia con gli elementi rivoluzionari agrari o urbani) in una società sostanzialmente socialista; se e fino a che pinto i tentativi progressivi condotti dalle forze borghesi più avanzate rimangano nell'ambito del nazionalismo borghese progressista e dove divengano invece una nuova e quanto[...]

[...]lla Cina; quali possano essere in ogni paese le forze ed i modi, _per trasformare gradualmente e pacificamente il regime borghesenazionalista (diverso da luogo a luogo a seconda del rapporto sul quale ciascuna borghesia si trova sia con le forze feudali sia con gli elementi rivoluzionari agrari o urbani) in una società sostanzialmente socialista; se e fino a che pinto i tentativi progressivi condotti dalle forze borghesi più avanzate rimangano nell'ambito del nazionalismo borghese progressista e dove divengano invece una nuova e quanto mai « diversa » via al socialismo; come possa essere conciliata la denuncia del « revisionismo » da parte del mondo marxistaleninista con il tentativo di operare pacificamente il trapasso dai regimi nazionalisti progressisti a quelli socialisti.
Chi scrive non presume di dare risposte a questi problemi, ma intende soltanto esaminare alcuni fenomeni ed alcune indicazioni che possano rendere più facile lo sforzo di interpretare in futuro gli sviluppi tuttora in corso in Asia. Molto si é scritto da Bandun[...]

[...]l'ambito del nazionalismo borghese progressista e dove divengano invece una nuova e quanto mai « diversa » via al socialismo; come possa essere conciliata la denuncia del « revisionismo » da parte del mondo marxistaleninista con il tentativo di operare pacificamente il trapasso dai regimi nazionalisti progressisti a quelli socialisti.
Chi scrive non presume di dare risposte a questi problemi, ma intende soltanto esaminare alcuni fenomeni ed alcune indicazioni che possano rendere più facile lo sforzo di interpretare in futuro gli sviluppi tuttora in corso in Asia. Molto si é scritto da Bandung in poi sul problema dei paesi sottosviluppati ed in particolare sul contributo e le soluzioni che dovrebbero fornire le potenze o le forze sociali che fanno parte del mondo capitalista
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per consentire ai paesi asiatici di ottenere il miracolo dello sviluppo senza passare attraverso le trasformazioni sociali che al= trove sono state la base ed il costante accompagnamento dello sforzo di industrializzazione: in realtà non sembra di poter concÏú~ére che queste discussioni abbiano portato ad alcun risultato concreto e, sia che la cosa si debba attribuire alla logica del sistema capitalistico, sia che si tratti invece di cause contingenti, gli Stati Uniti ed i loro alleati non hanno saputo per ora attuare arcuna farina di reale—ált rnativa alta ""piáriiñ_cazione di tipo socialista. D'altra parte per quest'ultima, anche dando per concessa la continuazione della politica sovietica di aiuti ai paesi sottosviluppati e l'intensificazione dell'aiuto cinese in questo senso, sono le forze interne ed il loro dinamismo a rappresentare l'elemento decisivo e non l'azione compiuta sull'Asia dall'esterno dall'URSS o da altri paesi a governo comunista.
Proprio sul piano interno ed economico si é verificata dalla conferenza di Bandung in poi l'evoluzione della situazione asiatica: il mero anticolonialismo politico e formale é stato sostituito dal tentativo di risolvere il problema dello sviluppo come principale movente di interesse comune nei paesi asiatici. Questa sostituzione fu l'elemento innovatore e stimolatore suscitato dalla conferenza di Bandung che mostrò, attraverso il confronto della situazione che si veniva creando nei paesi socialmente più progrediti con quella sussistente negli altri, la gravità delle conseguenze implicite nella stasi economica, nell'acquiescenza al permanere del dominio economico imperialistico e nel mantenimento (soprattutto nel regime di proprietà della terra) di residui di una struttura sociale totalmente superata e incapace di consentire un qualsiasi sviluppo moderno. In questo senso la conf[...]



da (Mito e civiltà moderna) Ernesto De Martino, Mito, scienze religiose e civiltà moderna in KBD-Periodici: Nuovi Argomenti 1959 - 3 - 1 - numero 37

Brano: N UOVI ARGOMENTI

N. 37 Marzo Aprile 1959

Il mito, il simbolo, l’arcaico, il magico, il sacro esercitano sulla cultura contemporanea un fascino crescente in palese contrasto col tecnicismo del mondo moderno e con le molto concrete e realistiche passioni sociali e politiche che lo dividono. Il fenomeno può essere considerato da punti di vista diversi : innanzi tutto come « ritorno alla religione », quale che sia la consistenza e il significato di tale ritorno; in secondo luogo come influenza e suggestione immediate dell’arcaico, del simbolico, del mitico — e in genere del variamente irrazionale — sulla sensibilità, sul costume, sulle arti figurative, sulla musica, sulla letteratura e sulla stessa vita politica; in terzo luogo come particolare orientamento delle scienze religiose, soprattutto neirultimo quarantennio; e infine come nuovo modellarsi del mito e delle forme di vita religiosa presso i popoli coloniali o semicoloniali — o da poco usciti dal rapporto coloniale — e presso le minoranze di colore, nel quadro del movimento di emancipazione politica e sociale di questi popoli e di queste minoranze. Per quanto si tratti di manifestazioni disparate vi è fra di loro una connessione non casuale, almeno nella misura in cui pongono in quistione il destino culturale della civiltà occidentale e ne esprimono con varia voce il travaglio in cui versa. Se si pensa che ognuna di queste singole manifestazioni del fenomeno presenta a sua volta numerosissimi aspetti particolari, e che una letteratura molto vasta — per non dire sterminata — si è venuta accumulando sull’argomento, si comprenderà come il presente fascicolo di « Nuovi Argomenti » possa proporsi soltanto il compito limitato di richiamare l’attenzione del pubblico italiano sulla attualità e sulla complessità del problema.

Rispetto alle altre culture nazionali dell’occidente, la cultura italiana è in evidente ritardo per quel che concerne la presa di coscienza di una problematica del genere: il lettore potrà agevolmente sincerarsene solo che scorra i dati bibliografici contenuti nel presente fascicolo, poiché raramente gli accadrà di leggere il rinvio a opere italiane o a traduzioni in italiano di opere straniere. Tuttavia, soprattutto in questi ultimi tempi, anche in Italia si manifesta un crescente interesse degli2

PREFAZIONE

studiosi e del pubblico per i problemi relativi al mito, al simbolo, all’arcaico : del che fanno fede, in particolare, alcune collane che hanno assolto una importante funzione culturale in questo senso, e prima di tutte in ordine di tempo la collana di Studi religiosi etnologici e psicologici dell’editore Einaudi. In questo quadro deve essere considerato il presente fascicolo dedicato a « Mito e civiltà moderna », nel quale figurano unicamente contributi italiani. Naturalmente il tentativo presenta qualche menda e qualche lacuna, anche tenendo conto delle forze culturali che erano disponibili: più grave fra tutte la lacuna relativa all’argomento «mito e letteratura moderna» che nel presente fascicolo non trova trattazione. Ci auguriamo che in un prossimo avvenire la nostra rivista possa dedicare la propria attenzione anche a questo importante aspetto dei rapporti fra mito e civiltà moderna. Abbiamo comunque ragione di credere che, anche così come si è riusciti ad attuarlo, il presente tentativo ha qualche merito, soprattutto se si tien conto che in Italia rappresenta in certo senso il primo del genere, soprattutto per la prospettiva che lo caratterizza: infatti solo in parte potrebbero essere considerati come antecedenti i fascicoli dell’Archivio di Filosofia diretti dal Castelli (Filosofia della Religione, 1955; Filosofia e Simbolismo, 1956) e la raccolta Umanesimo e Simbolismo, curata dallo stesso Castelli (Padova, 1958). Numerosi sono invece gli antecedenti stranieri, come

— per ricordare i più recenti e i più importanti — i due volumi delYEranos Jahrbuch del 1949 e del 1950 (rispettivamente dedicati al mito e al rito), i numeri di Studium Generale del maggio, giugno e luglio 1955, il Journal of American Folclore del 1955, n. 370, e soprattutto il recentissimo fascicolo di Daedalus, Journal of thè American Academy of Arts and Sciences, che è della primavera del 1959 e che è dedicato interamente al mito e alla mitopoiesi (myth and mythma\ing). Tuttavia anche rispetto ai precedenti stranieri, così numerosi e ricchi, il presente fascicolo di « Nuovi Argomenti », dedicato a « mito e civiltà moderna», ha una propria fisionomia per il suo accentuato legame con i problemi connessi alla crisi e al rinnovamento della civiltà moderna. La seri[...]

[...]70, e soprattutto il recentissimo fascicolo di Daedalus, Journal of thè American Academy of Arts and Sciences, che è della primavera del 1959 e che è dedicato interamente al mito e alla mitopoiesi (myth and mythma\ing). Tuttavia anche rispetto ai precedenti stranieri, così numerosi e ricchi, il presente fascicolo di « Nuovi Argomenti », dedicato a « mito e civiltà moderna», ha una propria fisionomia per il suo accentuato legame con i problemi connessi alla crisi e al rinnovamento della civiltà moderna. La serie degli articoli comprende uno scritto di R. Pettazzoni che opportunamente richiama una lettera inedita del Croce (in Italia infatti ogni revisione della problematica tradizionale della nostra cultura comincia necessariamente dal Croce anche se è vero che la storia nel mondo non si è conclusa a Napoli, Via Trinità Maggiore 12, come alcuni ripetitori e epigoni hanno talora lasciato intendere x:on palese provincialismo); un saggio di E. de Martino in cui si tenta di dare unaPREFAZIONE

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valutazione critica complessiva del movimento di rivalutazione esistenziale della religione e del mito negli ultimi quarantanni ; una monografia di Vittorio Lanternari che si occupa delle riplasmazioni subite dal mito e dalla vita religiosa dei popoli coloniali e semicoloniali nel quadro del movimento di emancipazione che ormai li coinvolge tutti; un saggio di Remo Cantoni che riprende e rielabora i suoi temi già svolti in Umano e Disumano; un contributo di Diego Carpitella sul rapporto fra musica primitiva e musica moderna; e infine una nota di Annabella Rossi che imposta alcuni termini del problema del rapporto fra arte preistorica e arte contemporanea. Ci auguriamo che questo fascicolo, pur nei suoi limiti, svolga una funzione benefica nel progresso umanistico della cultura nazionale e stimoli sia pure di poco la formazione presso di noi di una coscienza storicoreligiosa moderna, fortemente radicata nel presente e nei suoi problemi anche quando volge la sua attenzione all’arcaico, al simbolico, al mitico, al magico, al sacro*MITO, SCIENZE RELIGIOSE E CIVILTÀ MODERNA

Negli ultimi quarantanni, e più precisamente a partire dalla fine della prima guerra mondiale il dominio delle scienze religiose è senza dubbio entrato in una crisi decisiva. Nell’età precedente le scienze religiose — cioè la filosofia, la storia, la etnologia, la tipologia, la sociologia, la psicologia della religionenella misura in cui si muovevano al di fuori di presupposti teologici e apologetici mostravano uno spiccato orientamento ad accogliere i temi ermeneutici della eredità illuministica, idealistica, materialistica e positivistica: basterebbe ricordare gli schemi dell’evoluzione religiosa dell’umanità dal Comte in poi, le teorie religiose di Fuerbach e del materialismo storico, la scienza del mito e la storia comparate delle religiosi inaugurate da Max Mùller, la etnologia religiosa di un Tylor e di un Frazer, la psicologia del misticismo di un Janet o di un Leuba, la Vdikerpsycholologie del Wundt e la interpretazione sociologica della religione da parte del Durkheim e della sua scuola, la riduzione della religione e sublimazione della sessualità da parte del primo freudismo. Nei vari indirizzi di quest’epoca, per quanto diversi fra di loro per metodi e per risultati, si palesa la innegabile comune tendenza a non riconoscere al rapporto religioso una sua specifica e permanente funzione nella storia culturale deirumanità. In generale, consapevoli o non che ne fossero i singoli autori, la religione e il mito venivano ricondotti ad altro, erano « maschera » di qualche cosa d’altro : di esigenze filosofiche, scientifiche, estetiche, morali, di mondani bisogni proiettati nel sopramondo e nel sopramondo illusoriamente soddisfatti, di strutture economicosociali o addirittura 'della sessualità. Un’analoga tendenza « riduttiva » si faceva valere nel campo della psicologia del misticismo, dove l’analisi era prevalentemente orientata a sottolineare i disordini psichici nelle esperienz[...]



da Vasco Pratolini, Firenze, marzo del ventuno in KBD-Periodici: Nuovi Argomenti 1960 - 1 - 1 - numero 42

Brano: [...]Aprile 1960
FIRENZE, MARZO DEL VENTUNO
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Le cronache d'Italia sono un susseguirsi di faide, di scontri di fazioni, di lotte civili. Su di esse hanno sempre finito per imporsi le dittature, le oligarchie, come le dominazioni. Venuti a patti con la Chiesa, garantitesi questa complicità e questa innocenza, rispettati i diritti della Fede, i Tiranni i Signori gli Usurpatori, sembra sian riusciti a distruggere, di coteste lotte, perfino la tradizione orale. Se di tali cronache si giovasse la storia, il volto d'Italia apparirebbe mutato. Ma é pur questo, mascherato, il volto dell'Italia. E il segreto della sua forza, percui il più ignorante e sprovveduto degli italiani non si sente ma é cittadino del mondo, consiste nella capacità del suo popolo di ricominciare sempre daccapo. Firenze é il centro millenario ed esemplare di queste continue insurrezioni tramutatesi in sconfitte delle classi popolari. Dai Ciompi alla gente del Pignone, é diversa la mentalità, i mezzi d'attacco e di repressione, son diversi i costumi, le cognizioni, le iniziative, come identici i resultati. A una sommossa corrisponde un Michele Lando e c'è un Salvestro dei Medici che gli tiene le redini sul collo, lo guida, lo scatena e lo trattiene a seconda giova alla sua parte, Grassa o Mediana ch'essa sia. Questo popolo si é fatto un'insegna della propria disperazione e gli basta una battuta mordace per scamparne, Esso non ha mai avuto fede nel Destino. Non ci crede. Miele e fiele non li distingue per via di una consonante; sulle sue labbra hanno lo stesso sapore. E il suo stendardo, quel giglio rosso in campo bianco, non è una stigmate sulla sua coscienza immacolata. E il gonfalone della sua città e della sua fantasia, che di un grumo di sangue ne fa un fiore e lo circonda di silenzio.
Firenze, nel medio evo, arrivava all'altezza di San Frediano; e i ponti, sull'Arno che l'attraversava, sono ancora quelli: dal Cin
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quecento ad oggi, nessuna piena li ha più potuti sradicare. Ce n'è quattro in un chilometro; tutto il mondo .li conosce e li ammira.
Il primo, e il più a nord, é il ponte alle Grazie. Era il 1238 quando Rubaconte da Mandell°, milanese e Podestà dei Fiorentini, presenziò l'inaugurazione. Fu anche il primo ponte in muratura; perciò da allora non ha mai tentennato. Sulle sue pigne, come su quelle di Ponte Vecchio, si eressero delle piccole case dove, invece di botteghe, vi si aprirono oratori. Questo. ponte prese il nome dal suo padrino, fino al giorno in cui un'immagine sacra non incominciò ad elargire delle grazie, dentro quegli oratori.
Risalendo il corso del fiume, ponte Vecchio é il secondo, e il più antico. Lo gettarono i padri etruschi; poi, nell'età di Cesare, la Colonia Florentia venne ad affondarvi le sue radici. Così come appare, lo ideò Taddeo Gaddi, dicono, ma il Longhi lo nega, dopo che la gran piena del Tre Tre Tre una volta di più lo aveva scancellato, portandosi come relitti d'un naufragio i legni della sua armatura. Già da un secolo prima, in un'altra notte e di agguati e di fazioni, su quelle tavole, Buondelmonte ci aveva lasciato la vita.
Il terzo é ponte a Santa Trinita, costruito a spese dei Frescobaldi che in quel punto del fiume, ma di là, avevano le loro case. Crollò sei volte, e sei volte lo si rimise in piedi, dopo che fra Sisto e fra Ristoro domenicani l'ebbero progettato, come per dar tempo, diciamo, all'Ammannati, di rilanciare sulle acque dell'A[...]

[...]là, avevano le loro case. Crollò sei volte, e sei volte lo si rimise in piedi, dopo che fra Sisto e fra Ristoro domenicani l'ebbero progettato, come per dar tempo, diciamo, all'Ammannati, di rilanciare sulle acque dell'Arno il più bel ponte che mai fiume al mondo abbia lambito.
L'ultimo è il ponte alla Carraja. Lo stesso Ammannati disegnò la sua struttura, e senza i suggerimenti di Michelangelo, se ci sono stati, come per Santa Trinita. In origine, ancora nel secolo XIII, lo chiamavano ponte Nuovo: per distinguerlo dal Vecchio, é naturale. Se l'erano pagati gli Umiliati d'Ognissanti, bisognosi di uno scalo per le stoffe che uscivano dal loro convento, situato dirimpetto al fiume e alla porta Carrìa. Costi, essendo il ponte che incontravano per primo, facevano capo i carri provenienti dal contado, nel tempo in cui il porto di Firenze era più a valle, ed una grossa pigna di pietra, che i fiorentini digià chiamavano il pignone, serviva all'attracco dei barconi.
Questa era la città e i suoi ponti nel giro della terza cerchia;
FIRENZE, MARZO DEL VENTUNO 3
e qui, ora cosa c'è di cambiato ? La natura del fiorentino, no. Il suo spirito non l'hanno ammorbidito le tarde Signorie i Granducati. Ma sempre si conquista qualcosa, che si è pagato sempre troppo caro. È per questo che ogni volta c'é qualcosa di cambiato.
Firenze medesima, al di là della sua terza cerchia, non può non essere mutata. Essa non si é estesa soltanto nei suoi entroterra, rispetto al fiume, ma si é allungata. Quartieri operai hanno fatto corpo con le antiche Mura. Ora l'Arno entra in città alla Nave a Rovezzano dove c'è un traghetto, percorre sei chilometri non uno, per trovare l'altro traghetto, al di là delle Cascine. E ai due estremi della città, da un secolo o quasi, ci sono due ponti nuovi.
Sono due ponti provvisori che da novant'anni servono all'uso cui sono destinati. Li progettarono degli ingegneri di cui s'é perso il nome, ma sono belli come gli antichi: provvisori e ormai secolari come l'età che rappresentano. Non hanno una struttura originale, ma ardita. Sono di ferro; e sono sospesi, quello a valle. Nessuna pigna lo regge, nessuna arcata, bensì degli alti piloni, infissi sulle due rive. Il pavimento è ancora di legno; e i parapetti a cui non ci si può affacciare a meno di non essere dei giganti, sembrano delle grate. Son li da un secolo, e non hanno ancora un nome: il popolo che vi cammina sopra non li ha ancora battezzati, forse non gli vuole bene. Li ha distinti spartendo i due aggettivi. Uno é il ponte di Ferro che dà sui viali di San Niccolò; l'altro è il ponte Sospeso che immette nel quartiere del Pignone. Li regalò a Firenze, Leopoldo di Lorena, ossia un'impresa privata a cui Leo poldo li aveva appaltati e che malgrado il passaggio e delle dinastie e delle istituzioni, si fa ancora pagare il pedaggio. Del resto, cos'è un soldino?
È dall'epoca di questi nuovi ponti che c'é qualcosa di cambiato. La gotta di Gian Gastone aveva estinto la discendenza e il potere dei Medici. Per un momento, come tutta l'Europa, si fu un . feudo di Napoleone; quindi vennero i Lorena. Leopoldo era stato l'ultimo padrone. Lo si ricorda con simpatia; durante i vent'anni del suo granducato, egli non si limitò a commissionare i ponti nuovi, ma costruì le prime strade ferrate, la Fonderia del Pignone, la
4 VASCO PRATOLINI
Manifattura di San Pancrazio com'è ora; e portò l'acqua, allargò le strade. I fiorentini lo chiamavano babbo, chi con venerazione chi con ironia. Gli dettero qualche pedata quando non ne poterono proprio fare a meno: nel Quarantotto e poi, una definitiva, all'alba del Cinquantanove. Ma non appena Firenze diventò Capitale, si accorsero che averlo barattato con un Savoja, fu una cosa giusta, non certo un affare. « Oh, si, un bel bollo » dicevano. Mentre i Medici avevano vegetato trecento anni, al sol di luglio della gloria, della ricchezza e delle nefandezze ammassate da Cosimo I e da Lorenzo, Leopoldo, al contrario, quest'austriaco di poco sego, si era reso conto che il mondo camminava e che i fiorentini non sarebbero rimasti indietro. Sotto di lui Firenze si era rimessa, dopo tanti anni, in moto. I piemontesi la ornarono di viali stupendi, di belvederi meravigliosi, di fontane, di giardini; e una volta presa Roma al Papa, la lasciarono « con gli occhi per piangere e i debiti da pagare ». Si dové ricominciare di là, dove era arrivato il Lorena col suo acquedotto, i suoi doppi binari, i suoi forni, le sue Manifatture, i suoi Loggiati. Era sorta, intraprendente e capace, una nuova borghesia. E in essa il popolo avrebbe presto trovato il suo nuovo padrone.
Già all'inizio del secolo, nuove fabbriche erano sorte e si erano raggruppate in due punti diversi della città, percui di cotesto mondo industriale, si potevano distinguere la zona giovane e quella antica. L'una, il Quartiere di Rifredi, per la stessa superficie che ricopriva, verso nordovest, fuori della topografia urbana, era destinata ad estendersi nell'avvenire. L'altra, non vecchia ma antica, e nel cui cuore avevano svettato le ciminiere leopoldine, ancorché viva ed attiva, stretta com'era dalle sue case, schiacciata tra il fiume, le colline e San Frediano, aveva chiuso il ciclo della sua espansione. Come gremito della sua gente, questo era il Pignone. Sussisteva un terzo nucleo, a suo modo decentrato, con una seconda grande Fonderia e un moderno Pastificio, nel rione delle Cure, ormai tutto villini, dove gli operai ci lavoravano ma non ci stavano di casa. Ora crescendo le generazioni, ci si partiva ogni mattina dal Pignone, per andare a lavorare non soltanto alle Cure, ma a Rifredi; e travasando sangue a sangue, in una vita ch'era per tutti uguale.
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Il Pignone restava la cittadella operaja; tra la sua gente, gravitandovi San Frediano e la campagna, vi si mischiava l'artigianato superstite, e gli ortolani e i braccianti, come la plebe. « La teppa », si diceva. Dirimpetto, sulla riva destra del fiume, si trovava, come adesso, il parco delle Cascine che accompagna l'Arno fin là dove riceve nel suo letto il Mugnone. Costi, c'era l'Isolotto, le montagne d'immondizia che gli spazzini venivano a scaricare da ogni parte della città, e parallele le ultime case del quartiere. Un breve tratto deserto e incominciava il suburbio, il contado, coi primi orti di Monticelli, di Legnaja, di Soffiano. L'altro confine era fuori Porta San Frediano. Divisi dalle antiche mura, San Frediano e il Pignone potevano tenersi d'assedio. Le colline di Bellosguardo e di Montoliveto, erano i contrafforti. Dalla parte del fiume, che li separava entrambi dal resto della città, il Pignone seguitava San Frediano. Chiusa la Porta, messo un posto di blocco all'altezza di Monticelli, bastava una sentinella all'imbocco del ponte Sospeso, perché il Pignone fosse al riparo dalle offese. Là, a Rifredi, l'apertura dei prati, la zona stessa, distesa come su un'unica lunga strada e sparsa sui due lati, rendevano possibile ogni irruzione. Il Pignone, non potendo operarvi dall'interno, lo si doveva forzare. Fu un assedio che durò gli anni Venti e Ventuno, con colpi di mano, agguati, spedizioni da parte delle Bande Nere, finché la gente del Pignone non si decise essa a una sortita. Questo rappresentò la sua vittoria, la sua tragedia e la sua capitolazione. Ne fu pieno il mondo, il giorno dopo, della sua impresa disperata.
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C'era tutto il Pignone, cotesta sera; c'era mezzo San Frediano; ed erano venuti, alla spicciolata, o ci si era trattenuti, sulla strada di casa, gli ortolani, i braccianti, di Monticelli e di Legnaja. La gente di via Bronzino, di via dell'Antonella, di via Pisana, che sono nel cuore del Pignone, era sulle soglie degli usci, sulla piazza, davanti alle botteghe, e alla Casa del Popolo appena devastata, col cuore in gola e il sangue avvelenato. I comignoli
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della Fonderia fumavano; i panni dei tintori erano stesi ad asciugare, l'Arno andava lento e grosso per via delle piene di prima vera. Erano le sette di sera e il sole tramontava tutto fuoco, basso sul fiume e dietro le Cascine; avvolgeva di un riflesso accecante il ponte Sospeso, e sembrava renderlo anche più aereo, isolato nel vuoto: la luce era come se incorporasse nelle strutture i cavi che descrivendo una mezza ellissi, lo trattenevano da pilone a pilone
e dall'una all'altra riva.
Il ponte era deserto: e l'uomo a cui si pagava il pedaggio, chiuso nel suo casotto di legno come dentro una garritta, sporgeva la testa e scrutava ai due orizzonti. Gli sembrava assurdo che, alle sette di sera, non un'anima attraversasse il ponte. « Non s'é mai dato », si disse. C'era troppo silenzio, troppa calma, come un istante prima che batta il terremoto. « Stasera » egli pensò « E brinata ». Era un uomo di sessant'anni, e da più di trenta stava al capo di Ponte; nemmeno le guerre erano state capaci di rimuoverlo. Egli non era dei loro, ma la gente del Pignone la conosceva. Da un secolo, poteva dire; giorno per giorno l'aveva vista attraversare il Ponte, col bel tempo e sotto il temporale, quando c'era il solleone
e quando tirava la tramontana. E quelli del Pignone conoscevano lui, e i due centesimi un tempo, poi i soldini, che dalle loro tasche erano finiti nelle sue mani. « Bona, Masi » gli dicevano. « Ci fai passare a scapaccione? ». «Sicuro, come se il ponte fosse mio », egli invariabilmente rispondeva: e ancora era vivo Umberto I
e Garibaldi scriveva lettere da Caprera: ne aveva scritta una alla "Mutuo Soccorso tra gli Operai del Quartiere del Pignone". « Come non fossi anch'io un sottoposto. Girate dalla Carraja e arrivate a casa per borgo San Frediano, se non ci avete il saldino, o vi pesa pagare ». Ciascuno di loro, egli se l'era visto passare davanti ancora in pancia alla madre, e poi ragazzo che strusciava carponi per non versargli il tributo, e poi giovanotto col primo velocipede e la prima ragazza a braccetto, col primo damo e i capelli tirati sulla testa; tutte le mattine, sempre col fagottino sotto il braccio, e ora vestiti con la tuta che era venuta di moda anche sul lavoro. Conosceva loro e le loro donne; i loro uomini e loro, le fanciulle appena sbocciate e i vecchi col bastone. « Qui, stasera, non mi dice
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nulla di buono, col bubu che c'é in città, con questa bomba che é scoppiata », si ripeteva, e appuntava il lapis per darsi daffare. Di lato al suo stabbiolo, come di sentinella ai due piloni, stavano i due carabinieri in tenuta di campagna e coi moschetti infilati alla spalla. Il suo stabbiolo era all'ingresso del ponte, dalla parte delle Cascine: il pedaggio si pagava una volta soltanto, per entrare; uscire dal Pignone si poteva anche se vi si era entrati da tutt'altra parte; e dalle dieci di sera alle sei del mattino il traffico era libero in entrambe le direzioni. Durante le altre sedici ore, c'era il Masi dentro il suo stabbiolo, e gli si doveva il saldino. L'Impresa non si fidava che di lui; siccome non si rilasciano contromarche scontrini. "Ad essere disonesti in trent'anni si sarebbe potuto farsi d'oro". Soltanto un giorno al mese, ch'egli andava a trovare sua moglie a Trespiano, lo sostituiva uno dei due impiegati dell'Impresa, gli stessi che venivano a ritirare l'incasso a una cert'ora. Ma per poco, ci si poteva giurare. Presto il ponte sarebbe stato riscattato dal Comune, com'era digià successo per il gemello di San Niccoló che aveva meno transito e quindi rendeva meno. Questione di tempo, e il Masi sarebbe andato in pensione. « Ma chi me la dà, la pensione ? » si lamentava. « Io non dipendo dal Comune. L'Impresa mi potrà dare uno sborso, una miscéa ». « Te la daremo noi la pensione », lo pigliavano in giro quelli del Pignone. « Sarà una delle prime cose, non appena saremo al potere ».
Questo fino a un anno fa, che s'erano barricati dentro la Fonderia e uno di loro stava di guardia sul ponte, al largo dai carabinieri, e se venivano dei rinforzi il Masi gli faceva cenno fingendo di togliersi il berretto e grattarsi dietro l'orecchio. Ora, invece, gli dicevano, ma tra i denti e mentre gli versavano il soldino: « Sei una carogna, Masi, ma bada, i capelli bianchi non ti salvano, prima o poi, da una libecciata ». Egli era come il ponte affidato alla sua custodia, preso tra due fuochi. I fascisti gli passavano davanti,[...]

[...] mentre gli versavano il soldino: « Sei una carogna, Masi, ma bada, i capelli bianchi non ti salvano, prima o poi, da una libecciata ». Egli era come il ponte affidato alla sua custodia, preso tra due fuochi. I fascisti gli passavano davanti, sui camion, come se lui fosse li a far la statuina. Il ponte è stretto: ha novant'anni, é sospeso, ai veicoli é proibito transitare. «Diglielo a un altro! » al massimo gli rispondevano. E come se fosse un cane, per mettergli paura: «Pulsa via! ». Se non usciva dalla garritta, lo appestavano di fumo. Oppure veni
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vano appiedati: « È tornato a casa il tale ? L'hai visto passare ? ». Dapprincipio aveva risposto: «Non lo conosco, ci passa tanta gente, non so chi sia ». Ora, dopo che anche a lui avevano promesso mazzolate : « Mi pare di si, mi pare di no » rispondeva. « Non sono sicuro ». Ma giorno per giorno, ormai, era più le volte che gli diceva la verità, di quelle che gli mentiva. E loro del Pignone, gli promettevano le stesse mazzolate; i ragazzi gli buttavano i rospi dentro lo [...]

[...], lo appestavano di fumo. Oppure veni
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vano appiedati: « È tornato a casa il tale ? L'hai visto passare ? ». Dapprincipio aveva risposto: «Non lo conosco, ci passa tanta gente, non so chi sia ». Ora, dopo che anche a lui avevano promesso mazzolate : « Mi pare di si, mi pare di no » rispondeva. « Non sono sicuro ». Ma giorno per giorno, ormai, era più le volte che gli diceva la verità, di quelle che gli mentiva. E loro del Pignone, gli promettevano le stesse mazzolate; i ragazzi gli buttavano i rospi dentro lo sportello, i vecchi gli dicevano: « Vergógnati », e vecchi com'erano, anche piú di lui, lo minacciavano col bastone. Le donne gli versavano il soldino: « Come va signor Soffioni? ». Poi sputavano per terra e ci fregavano sopra col piede, le cimbardose.
I due carabinieri andavano su e giú, meglio lasciarli fare. Dalla parte delle Cascine, come ogni sera, c'erano quelle balie e quelle madri, non certo del Pignone, coi ragazzi per la mano, che spingevano la carrozzina. Sull'Arno, e lontano, il traghetto dell'Isolotto, un renaiolo sul barcone. Anche sull'Arno, era come non ci fosse nessuno; o per via del riflesso, non si vedeva. Il fiume scorreva con un certo moto; era calato dopo l'ultima piena, ma era ancora alto da coprire metà degli argini. È sempre così, di primavera. Gonfio, ma calmo, quasi verde e ora tutto barbagli; sotto il ponte schiumava un po', siccome fa un balzo alla pescaja di Santa Rosa, quando tocca San Frediano. Dall'altro capo, sullo slargo dove incominciano via dell'Antonella e via Bronzino, c'era la stessa gente di tutte le sere, ma era come se stesse ferma ad aspettare qualcuno o qualcosa che sarebbe dovuto arrivare da un momento all'altro. Era i fascisti che aspettavano: gliel'avevano mandato a dire, non si sapeva da chi, non si sanno mai queste cose, che sarebbero tornati stasera: "E prima di buio, giacché al Pignone si vuol rialzar la testa e lanciano le sfide, questi puzzolenti, queste bucaiole". Ora pretendevano che il Masi gli facesse il saluto. « Abbiamo sistemato San Frediano, con la teppa che c'é, figurati se non pieghiamo il Pignone! ».
San Frediano, l'avevano messo a posto come nemmeno la Pa lizia c'era mai riuscita; e pigliandolo di sotto e di sopra, dalle spalle e di petto; entrandoci attraverso le Mura, o da Ponte alla
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Carraja, o dai viali, o da Porta Romana. Oppure, passando chiotti chiotti dal ponte Sospeso e girando al largo dal Pignone. Era sempre buio; Masi non li aveva mai visti in viso. Ma perché lui si peritava di guardare, non perché essi nascondessero la faccia. Non li guardava, ma li avrebbe potuti riconoscere, anche loro, uno per uno. Tutti dei ragazzi, comunque, che avevano fatto appena in tempo ad assaggiare la trincea; e si vedeva, non nascevano dal nulla. Del resto, nessuno glielo comandava, di andare a bastonar la gente, a purgarla, a buttare all'aria le Case del Popolo. Se rischiavano, come rischiavano, era per qualcosa più forte di loro, dovevano credere di far bene. E perché erano dei fegatacci e gli piaceva intimorire la gente. Forse, in guerra, erano stati negli Arditi. Andavano e tornavano cantando. Quando stavano zitti, non erano sui camion, erano in meno e venivano a due o tre per volta, a piedi o con un'automobile; allora succedeva qualcosa di grosso, che dopo, a stento si riusciva a sapere. Da queste spedizioni, che chiamavano punitive, non tornavano mai a vuoto, mai senza aver usato le mani; e i manganelli che ci tenevano penzoloni. Le rivoltelle le avevano dentro la fascia che gli reggeva la vita. Non avevano paura di farsi riconoscere; cantavano e il più delle volte erano in divisa. La camicia nera aperta sul petto anche di gennaio; o col collo alto che gli pigliava tutta la gola; i pantaloni da soldato, coi gambali, o con le mollettiere. Chi in calzoni a righe, chi vestito di tutto punto, con la lobbia che davvero pareva un signorino. Pochi portavano il fez, cotesto aggeggio lo inalberavano nei cortei; i più erano, come si dice, a zucca vuota. Così, capelli al vento e manganello tra le mani, avevano messo a sedere San Frediano, facendovi irruzione una sera ogni tanto, quando pareva se ne fossero scordati. Fino alla sera della battaglia, che loro erano una cinquantina e si trovarono di fronte altrettanta gente, molta di più. « Un buscherio ». Gli rovesciarono addosso, dalle finestre, l'olio bollente; la teppa di via San Giovanni, ne prese uno e stava per infilarlo alla cancellata del Tiratoio; un altro "fu messo al muro e sorbottato, le donne gli strizzavano i cordoni". Ci fu un morto, ma tra quelli di San Frediano; e dei feriti. Di queste cose non ci si fa mai un'idea; non le scrivono sul
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giornale, bisogna saper leggere sotto i titoli dove dicono: una rissa, un litigio, la solita cazzottata in via del Leone. Qualche sera dopo, invece di loro, ma in mezzo qualcuno ce n'era, lo dicono questi del Pignone e in San Frediano, venne l'Esercito con l'autoblindo, bloccò via San Giovanni, e circondò piazza Tasso; la Polizia, cosí protetta, fece una retata. Dopotutto, se non al Pignone, chi é in San Frediano che non é schedato ? Tra poco, non importa più essere ladri ruffiani; « basta ti bollino per sovversivo ». Pensatela come volete, un ordine ci vuole; sistemato San Frediano, si erano buttati sul Pignone. Un osso un po' più duro.
Come in San Frediano, anche al Pignone abitavano dei fascisti; e mentre in San Frediano erano in diversi, ma quando c'era da bussare si eclissavano, al Pignone, i fascisti si contavano sui diti, e al contrario, erano i più coraggiosi. Essi, guidavano le spedizioni. È così, dove c'é più api c'è più miele. Specie con Folco Malesci. Con l'ingegnere. Avrà avuto venticinque anni, nemmeno; non ancora di leva, era andato al fronte volontario. Era un animo irrequieto; negli ultimi tempi della guerra si era fatto aviatore. Poi era stato a Milano, era stato a Fiume. Era stato anche all'estero, aveva viaggiato. Conosceva Mussolini di persona. Sembra che D'Annunzio gli scrivesse come Garibaldi scriveva a quelli della Mutuo Soccorso. Di più. E dacché era tornato, malgrado avesse preso moglie e avuto svelto svelto due figlioli: « Ora si ripulisce il Pignone », diceva, non aveva altro pensiero. Da poco, lo chiamavano già ingegnere, aveva un'Impresa di costruzioni insieme col cognato; riusciva a tener dietro a cento cose, comprese le donnine, tuttavia non pensava che a questo: « Se il Pignone é la cittadella rossa, la farò saltare ». Suo padre che da sempre aveva la tintoria e durante la guerra l'aveva ingrandita, era ricco, ma più pesce che carne, badava alla sua azienda, ai suoi affari, in queste storie non c'entrava; lo lasciava fare. Tra quei tintori non mancavano i sovversivi, ma essendo operai di suo padre, l'ingegnere li rispettava. Si seppe che aveva messo incinta la figlia di un capo reparto, ed anche a questo, il padre Malesci, in virtù dei suoi quattrini, aveva posto riparo. Folco continuava per la sua strada, pigliava la gente a tu per tu, gli tirava due schiaffi: « Vai, fila! »
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gli diceva. E chi si ribellava, questa era la voce, lo aspettava, calato il sole, e lo tuffava dentro le caldaie della tintoria. Tutte cose che si sentivano dire, che prove ne vuoi avere ? Gli altri mettevano a posto San Frediano; e Folco e i suoi amici, loro tre soli, qualcuno di rinfor[...]

[...]a messo incinta la figlia di un capo reparto, ed anche a questo, il padre Malesci, in virtù dei suoi quattrini, aveva posto riparo. Folco continuava per la sua strada, pigliava la gente a tu per tu, gli tirava due schiaffi: « Vai, fila! »
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gli diceva. E chi si ribellava, questa era la voce, lo aspettava, calato il sole, e lo tuffava dentro le caldaie della tintoria. Tutte cose che si sentivano dire, che prove ne vuoi avere ? Gli altri mettevano a posto San Frediano; e Folco e i suoi amici, loro tre soli, qualcuno di rinforzo ogni tanto, avevano sparso il terrore da Monticelli a Legnaj a. Entravano negli orti e facevano piazza pulita. Oppure, certe mattine, all'alba, quegli ortolani, partivano come al solito coi barroccini per andare al mercato; e sparivano: loro, il ciuco, il barroccio e quanta c'era sopra. Era la seconda volta nel giro di due anni che succedeva; la gente del Pignone mormorava il nome dell'ingegnere, i giornali puntavano sulla teppa di San Frediano, e la Polizia, erano passati due anni, non aveva cavato un ragno dal buco. Folco era sempre più spavaldo. Smilzo com'era, sembrava di gomma, gli andava tutto bene. Ma perché presentava la faccia; perciò non si poteva credere che i due ortolani li avesse fatti sparire lui. Nemmeno al Pignone ci credevano sul serio. In un certo modo, lo temevano e lo rispettavano. Una notte che lo avevano aggredito mentre tornava a èasa, sembra con l'intenzione di seppellirlo sotto la spazzatura dell'Isolotto, non si sa come, eppure riuscì a liberarsi, e senza uno sgraffio, senza una lividura. Da allora, era diventato una jena. Aveva cambiato espressione; prima rideva sempre e ora aveva sempre il muso. Non rispettava più nemmeno gli operai di suo padre. Passava con quello dei basettoni e l'altro, il Pomero perché rosso di pelo, uno per fianco, ed era come si aprisse il vuoto davanti a loro. Tuttavia, a fondare il Fascio del Pignone non s'era azzardato. Doveva essere la sua rabbia e la sua pena; era la sola cosa che minacciasse e non si decidesse a fare. E ora, siccome dopo l'ultima spedizione contro la Casa del Popolo, quelli del Pignone non si sa, loro, cosa vogliano fare, Folco gli ha mandato a dire, che verrà una di queste sere, quando va giù il sole e con una squadra, la Disperata o le Fiamme Nere, come tre mesi fa in San Frediano. « Una di coteste sere può essere stasera, s'annusa nell'aria, non bastasse il resto, figlioli. E una domenica nata male. Scoppiata quella bomba, dicono in mezzo a via dei Tornabuoni: qui non si può sapere, qui si sa quello che chi passa ti vuol raccontare, e meno si sa meglio si vive: la città
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é deserta e come sottosopra, é una contraddizione. Chi é stato? Gli anarchici, chi vuoi siano stati ? ». E loro fascisti l'hanno presa per un'offesa personale. Dianzi, come il vento, avevano perfino i soldini belI'e contati, non hanno neanche segnato il passo, quattro o cinque di questi giovanotti del Pignone, son rientrati dal centro con gli occhi che gli sbuzzavano dal viso: « Gavagnini ce lo pagano caro », hanno gridato. « Diglielo ai tuoi amici, ruffiano! ». Io non ho amici, lui aveva pensato. voialtri, loraltri, son solo. « Digli che non s'azzardino. Digli che ci andiamo noi a cercarli stasera ». E sembra, ora, che una per una, si siano vuotate le case, di lá dal ponte.
Ecco, il sole è digiá mezzo affogato in Arno, dopo l'Indiano. Come tutte k sere, il cielo é un fuoco, percui ci si vede meno che se fosse mezzanotte. I due carabinieri di guardia al ponte, quelli dalla parte del Pignone, non si distinguono proprio, forse più che il riflesso li coprono i piloni. Ma si vede quella gente che sta ferma sulla piazza.
« Cosa stanno per tramare ? », si domandava il Masi.
Egli era più vecchio di quanto non sembrava; al Pignone lo dovevano capire, invece di star 11 fermi a guardarlo, lontani quant'è lungo il ponte che pareva l'avessero più di sempre e soltanto con lui. Era più vecchio dei suoi sessant'anni e dei suoi capelli bianchi, anche se non aveva bisogno del bastone. Gli premeva il posto che occupava; la pensione o lo sborso che l'Impresa, se non l'Impresa il Comune, gli avrebbe dovuto dare. Non s'augurava venisse cotesta ora, si spaventava a pensare come avrebbe impiegato la giornata, ma non voleva, una volta tolto il pedaggio, ritrovarsi senza mangiare. Lui, e quelle due bestie, poverine! Egli era solo al mondo, abitava sul Prato, la moglie gli era morta: Da quanto? Da sempre, poverina! La sua compagnia erano due tortore che lo aspettavano la sera quando tornava a casa. II mestiere l'aveva reso taciturno; le lunghe ore, i decenni trascorsi dentro il suo stabbiolo, con tutta la gente che gli passava davanti, oh se avesse dovuto dire a tutti buongiorno e buonasera! Rispondeva se lo provocavano, e gli bastava. « Hanno sempre una tale voglia di parlare che mettendo insieme cento battute, in capo al giorno », ne sapeva su
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di loro più di quanto loro [...]

[...]o? Da sempre, poverina! La sua compagnia erano due tortore che lo aspettavano la sera quando tornava a casa. II mestiere l'aveva reso taciturno; le lunghe ore, i decenni trascorsi dentro il suo stabbiolo, con tutta la gente che gli passava davanti, oh se avesse dovuto dire a tutti buongiorno e buonasera! Rispondeva se lo provocavano, e gli bastava. « Hanno sempre una tale voglia di parlare che mettendo insieme cento battute, in capo al giorno », ne sapeva su
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di loro più di quanto loro stessi non sapessero l'uno dell'altro, a furia di tener conversazione. Un interrotto monologo riempiva la sua giornata; il suo interlocutore era La Nazione che leggeva da cima a fondo, « con un occhio sullo stampato e un occhio a chi passa e crede non lo veda. A volte son così bischeri che invece di passare dalla corsia, cercano di scavalcare la sbarra piano piano ». E non tanto per risparmiare, quanto per la soddisfazione di buggerare me e l'Impresa di un soldino! ». Egli era amico di tutti, e di nessuno. "Ma chi vi conosce, ma chi siete?". Scontroso e affabile a giorni, secondo l'umore che ormai andava col tempo. « Quando fa freddo o quando fa bufera, di qui dovete passare, uno per volta, e io vi bollo! Ma di cotesta stagione, come d'agosto, ve lo raccomando star chiuso dentro questa prigione! Col caldo le tavole del ponte scricchiolano che sembra da un momento all'altro si debbano schiantare; se tira il vento forte, allora pare che tutto il ponte sia sul punto di partire. Si balla ch'è un piacere ». Un anno dopo l'altro, "cocendo l'uovo sul fornellino", riscaldandovi il latte quando si sentiva costipato. « Il vino, no, il vino, sembrerà una bestemmia, non mi è mai piaciuto. Perciò sei un falso! mi hanno incominciato col dire ». Il veggio in mezzo ai piedi; il ventaglio d'estate; ora se Dio vuole era un'altra volta primavera. « Ed eccomi qui, non so ancora chi è che mi dovrà dare lo sborso o la pensione; so soltanto che tra poco il ponte si chiude, anzi si apre, e io mi ritrovo coi capelli bianchi e preso tra due fuochi, in queste storie che non mi riguardano nemmeno come prossimo. E una bella situazione! ».
Era la situazione, dopo tutto, di chi sta su un ponte che unisce le due rive. Egli non avrebbe fatto onore ai suoi capelli bianchi, quella sera.
« Ce l'hanno anche con me? », si ripeteva. « Ma chi vi conosce, ma chi siete? Questa Gavagnini, l'ho appena sentito mentovare ».
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Loro, si conoscono tutti l'un l'altro, ed è come non avessero viso. Hanno giocato insieme sulle rive del fiume, scavato tesori tra
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le montaegne dell'Isolotto, imitato Buffalo Bill a cavallo di una scopa; il primo bacio, la prima lite, il primo figliolo, il primo capello bianco; si son fatti l'un l'altro la prima carezza e la prima spostatura. Sono cresciuti uscio a uscio, di padre in figlio, da nonna a nipote; e nondimeno, è come non avessero un nome, due occhi, gli orecchi per sentire. Sono la gente del Pignone che ha sempre vissuto del suo lavoro, o che si é arrangiata; che ha messo su una Mutuo Soccorso "quando ancora si stava sotto il Granduca", che ha fondato un ricreatorio di cui oggi, i ragazzi, la domenica, portano la divisa: i pantaloni bianchi, la maglia verde, il berretto alla raffaella: e sanno fare gli esercizi, si distinguono da quelli degli altri rioni; che a furia di quotarsi, un tanto la settimana, si sono costruita una Casa del Popolo, un'arena per ballarci durante la buona stagione, un pallaio. Una squadra ginnastica, la banda, dei corridori in bicicletta. Tutte queste cose Malesc[...]

[...] é arrangiata; che ha messo su una Mutuo Soccorso "quando ancora si stava sotto il Granduca", che ha fondato un ricreatorio di cui oggi, i ragazzi, la domenica, portano la divisa: i pantaloni bianchi, la maglia verde, il berretto alla raffaella: e sanno fare gli esercizi, si distinguono da quelli degli altri rioni; che a furia di quotarsi, un tanto la settimana, si sono costruita una Casa del Popolo, un'arena per ballarci durante la buona stagione, un pallaio. Una squadra ginnastica, la banda, dei corridori in bicicletta. Tutte queste cose Malesci e i suoi amici, gliel'hanno amareggiate e messe in pericolo. « Sarebbe il meno male » dicono. È che questa folla, questa gente, s'è vista stringere d'assedio, non più solamente in fabbrica, in Fonderia, ma dentro le proprie case. Hanno subito bastonate, intimidazioni; si son visti sparire qualcuno dalle file, senza sapere dove andare a portargli un fiore. E sono dei fiorentini, se ne vantano e non l'hanno mai dimenticato: essi non concepiscono degli avversari; ma amici o nemici. Con l'amico c[...]

[...] la banda, dei corridori in bicicletta. Tutte queste cose Malesci e i suoi amici, gliel'hanno amareggiate e messe in pericolo. « Sarebbe il meno male » dicono. È che questa folla, questa gente, s'è vista stringere d'assedio, non più solamente in fabbrica, in Fonderia, ma dentro le proprie case. Hanno subito bastonate, intimidazioni; si son visti sparire qualcuno dalle file, senza sapere dove andare a portargli un fiore. E sono dei fiorentini, se ne vantano e non l'hanno mai dimenticato: essi non concepiscono degli avversari; ma amici o nemici. Con l'amico ci si tiene per la mano; al nemico: gli si fa "la masa". O noi o loro. La storia del Quartiere, pur giovane quanto il suo ponte, non occorre risalir lontano, si é sempre fondata su questa legge e queste ragioni. Che sono poi dei concetti elementari. Chiari come l'Arno, quando é chiaro e in trasparenza si vedono sguizzare le cecoline. Anche le donne vanno in chiesa, e in confessione non hanno nient'altro da raccontare. Ora che ciascuno si sente minacciato, non sono più delle singole persone; hanno fatto cerchio diciamo. Sembra che una parola sia passata da porta a porta, da un davanzale a un finestrino, da un reparto all'altro della Fonderia, di strada in strada, e come una goccia dentro l'alambicco porta a galla i veleni e fa precipitare le buone intenzioni, viceversa, ecco, dopo l'ultima devastazione della Casa del Popolo, si
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sono dati convegno sulla piazza, nelle strade vicine, e aspettano. Non lo sanno nemmeno loro che cosa; ma li aspettano, si vedrà cosa succede. Stanno sugli usci, le donne: le giovani come le anziane; o alle finestre, appoggiate sui gomiti, e tenendosi una mano sul petto, senza dirsi una parola. Guardano i loro uomini riuniti a gruppi sulla piazza, agli angoli di via dell'Anconella e via Bronzino, davanti alle botteghe e al caffé, le spalle contro gli stipiti delle porte, contro i muri, anche loro in silenzio. E le une gli raccomandano di non trascendere, gli altri di rientrare nelle stanze. Soltanto i ragazzi, che non sono tuttavia sul fiume questa sera, sugli argini o i prati delle Cascine, ma li, intorno, sulla piazza e nelle strade, gridano scavalcandosi a turno sulla schiena, in un giro tondo che non è più quello che facevano da bambini. Le loro voci sottolineano quel silenzio. E una folla che aspetta; sono cento, duecento persone, quella parte del Pignone in cui più a fondo ha inciso il suo segno e la disperazione e l'ardimento insieme. Chi manca è chiuso dentro le case, e la più parte, aspetta solo che la miccia bruci, per accorrere e potersi dire che la curiosità l'ha avuta vinta sul suo proposito di restarne fuori. Del resto, la stessa folla che ora, così separata in capannelli muti che sembrano voltarsi le spalle, nessuno la controlla o la guida. I suoi Capi, coloro in cui essa ha fiducia, non sono nel Quartiere, stasera. Sono andati dal Prefetto, tutti, per dar più peso alla protesta che intendevano elevare; e siccome il Prefetto non li ha ricevuti, sono andati in Questura: costi li hanno subito fermati senza nemmeno dargli il tempo di ricomporre la salma di Gavagnini. È stata un'ingenuità, ma c'erano preparati, hanno voluto tentare. Questo, piuttosto che disorientarla, ha fatto diventare di pietra la gente del Pignone. Non é un popolo gentile, nodavvero; é capace di commuoversi per nulla: a una parola, a un gesto che lo tocchi nell'intimo del cuore; e per la stessa ragione, ha già pronto il cazzotto. Il suo equilibrio é fatto di intransigenza e di sopportazione, non conosce le mezze misure. « Una cosa di mezzo non é un uomo; e non troverebbe una donna che gli stesse vicino ». L'ingiustizia, o la subiamo o ci si ribella; rassegnarcisi non é possibile.
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E una folla; e in mezzo ad essa, c'é il buono e il cattivo; non hanno nulla da difendere se non la loro quiete; e i piú, le loro idee di giustizia che non le registra lo Statuto il codice dei Tribunali. Non ancora. Anzi, le leggi che ci son ora, e che dovrebbero essere uguali per tutti, non passa giorno che non s'accorgano, una circostanza diventata per loro proverbiale, gli son contrarie. Tanto meno ci hanno qualcosa da. guadagnare. Cotesta attesa non li intimorisce e non li esalta. Sai, quando il cuore é diventato pietra e ne senti il peso? Masticano il mezzo toscano, accendono la sigaretta, sbucciano i due soldi di lupini che hanno comperato; o si aggiustano i capelli dietro la nuca, le camicette sul seno, i grembiulini di casa sopra la vita. E questi e quelle sembrano sfuggirsi anche con gli occhi, guardano davanti fisso, ciascuno di loro, come occupato da un pensiero che è come una parola d'ordine che ciascuno dà a se stesso, non venuta di fuori, non fatta circolare. Ma sua propria, privata. Ed in questo silenzio, in questa immobilità, in questa attesa, è come se si levasse un dialogo, a due e a cento voci, una lamentazione. Un coro.
« Non è possibile, non é vita ».
«Non si tiene più il fiato ».
« Non va mai giù il boccone ».
« Non si dorme la notte ».
« Sembra d'avere il cuore dentro un imbuto ».
« È una disperazione ».
« Da due anni non si sa più quello che pub succedere quando fa buio ».
« Non ci si gode più un sabato sera ».
« E una soperchieria dopo l'altra ».
« Una violenza, e il giorno dopo daccapo ».
« È la seconda volta che devastano la Casa del Popolo ».
« Hanno buttato all'aria ogni bene ».
« Hanno tirato le bombe a mano, avanti d'andar via ».
« Hanno preso il ritratto di Lenin e ci hanno pisciato sopra ». « Hanno bruciato sul ponte le bandiere ».
« Ne hanno mandati altri tre all'ospedale ».
« Ma quest'ultimo delitto, questa volta lo pagano caro ».
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« Per i padri di famiglia che non sono piú sicuri sul lavoro
dentro il loro letto ».
« Per le donne a cui sparano tra le gambe perché si pren
dano paura ».
« Per quelle a cui hanno tentato di fare uno spregio ».
« E per gli usci verniciati con la merda ».
« Per le croci disegnate sui muri ».
« Per i figlioli che si ammalano dallo spavento ».
« Per i vecchi che non hanno piú un capello nero ».
« Per tutte queste case insieme, insomma ».
« E perché non se ne può piú ».
« Non c'è nessuno che li tenga a freno ».
« La legge é tutta dalla parte loro ».
« Mentre per noi, basta si muova un dito, si spalancano le
Murate ».
« Se non la fossa. Come per Spartaco, oggi ».
« Per Spartaco Gavagnini e per tutti quelli morti come lui ».
« E perché chi ci dovrebbe rapresentare non è buono che a
dire: State calmi, non li provocate ».
« Anche loro, via, l'altr'anno, quando si presero le fabbriche,
dettero a vedere d'aver la cacca al culo ».
« Era ogni cosa nostra, si fece una colata che non se ne aveva
memoria ».
« Erano con noi anche i soldati ».
Quando non mancava che fare[...]

[...]o ».
« Mentre per noi, basta si muova un dito, si spalancano le
Murate ».
« Se non la fossa. Come per Spartaco, oggi ».
« Per Spartaco Gavagnini e per tutti quelli morti come lui ».
« E perché chi ci dovrebbe rapresentare non è buono che a
dire: State calmi, non li provocate ».
« Anche loro, via, l'altr'anno, quando si presero le fabbriche,
dettero a vedere d'aver la cacca al culo ».
« Era ogni cosa nostra, si fece una colata che non se ne aveva
memoria ».
« Erano con noi anche i soldati ».
Quando non mancava che fare i sovieti e difendere la nostra,
delle rivoluzioni, ci dissero: Tornate a casa, non è ancora l'ora ».
« Spartaco era calmo, ma si capiva avrebbe dato la testa nel
muro ».
<c Disse: questo ci ridimostra chi sono i socialisti, bisogne
crescere e togliere di mezzo anche loro ».
« E siccome noi siamo con queste idee e non ci si può mutare ».
« Ci si muta la faccia? ».
« Ci si muta il cognome? ».
« Ci si possono tagliare i coglioni ? ».
c< E il bolscevismo è come il sangue che esce se sei ferito ».
r
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« Se stasera tornano, stasera non passino il ponte perché ci
trovano vestiti ».
« E la sera che le pagano tutte ».
«
E la sera che si mandano noi all'ospedale ».
« Finora ci siamo sempre difesi male ».
« Siamo troppo dolci ».
«Ci hanno preso sempre alla sprovvista ».
« Ma stasera, che non pa[...]

[...]é ci
trovano vestiti ».
« E la sera che le pagano tutte ».
«
E la sera che si mandano noi all'ospedale ».
« Finora ci siamo sempre difesi male ».
« Siamo troppo dolci ».
«Ci hanno preso sempre alla sprovvista ».
« Ma stasera, che non passino il ponte stasera ».
Quei garofani e quei gerani ci stavano per figura, ai davanzali. Di fronte ai loro occhi, ma lontano, di lá dal ponte su cui si fissavano i loro sguardi, il gran verde delle Cascine, avvolto nell'incendio del cielo, era un orizzonte tutto nero e di fuoco. Come brucia e scoppietta una pina dopo l'altra, così era brulicante e immobile la loro attesa. E come se coteste pine, d'un tratto, si rivelassero tante bombe a mano, destinate a deflagare. Ma quali fossero le loro più nascoste intenzioni, lo dice il fatto che nessuno di loro era armato. Il dolore che li animava, era la loro corazza. Dai loro cuori pieni di veleno, e di sgomento, di irresolutezza, affioravano ai cervelli, e sembravano paralizzarli, i propositi di vendetta, di uno sterminio al quale soltanto singolarmente, ciascuno nel proprio intimo, si sentivano preparati. Inermi com'erano, la disperazione li accendeva, una gran fiamma che l'odio alimentava. Ora ch'erano folla, ciascuno si sentiva più solo e più deciso. Disarmato ma invulnerabile, aspettava la propria ora, come se il mondo si fosse fermato all'improvviso. E di momento in momento, la loro segreta ascoltazione, diventata sempre più un soliloquio.
« Qui é casa nostra e comandiamo noi ».
« È casa nostra e vogliamo vivere in pace ».
« Specie dopo una giornata di lavoro che vuol vedere l'uomo in viso ».
« Davanti alle caldaie ci sono 700 gradi di calore ».
« La fresa basta un nulla e ti porta via la mano ».
« I torni scartano soltanto se batti gli occhi ».
« Al Pignone non ci devono mai più mettere piede ».
« Non ci debbono rovinare i comizi ».
FIRENZE, MARZO DEL VENTUNO 19
« Non ci debbono interrompere sul più bello una festa da
ballo ».
« Che poi gli uomini non hanno più la testa per mettere
su famiglia ».
« per fare all'amore ».
Sempre con l'animo sollevato di vederceli tornare segnati ».
« O chiusi alle Murate ».
« Che non ci faccino perdere il lume degli occhi ».
« Perché anche il lupo esce dal bosco ».
«Perché anche un topo ha i denti ».
« Perché anche un coniglio mette fuori gli ugnelli ».
« Perché anche un bambino é capace di ammazzare ».
« Non attraversino il ponte, stasera ».
« Dopo tanti soprusi, Spartaco lo pagan caro ».
« Dopo tante angherie ci si deve far rispettare ».
«Dopo tanti insulti é la volta di dirvi: L'è majala! ».
« Ricordatevi che anche alla Fonderia le caldaie non si spen
gono mai ».
« Vi si butta noi in uno di cotesti forni ».
« Vi si sotterra sotto la spazzatura dell'Isolotto ».
« Vi si impicca noi ai lampioni di via Bronzino ».
« Non passate il ponte, stasera ».
« Malesci non lo passare ».
« Vi salterà il terreno sotto i piedi altrimenti[...]

[...]lti é la volta di dirvi: L'è majala! ».
« Ricordatevi che anche alla Fonderia le caldaie non si spen
gono mai ».
« Vi si butta noi in uno di cotesti forni ».
« Vi si sotterra sotto la spazzatura dell'Isolotto ».
« Vi si impicca noi ai lampioni di via Bronzino ».
« Non passate il ponte, stasera ».
« Malesci non lo passare ».
« Vi salterà il terreno sotto i piedi altrimenti ».
« Vi si dà fuoco come a una torcia della Misericordia ».
« Ce ne avete fatte troppe, ora la dovete abbozzare ».
« Folco, diglielo. E anche tu torna a casa da un'altra parte,
stasera ».
« Non dovete passare più il ponte: stasera mai ».
« Per piacere, non lo dovete passare ».
« Se anche voi ci avete una famiglia ».
« Se vi sta a cuore vostra madre ».
« Se ci avete una fidanzata con cui ci fate all'amore ».
« Anche se lei lo sa ed é d'accordo, lo stesso non ci passate
sul ponte Sospeso, stasera, vi va a finir male ».
20 VASCO PRATOLINI
« Se le vostre donne sono a casa o chissà dove, noi siamo qui
e non vi lasciamo passare ».
« Quant'è vero Iddio, per il vostro bene, non lo passate ».
« Scordatevi che esiste il Pignone ».
« Folco dacci retta ».
« Se lo attraversate, trovate noi di qua che vi aspettiamo ».
« Siamo di più che se si fosse fatta la chiama ».
« E le donne sono più avvelenate di noi ».
« Bolli bolli la pentola si è scoperchiata ».
« Per piacere, stasera non passate il ponte ».
« Malesci tu ci conosci. Tu sei del Pignone, lo sai chi siamo ».
« Se stasera passate il ponte, è la sera che si fa festa finita ».
« Spartaco Gavagnini per noi è più vivo ora di stamattina ».
« Spartaco era l'idea in persona ».
« Era come me e come te, Gava ».
« Era il meglio che si avesse ».
« Era il più intelligente, era il più capace ».
« Era il nostro piccolo Lenin: ti misurava uno schiaffo quan
do glielo dicevi ».
« Mi disse: bisogna far muro e contarsi, sapere con chi si
cammina ».
« Mi disse: Non si è comunisti se non ci si sa sacrificare.
Ma non farci sacrificare; mettere sotto loro, avanti che il piede
ti schiacc[...]

[...]? Io non lo vorrei per
marito a peso d'oro ».
«Mi disse: com'è cresciuta questa bambina ».
« Noi siamo compagni e amici, lui era soltanto un compagno
ma due volte amico ».
« Aveva due occhi che chiamavano i baci ».
« Aveva due occhi che ti davano coraggio anche se non
l'avevi ».
« Fumava come me le macedonia ».
«Sapeva reggere il vino, se era il caso ».
« Conosceva le questioni della Fonderia come fosse sempre
stato davanti al forno e nel consiglio d'amministrazione ».
FIRENZE, MARZO DEL VENTUNO 21
Perciò, gli faceva paura ». .
« Lui da solo, come se ci si presentasse tutti insieme ».
« Parlava poco, ma quando apriva bocca non c'era una parola
sbagliata ».
« Diceva quello che tu avresti pensato e non ti veniva di dire ».
« E l'hanno stecchito come si stecchisce un cane ».
« Un uomo come lui non rinasce, bisognerà saperlo inventare ».
« Ma lui, ce lo pagano caro ».
« Ce lo pagano anche per quelli finiti all'ospedale ».
« Per la gente che hanno schiaffeggiato ».
« Per la gente che hanno legato ».
« E per quella che hanno fatta sparire avanti di lui ».
4
Il Masi era tornato davanti al suo stabbiolo. « Non mi dice nulla di buono » si ripeteva. Si tirò il berretto sulla fronte per ripararsi dal riflesso del sole, e si portò una mano alla visiera, in modo da poter seguire meglio i movimenti di quella gente del Pignone. Gli era parso che di tanti gruppi se ne fosse formato uno solo; alle finestre de[...]

[...]agano anche per quelli finiti all'ospedale ».
« Per la gente che hanno schiaffeggiato ».
« Per la gente che hanno legato ».
« E per quella che hanno fatta sparire avanti di lui ».
4
Il Masi era tornato davanti al suo stabbiolo. « Non mi dice nulla di buono » si ripeteva. Si tirò il berretto sulla fronte per ripararsi dal riflesso del sole, e si portò una mano alla visiera, in modo da poter seguire meglio i movimenti di quella gente del Pignone. Gli era parso che di tanti gruppi se ne fosse formato uno solo; alle finestre delle case era come non ci fosse più nessuno. D'un tratto, senti uno frigolio di freni, si voltò e vide tre automobili e in fila, i fascisti che ne discendevano, che affrontavano i due carabinieri, li disarmavano, gli legavano i polsi dietro la schiena e li spingevano dentro una delle macchine. « O questa ? » egli non ebbe il tempo di chiedersi. Istintivamente si era portato a ridosso del suo stabbiolo; e uno di quei fascisti credé si volesse nascondere. Costui, Masi non lo aveva mai visto, gli poggiò la rivoltella alla bocca dello stomaco, ma subito dalle sue spalle, Folco Malesci gridò: « È un amico, ve l'ho detto, lascialo stare. E tu Masi, a cuccia e buono, via! ». Masi non si mosse da dove si trovava. « Guarda lacchezzo ch'è questo », perciò. "Questione di minuti secondi", avrebbe detto poi. Una barca si era staccata dalla riva, con due uomini sopra, uno che spingeva la pertic[...]

[...]non ebbe il tempo di chiedersi. Istintivamente si era portato a ridosso del suo stabbiolo; e uno di quei fascisti credé si volesse nascondere. Costui, Masi non lo aveva mai visto, gli poggiò la rivoltella alla bocca dello stomaco, ma subito dalle sue spalle, Folco Malesci gridò: « È un amico, ve l'ho detto, lascialo stare. E tu Masi, a cuccia e buono, via! ». Masi non si mosse da dove si trovava. « Guarda lacchezzo ch'è questo », perciò. "Questione di minuti secondi", avrebbe detto poi. Una barca si era staccata dalla riva, con due uomini sopra, uno che spingeva la pertica come un dannato e uno, anche lui in piedi, faceva
22 VASCO PRATOLINI
dei segnali, come per dire a quelli del Pignone: "Eccoli, sono arrivati". Quei fascisti, dalla spalletta, li presero di mira con le rivoltelle, ma la barca era digiá fuori di tiro, mentre due fucilate fecero eco dalla parte della piazza, dove gli altri due carabinieri che ci stavano di guardia avevano sparato in aria. La folla si era mossa, ed essi ripiegavano, correvano all'indietro attraverso il ponte, per finire tra le braccia dei fascisti che gli saltarono addosso e trattarono come i primi due.
Ora, eliminate le forze dell'ordine, i due schieramenti si fronteggiavano. Il ponte ancora li divideva.
La folla si era attestata, faceva mas[...]

[...] dalla spalletta, li presero di mira con le rivoltelle, ma la barca era digiá fuori di tiro, mentre due fucilate fecero eco dalla parte della piazza, dove gli altri due carabinieri che ci stavano di guardia avevano sparato in aria. La folla si era mossa, ed essi ripiegavano, correvano all'indietro attraverso il ponte, per finire tra le braccia dei fascisti che gli saltarono addosso e trattarono come i primi due.
Ora, eliminate le forze dell'ordine, i due schieramenti si fronteggiavano. Il ponte ancora li divideva.
La folla si era attestata, faceva massa, come se una sbarra le impedisse di avanzare. Lontana tutta la lunghezza del ponte, non si decifrava, tra cotesta calca, un solo viso, ma tanti visi presi nel riflesso del sole, e quei berretti, i cappelli: i vestiti delle donne risaltavano per via dei colori. Da questa parte, i fascisti si erano a loro volta radunati, Folco era al centro; e per un momento si guardarono come per contarsi. Il Masi li aveva digiá contati. Erano dieci, undici, mancava quello dai basettoni, e un paio erano rimasti accanto alle automobili e per tenere d'occhio i carabinieri che vi si trovavano legati. Soltanto due erano in divisa: il Pomero con la camicia nera dalle maniche rimboccate, i pantaloni da ufficiale, i gambali gialli; e uno basso, dai baffi e dai capelli neri, lo stesso che lo aveva assalito e che sembrava essere il più anziano di tutti, ma anche quello che contava meno. Stava alle spalle di Folco e quasi non si vedeva. Gli altri, erano in borghese, alcuni con la camicia nera sotto la giacca, e chi no, come Folco: elegante secondo il suo solito, si era appena tirato indietro il cappello sulla fronte. Ora avevano incominciato a parlare, con frasi brevi, non trafelate, che nondimeno tradivano la sorpresa e sottolineavano la loro irresolutezza.
« Che si fa ? ».
« Ci hanno tirato un'imboscata ».
« Qualcuno li ha avvisati ».
«Ma siamo stati noi ad avvisarli! Non ci perdiamo in considerazioni ».
FIRENZE, MARZO DEL VENTUNO 2J
Questo era il Pomero che si aggiustava la fascia intorno alla vita.
« Non bisognava venirci dal ponte ».
« Si doveva entrare dalla parte di Legnaja ».
« Come ci si arrivava? ».
« Allora attraverso San Frediano ».
«Dietro alla porta ce ne saranno altrettanti ».
« Qui non si può restare », disse il Pomero. Bestemmiò, poi disse: «Saranno qualche centinaio, questi cenciosi ».
«A[...]

[...]la loro irresolutezza.
« Che si fa ? ».
« Ci hanno tirato un'imboscata ».
« Qualcuno li ha avvisati ».
«Ma siamo stati noi ad avvisarli! Non ci perdiamo in considerazioni ».
FIRENZE, MARZO DEL VENTUNO 2J
Questo era il Pomero che si aggiustava la fascia intorno alla vita.
« Non bisognava venirci dal ponte ».
« Si doveva entrare dalla parte di Legnaja ».
« Come ci si arrivava? ».
« Allora attraverso San Frediano ».
«Dietro alla porta ce ne saranno altrettanti ».
« Qui non si può restare », disse il Pomero. Bestemmiò, poi disse: «Saranno qualche centinaio, questi cenciosi ».
«Allora, Malesci, che si fa? ».
« Si va avanti, come che si fa? Siamo rimasti anche troppo qui a indugiare ».
Colui che aveva parlato non era Folco, ma un altro di quelli che il Masi vedeva per la prima volta. Gli stava quasi di fronte, al fianco di Folco, ed era un ragazzo come Folco, di sicuro non aveva trent'anni. Era alto, magro, un biondino si poteva dire del tipo che era, anche se il berretto all'inglese gli copriva la fronte e gli calzava la nuca.[...]

[...]ti anche troppo qui a indugiare ».
Colui che aveva parlato non era Folco, ma un altro di quelli che il Masi vedeva per la prima volta. Gli stava quasi di fronte, al fianco di Folco, ed era un ragazzo come Folco, di sicuro non aveva trent'anni. Era alto, magro, un biondino si poteva dire del tipo che era, anche se il berretto all'inglese gli copriva la fronte e gli calzava la nuca. Sotto la giacca, come troppo larga per lui, invece della camicia nera, portava una maglia scollata. Questo, e come stava in piedi, come si dondolava, rafforzavano l'idea di un marinaio, che fosse li per caso. Aveva il viso abbronzato dei marinai; forse per questo gli occhi sembravano tanto chiari. E una espressione, infine, sulla faccia, non come degli altri dura, risentita, accigliata, ma tranquilla, decisa, percui, non ci si spiega, era, fra tutti, quello che metteva piú paura. Ora reggeva la pistola appoggiandosela sotto il mento, mentre parlava.
Si va avanti », ripeté. « Forza ».
Falco lo fermò, secco e strisciandosi lui la canna del proprio revolver sulla gota: «Non dire bischerate, Tarbé. Non fare il pazzo, tu non hai esperienza di queste cose. Lasciami riflettere da che parte si possono pigliare ».
D'improvviso, come una risposta a queste sue parole, dall'altro capo del ponte si levò una voce d'uomo, [...]

[...]o e strisciandosi lui la canna del proprio revolver sulla gota: «Non dire bischerate, Tarbé. Non fare il pazzo, tu non hai esperienza di queste cose. Lasciami riflettere da che parte si possono pigliare ».
D'improvviso, come una risposta a queste sue parole, dall'altro capo del ponte si levò una voce d'uomo, grave, tonante: « Non azzardatevi a passare il ponte, inteso? Vi si aspetta da tutte le parti non vi azzardate ».
E subito, come per la fine di una tregua, a cotesta voce se ne
24 VASCO PRATOLINI
accompagnarono altre cento, ma urli, grida, che per essere cento diventarono una sola ed unica voce, e se ne perdevano le parole. «Non v'azzardate! Non v'azzardate! D.
C'era stato un movimento, ma la folla non era venuta avanti; si era come rimescolata dentro le proprie grida. Quindi, una sassaiola si era abbattuta a metà del ponte, contro le fiancate, era ricaduta in Arno. Qualche pietra più piccola, o meglio o più fortemente diretta, era rotolata ai piedi dei fascisti. Come una salve. E di nuovo il silenzio; di nuovo quella voce:
« Malesci se ci sei, fatti sentire da cotesti delinquenti. Portali via D.
Ora Falco si era drizzato in tutta la persona, "gli sporgeva la bazza, tanto doveva essere in[...]

[...]asi, spiaccicato di spalle contro il suo stabbiolo: « Chi è questo? » gli chiese. «Mah », il vecchio disse, un po' balbettava, un po' si dava coraggio: « O non é il Santini? Mi pare, non lo so ». Poi, rivolto ai suoi amici, Falco gli ordinò: « Non mi venite dietro. Muovetevi quando vi chiamo ». E avanzò sul ponte, si fermò dieci passi lontano.
« Ci sono, eccomi qui », gridò. « Tu chi sei? Sei quella carogna del Santini? D.
Dalla parte del Pignone, lo videro avanti ch'egli aprisse bocca, e le urla, i gridi che si levarono dalla folla, copersero le sue parole. Egli era abbagliato dal riflesso, scorgeva come una fiumana nera, colorata, agitarsi +a capo del ponte, e come ondulare, trattenuta in se stessa, e contemporaneamente, una figura d'uomo, una figura di donna, un'altra donna un altro uomo, ora pareva un ragazzo, cinque, dieci figure avanzare di qualche metro, prenderlo di mira e rientrare di corsa tra la folla. Dei sassi, dei pillori, gli caddero vicino, uno gli sfiorò la testa ed egli fu costretto a scansarsi, mentre nell'incendio sempre più basso del cielo, da quel gesticolare, gli insulti, gli urli, le grida lo subissavano. Egli alzò la pistola e sparò in aria tre colpi. Subito, i suoi camerati, senza ch'egli avesse gridato « A noi! » lo avevano raggiunto, Tarbé per primo.
FIRENZE, MARZO DEL VENTUNO 25
1
«Non risolvi nulla a minacce. Andiamo avanti. Sono una massa di pecore, non li vedi? ».
Folco lo agguantò al braccio, mentre si muoveva; lo aveva arrestato sullo slancio e gli aveva fatto cadere la rivoltella, perciò Tarbé si era fermato. Raccolse la rivoltella; e gli disse:
«
E tutto qui il tuo cor[...]

[...]va arrestato sullo slancio e gli aveva fatto cadere la rivoltella, perciò Tarbé si era fermato. Raccolse la rivoltella; e gli disse:
«
E tutto qui il tuo coraggio, capitano? ».
« Non ti mettere a provocar me, Tarbé, sii buono! Io li conosco, so con chi ho da fare ».
Agli spari, era seguito un ondeggiamento della folla, come un fuggi fuggi subito ricomposto. Folco gridò:
« Vi do tempo due minuti per sgomberare la piazza. Mandate a casa le donne. O spariamo addosso anche a loro. Vi si disfà, stasera ».
E accadde qualcosa di cui il Masi non si sarebbe « mai capacitato »; di cui anche Folco, che pure li conosceva, si sorprese, e per la prima volta nella sua vita, gli fece gelare il sangue nelle vene. Erano trascorsi dieci minuti, nemmeno, dall'arrivo dei fascisti, e tutto finora, si era svolto « in un battibaleno, come un volo di pallonetto che con l'occhio non gli stai dietro ». Ora incominciavano i secondi dieci minuti, un quarto d'ora che sarebbe sembrato eterno, e poi, « poi da mettersi le mani sugli occhi davvero ».
Stasera vi si concia per le feste », urlò il Pomero.
E Folco: « Ho guardato l'orologio, sappiatevi regolare ».
Ma in quello stesso momento, come da dietro un gran velo di tulle, di caligine, di bruma, uscendo dall'ombra della piazza dove già era calata la sera, e sbucando sul ponte ancora colpito dai barbagli di sole, la gente del Pignone avanzava lentamente, compatta, unita, si sarebbe detto facendosi catena con le mani. Il ponte era largo cinque metri, ed essa lo riempiva, da questo a quel parapetto, dall'una all'altra grata. Erano un centinaio di persone, forse, o poco più, ma cosí strette, affiancate, parevano un esercito, un'armata. Delle donne stavano nelle prime file.
« Carogne, fermatevi », gridò Folco. Si era messo con un ginocchio a terra, per impugnare meglio la pistola e darsi come un riparo. Gli altri lo avevano imitato. « Un altro passo, e si spara ».
Gli rispose, non più il Santini, non lo si vedeva: erano tutti
26 VASCO PRATOLINI
e nessuno, che si tenevano ammucchiati: ma un urlo di donna:
«
Assassini! ». Si vide un vestito verde agitarsi, e subito venne risucchiato nel gruppo come da uno strattone.
I fascisti ne avevano approfittato per rinculare di qualche passo, e adattarsi in una posizione migliore, sui due lati: Folco, Tarbé e il Pomero davanti; gli altri alle loro spalle e dirimpetto. La folla, come i fascisti si erano fermati, anch'essa si fermi. Su quelle teste si alzavano delle spranghe, dei bastoni. Erano a metà del ponte; e in quel momento il sole dava gli ultimi e più. forti bagliori.
Qui, parti il primo colpo. Folco, il Pomero, Tarbé avevano sparato, ma dalle loro spalle, « quello basso, tutto nero come la pece ». In piedi, cercando la mira dentro il mucchio, una ventina di metri distante, e col riflesso che l'accecava, egli sparò due, tre volte ancora. Nella folla si apri un varco; tra urli e grida, essa si divise in due file, e sbandò e si sparse verso la piazza donde era partita. Miracolosamente, la metà del ponte rimase vuota; nessuno sotto quei colpi era caduto. Ora, dall'altro capo del ponte, impugnando i moschetti dei carabinieri, accorrevano i due fascisti rimasti di guardia, e gridavano: « Stanno passando sull'Arno. Ci vogliono aggirare. Guardate, sono sui barconi ».
«Li».
«Li».
«Li».
A un ordine di Folco, la squadra era indietreggiata: protetta dai tralicci del ponte, sparava coi moschetti e i revolver sui barconi. Folco si riparava sul fianco del pilone, quasi accanto al Masi, più che mai spiaccicato contro il suo stabbialo. Il vecchio balbettò, tra l'uno e l'altro scatto dell'otturatore: «Li ho avvistati io, ingegnere. Lora, questi suoi amici, non se n'erano accorti ».
I tre barconi di renaiolo, erano carichi di gente che agitava i pugni e le mazze, facevano manovra per sfuggire alle moschettate e portarsi al largo. Uno fu sul punto di rovesciarsi; si videro tre quattro persone nuotare verso la riva. Anche costi c'erano delle donne; una di esse stava per precipitare, la sua sottana rossa si gonfiava nell'acqua; la ripresero per i capelli e lei lanciò un urlo
27
FIRENZE, MARZO DEL VENTUNO

che sembrò sovrastare i colpi dei fucili, le grida che si levavano al di là del ponte, sulla piazza. Ma già due dei tre barconi, fatto l'inverso cammino, toccavano la riva del Pignone, la gente saltava sugli argini. Il terzo, si dirigeva verso l'Isolotto, con che in, tenzione ?
« Ingegnere, quelli attraversano l'Isolotto per risalire dalle Cascine », balbettò il Masi. « E intanto, ha visto ? I carabinieri si sono sciolti e sono scappati ».
«Ma va via, lurido anche te! », gli disse Folco; aggiunse terrore alla sua paura. Quindi si diresse verso i camerati, riunitisi a capo del ponte.
Sulle due rive del fiume era tornato il silenzio; il sole era tramontato; il cielo si era fatto tutto bianco e celeste, e dalla parte della Carraja si vedeva una falce di luna. Su entrambi i lungarni, c'era il deserto; non una persona risaliva le Cascine. Pareva che la città, non incominciasse 11, dietro le prime case, ma mille miglia lontano, come isolat[...]

[...] I carabinieri si sono sciolti e sono scappati ».
«Ma va via, lurido anche te! », gli disse Folco; aggiunse terrore alla sua paura. Quindi si diresse verso i camerati, riunitisi a capo del ponte.
Sulle due rive del fiume era tornato il silenzio; il sole era tramontato; il cielo si era fatto tutto bianco e celeste, e dalla parte della Carraja si vedeva una falce di luna. Su entrambi i lungarni, c'era il deserto; non una persona risaliva le Cascine. Pareva che la città, non incominciasse 11, dietro le prime case, ma mille miglia lontano, come isolata nel suo traffico e nella animazione d'ogni sera. Ora l'orizzonte era pulito; alle ultime luci della sera, vivide e chiare, di primavera, le due fazioni potevano distinguersi nei loro movimenti, attraverso il ponte che nuovamente le divideva. Ed ora che pareva tornata la quiete, per un istante, in cotesto istante sarebbe esplosa la tragedia.
" Come non fosse successo nulla ", pensò il Masi. " Non hanno perso un berretto un pelo ". Folco stava all'ingresso del ponte, col Pomero accanto e dall'altro lato il fascista tutto pece. E come se soltanto allora lo scoprisse vicino: « Bella prodezza, vero? » Folco gli disse, d'improvviso, accompagnò con due schiaffi, " uno per gota ", le sue parole.
Nessuno si mosse; costui restò come mummificato. Ma subito dopo, fece un passo indietro, la rivoltella in mano: «Toglietevi di mezzo », urlò. « Guarda Malesci, ti fo fare la fine di quello dianzi, sai ? Tieni ».
La rivoltella scattò a vuoto.
« Non c'era nemmeno la pallottola. Le hai tutte sprecate », lo irrise Folco.
« Anch'io », disse il Pomero, « non ho più un colpo ».
28 VASCO PRATOLINI
E i moschetti erano ormai scarichi; i carabinieri si erano portati via le giberne che non gli avevan levato. Gli altri, qualche colpo potevano spararlo ancora e Tarbé, nella tasca, ci aveva, siccome disse, due caricatori.
« Ma anche se tu avessi due ore di fuoco », disse Folco e apri lo sportello di una delle automobili, che gli apparteneva. « Via, si rientra. Li piglieremo un'altra sera. Per stasera abbiamo fatto anche troppo rumore. Sali, e non ti riprovar più a dir certe parole! »
disse a colui che aveva schiaffeggiato.
Il camerata che un momento prima, con un proiettile in canna, di sicuro l'avrebbe ucciso,` gli ubbidì subito, girò la manovella per avviare il motore, e gli sedé accanto. Già le tre macchine avevano il motore acceso. E il Masi stava sgusciando a sua volta, rasente la spalletta, per raggiungere casa, l'incasso della giornata dentro il sacchetto: l'Impresa, egli pensava, avrebbe considerato le ragioni per cui abbandonava il posto avanti dell'orario.
5
Solo, in disparte, era rimasto Tarbé. Il berretto tirato sulla fronte ora, gli occhi balenanti acciaio, si rivolse a Folco, e li fermò tutti:
« Scappate così? Siete dei bei pusillanimi ».
Folco scese dalla macchina e lo affrontò. « Vuoi un par di schiaffi anche te? Su, fila ». Lo trascinò per il braccio: « Cosa vuoi fare? Un'altra[...]

[...]posto avanti dell'orario.
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Solo, in disparte, era rimasto Tarbé. Il berretto tirato sulla fronte ora, gli occhi balenanti acciaio, si rivolse a Folco, e li fermò tutti:
« Scappate così? Siete dei bei pusillanimi ».
Folco scese dalla macchina e lo affrontò. « Vuoi un par di schiaffi anche te? Su, fila ». Lo trascinò per il braccio: « Cosa vuoi fare? Un'altra bambinata ? ».
Tarbé gli resistette; e Folco, come ritrovando la calma, guardandolo negli occhi, gli disse: « Ogni secondo che si resta qui, se non si rischia la pelle, ci si va vicino. Quelli stanno salendo dalle Cascine col barcone, e sulla piazza... ».
« Insomma tu scappi », Tarbé disse.
« Non scappo, non sono mai scappato. Non dubitare che ï conti li regolo anche da me solo. È gente mia, e la voglio vedere con la bocca per terra. A cominciare da stanotte quando tornerò a casa, per tua norma, capito? ».
FIRENZE, MARZO DEL VENTUNO 29
« Ma intanto scappi ».
« Qui non siamo sul ponte di una nave, Tarbé, siamo su un ponte d'Arno ».
«Ma scappi. Scappi davanti a delle pecore ».
«Non sono delle pecore, Tarbé. Sono dei delinquenti. Se ora gli si va incontro, succede una carneficina ».
« Perciò tu li prendi isolati. In tre, in dieci contra una pecora. Così fate la rivoluzione ».
« Basta Tarbé! », urlò Folco. « Se per via del tuo nome tu sei qualcuno, anch'io sono qualcuno, anche mio padre. E la sua roba ce l'ha al Pignone, non alle Cure, capito ? ».
« Io con mio padre non ho rapporti. Ho fatto cinque anni di marina apposta, senza gradi ».
«E io ho fatto... ».
« Ma scappi ». Guardava Folco con quei suoi occhi che sembravano non vedere, grigi ora, fermi, lo derideva. « Davanti a delle pecore. Se gli fai un bercio, scompaiono. Non l'hai visto dianzi? E tu sei tanto vigliacco, tutti voialtri sareste tanto vigliacchi, da scappare davanti a chi é più vigliacco di voi? Li affronto io solo ».
« Ti sei appena congedato, Tarbé. Questa é la tua prima azione. Non puoi sapere come stanno le cose », diss[...]

[...]posta, senza gradi ».
«E io ho fatto... ».
« Ma scappi ». Guardava Folco con quei suoi occhi che sembravano non vedere, grigi ora, fermi, lo derideva. « Davanti a delle pecore. Se gli fai un bercio, scompaiono. Non l'hai visto dianzi? E tu sei tanto vigliacco, tutti voialtri sareste tanto vigliacchi, da scappare davanti a chi é più vigliacco di voi? Li affronto io solo ».
« Ti sei appena congedato, Tarbé. Questa é la tua prima azione. Non puoi sapere come stanno le cose », disse Folco.
Tarbé sembrò non sentirlo. Sorrise, " ma con la faccia amara che li disprezzava ". Disse:
« Voglio vedere tra voialtri e loro chi ha più paura ».
Cavò di tasca la pistola e avanti che Folco potesse impedirglielo, sparò due colpi in aria. Fece eco, ai due spari, come un tuono. Essi si voltarono: quella gente era ferma a metâ del ponte. Tanti più di prima, davvero una fiumana. Ora, tra i vestiti delle donne, le giacche, le tute, e giâ il cielo si era come di più illimpidito nella sera, spiccava un giovane, quasi un ragazzo pare[...]

[...]anno le cose », disse Folco.
Tarbé sembrò non sentirlo. Sorrise, " ma con la faccia amara che li disprezzava ". Disse:
« Voglio vedere tra voialtri e loro chi ha più paura ».
Cavò di tasca la pistola e avanti che Folco potesse impedirglielo, sparò due colpi in aria. Fece eco, ai due spari, come un tuono. Essi si voltarono: quella gente era ferma a metâ del ponte. Tanti più di prima, davvero una fiumana. Ora, tra i vestiti delle donne, le giacche, le tute, e giâ il cielo si era come di più illimpidito nella sera, spiccava un giovane, quasi un ragazzo pareva, scamiciato e dalla testa bendata. Quindi si udì la voce dell'uomo che aveva parlato sotto il sole e che Folco aveva chiamato Santini. " Ma questo potrebbe essere anche il Bigazzi ", pensò Masi, bloccato ora, dal nuovo spavento, tra la spalletta e il pilone.
« Non ve ne andate, no? Volete ricominciare ? ».
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30 VASCO PRATOLINI
« Badate che siamo alla disperazione », gridò una donna.
E ad essa si accompagnarono l'urlio che riempiva l'aria, il tumultuare della folla a mezzo il ponte: le sue sbarre, i bastoni. Il ponte, sotto questo peso, questa agitazione, oscillava sui cavi, " come nei giorni di maggior bufera ".
« Faremo i conti con tutti », gridò Folco. « Anche voi mi conoscete ».
« Malesci, é l'ora di finimola », gli risposero.
« Vieni avanti, se hai coraggio ».
« Vieni avanti, ingegnere ».
« Belva ».
« Iena ».
« Viva Gavagnini ».
Ora, soltanto Folco e Tarbé li fronteggiavano, in piedi tra pilone e pilone; entrambi avevano in mano le pistole. Alle loro spalle, le automobili dei camerati aumentavano, pronte a partire, i giri del motore.
« Vai, Tarbé, monta, io ti vengo dietro ».
« Sicché, vuoi proprio scappare », Tarbé disse.
Il suo volto era duro e sereno, come di un ragazzo infatti, anche più giovane dei suoi anni, e che della propria caparbietà si é fatto un punto d'impegno, una ragione.
« Ma ti vuoi fare ammazzare ? », sibilò Folco. « Imbecille ». « Non ammazzano nessuno. Se ti vedono deciso sono delle pecore ».
D'un tratto, dietro di loro, due auto erano partite, ciascuna con il suo carico di camerati, alla guida e sopra gli strapuntini. « Dio, che vigliacchi », esclamò Tarbé.
C'era una carica d'odio nella sua voce che per un momento Folco ne restò non intimorito, ma sgomento. Anche il Pomero ora li richiamava; e il camerata tutto pece, colui che aveva sparato per primo, che Folco aveva schiaffeggiato, e che era il più anziano: «Dai, Tarbé, non fare il bischero sul serio », disse. Piuttosto che un'esortazione, un consiglio, era un allarme e, mentre lo sollecitava a partire, un modo di ricambiargli la sua derisione.
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Liberatosi dalla mano di Folco che lo tratteneva, e impugnando la rivoltella, lui da solo, come aveva detto, Tarbé si era mosso incontro alla folla, aveva superato i piloni, lo stabbialo dove il Masi si faceva pagare il pedaggio, era dieci, venti passi lontano. Lo si vedeva di schiena, la giacca troppo lunga gli ricadeva sulle spalle e sembrava infagottarlo, avanzare lento ma deciso. Folco era rimasto a capo del ponte, pensava che di fronte alla pazzia di Tarbé, ormai, guardargli le spalle da coloro che stavano per aggirarli dalla parte delle Cascine, era il solo aiuto che gli si poteva dare. Nondimeno: « Tarbé! », gridò. « Torna indietro[...]

[...]tto, Tarbé si era mosso incontro alla folla, aveva superato i piloni, lo stabbialo dove il Masi si faceva pagare il pedaggio, era dieci, venti passi lontano. Lo si vedeva di schiena, la giacca troppo lunga gli ricadeva sulle spalle e sembrava infagottarlo, avanzare lento ma deciso. Folco era rimasto a capo del ponte, pensava che di fronte alla pazzia di Tarbé, ormai, guardargli le spalle da coloro che stavano per aggirarli dalla parte delle Cascine, era il solo aiuto che gli si poteva dare. Nondimeno: « Tarbé! », gridò. « Torna indietro ».
Si era fatto silenzio: nell'aria limpida della sera, non volava una rondine, un moscone; si poteva sentire, lieve, uno sciacquio, l'Arno che urtava contro gli argini, che andava calmo e veloce sotto il ponte, tutto verde ora e via via sempre meno screziato dalla spuma di cui si ricopriva, precipitando dalla pescaja, lá dove, cento metri distante, costeggiava San Frediano e le prime case del Pignone.
« Torna indietro, Tarbé! ».
La voce di Folco, risuonò irata e supplichevole insieme. E la folla, assiepata a meta del ponte, per un momento disorientata, sembrò esplodere nella sua carica di odio, di disperazione. Ancora trattenendosi compatta, si agitò in un mulinare di gesti, di grida, parve fare eco alle parole di Folco.
« Torna indietro ».
« È meglio per te ».
« Non ti ci provare ».
Erano urli che la rabbia stroncava; minacce che la provocazione di Tarbé rendeva tragicamente ridicole. E digià, inumane. Egli avanzava, puntando la rivoltella contro di loro; e sem
pre più gli si avvicinava. Ora venti, trenta passi li dividevano. Egli si trovava a un terzo del Ponte, nemmeno, e nel punto in cui
i cavi si flettevano per risalire, dopo la meta giusta, verso gli altri piloni e l'altra riva. Il ponte, come una lunghissima cuna, si stendeva, cosí sospeso ed aereo, in quella luce vespertina, oscillando
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appena dove il peso della folla lo gravava e dove più basse, e nella misura d'uomo, erano le grate che lo cintavano.
« Chi sei? Te non ti si conosce, va' via ».
Egli si era fermata, la rivoltella in pugno. Li vedeva distintamente ora, tutti e nessuno nello stesso tempo. Quelle donne che vedeva, quel ragazzo con la testa fasciata e la benda arrossata di sangue, loro che erano nelle prime file, le donne come gli uomini, più la insultavano e più facevano forza con le spalle per trattenere la massa su cui si agitavano le spranghe di ferro, i pugni chiusi, le mazze, i bastoni. Era una folla inferocita, e spaventata,
e vigliacca, lui pensava. Così, lui faceva un passo, ed essa arretrava. Più lo insultavano, più egli muoveva un piede, più andavano indietro, ammucchiati gli uni sugli altri.
Egli sorrideva, stirando le labbra, alzando la rivoltella, come per prendere la mira.
« Sono un fascista. Non vi basta ? E vengo a pigliarvi tutti, da me solo ».
Fece l'atto di puntare la rivoltella; loro non si disunirono ma arretrarono di più questa volta. Si alzarono più intense le impr[...]

[...]olo ».
Fece l'atto di puntare la rivoltella; loro non si disunirono ma arretrarono di più questa volta. Si alzarono più intense le imprecazioni e le grida.
« Fuori! », egli intimò. Si portò avanti di un passo ancora,
e agitava la rivoltella. « Tornate a casa, sparite. Io non sono il Malesci, tutti quanti siete non mi fate paura. Sgomberate il ponte
o sparo ».
« Non ti ci provare ». Questo era il ragazzo della benda, piegato in due per trattenere la massa che lo spingeva.
« Ti si brucia vivo », urlò una donna: aveva il grembiule di casa sopra il vestito nero, dei ciuffi grigi le coprivano a metà il viso.
Tarbé si alzò il berretto sulla fronte, e a gambe spalancate, piantato in mezzo al ponte come si trovava, fece il gesto di buttar via la pistola.
« Non ho paura », gridò. " Anche disarmato " non ebbe il tempo di dire.
Nel medesimo istante, forse credendo che Tarbé stesse per sparare, forse con l'intenzione di farlo indietreggiare, o di sal
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targli addosso e batterlo in colluttazione, certo, si poté poi capire, agendo sotto un impulso tutto suo, ma che la folla alle sue spalle non poteva non avergli istigato più della sua ferita, della sua eccitazione, il ragazzo che pochi minuti prima era stato colpito di striscio alla testa dalle rivoltellate del fascista anziano, si gettò su Tarbé come doveva tuffarsi in Arno, ragazzo com'era, dall'alto della pescaja. Lo agguantò alle gambe, lo fece cadere, riuscì a disarmarlo e a gettare la rivoltella al di sopra del ponte, nel fiume. Contemporaneamente Folco vedendo coloro che avevano attraversato il fiume sul barcone risalire l'argine delle Cascine, gli aveva sparato; e d'istinto, per darsi un riparo, era saltato sull'auto, mentre il fascista anziano lanciava la macchina sul lungarno e verso la città. Da bordo, Folco e il Pomero, continuarono a sparare, finché l'auto non scomparve lontano, dietro una voltata.
Sul ponte, la folla, una volta di più sorpresa dagli spari, subito immaginandosi un'imboscata, e che dei rinforzi fascisti la prendessero dai due lati del ponte, impazzita e dalla rabbia e dal terrore, si era sbandata. Il ragazzo lottava ancora con Tarbé che si liberò di lui, si alzò e di corsa cercò scampo dalla parte delle Casci[...]

[...]città. Da bordo, Folco e il Pomero, continuarono a sparare, finché l'auto non scomparve lontano, dietro una voltata.
Sul ponte, la folla, una volta di più sorpresa dagli spari, subito immaginandosi un'imboscata, e che dei rinforzi fascisti la prendessero dai due lati del ponte, impazzita e dalla rabbia e dal terrore, si era sbandata. Il ragazzo lottava ancora con Tarbé che si liberò di lui, si alzò e di corsa cercò scampo dalla parte delle Cascine. Ma già coloro che erano risaliti dall'argine, un attimo intimoriti dalla sparatoria di Folco e del Pomero, ora imboccavano il ponte; e quelli sbandatisi, tornavano indietro correndo, per cui Tarbé si trovò preso lui ora, e solo, tra i due gruppi della gente del Pignone che gli si avvicinavano. Non più donne o uomini, vecchi, ragazzi, ma esseri al di fuori di se stessi, scatenati.
Egli si mise di spalle contro la grata, il parapetto del fiume gli arrivava all'altezza della vita, alzò le braccia come per arrendersi; ma da una parte e dall'altra, i due gruppi convergevano su di lui, gli furono sopra: ora il suo corpo ondeggiava sulle loro teste e precipitava sotto i loro colpi, i loro pugni, gli sputi, le bastonate. Lo sollevavano e lo lasciavano ricadere, urtandosi, calpestandosi, ammucchiandosi su di lui, e tra loro. " Sembrava impossibile non l'avessero bell'e dilaniato ". No, non ancora. Così [...]

[...]a dalla parte più bassa, rovesciarsi sul traliccio, " mezzo sul ponte, mezzo sporto sul fiume, e poi sparire ". Si pensò fosse cascato in Arno, poteva essere la sua fortuna; l'altezza era molta, ma lui era un marinaio, avrebbe nuotato.
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Dopo, tutto ci() che si disse, malgrado le contraddizioni delle diverse testimonianze, ciascuna diversamente interessata, e per la complicità come per le intimidazioni, le omertà, i timori, fu tutto vero. Come nessuno confessò mai di essersi trovato sul ponte, quella sera, così non si riuscì ad identificare nemmeno una ch'è una delle persone che avevano preso parte al linciaggio, senza che non sorgessero comunque dei dubbi, delle perplessità, dei casi di coscienza, delle cieche persuasioni. Anche questo a suo modo, fu vero. Non erano, dei cento o duecento quanti erano, tante singole persone; ma una folla che nella propria disperazione, nel proprio odio, e nella ferocia con cui si era scatenata, esaltava se stessa e insieme si annullava. Infierendo sul fascista caduto tra le sue innumerevoli mani, mentre si accaniva su di lui che da solo la aveva affrontata, proprio lui era il solo dei suoi nemici che inconsapevolmente essa riscattava.
" Come un fantoccio, invece ", si era girato su di sé, era sci volato fuori dal ponte, e chissà per quale forza disperata, si era. aggrappato ai ferri della grata, poi in quel po' di spazio che c'è tra la grata e l'impiantito del ponte. Casti era di legno, tutto scheggiato, si doveva fare male ma faceva più presa. La folla, vedendoselo sfuggire, non potendo più raggiungerlo se non arram picandosi sul parapetto e di lassù cercare di colpirlo coi bastoni, lo forzava coi piedi. Egli era penzoloni dal ponte: sotto di lui,. nove dieci metri, scorreva il [...]

[...]ta, si era. aggrappato ai ferri della grata, poi in quel po' di spazio che c'è tra la grata e l'impiantito del ponte. Casti era di legno, tutto scheggiato, si doveva fare male ma faceva più presa. La folla, vedendoselo sfuggire, non potendo più raggiungerlo se non arram picandosi sul parapetto e di lassù cercare di colpirlo coi bastoni, lo forzava coi piedi. Egli era penzoloni dal ponte: sotto di lui,. nove dieci metri, scorreva il fiume; e si teneva, ormai morto: o per via di un irrigidimento che non corrispondeva a nessuna legge naturale: con le mani disperatamente aggrappato. «Chiamava la mamma; e quelle donne, quegli uomini, forse soltanto un paio,
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forse una diecina, ma come se fossero stati centomila, gli pestavano le mani ». Lo colpivano « coi bastoni sul capo », dall'alto della grata.
Così, prima una mano, poi l'altra, centimetro per centimetro, il tempo parve millenni, egli abbandonò l'orlo dei tavolato, e senza un grido, precipitò nel fiume. « Andò giù ritto come si trovava »; l'Arno sembrò aprirsi e rinchiudersi. E la gente, non ancora paga, ma sempre più riducendosi le sue file, corse ai due capi del ponte, discese sugli argini, per vederne la fine. Qualcuno era saltato sui barconi e spingeva sotto al ponte. Per un momento, ed era ormai sera, ci fu un silenzio, questa volta pauroso, ossessionante. Il corpo non era riaffiorato. Già costoro forse si guardavano negli occhi, « gli tornava l'uso della ragione », quando da uno dei barconi sul fiume, si alzò un urlo, un grido:
« Eccolo là! Vuole scappare! ».
Alle ultime luci della sera, sotto il chiarore lunare, si vide, rasente l'argine delle Cascine, apparire il corpo di Tarbé, «morto, certo, galleggiava, ma davvero sembrava che nuotasse e intendesse scappare dalla parte dell'Isolotto ». Lo raggiunsero, e quelli che stavano sull'argine, e quelli che si trovavano sul fiume; lo colpirono con le pertiche dai barconi, coi sassi, sulla testa, sul dorso, finché il corpo di Tarbé, « ora nient'altro che la carcassa », affondò lentamente, e per sempre.
Era notte ormai; c'era il chiaro di luna; e rapido più d'ogni altro il Masi, fino allora nascosto tra spalletta e pilone, come in una segreta, scantonò sul lungarno e sul Prato. Carezzava le sue tortore, mentre beccavano le molliche ch'egli aveva sparso sul tavolo; e chiuso nella sua casa, il doppio paletto, la doppia mandata, si domandava: « Domattina, io li bisogna sia. Mi verranno a interrogare. Dimmi tu cosa dovrò dire, dimmi tu cosa gli dovrò inventare? ».
VASCO PRATOLINI



da Eugenio Garin, Gramsci nella cultura italiana in KBD-Periodici: Nuovi Argomenti 1958 - 1 - 1 - numero 30

Brano: GRAMSCI NELLA CULTURA ITALIANA
In un testo del 1933 Gramsci fissò i canoni per lo studio di una « concezione del mondo » che il pensatore non abbia mai « esposto sistematicamente », e quindi non sia consegnata, come tale, a un « singolo scritto o serie di scritti », ma debba essere rintracciata « nell'intiero sviluppo del lavoro intellettuale vario in cui gli elementi della concezione sono impliciti ». In un'indagine del genere « occorre... preliminarmente un lavoro filologico minuzioso e condotto col massimo scrupolo di esattezza, di onestà scientifica, di lealtà intellettuale, di assenza di ogni preconcetto ed apriorismo o partito preso». Si tratta di «identificare gli elementi stabili e ' permanenti ',.., assunti come pensiero proprio », distinguendoli dal materiale che é servito di stimolo, e fissando « dall'intrinseco » gli eventuali « periodi » e i possibili « scarti » (1).
E' osservazione comune di ogni studioso come esperienza personale — prosegue Gramsci — che ogni nuova teoria studiata con ' eroico furore ' (cioè... non per mera curiosità esteriore ma per un profondo interesse) per un certo tempo, specialmente se si è giovani, attira di per se stessa, si impadronisce di tutta la personalità, e viene limitata dalla teoria successivamente studiata,
(*) Per concessione dell'Istituto Gramsci e degli Editori Riuniti pubblichiamo due delle quattro relazioni tenute al Convegno di Studi Gramsciani (svoltosi in Roma nel gennaio 1958) i cui atti sono in corso di pubblicazione.
** Le abbreviazioni per i riferimenti ai volumi delle opere sono quelle adottate per l'indice generale posto in fondo al vol. VII. Il vol. IX è indicato con l'abbrevazione O. N. Si è inoltre usata, soprattutto per le pp. 20233, l'Antologia popolare, Roma 1957, a cura di C. Salinaci e M. Spinella; per altri scritti non raccolti in volume ci si é serviti delle riproduzioni in a Rinascita », vol. 14, 1957, pp. 14658. De La città futura si é usata una riproduzione fotografica del giugno 1952; per Id Grido del Popolo l'esemplare della Biblioteca Nazionale di Firenze. Di proposito non si è fatto alcun riferimento esplicito alla vasta letteratura gramsciana, spesso molto notevole.
(1) M. S. 7688.
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finché non si stabilisce un equilibrio critico, e si studia con profondità, senza però arrendersi subito al fascino del sistema o dell'autore studiato. Questa serie di osservazioni valgono tanto più quanto più il pensatore dato é piuttosto irruento, di carattere polemico e manca di spirito di sistema, quando si tratta di una personalità nella quale l'attività teorica e quella pratica sono indissolubilmente intrecciate, di un intelletto in continua creazione e in perpetuo movimento, che sente vigorosamente l'autocritica nel modo più spietato e conseguente ».
Gramsci — é noto — si riferiva a un eventuale studio su Marx: eppure ai nostri orecchi suonano indicativi proprio per uno studio sulla sua opera i suoi avvertimenti: distinguere fra scritti compiuti e pubblicati, e scritti postumi; fra lavori conclusi (« un'opera non può essere mai identificata col materiale bruto raccolto per la sua compilazione: la scelta definitiva, la disposi zione degli elementi componenti, il peso maggiore o minore dato a questo o a quello degli elementi raccolti nel periodo preparatorio, sóno appunto ciò che costituisce l'opera effettiva »). Delle lettere converrà usare con cautela: «un'affermazione recisa fatta in una lettera non sarebbe forse ripetuta in un libro. La vivacità stilistica delle lettere, se spesso é artisticamente più efficace dello stile più misurato e ponderato di un libro, talvolta porta a deficienze di argomentazione; nelle lettere come nei di scorsi si verificano più spesso errori logici; la rapidità maggiore del pensiero é spesso a scapito della sua solidità » (2).
E' difficile pensare che Gramsci, nel '33, quando stendeva queste pagine così precise, non avesse presente il proprio lavoro consegnato ad articoli, pubblicati si, ma che egli stesso considerava ' provvisori '; a lettere; a quaderni d'appunti. Pensava alla fine; é del 24 luglio di quell'anno la lettera in cui fa cenno alla cognata dei lucidi discorsi pronunciati nel delirio: « ero persuaso di morire, e cercavo di dimostrare l'inutilità della religione e la sua inanità, ed ero preoccupato che, approfittando della mia
(2) Cfr. M. S. 137.
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debolezza, il prete mi facesse fare o mi facesse delle cerimonie che mi ripugnavano e da cui non sapevo come difendermi. Pare che per un'intera notte ho parlato dell'immortalità dell'anima in un senso realistico e storicistico, cioè come una necessaria sopravvivenza delle nostre azioni utili e necessaria, e come un incorporarsi di esse nel mondo di fuori » (3).
E' un testo umanamente significativo: ma che documenta anche la consapevolezza di Gramsci; ed è un testo che, fra l'altro, richiama una lettera di due anni prima, del 17 agosto 1931, molto importante ai fini della determinazione « dall'intrinseco » dei momenti dello sviluppo del suo pensiero. Ricordando i tempi in cui era allievo di Umberto Cosmo dichiara che, ' sebbene allora non avesse precisato la sua posizione ', aveva tuttavia il senso di trovarsi su un terreno culturale comune a molti: « partecipavamo in tutto o in parte al movimento morale e intellettuale promosso in Italia da Benedetto Croce, il cui primo punto era questo, che l'uomo moderno può e deve vivere senza religione rivelata o positiva o mitologica o come altrimenti si vuol dire. Questo punto mi pare anche oggi il maggior contributo alla cultura mondiale che abbiano dato gli intellettuali moderni italiani; mi pare una conquista civile che non deve essere perduta » (4).
Senza dubbio era presente qui una polemica precisa contro una delle `crisi' periodiche a cui vanno soggetti gli intellettuali italiani; dopo la Conciliazione taluni « convertiti dell'idealismo crociano e gentiliano » avevano trovato che una cattedra val bene una messa. Eppure non era solo una polemica contingente che operava in Gramsci: egli voleva definire una volta di più un tratto permanente del proprio rapporto con Croce e col movimento culturale che a lui si richiamava. In una lettera del 6 giugno del '32 non esiterà a dichiarare, in forma nettissima, non
(3) L. 229.
(4) L. 132; Cfr. M. S. 199 (a io ero [nel febbraio del '17] tendenzialmente piuttosto crociano »); L. V. N. 247 (dall'« Avanti! », 21 agosto 1916): a accanto all'attività conoscitiva, che ci rende curiosi degli altri, del mondo circostante, lo spirito ha bisogno di esercitare la sua attività estetica a.
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solo una sottile convergenza fra Croce e Gentile, ma la funzione di Croce nell'Italia fascista: « la più potente macchina » per « conformare » le forze nuove italiane agli interessi del gruppo dominante, intimamente grato, « nonostante qualche superficiale apparenza », al non a caso sempre tollerato filosofo napoletano (5). E' dei « quaderni » la battuta sulla più stretta parentela di Croce con i senatori Agnelli e Benni che con Platone e Aristotele; a Gramsci era sfuggito il parallelismo fra certi infelici discorsi di Gentile e la bonaria difesa crociana (maggio del '24) delle «piogge di pugni, in certi casi utilmente e opportunamente somministrate », o di una funzione positiva del fascismo (luglio del '24), per la restaurazione di un più severo regime liberale nel quadro di uno stato forte (6). Eppure, accanto all'accusa così cruda di una concordia nascosta fra Croce e il fascismo — « non abbracciamento da palcoscenico, ma sempre... concordia e della più intima e fattiva » — ecco come Gramsci parla della crociana religione della libertà: « Religione della libeertà significa... fede nella civiltà moderna, che non ha bisogno di trascendenze e rivelazioni ma contiene in se stessa la propria razionalità e la propria origine ».
(5) L. 19293. Sulle «crisi» degl'intellettuali (oltre le osservazioni sul Giuliano, pubblicate in « Energie Nuove », febbraio 1919) è da rileggere, ne La città futura, Margini, 3: « gli uomini cercano sempre fuori di sé la ragione dei propri fallimenti spirituali... » (con quel che segue).
(6) « La Critica », XXII, 1924 (20 maggio), p. 191: « non è detto... che la eventuale pioggia di pugni non sia, in certi casi, utilmente e opportunamente somministrata »; Pagine sparse, vol. II, Napoli 1943, p. 37179 (dal a Giornale d'Italia », 27 ottobre 1923; a Corriere italiano », 1 febbraio 1924; a Giornale d'Italia » luglio 1924). Nell'ultima intervista (luglio '24), p. 377, si legge: a esso [fascismo] non poteva e non doveva esser altro, a mio parere, che un ponte di passaggio per la restaurazione di un più severo regime liberale, nel quadro di uno stato più forte... Poteva ben soddisfarsi della non piccola gloria di ridare tono e vigore alla vita politica italiana, cogliendo, per merito dei già combattenti, il miglior frutto della guerra... Non si poteva aspettare, e neppure desiderare, che il fascismo cadesse a un tratto. Esso non è stato un infatuamento o un giochetto. Ha risposto a seri bisogni e ha fatto molto di buono, come ogni animo equo riconosce. Si avanzò col consenso e tra gli applausi della nazione... ». Nel ristampare queste pagine nel '43 (il volume fu finito il 20 marzo del '43) il Croce annotava: « L'autore... non intende punto sottrarsi alla taccia che... gli può essere data di facile ottimismo e di non sufficiente preveggenza politica » (cfr. N. Boasto, Politica e cultura, Torino 1955, p. 217 sgg.; M. ABBATE, La filosofia dì Benedetto Croce e la crisi della società italiana, Torino 1955, p. 221 e sgg.).
158 EUGENIO GARIN
Gramsci, insomma, anche quando giunse a una posizione apertamente critica, e ormai del tutto staccata, non rinnegò mai, non solo una personale esperienza crociana, ma il valore permanente di cert[...]



da [Le relazioni] E. Garin, Gramsci nella cultura italiana in Studi gramsciani

Brano: Eugenio Garin

GRAMSCI NELLA CULTURA ITALIANA

In un testo del 1933 Gramsci fissò i canoni per lo studio di una « concezione del mondo » die il pensatore non abbia mai « esposto sistematicamente », e quindi non sia consegnata, come tale, a un « singolo scritto o serie di scritti », ma debba essere rintracciata « nell’intiero sviluppo del lavoro intellettuale vario in cui gli elementi della concezione sono impliciti ». In un’indagine del genere « occorre... preliminarmente un lavoro filologico minuzioso e condotto col massimo scrupolo di esattezza, di onestà scientifica, di lealtà intellettuale, di assenza di ogni preconcetto ed apriorismo o partito preso ». Si tratta di « identificare gli elementi divenuti stabili e 64 permanenti assunti come pensiero

proprio », distinguendoli dal materiale che è servito di stimolo, e fissando « dall’intrinseco » gli eventuali « periodi » e i possibili « scarti » \

« È osservazione comune di ogni studioso come esperienza personale, — prosegue Gramsci — che ogni nuova teoria studiata con “ eroico furore ” (cioè... non per mera curiosità esteriore ma per un profondo interesse) per un certo tempo, specialmente se si è giovani, attira di per se stessa, si impadronisce di tutta la personalità e viene limitata dalla teoria successivamente studiata finché non si stabilisce un equilibrio critico e si studia con profondità senza però arrendersi subito al fascino del sistema o delTautore studiato. Questa serie di osservazioni valgono

tanto più quanto più il pensatore dato è piuttosto irruento, di carattere

1 M. S.} p. 76.396

Le relazioni

polemico e manca dello spirito di sistema, quando si tratta di una personalità nella quale l’attività teorica e quella pratica sono indissolubilmente intrecciate, di un intelletto in continua creazione e in perpetuo movimento, che sente vigorosamente l’autocritica nel modo più spietato e conseguente ».

Gramsci — è noto — si riferiva a un eventuale studio su Marx: eppure ai nostri orecchi suonano indicativi proprio per uno studio sulla sua opera i suoi avvertimenti : distinguere fra scritti compiuti e pubblicati, e scritti postumi; fra lavori conclusi i(« Un’opera non può mai essere identificata col materiale bruto raccolto per la sua compilazione : la scelta definitiva, la disposizione degli elementi componenti, il peso maggiore e minore dato a questo o a quello degli elementi raccolti nel periodo preparatorio, sono appunto ciò che costituisce l’opera effettiva»), Delle lettere converrà usare con cautela : « un’affermazione recisa fatta in una lettera non sarebbe forse ripetuta in un libro. La vivacità stilistica delle lettere, se spesso è artisticamente più efficace dello stile più misurato e ponderato di un libro, talvolta porta a deficienze di argomentazione; nelle lettere come nei discorsi si verificano più spesso errori logici; la rapidità maggiore del pensiero è spesso a scapito della sua solidità » 1.

È difficile pensare che Gramsci, nel ’33, quando stendeva queste pagine cosi precise, non avesse presente il proprio lavoro consegnato ad articoli, pubblicati si, ma che egli stesso considerava «provvisori»; a lettere; a quaderni d’appunti. Pensava alla fine; è del 24 luglio di quell’anno la lettera in cui fa cenno alla cognata dei lucidi discorsi pronunciati nel delirio : « ero persuaso di morire e cercavo di dimostrare l’inutilità della religione e la sua inanità ed ero preoccupato che approfittando della mia debolezza il prete mi facesse fare o mi facesse delle cerimonie che mi ripugnavano e da cui non sapevo come difendersi. Pare che per un’intera notte ho parlato dell’immortalità dell’anima in un senso realistico e storicistico, cioè come una necessaria sopravvivenza delle nostre azioni utili e necessarie, e come un incorporarsi di esse nel mondo di fuori » 2.

È un testo umanamente significativo, ma che documenta anche la consapevolezza di Gramsci; ed è un testo che, fra l’altro, richiama una

1 M. Sp. 78.

2 L., p. 229.Eugenio Garin

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lettera di due anni prima, del 17 agosto 1931, molto importante ai fini della determinanzione « dall’intrinseco » dei momenti dello sviluppo del suo pensiero. Ricordando i tempi in cui era allievo di Umberto Cosmo dichiara che, sebbene allora non avesse «precisato la sua posizione», aveva tuttavia il senso di trovarsi su un terreno culturale comune a molti : «partecipavamo in tutto o in parte al movimento di riforma morale e intellettuale promosso in Italia da Benedetto Croce, il cui primo punto era questo, che l’uomo moderno può e deve vivere senza religione e s’intende senza religione rivelata o positiva o mitologica o come altrimenti si vuol dire. Questo punto mi pare anche oggi il maggior contributo alla cultura mondiale che abbiano dato gli intellettuali moderni italiani, mi pare una conquista civile che non deve essere perduta» \

Senza dubbio era presente qui una polemica precisa contro una delle « crisi » periodiche a cui vanno soggetti gli intellettuali italiani; dopo la Conciliazione taluni « convertiti dell’idealismo crociano e gentiliano » avevano trovato che una cattedra vai bene una messa. Eppure non era solo una polemica contingente che operava in Gramsci: egli voleva definire una volta di più un tratto permanente del proprio rapporto con Croce e col movimento culturale che a lui si richiamava. In una lettera del 6 giugno del ’32 non esiterà a dichiarare, in forma nettissima, non solo una sottile convergenza fra Croce e Gentile, ma la funzione di Croce nell’Italia fascista: «la più potente macchina» per « conformare » le forze nuove italiane agli interessi del gruppo dominante, intimamente grato, >« nonostante qualche superficiale apparenza », al non a caso sempre tollerato filosofo napoletano2. È dei Quaderni la battuta sulla più stretta parentela di Croce con i senatori Agnelli e Benni che con Platone e Aristotele; a Gramsci era sfuggito il parallelismo fra certi infelici discorsi di Gentile e la bonaria difesa crociana {maggio del ’24) delle « piogge di pugni, in certi casi utilmente e op
1 L., p. 132; cfr. M. S., p. 199 (« io ero [nel febbraio del *17} tendenzialmente piuttosto crociano»); L. V. N., p. 247 (dall’Avanti/, 21 agosto 1916): « accanto all’attività conoscitiva, che ci rende curiosi degli altri, del mondo circostante, lo spirito ha bisogno di esercitare la sua attività estetica ».

2 L., pp. 19293. Sulle « crisi » degl’intellettuali (oltre le osservazioni sul Giuliano, pubblicate in Energie Nuove, 128 febbraio 1919, ora in O. N., pp. 189192) è da rileggere, ne La città futura, « Margini », 3 : « gli uomini cercano sempre fuori di sé la ragione dei propri fallimenti spirituali... » (con quel che segue).398

Le relazioni

portunamente somministrate», o di una funzione positiva del fascismo (luglio del ’24), per la restaurazione di un più severo regime liberale nel quadro di uno Stato forte 1. Eppure, accanto all’accusa cosi cruda di una concordia nascosta fra Croce e il fascismo — « non abbracciamento da palcoscenico, ma sempre... concordia e della più intima e fattiva » — ecco come Gramsci parla della crociana religione della libertà : « Religione della libertà significa... fede nella civiltà moderna, che non ha bisogno di trascendenze e rivelazioni ma contiene in se stessa la propria razionalità e la propria origine ».

Gramsci, insomma, anche quando giunse a una posizione apertamente critica, e ormai del tutto staccata, non rinnegò mai, non solo una personale esperienza crociana, ma il valore permanente di certi temi, anche se poi « in questi fatti umani — per usare le sue parole — la concordia si presenta sempre... come una lotta e una zuffa ». E chi ricerchi, oltre gli « scarti », gli « elementi stabili e permanenti », e « il ritmo del pensiero in isviluppo... più importante delle singole affermazioni casuali o degli aforismi staccati », non potrà nascondersi un costante riferimento, e magari alla fine per combattere o rifiutare, a tutta una problematica legata a quel vario rinnovarsi della cultura italiana che si mosse intorno all’attività del Croce. Anche se poi, spesso, molto più che di Croce, dovrebbe farsi il nome del De Sanctis o del Labriola, o perfino, in sede di critica letteraria, di Renato Serra, che crociano senza

1 La Critica, XXII, 1924 (20 maggio), p. 191 : « non è detto... che la eventuale pioggia di pugni non sia, in certi casi, utilmente e opportunamente somministrata»; Pagine sparse, voi. II, Napoli 1943, p. 37179 (dal Giornale d’Italia, 27 ottobre 1923; Corriere itali[...]

[...] legata a quel vario rinnovarsi della cultura italiana che si mosse intorno all’attività del Croce. Anche se poi, spesso, molto più che di Croce, dovrebbe farsi il nome del De Sanctis o del Labriola, o perfino, in sede di critica letteraria, di Renato Serra, che crociano senza

1 La Critica, XXII, 1924 (20 maggio), p. 191 : « non è detto... che la eventuale pioggia di pugni non sia, in certi casi, utilmente e opportunamente somministrata»; Pagine sparse, voi. II, Napoli 1943, p. 37179 (dal Giornale d’Italia, 27 ottobre 1923; Corriere italiano, 1 febbraio 1924; Giornale d’italia luglio 1924). Nell’ultima intervista (luglio ’24), p. 377, si legge: «esso [fascismo] non poteva e non doveva esser altro, a mio parere, che un ponte di passaggio per la restaurazione di un più severo regime liberale, nel quadro di uno stato più forte... Poteva ben soddisfarsi della non piccola gloria di ridare tono e vigore alla vita politica italiana, cogliendo, per merito dei già combattenti, il miglior frutto della guerra... Non si poteva aspettare, e neppure desiderare, che il fascismo cadesse a un tratto. Esso è stato un infatuamento o un giochetto. Ha risposto a seri bisogni e ha fatto molto di buono, come ogni animo equo riconosce. Si avanzò col consenso e tra gli applausi della nazione... ». Nel ristampare queste pagine nel ’43 (il volume fu finito il 20 marzo del ’43) il Croce annotava : « L’autore... non intende punto sottrarsi alla taccia che... gli può essere data di facile ottimismo e di non sufficiente preveggenza politica » (cfr. N. Bobbio, Politica e cultura, Torino, 1955, p. 217 e sgg.; M. Abbate, La filosofia di Benedetto Croce e la crisi della società italiana, Torino, 1955, p. 221 sgg.).Eugenio Garin

399

dubbio non era, ma che Gramsci, in quella commossa pagina in cui pianse la morte di uno dei pochi veri uomini nuovi, uni a De Sanctis e a Croce \ Tanto riuscì a influire, anche su una ment[...]



da [Le relazioni] P. Togliatti, Gramsci e il leninismo in Studi gramsciani

Brano: Paimiro Togliatti

GRAMSCI E IL LENINISMO

Ritengo che l’ampiezza delle note che sono state distribuite, come trama di questa relazione, mi esima deH’appesantire ora il convegno con un’esposizione troppo estesa, e ciò faccio anche allo scopo di lasciare maggiore possibilità di intervento, nel dibattito, ad uomini che non siano, come me, cosi direttamente impegnati nella lotta politica.

Entrambi i relatori, all’inizio delle loro relazioni, hanno giustamente sottolineato le indicazioni che Gramsci stesso ha dato circa il metodo che si deve seguire nello studio del pensiero di chi non abbia sviluppato in modo sistematico le proprie idee, allo scopo di attribuire un giusto significato e peso ad ogni affermazione, di essere in grado di criticarla nella misura in cui deve essere criticata, e Gramsci stesso avrebbe anche aggiunto — se ci si ricorda delle osservazioni preliminari a tutti i suoi scritti dal carcere — di respingerla, se necessario, in qualche caso. Egli stesso dice, infatti, in queste osservazioni, che alcune delle affermazioni da lui fatte sono forse persino da intendere in modo contrario a come egli le ha esposte. È difficile pensare un più esplicito invito all’esame critico.

Il professor Garin, però, giustamente ha sottolineato che il ritmo del pensiero in isviluppo è più importante delle singole formulazioni. Nel trattare, però, il tema che a me è stato assegnato, « Gramsci e il leninismo », non so se questa norma sia pienamente applicabile, perché la questione si presenta, in questo caso, in un modo del tutto particolare. Anche qui esiste ed è da ricercarsi, atraverso le singole formulazioni, un ritmo del pensiero, ma questo è direttamente accompagnato, misurato, dal ritmo dell’azione, e vi è una prova pratica, che viene dal fatto che l’azione è stata compiuta, ha dato dei risultati, ha lasciato delle tracce,420

Le relazioni

e su queste tracce, che sono molto profonde, una parte della società italiana continua a lavorare. Esse non hanno soltanto un valore per chi pensa, ma per chi agisce e continua a lottare.

Non vi è dubbio che anche nello sviluppo dell’azione di Gramsci vi sono dei frammenti. Non direi, però, che questa azione possa essere,, come tale, considerata frammentaria. Vi sono stati momenti di incertezza, esitazioni, errori e correzioni di errori, e questo può indurre a considerare determinate posizioni come un frammento, da respingersi con un puro giudizio negativo. La indagine più attenta rivela che un puro giudizio negativo non può essere dato.

Vorrei servirmi, come esempio, dell’accettazione passiva, o relativamente passiva, che ad un certo punto venne fatta da Gramsci della direzione chiusa, settaria, come noi diciamo, del partito comunista nel primo periodo della esistenza di questo. Non vi è dubbio che ci troviamo, qui,, di fronte ad un errore, che lo stesso Gramsci in seguito dovette riconoscere, che egli criticò, respinse e corresse.

Però, da che cosa proveniva queU’errore? Qui si pone il problema del ritmo del pensiero e dell’azione. Credo si possa affermare che l’errore discendeva, in sostanza, dall’adesione di Gramsci a una esigenza di negazione totale di precedenti indirizzi politici, e questa esigenza non partiva da una pura critica dell’intelletto, bensì da una critica che era sgorgata dai fatti ed era quindi diventata, per l’avanguardia della classe operaia,. i.n quel momento, quello che Gramsci chiamava « senso comune », verità diffusa, generalmente accettata, sentita in modo diretto, che si cerca di realizzare nella pratica perché da essa non si può prescindere.

L’errore conteneva, cioè, un impulso di ordine passionale, di ordine morale e di ordine politico, senza il quale è probabile che il partito comunista o non si sarebbe creato o non si sarebbe creato nel modo come si creò, ricevendo anche da quell’impulso qualche cosa che nel seguito degli sviluppi risultò essere largamente positiva. È vero, ci fu un errore. Gramsci sentiva, però, che a quell’impulso si doveva aderire, per riuscire a trasformarlo in un elemento che non fosse più puramente di negazione, ma positivo, costruttivo. L’errore stette nel modo della adesione e nella rapidità della correzione; ma anche in esso troviamo un elemento di coerenza ideale e di coerenza pratica profonda.

Anche altri errori vi furono nello sviluppo dell’azione politica di Gramsci. Certo è il punto di partenza, certo il punto di, arrivo; ma traPaimiro Togliatti

421

il punto di partenza e il punto di arrivo il distacco è enorme. Il punto di partenza, mi pare abbia tentato di descriverlo Gramsci stesso in una pagina che voi trovate airinizio del volume Passato e presente, dove parla di processi vitali « ... che sono caratterizzati dal continuo tentativo di superare un modo di vivere e di pensare arretrato, come quello che era

proprio dice — di un sardo del principio del secolo, per appropriarsi

un modo di vivere e di pensare non più regio[...]

[...]zati dal continuo tentativo di superare un modo di vivere e di pensare arretrato, come quello che era

proprio dice — di un sardo del principio del secolo, per appropriarsi

un modo di vivere e di pensare non più regionale e da “ villaggio ”, ma nazionale, e tanto più nazionale, (anzi nazionale appunto per ciò) in quanto cercava di inserirsi in modi di vivere e di pensare europei, o almeno il modo nazionale confrontava con i modi europei, le necessità culturali italiane confrontava con le necessità culturali e le correnti europee (nel modo in cui ciò era possibile e fattibile nelle condizioni personali date, è vero, ma almeno secondo esigenze e bisogni fortemente sentiti in questo senso) » 1.

È evidente, qui, la nota autobiografica e la nota critica, direi persino animata da una vena di ironia, di simpatia ironica per questo sardo che avanzava sulla scena della vita nazionale e sulla scena della storia europea» di questo che egli chiamerà in un altro passo « il triplice e quadruplice provinciale » venuto dalla Sardegna all’Università di Torino e che nell’Università di Torino accoglieva quegli insegnamenti che conosciamo, e nella vita economica, politica, sociale d[...]

[...]ero, ma almeno secondo esigenze e bisogni fortemente sentiti in questo senso) » 1.

È evidente, qui, la nota autobiografica e la nota critica, direi persino animata da una vena di ironia, di simpatia ironica per questo sardo che avanzava sulla scena della vita nazionale e sulla scena della storia europea» di questo che egli chiamerà in un altro passo « il triplice e quadruplice provinciale » venuto dalla Sardegna all’Università di Torino e che nell’Università di Torino accoglieva quegli insegnamenti che conosciamo, e nella vita economica, politica, sociale della grande capitale industriale, quale allora si organizzava e si affacciava alla direzione della vita nazionale, veniva formando se stesso.

Il punto di arrivo è assai lontano da questo. È un politico di portata nazionale e internazionale il quale si è cimentato, in tutta la sua esistenza, nella conoscenza, nello studio e nella soluzione dei più gravi problemi del momento storico nazionale ed internazionale, fondatore quindi di un partito e Capo comunista, cioè uomo che esprime e realizza con la ;sua azione una tendenza, un processo che egli stesso dichiarerà che era. nelle cose e tale era effettivamente nelle cose, ma che la sua azione porta a una manifestazione più elevata, cioè educa, organizza, dirige.

Quali sono stati i fattori di questo sviluppo, per cui si passa dal « triplice e quadruplice provinciale » al Capo di un grande partito politico ed a un Capo di tale levatura, che gli avversari dovettero trattare in quel modo per toglierlo dalla scena ed essere tranquilli?

1 P., p. 3.422

Le relazioni

La ricerca è assai ampia, vi è dubbio che da essa risulta che una grande parte deve essere fatta alla tradizione politica e culturale italiane. Gramsci è un politico italiano. Si collega alle più vitali correnti del pensiero politico e deH’azione politica del nostro paese. Però questo non basta! La sola tradizione italiana non avrebbe fatto di Gramsci ciò che egli è stato come politico, e come politico nel quale non vi è più traccia del provincialismo nostrano. Alla tradizione del pensiero italiano si accompagnarono lo studio del marxismo, il contatto con la classe operaia e con la realtà della vita internazionale e nazionale quale gli apparve dai primi anni della esistenza e poi, via via, gli episodi di una lotta che si faceva sempre più aspra. In questo quadro spetta un posto a parte come fattore, io credo, decisivo, di sviluppo ideale e pratico, a Lenin e al leninismo.

Riconoscono oggi anche coloro che non aderiscono al giudizio nostro, che l’opera di Lenin ha mutato il corso della storia, ha aperto un’èra nuova nello sviluppo degli avvenimenti mondiali. Tale[...]

[...]n la realtà della vita internazionale e nazionale quale gli apparve dai primi anni della esistenza e poi, via via, gli episodi di una lotta che si faceva sempre più aspra. In questo quadro spetta un posto a parte come fattore, io credo, decisivo, di sviluppo ideale e pratico, a Lenin e al leninismo.

Riconoscono oggi anche coloro che non aderiscono al giudizio nostro, che l’opera di Lenin ha mutato il corso della storia, ha aperto un’èra nuova nello sviluppo degli avvenimenti mondiali. Tale è la realtà. L’opera di Lenin deve essere collocata, analogicamente, sullo stesso piano su cui si può collocare l’opera della Rivoluzione francese. Dopo la Rivoluzione francese il mondo cambia; cambia il modo di pensare degli uomini. Anche dopo Lenin il modo di pensare degli uomini cambia. Dopo Lenin noi pensiamo tutti in modo diverso da come pensavamo prima. Parlo dei politici, prima di tutto, ma non parlo soltanto dei politici; parlo di tutti gli uomini i quali cercano di formarsi una coscienza critica della realtà che li circonda e anche delle grandi masse umane a cui le nuove scoperte del pensiero e dell’attività creatrice degli uomini arrivano nella forma della fede o dell’informazione lontana. Non escludo, cioè, coloro che non sono politici pratici e non escludo coloro i quali non sono in grado di arrivare a una consapevolezza critica del corso degli avvenimenti. Un rivolgimento, — e questa è una delle tesi fondamentali di Gramsci — che assume un valore metafisico, quale fu la grande Rivoluzione socialista portata alla vittoria da Lenin, crea anche un nuovo « senso comune », un nuovo elemento di coscienza quasi religiosa, nuove forme di giudizio generale, una nuova fede.

Dopo Lenin noi operiamo tutti diversamente, perché abbiamo compreso in modo nuovo la realtà che sta davanti a noi, ne abbiamo penetrato la sostanza cosi come prima ancora non si era riusciti.

Ora, che cosa vi è in Lenin di fondamentalmente nuovo? Scusate se a questo punto l’esposizione, per esser rapida, dovrà essere per forzaPalmiro Togliatti

423

alquanto schematica. Vi sono in Lenin almeno tre capitoli principali, che determinano tutto lo sviluppo della azione e del pensiero : una dottrina deirimperialismo, come fase suprema del capitalismo; una dottrina della rivoluzione e quindi dello Stato, del potere e una dottrina del partito. Sono tre capitoli strettamente uniti, fusi quasi 'l’uno nell’altro, e ciascuno di essi contiene una teoria e una pratica, è il momento di una realtà effettuale in isviluppo, una dottrina, cioè, che non solo viene formulata, ma messa alla prova dei fatti, dell’esperienza storica e che nella prova dell’esperienza storica si sviluppa, abbandona posizioni che dovevano essere abbandonate, conquista posizioni muove, e crea, quindi, qualche cosa.

Lenin restituisce al marxismo questo suo carattere creativo, lo libera dalla pedanteria delle interpretazioni materialistiche, economicistiche, positivistiche delle dottrine di Carlo Marx, fa del marxismo, in questo modo, ciò che deve essere: la guida di un’azione rivoluzionaria.

Ritengo che l’apparizione e lo sviluppo del leninismo sulla scena mondiale sia stato il fattore decisivo di tutta la evoluzione di Gramsci come pensatore e come uomo politico di azione. È il fattore che determina il ritmo del movimento, dà un carattere lineare agli sviluppi ideali e pratici, consente di giustamente valutare anche gli errori, il loro valore e la critica di essi, e di inserirli in un complesso unitario.

Negli scritti giovanili di Gramsci — che è da dolere non abbiamo potuto essere pubblicati, come sarebbe stato desiderabile, prima di questa riunione 1 — è evidente una ricerca che ha un carattere ansioso e non esclude una certa confusione. L’influenza idealistica è evidente, basta prendere il numero unico La città futura, del 1917, scritto tutto da Gramsci per la parte originale, con ampie citazioni di quelli che erano allora i Maestri della filosofia idealistica. L’influenza idealistica qui non si può negare. In questo periodo dello sviluppo del pensiero di Gramsci e già — direi — precedentemente, negli anni universitari, la efficacia del pensiero idealistico si manifesta però essenzialmente in una direzione, nella spinta a ricercare e a far proprio un concetto della dialettica come sviluppo storico della realtà.

1 Negli Scritti giovanili (Torino, 1958), che uscirono pochi mesi dopo il Convegno, sono inclusi tutti gli scritti del periodo 1914’ 18 citati nel presente volume.424

Le relazioni

È vero che nelle soluzioni che vengono date anche a questo problema in questo periodo vi sono espressioni che oggi non accetteremmo. Il nesso tra la realtà e l’azione, che è la sostanza dello sviluppo storico, non è ancora cercato nella materialità del processo complessivo della storia. Ancora viene alla luce la tendenza a cercarlo soltanto nella sfera dei puri rapporti ideali, di pensiero. In pari tempo, però, a questa influenza dell’idealismo sul pensiero di Gramsci giovane si accompagna in lui uno sforzo continuo e insistente verso una indagine concreta dei rapporti economici e di classe, come trama costitutiva di tutta la società.

Non voglio ripetere cose che ho dette altre volte, rievocando le ricerche che negli anni universitari egli faceva e spingeva me stesso a fare, per esempio sulla struttura dei rapporti commerciali della Sardegna, isola, con il continente italiano, con la Francia, con altri paesi, e del rapporto che si poteva stabilire tra la modificazione di questi rapporti e fatti di ordine apparentemente assai lontano, come lo sviluppo della delinquenza, per esempio, la frequenza degli episodi di brigantaggio, la diffusione della miseria e cosi via.

Già in questo momento non vi è dubbio che questi due elementi: la efficacia dell’idealismo che spinge ad appropriarsi del concetto della storia come sviluppo, e lo sforzo nella indagine dei rapporti economici e sociali, tendono a fondersi. Essi debbono fondersi, e si fonderanno in tutto il successivo sviluppo del pensiero di Gramsci. Ma quale è l’elemento che determina la fusione? Qui interviene la esperienza storica della Rivoluzione, interviene il leninismo, intervengono il pensiero e l’azione di Lenin.

Se cerchiamo, oggi, di rievocare quelle che erano la dottrina e la propaganda del movimento socialista italiano prima di Gramsci, ci accorgiamo subito che mancava in esse un concetto fondamentale, il concetto stesso di rivoluzione. Che cos’era la rivoluzione per un socialista italiano della fine dell’ ’800, del primo decennio del ’900? Non lo sapeva! Si svolgevano interminabili dibattiti sulla differenza che potesse passare tra la semplice rivolta, l’insurrezione e una « vera », « effettiva » rivoluzione, tra un sommovimento armato e un movimento non armato e gli eventuali rapporti tra di loro. Si discuteva se uno sciopero generale potesse metter capo a una rivoluzione e questa era già, del resto, una forma più concreta della ricerca. Oppure si confondeva, identificandoli, il concetto di rivoluzione « permanente » — come ha detto uno dei relatori — conPaimiro Togliatti

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il concetto di sviluppo storico, che è un’altra cosa. Una precisa visione di che cosa fosse l'arrovesciarnento rivoluzionario dei rapporti sociali non vi era.

Vorrei ricordare una osservazione scherzosa di Gramsci, che forse consente di precisare meglio questa deficienza. È una osservazione fatta in polemica con i riformisti. Egli porta l’esempio di certe lezioni di filosofia che aveva sentito airUniversità di Torino, e rievoca il vecchio professore dell’Università che da quaranta anni si proponeva di svolgere un corso di filosofia teoretica sull’« Essere evolutivo finale». «Ogni anno incominciava una 66 scorsa ” sui precursori del sistema, e parlava di Laotsè, il vecchio^fanciullo, l’uomo nato a ottantanni, della filosofia cinese. E ogni anno ricominciava a parlare di Laotsè, perché muovi studenti erano sopraggiunti, ed anche essi dovevano erudirsi su Laotsè, per bocca del professore. E cosi 1’“ Essere evolutivo finale 99 divenne una leggenda, una evanescente chimera e l’unica realtà vivente, per gli studenti di tante generazioni, fu Laotsè, il vecchiofanciullo, il fantolino nato ad ottantanni. Cosi come succede per la lotta di classe nella vecchia Giustizia di Camillo Prampolini: anch’essa è una chimera evanescente, e ogni settimana è del vecchiofanciullo che vi si scrive, che non matura mai, che non evolve mai, che non diventa mai 1’“ Essere evolutivo finale ”, che pure si aspetterebbe dover finalmente sbocciare dopo tanta lenta evoluzione, dopo tanta perseverante opera di educazione evangelica » 1.

Cosi era per coloro che parlavano di rivoluzione, in Italia, prima di * Lenin. Mancava loro il concetto stesso di rivoluzione. Vorrei dire che anche in Antonio Labriola, se si scava a fondo, si scopre, non è dubbio, la più valida concezione che sia stata elaborata nel nostro paese della filosofia della prassi, come visione autonoma della realtà e del mondo, ma il concetto di rivoluzione non è neanche in lui direttamente unito a un’analisi precisa delle condizioni oggettive in cui si sviluppava la concreta rivoluzione italiana, la rivoluzione degli operai e dei contadini, del popolo italiano per rovesciare il corso della storia t diventarne padroni. Il Labriola, ho già avuto occasione una volta di ricordarlo e credo che del resto questa osservazione sia oggi generalmente riconosciuta valida, non riuscì a giungere al concetto deirimperialismo e questa fu la più grave deficienza dello sviluppo del suo pensiero, deficienza che spiega anche alcuni degli errati

1 II grido del popolo, Torino, 25 maggio 1918.426

Le relazioni

giudizi da lui stesso avanzati, negli ultimi anni dell’esistenza, circa la politica coloniale dell’imperialismo.

In quegli appunti che dopo una certa rielaborazione, credo, sono stati presentati come un « quarto saggio » sulla concezione materialistica della storia, con il titolo Da un secolo all’altro, Antonio Labriola affronta questo problema, il problema dell'imperialismo. La sua ricerca, egli dice, tende a « illuminare la scena attuale del mondo civile, tratteggiarla nei suoi contorni, nel suo interiore aspetto e nell’intreccio delle forze che la configurano e la sorreggono ». Sono termini che indicano tutta la consueta complessità del pensiero del Labriola. E cosi egli parla, venendo al concreto, della politica imperialistica degli Stati di quella fine di secolo, della guerra del Transvaal, della espansione della Russia nell’Asia, che rifà a rovescio l’invasione mongolica. Egli tenta quindi anche una definizione del periodo precedente. Vuol dire che cos’è il secolo che si chiude, e cosi lo definisce: «Il secolo precedente non è cominciato nel 1800, è cominciato, chissà mai, il 14 luglio 1789, o un dipresso, o come altro piaccia di datare il vertiginoso erompere dell’èra liberale. Il secolo che si chiude è 1’“ èra liberale ” ».

Ma che cosa potrà essere il secolo che si apre? Mancano, al vecchio marxista italiano, gli elementi di analisi, di dimostrazione e di convinzione che gli consentano di affermare che il secolo che si apre è l’èra del passaggio al socialismo. La sua ricerca si chiude, a questo punto, con una nota di incertezza e di sfiducia : « Noi non sappiamo — dice — dove la storia andrà a finire ». È vero che subito aggiunge una giustificazione di questa affermazione, che teoricamente è giusta; non si può fare a meno, però, di rilevare che l’incertezza e la sfiducia, che permangono, sono conseguenza della incapacità di compiere quel passo, quel salto, anzi, che Lenin compiva, quando partito da un’analisi assai più approfondita della struttura deH’economia capitalistica e nel primo periodo e nel momento del passaggio al periodo successivo, che è quello deirimperialismo, era in grado di definire con precisione il carattere dell’epoca che stava incominciando, di proclamare che era l’epoca del passaggio dal capitalismo al socialismo, dall’èra liberale all’èra socialista.

Di questa mancanza di una decisa prospettiva storica aveva sofferto, in sostanza, tutto il movimento operaio italiano, sin dagli inizi. Ne soffri particolarmente nel primo decennio del secolo, quando il movimento della classe operaia, che aveva oramai passato le prove delle classi eiePaimiro Togliatti

All

mentari, doveva affrontare le prove superiori, le prove, cioè, della organizzazione di una lotta politica la quale avesse delle prospettive rivoluzionarie precise, adeguate alla situazione di quel momento. Le lotte immediate sindacali cerano state e c’erano, amplissime, travolgenti, nell’industria e nelle campagne. Cerano pure state e cerano le lotte politiche per la libertà e contro la politica deliimperialismo. Basti rievocare l’opposizione delle avanguardie della classe operaia e delle masse contadine alla guerra di Libia. Un legame evidente, però, tra questi grandi movimenti e una lotta rivoluzionaria per il potere non lo si trovava. Questa fu la tragedia del movimento socialista italiano all’inizio del secolo. la mia critica è diretta soltanto contro le frazioni rivoluzionarie. Se si guarda ai riformisti, le cose andavano anche peggio. Neanche su un terreno riformistico, di collaborazione con gruppi borghesi, essi riuscivano a eie, varsi al di sopra delle agitazioni immediate. Questo ebbe la conseguenza che non abbandonarono il campo del movimento socialista, come invece fecero i riformisti di altri paesi. Vi rimasero, attaccati come rémore alla chiglia della nave, ma incapaci essi pure di dare a se stessi obiettivi e prospettive che fossero evidenti e chiari, e ciò dette al riformismo italiano un aspetto anche più meschino, contradditorio in se stesso e stentato che in altri luoghi.

Tutte queste erano, in sostanza, le conseguenza negative di una concezione pedantesca, mecc[...]

[...]onseguenza che non abbandonarono il campo del movimento socialista, come invece fecero i riformisti di altri paesi. Vi rimasero, attaccati come rémore alla chiglia della nave, ma incapaci essi pure di dare a se stessi obiettivi e prospettive che fossero evidenti e chiari, e ciò dette al riformismo italiano un aspetto anche più meschino, contradditorio in se stesso e stentato che in altri luoghi.

Tutte queste erano, in sostanza, le conseguenza negative di una concezione pedantesca, meccanicistica del marxismo e del processo stesso del movimento operaio. Mancava la concezione dello sviluppo storico, che non può essere inteso soltanto come evoluzione oggettiva dei rapporti economici attraverso alle trasformazioni della tecnica e aH’accrescimento delle forze produttive, sviluppo delle lotte parziali economiche e politiche dei lavoratori e a coronamento di quella evoluzione e di questo sviluppo una miracolosa catastrofe. Quella che mancava era la nozione stessa delle modificazioni e deH’arrovesciamento dei rapporti di potere nella società, della rottura del blocco storico dominante e della creazione rivoluzionaria di un blocco nuovo.

È questa nozione, invece, che Gramsci pose a fondamento di tutto il suo pensiero e di tutta la sua successiva azione. Questa fu la più grande conquista da lui realizzata.

Le difficoltà furono grandi, anche per un pensatore che aveva una inconsueta ampiezza di informazione, e una eccezionale acutezza di indagine critica. Quando si leggono le sue Note del carcere, stese da lui428

Le relazioni

senza avere a propria disposizione una biblioteca, ma soltanto la misera valigia di libri che di mese in mese la direzione carceraria gli permetteva, si ha l’impressione di una mente che si può paragonare a quella di Voltaire, universale per la conoscenza e con una intenzione, non soltanto di critica, ma quasi di aggressività in tutte le direzioni della sua conoscenza. Mai una tendenza al compromesso deteriore, ad accontentarsi della descrizione e dell’esterno. Sempre vi è la tendenza ad andare a fondo, a scoprire le contraddizioni, a farle scoppiare, in modo che venga alla luce il loro valore creativo e distruttivo allo stesso tempo. questa aggressività del pensiero contraddice al metodo, che rifugge dalle superficiali qualifiche negative e giunge alla negazione solo attraverso l’attenta ricerca del positivo che in qualsiasi posizione avversaria può esistere. Proprio per questo, però, quando distrugge lo fa nei modo più radicale, e quando sbaglia o è ancora incerto, ci rivela sempre qualcosa nuova, o ci pone sopra il giusto cammino per scoprirla.

Sono cose che risultano particolarmente evidenti quando si leggono i primi scritti di Gramsci sulla Rivoluzione russa, in parte già pubblicati, in parte non ancora. Questi scritti contengono senza dubbio anche degli errori, affermazioni che non possiamo accettare e non sono accettabili. Mi riferisco particolarmente al famoso articolo intitolato « La rivoluzione contro il “ Capitale ” » 1 dove il « Capitale » è il libro di Carlo Marx, e la rivoluzione è quella dei bolscevichi russi neH’Ottobre 1917. L’impostazione, come si vede, è errata ed errati sono alcuni giudizi. Ma da questo scritto mi pare emerga quasi un grido di liberazione del giovane Gramsci che, vedendo ciò che è avvenuto in Russia, finalmente sente che ci si può liberare dal (pesante e ingombrante involucro dell’interpretazione pedantesca, grettamente materialistica e positivistica che era stata data del pensiero di Marx in Italia, e che era stata data anche da grandi e ben noti agitatori del socialismo.

Il Capitale in Russia era diventato — si legge in questo articolo — « il libro dei borghesi, più che dei proletari. Era la dimostrazione critica della fatale necessità che in Russia si formasse una borghesia, si iniziasse un’èra capitalistica, si instaurasse una civiltà di tipo occidentale,

1 II grido del popolo, 5 gennaio 1918. Vedilo ripubblicato integralmente in Rinascita, a. XIV, n. 4, apr. 1957, pp. 146147.Paimiro Togliatti

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prima che il proletariato potesse neppure pensare alla sua riscossa, alle sue rivendicazioni di classe, alla sua rivoluzione. I fatti hanno superato le ideologie. I fatti hanno fatto scoppiare gli schemi critici entro i quali la storia della Russia avrebbe dovuto svolgersi secondo i canoni del materialismo storico ».

Qui è l’errore, ma non è di sostanza. Quella che Gramsci denuncia e respinge era stata, infatti, la falsa interpretazione che del materialismo storico avevano data i cosiddetti marxisti legali. Ma egli prosegue: « I bolscevicki rinnegano Carlo Marx, affermano con la testimonianza dell’azione esplicata, delle conquiste realizzate, che Ì canoni del materialismo storico non sono cosi ferrei come si potrebbe pensare e si è pensato... Ecco tutto... [Essi] non hanno compilato sulle opere del Maestro una dottrina esteriore, di affermazioni dogmatiche e indiscutibili. Vivono il pensiero marxista, quello che non muore mai, che è la continuazione del pensiero idealistico italiano e tedesco e che in Marx si era contaminato di incrostazioni positivistiche e naturalistiche ». Anche questa è una affermazione da noi oggi non accettabile. Non in Marx era avvenuta la contaminazione, ma nei trattatelli e opuscoli di propaganda quintessenziale, dove il pensiero marxista era stato ridotto a ciò che non era e non poteva essere.

« Questo pensiero — continua Gramsci — pone sempre come massimo fattore di storia non i fatti economici, bruti, ma l’uomo, ma le società degli uomini, degli uomini che si accostano fra di loro, si intendono fra di loro, sviluppano attraverso questi contatti (civiltà) una volontà sociale, collettiva, e comprendono i fatti economici, e li giudicano, e li adeguano alla loro volontà... Marx ha preveduto il prevedibile. Non poteva prevedere la guerra europea, o meglio non poteva prevedere che questa guerra avrebbe avuto la durata e gli effetti che ha avuto. Non poteva prevedere che questa guerra, in tre anni di sofferenze indicibili, di mis[...]

[...], e li adeguano alla loro volontà... Marx ha preveduto il prevedibile. Non poteva prevedere la guerra europea, o meglio non poteva prevedere che questa guerra avrebbe avuto la durata e gli effetti che ha avuto. Non poteva prevedere che questa guerra, in tre anni di sofferenze indicibili, di miserie indicibili, avrebbe suscitato in Russia la volontà collettiva popolare che ha suscitata ».

Ho indicato quali sono, in questo notevole scritto, alcune affermazioni errate. Ma conta la sostanza, che è, ripeto, un grido quasi di liberazione, per aver trovato alfine la necessaria guida, a liberarsi dalle interpretazioni pedantesche, grettamente materialistiche ed economistiche del marxismo. In tutti i commenti, dei successivi due o tre anni, agli avvenimenti di Russia dopo la conquista del potere, sempre meglio viene elaborato e precisato questo momento da un lato, mentre dall’altro lo studio è vólto430

Le relazioni

a cogliere il nesso tra il momento internazionale e il momento nazionale della rivoluzione. Ciò che i bolscevichi russi sono stati in grado di fare è conseguenza di una trasformazione qualitativa della situazione internazionale. La catena deirimperialismo si è rotta. Si è aperto un nuovo periodo della storia mondiale. Ma la vittoria della classe operaia e dei bolscevichi è stata possibile perché questi sono stati x migliori interpreti di tutto lo sviluppo storico della società nazionale russa di cui hanno saputo trarre, con la loro azione, le conseguenze. In questo modo viene a determinarsi la funzione nazionale della classe operaia nello sviluppo del movimento internazionale. Le condizioni stesse del mondo capitalistico, giunto alla fase dell’imperialismo, creano le premesse generali della rottura rivoluzionaria, ma in ogni paese la rottura ha le sue premesse particolari, che vengono dalla sua storia. La classe operaia è in tutto il mondo Faffossatrice del capitalismo. Questa è la sua funzione storica, nel senso più ampio della parola, ed è una funzione che si attua, concretamente, con la soluzione che essa dà ai problemi che nel paese ove essa agisce sono da risolvere. Non si possono conoscere questi problemi se non con una attenta analisi delle strutture economiche, di tutte le sovrastrutture della economia e delle influenze che le stesse sovrastrutture esercitano sopra l’economia stessa e su tutto il complesso del tessuto sociale.

Qui è l’origine dell’attenzione che Gramsci dà alla storia del Risorgimento ed a tutta la storia italiana. Egli ricerca nella storia del Risorgimento, ricerca nelle analisi sui differenti momenti della storia italiana, ricerca nell’analisi della funzione che hanno avuto gli intellettuali nella storia del nostro paese, — e che fu una funzione particolare, diversa da quella che hanno avuto altrove, — egli ricerca con questa sua molteplice indagine una definizione dei rapporti di classe della società italiana più esatta di quelle che abitualmente si sogliono dare. Continuamente attento all’azione reciproca tra la struttura dei rapporti produttivi e le sovrastrutture (politiche, militari, organizzative, ideologiche, ecc.), giunge a individuare quello che egli chiama il « blocco storico », le forze che lo dirigono e i contrasti interiori che ne determinano il movimento.

Nella prima giornata di questo Convegno si è svolto un interessante dibattito circa le affermazioni e la critica di Gramsci alle forze motrici del Rinascimento italiano per l’assenza di giacobinismo. Mi sembra però che un momento particolarmente importante non sia stato messo nellaPaimiro Togliatti

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giusta luce da chi è intervenuto su questa questione. Non è che Gramsci incolpasse i ceti borghesi di non aver fatto quello che potevano fare. Esulava dalla sua metodologia questo modo di intendere la storia. Quello che egli cerca è invece un’esatta definizione di ciò che questi ceti hanno fatto, il che gli deve servire per dare una definizione esatta della struttura della società italiana, quale esce dalla rivoluzione nazionale. si può negare che, nei momenti critici della storia, le classi dirigenti possono fare cose diverse. Lenin applicò questo criterio alla analisi dello sviluppo del capitalismo in Russia, e del modo come avrebbe potuto venire risolta, in particolare, la questione agraria, quale era posta dallo sviluppo secolare dell’economia russa, dalla sopravvivenza del regime feudale. Erano possibili due strade; quale avrebbero scelto le classi dirigenti russe? e quale strada sceglie il proletariato? La via che venne scelta dalle classi dirigenti fu l’espressione di un determinato blocco storico, nel quale ebbe un sopravvento, — e avrebbe anche potuto non averlo — il gruppo sociale dell’aristocrazia terriera, alleato in modo particolare, — e anche questa alleanza avrebbe potuto essere diversa — con il ceto capitalistico. A questo blocco storico, cui corrisponde un certo sviluppo di tutti i rapporti sociali, la classe operaia oppone la sua alleanza con le masse contadine per lottare sia contro l’autocrazia, sia contro il capitalismo e crea cosi le condizioni della sua vittoria rivoluzionaria. In questo modo si sviluppano l’analisi storica e l’azione di Lenin, e il pensiero di Gramsci si colloca sullo stesso piano.

La borghesia italiana ha preso il potere ed ha organizzato la società e lo Stato alleandosi a determinate forze e non a determinate altre. Ciò è stato conseguenza della sua natura ed è il fatto di cui bisogna tener conto. Perciò la società italiana, del Risorgimento e postrisorgimentale, ha assunto quel particolare suo carattere. Si è creato un « blocco storico », e quindi particolari condizioni in cui la classe operaia incomincia a organizzarsi, combatte, acquista coscienza di se stessa e della propria funzione e attua questa sua funzione attraverso l’azione politica del partito che la dirige. È questo processo che Gramsci cerca di definire nel modo più esatto con tutta la sua indagine politica e storica, la quale muove dalle condizioni concrete della politica e della cultura nel momento in cui egli dà inizio al proprio lavoro.

Eravamo nel primo decennio del ’900. periodo di profonda crisi nello sviluppo della società italiana. Le scelte che vennero fatte in quel periodoebbero una efficacia fatale su ciò che è avvenuto in seguito. Negli indirizzi,.432

Le relazioni

ideali e pratici che in quel periodo maturarono e presero consistenza, sono presenti i germi di parecchi dei mali che più tardi si abbatterono sopra, di noi e che non fu difficile denunciare e respingere quando si manifestarono nel ventennio fascista, ma non era facile intuire^ criticare e respingere quando si presentarono, nel loro germe, in quel periodo lontano.

Risale a quegli anni l’inizio della decomposizione del vecchio blocco politico risorgimentale. E la crisi venne dalle cose, dagli sviluppi economici che spingono il capitalismo italiano sulla via déH’imperialismo, e dal movimento delle masse. La opposizione contadina, che la Chiesa cattolica aveva cercato di organizzare, mantenere viva e dirigere, per farne la propria base di lotta contro lo Stato risorgimentale, e la nuova opposizione operaia tendono a confluire in una generale ribellione ai vecchi ordinamenti politici. Il vecchio modo di muoversi dei gruppi dirigenti borghesi, liberali di nome, di fatto conservatori e reazionari, non è più valido in questa situazione nuova e non è più valida nemmeno la formula dell’opposizione cattolica allo Stato liberale. È una formula che può rivelarsi assai pericolosa, di fronte all’avanzata del socialismo tra le masse sia operaie che contadine. Non soltanto, quindi, sono costretti a cambiar strada quelli che erano stati fino ad allora i gruppi dirigenti borghesi, ma anche i loro oppositori di parte cattolica e clericale, borghesi e reazionari anch’essi, e oramai costretti a porre al di sopra di ogni altra cosa la difesa dell’ordinamento capitalistico.

Una consapevolezza di questa crisi vi fu certamente in alcuni uomini della classe dirigente e in questo è da ricercare quell’elemento positivo nel giudizio che si deve dare dell’attività e del pensiero di Giovanni Giolitti, che Gramsci non sottolineò, e non poteva né doveva sottoli[...]

[...]nto, quindi, sono costretti a cambiar strada quelli che erano stati fino ad allora i gruppi dirigenti borghesi, ma anche i loro oppositori di parte cattolica e clericale, borghesi e reazionari anch’essi, e oramai costretti a porre al di sopra di ogni altra cosa la difesa dell’ordinamento capitalistico.

Una consapevolezza di questa crisi vi fu certamente in alcuni uomini della classe dirigente e in questo è da ricercare quell’elemento positivo nel giudizio che si deve dare dell’attività e del pensiero di Giovanni Giolitti, che Gramsci non sottolineò, e non poteva doveva sottolinearlo, perché la sua attenzione doveva essere concentrata in un’altra direzione. Nella lotta immediata che allora si conduceva, era inevitabile che l’attenzione si portasse, non su quel tanto di coscienza che vi fu in Giolitti, all’inizio del ’900, della necessità di cambiare qualche cosa degli indirizzi politici tradizionali, quanto sulla inadeguatezza delle conseguenze che egli trasse da questa coscienza e quindi sui momenti negativi della sua azione immediata. Appunto perché egli aveva voluto presentarsi con un volto nuovo, erano più gravi, scandalosi questi momenti negativi. A Giolitti, partito come l’istauratore di una nuova legalità democratica, toccò infatti il compito, non solo di perpetuare l’asservimentoPaimiro Togliatti

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delle regioni meridionali, ma di dare inizio alla nuova fase della espansione africana, e di fare il primo passo per la organizzazione di un nuovo blocco reazionario, nel quale si sarebbero finalmente dovute inserire anche le forze clericali.

In crisi era, in quel momento, anche la cultura. Sono attaccate e crollano le vecchie ideologie ottocentesche e tutta la visione della storia del nostro paese subisce una scossa profonda, ad opera di dilettanti, è vero, e non ancora di scienziati, ma in modo tale che lascia traccia profonda. È il momento — si ricordi — in cui viene diffusa ed esaltata l’opera storica, che noi oggi sappiamo come debba essere giudicata, di Alfredo Oriani. È il momento del crollo dei sistemi positivistici e del tramonto, insieme con essi, di tutta una cultura.

Come si muove Gramsci in quel momento di cosi profonda crisi? L’influenza delle nuove correnti idealistiche lo porta a respingere le volgarità delle interpretazioni positivistiche del marxismo. Egli è però, in pari tempo, agli antipodi della visione idealistica della storia e della situazione del nostro paese. Respinge con repugnanza tanto l’esasperato e ridicolo individualismo da[...]

[...]altata l’opera storica, che noi oggi sappiamo come debba essere giudicata, di Alfredo Oriani. È il momento del crollo dei sistemi positivistici e del tramonto, insieme con essi, di tutta una cultura.

Come si muove Gramsci in quel momento di cosi profonda crisi? L’influenza delle nuove correnti idealistiche lo porta a respingere le volgarità delle interpretazioni positivistiche del marxismo. Egli è però, in pari tempo, agli antipodi della visione idealistica della storia e della situazione del nostro paese. Respinge con repugnanza tanto l’esasperato e ridicolo individualismo dannunziano quanto l’esaltazione nazionalistica alla quale stavano attingendo nuovo alimento ideologico i gruppi dirigenti reazionari. Nella indagine sulla storia, sulla struttura, sulla realtà attuale della società italiana il suo pensiero si ricollega invece piuttosto ad elementi che sgorgano dalle correnti razionalistiche del pensiero politico italiano dell’Ottocento.

Dei principali esponenti di queste correnti nelle relazioni e in alcuni interventi è stato fatto il nome. Sono uomini nelle cui opere regna ancora, si deve riconoscerlo, una grande confusione per quanto riguarda l’indagine sui temi più generali, sui problemi della conoscenza, della filosofia, della metodologia della storia. Si riflette in questa confusione il carattere stentato dell’illuminismo e razionalismo italiano di quel tempo. Da alcuni, almeno, di questi pensatori era però partito un impulso, efficace e potente, alla ricerca della realtà economica e delle forme di organizzazione della società italiana, come si era storicamente formata attraverso i secoli e come si presentava all’inizio del Risorgimento. È secondo questa linea, è in questo alveo che si muove il pensiero di Gramsci. Sarebbe quindi errato considerarlo come una varietà delle concezioni indealistiche allora prevalenti, o, peggio ancora, come uno sforzo per correggere le loro esagerazioni. No! La differenza è sin dai primi passi, una profonda differenza di indi434

Le relazioni

rizzo e di qualità. Vi è in Gramsci il confluire di una visione della storia, che gli veniva dallo sviluppo della filosofia italiana nel momento in cui essa si ricollegava alle grandi scuole filosofiche tedesche del secolo precedente, ma che assorbiva una nuova linfa vitale dalla migliore tradizione delle indagini economiche e storiche dei maestri della storiografia razionalistica e positivistica. Privo di questa linfa vitale il suo pensiero non sarebbe stato quello che è; non avrebbe potuto elaborare la sua dottrina dell’alleanza della classe operaia del Nord con le masse contadine italiane, particolarmente dell’Italia meridionale, per risolvere il problema della unità del nostro paese; non avrebbe potuto dare una nuova e cosi profonda interpretazione del rapporto tra la città e la campagna nello sviluppo della storia d’Italia. Tutto il suo pensiero storiografico e politico non avrebbe potuto avere quel rigoglioso sviluppo che noi sappiamo, se non vi fosse inizialmente stata in lui la efficacia di quel filone di pensiero che abbiamo indicato, e se egli non avesse fecondato quel filone con le proprie indagini e con le proprie conclusioni.

Giusto è ricordare, come mediatore di questa efficacia, il nome di Gaetano Salvemini, per quanto la polemica di Gramsci con Salvemini sia stata continua dall’inizio della prima guerra mondiale in poi.

In Salvemini l’elemento positivo della visione storica e politica si disperdeva in frammenti. Lo sforzo di sintesi politica era d’altra parte soggetto alla influenza di elementi di ordine passionale non sempre meditati, alle volte moralistici, oppure dipendenti da una visione parziale della realtà. Ciò portò Salvemini a compiere atti politici che Gramsci non poteva non giudicare come errori, e che tali furono. Non ostante questo, Salvemini rimane un grande maestro del pensiero storico e politico italiano, da cui Gramsci molto apprese, a cui di molto egli è debitore.

È necessario però osservare, a questo punto, che relativamente ad uno degli aspetti fondamentali dell’applicazione e dello sviluppo dei leninismo, che Gramsci fece in relazione con la storia italiana e con la situazione del nostro paese, cioè nella formulazione della necessità di un’alleanza tra la classe operaia e le grandi masse lavoratrici contadine del Meridione nella lotta contro il loro nemico comune, che è il regime capitalistico e il suo Stato accentratore e tiranno, Gramsci prende le mosse dalla polemica salveminiana, ma decisamente se ne stacca nelle conclusioni. Il concetto di alleanza elaborato da Gramsci è qualitativamente diPaimiro Togliatti

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verso, dal punto cui anche Salvemini era giunto nella sua agitazione politica. Non si tratta più, infatti, di qualche cosa di strumentale. Non è che l’operaio attenda un aiuto dal contadino, e il contadino, a sua volta, dall’operaio, per combattere quel sopruso o realizzare quella rivendicazi[...]



da [I Documenti del convegno. Appunti per le relazioni e Comunicazioni] P. Togliatti, Il leninismo nel pensiero e nell'azione di A. Gramsci in Studi gramsciani

Brano: Palmiro Togliatti
IL LENINISMO
NEL PENSIERO E NELL'AZIONE DI A. GRAMSCI
(Appunti)
1. — 11 tema di questa relazione è tale che richiede una trattazione per parecchi aspetti differente da quella degli altri temi del convegno. Studiare i1 rapporto di Gramsci col leninismo significa infatti fare oggetto di indagine non soltanto le posizioni da G. elaborate e sostenute nel dibattito filosofico e di dottrina, ma la sua attività pratica, come uomo politico, fondatore e dirigente del partito di avanguardia della classe operaia italiana. La mia opinione è che questo sia, perd, il solo modo giusto di avvicinarsi all'opera di Gramsci e penetrarne il significato. G. fu un teorico della politica, ma soprattutto fu un politico pratico, cioè un combattente. La sua concezione della politica rifugge sia dalla strumentalità, sia dall'astratto moralismo o dalla elaborazione dottrinale astratta. Fare della politica significa agire per trasformare il mondo. Nella politica è quindi contenuta tutta la filosofia reale di ognuno, nella politica sta la sostanza della storia e, per il singolo che è giunto alla coscienza critica della realtà e del compito che gli spetta nella lotta per trasformarla, sta anche la sostanza della sua vita morale. Nella politica è da ricercarsi la unità della vita di A. G.: il punto di partenza e il punto di arrivo. La ricerca, il lavoro, la lotta, il sacrificio sono momenti di questa unità.
Non vi pub esser dubbio che la politica, in questo modo intesa, collocata al vertice delle attività umane, acquista carattere di scienza. Non è piú momento passionale e non è piú meschina mostra di abilità; è risultato di approfondita ricerca delle condizioni in cui si muovono
16 1 documenti del convegno
le società umane, i gruppi che le compongono e i singoli. Giunge a comprendere, e quindi a giustificare storicamente, tanto l'avanzata quanto la ritirata o l'arresto, tanto la vittoria quanto la sconfitta. Alla base di questa comprensione vi è una critica di se stessi e degli altri, che è momento di azione ulteriore.
Errato sarebbe ritenere che, cosí intesa, la politica possa chiudersi in un assieme di norme, buone per sempre e per ogni luogo. Mi sembrano quindi da criticare coloro che in questo modo trattano l'opera di Gramsci, e in particolare il contenuto dei Quaderni, sforzandosi di avvicinare artificiosamente una parte all'altra, quasi per ricavarne, se non un Vangelo, per lo meno un manuale del perfetto pensatore e uomo d'azione comunista. È certo che esiste un filo conduttore di questa opera, ma questo non si può trovare e non si trova se non nell'attività reale, che parte dai tempi della giovinezza e via via si sviluppa sino allo avvento del fascismo al potere, sino all'arresto e anche dopo.
Tutta l'opera scritta da Gramsci dovrebbe essere trattata partendo da quest'ultima considerazione, ma è compito che potrà essere assolto soltanto da chi sia tanto approfondito nella conoscenza dei momenti concreti della sua azione da riconoscere il modo come a questi momenti concreti aderisca ogni formulazione e affermazione generale di dottrina, e tanto imparziale da saper resistere alla tentazione di far prevalere false generalizzazioni dottrinarie al nesso evidente che unisce il pensiero ai fatti e movimenti reali.
Alcune tra le parti piú interessanti, ad esempio, delle sparse note raccolte col titolo di Passato e presente sono senz'altro da considerarsi pura elaborazione dei principii di strategia, di tattica e di organizzazione del partito della classe operaia affermati da Gramsci, negli anni dal 1922 in poi, in polemica e lotta contro le tendenze di infantile settarismo estremista che allora erano prevalenti nella direzione di questo partito in Italia. Tali le considerazioni sul rapporto tra spontaneità e direzione consapevole; sul centralismo organico, sul centralismo democratico e sulla disciplina; sul rapporto che passa tra il dirigere, l'organizzare e il comandare; sui rapporti tra la scienza militare e la scienza politica, e cosí via. Non escludo nemmeno che alcune di queste note — che del resto G. non sapeva se :e come avrebbero potuto giungere ai suoi compagni e allievi di un tempo — fossero dettate da preoccupazioni destate in lui da frammentarie notizie giuntegli circa
Palmiro Togliatti 17
l'orientamento e l'attività del partito comunista dopo il suo arresto, dal timore di un ritorno ai vecchi schemi settari. Al lettore attento non sarà sfuggito che, in alcuni luoghi, egli giunge sino a formulare consigli assai precisi circa il modo di organizzare l'azione direttiva del partito, di condurre l'agitazione e la propaganda, e persino circa le diverse [...]

[...]e avrebbero potuto giungere ai suoi compagni e allievi di un tempo — fossero dettate da preoccupazioni destate in lui da frammentarie notizie giuntegli circa
Palmiro Togliatti 17
l'orientamento e l'attività del partito comunista dopo il suo arresto, dal timore di un ritorno ai vecchi schemi settari. Al lettore attento non sarà sfuggito che, in alcuni luoghi, egli giunge sino a formulare consigli assai precisi circa il modo di organizzare l'azione direttiva del partito, di condurre l'agitazione e la propaganda, e persino circa le diverse sezioni in cui dovrebbe essere diviso un « Bollettino » che si preoccupi, spiegando la politica del partito, di mantenerne la continuità mediante la permanente valutazione critica del passato. Le note di Passato e presente sono del resto quasi tutte direttamente legate a quello che si potrebbe chiamare il commento politico corrente e attuale. Alcune di esse conservano il carattere dell'editoriale di un quotidiano che entri in polemica diretta con le correnti e con gli uomini che in quel momento sono attivi sulla scena nazionale.
Ma anche le altre parti dell'opera carceraria non si comprendono, nel loro aspetto politico, se non si restituisce loro l'attualità. Che cosa avveniva in Italia e nel mondo mentre G.,[...]



da [I Documenti del convegno. Appunti per le relazioni e Comunicazioni] R. Dal Sasso, Il rapporto struttura-poesia nelle note di Gramsci sul decimo canto dell'Inferno in Studi gramsciani

Brano: Rino Dal Sasso
IL RAPPORTO STRUTTURAPOESIA NELLE NOTE DI GRAMSCI SUL DECIMO CANTO DELL'INFERNO
1. Nella lettera del 26 agosto del 1929 Antonio Gramsci promette a Tatiana Schucht una « nota dantesca » a proposito di una sua « piccola scoperta » sul X canto dell'Inferno: uno spunto critico, individuato molti anni addietro, era giunto a maturazione 1.
L'interesse di Gramsci per il X canto ha, infatti, una storia non breve: lo accompagna, si può dire, lungo tutte le tappe della sua formazione intellettuale. Anche.se solo verso il 1929 esso prende corpo e si inserisce nella piú completa problematica gramsciana, con molta probabilità lo spunto risale ai tempi degli studi universitari. E non a caso, pensiamo, quando in carcere riprende l'indagine sul X canto il suo pensiero subito ricorre a Umberto Cosmo, col quale svolge un'affettuosa ma ferma polemica, al quale invia la « nota dantesca » e che vorrebbe rivedere per poter impegnare ancora qualcuna « di quelle discussioni che facevamo talvolta negli anni di guerra passeggiando di notte per le vie di Torino » 2. Appunto agli ultimi tempi della prima guerra mondiale risale il primo scritto (a nostra conoscenza) in cui Gramsci accenni esplicitamente a questa questione.
Se ne ricorda Gramsci una decina d'anni dopo la sua comparsa sull'Avanti!, in carcere: « nel 1918, in un " Sotto la mole " intitolato
1 L. C., p. 82.
2 L. C., pp. 1323.
124 1 documenti del convegno
Il cieco Tiresia è pubblicato un cenno dell'interpretazione data in queste note della figura di Cavalcante 1 ».
Lo spunto a quel corsivo era stato offerto dalla notizia che un ragazzo di un paesello delle Marche, e una fanciulla ricoverata nella Pia Casa Cottolengo, erano diventati ciechi appena dopo aver profetato che la guerra sarebbe finita entro il 1918. Non passava anno dallo scoppio della guerra, osservava Gramsci, senza che qualcuno, frate o laico, non profetasse la fine imminente del conflitto: « una profezia all'anno, una pace all'anno ». Ma in questo caso (continua Gramsci), dell'uso non certo disinteressato si è impadronito lo spirito popolare, e l'ha abbellito « della ingenua poesia che vivifica le sue creazioni spontanee. La qualità di profeta fu ricongiunta con la sventura della cecità... Il bambino di °stria, la fanciulla della Pia Casa Cottolengo, sono appunto due canti della poesia popolare: poesia, niente altro che poesia ».
Ma lo spirito popolare si ricongiunge sempre, se pure inconsciamente, a una secolare tradizione, di folklore e letteraria, nella quale « il dono della previsione è sempre connesso con l'infermità attuale del veggente, che mentre vede il futuro non vede l'immediato presente, perché cieco » z.
Ed è una connessione, nota Gramsci, che « implica un principio di pensiero di giustizia » , « compensazione ineluttabile che la natura domanda alle sue concessioni » : una enorme esperienza » umana si racchiude quindi in questo rapporto fra qualità profetiche e cecità, una esperienza che se solo « la tradizione popolare poteva riuscire a provare e concretare », raggiunge anche la poesia vera e propria, la poesia colta.
Si veda il mitico Tiresia: primo passo dell'affiorare alla cultura di questa esperienza antica e collettiva. La « limpida chiarità del suo pensiero era chiusa in un corpo opaco » : e già in questo riflette lo spirito della tradizione popolare. Egli è cieco, immediata è in lui la connessione fra profetismo e nonvisione del presente. Il suo dramma è di plastica evidenza: fisico, prima e piú che interiore. Con Cassandra e Cavalcante, invece, già si entra nel mondo della cultura: il loro dramma si è fatto intimo, individuale, anche se la tradizione popolare è pur sempre
1 L. V. N., p. 43.
2 L. V. N., p. 43.
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Rino Dal Sasso
rintracciabile: « Farinata e Cavalcante sono puniti dell'aver voluto troppo vedere nell'al di là, uscendo fuori dalla disciplina cattolica: sono puniti
con la non conoscenza del presente. Ma il dramma di questa posizione
m
è sfuggito alla critica. Farinata è ammirato per il plastico atteggiarsi
della fierezza... Cavalcante è trascurato: eppure egli è colpito a morte da una parola: egli ebbe, che gli fa credere suo figlio essere morto. Egli non conosce il presente: vede il futuro e nel futuro il figlio è morto: nel presente? Dubbio torturante, punizione tremenda in questo dubbio, dramma altissimo che si consuma in poche parole ».
2. La « nota dantesca » del '29 si trova dunque in nuce nel corsivo dell'Avanti!. Ma già allora era un punto di arrivo di una ricerca precedente e di una intuizione fruttuosa. Ma è possibile stabilire con certezza il momento in cui Gramsci comincia a interessarsi al X canto e alla questione ad esso collegata?
Gramsci stesso, sia nelle Lettere che nei Quaderni, cerca di ricostruirne la storia, dalle soglie del periodo univesitario. E ricorda che l'argomento era stato tema di discussioni « negli anni passati », mentre a proposito di uno dei problemi che, come vedremo, stanno proprio al centro dell'indagine, il problema dell'inespresso, egli si rifà al corso di storia dell'arte tenuto da Toesca nel 1912, oltre, in genere, all'autorità e all'insegnamento di Cosmo: « Ricardo che la prima volta pensai a quella interpretazione leggendo il ponderoso lavoro di Isidoro Del Lungo sulle Cronache fiorentine di Dino Compagni, dove il Del Lungo per la prima volta fissò la data della morte di Guido Cavalcanti » 1.
Si tratta dell'opera Dino Compagni e la sua Cronica (la cui terza parte era apparsa nel 1887): ma la relazione è ancora indiretta perché, come nota Gramsci, il Del Lungo non aveva collegato la datazione della morte di Guido con il X canto 2. Benché sia impossibile stabilire la data esatta della lettura gramsciana, essa è comunque anteriore al 1918. La definizione del problema si ha invece con sicurezza, sempre per ammissione di Gramsci, quand'egli può leggere La poesia di Dante di Croce.
1 L. C., p. 166.
2 L. V. N., p. 18.
126 I documenti del convegno
Quando? Anche questo è difficile stabilirlo. Tra i libri del carcere si trova la terza edizione dell'opera crociana, del 1922. A Turi il volume deve per forza essere entrato dopo il luglio del 1928, un anno prima dei primi appunti sulla questione. Ma se si tiene presente che dell'argomento egli aveva parlato in una lettera di « molto tempo » anteriore a quella citata del 26 agosto 1929, e che in quest'ultima è già ben definita la prospettiva critica dell'indagine 1, si può dedurre che il libro di Croce è stato letto nei primi tempi dell'arrivo a Turi. E certo, comunque, che tale lettura gli ha permesso di modificare la prospettiva critica precedente, spingendolo a rivedere e a riprendere l'argomento.
Si veda nella citata lettera alla cognata: « recentemente e da altro
punto di vista ripensai a questo spunto, leggendo il libro di Croce sulla poesia di Dante, dove l'episodio di Cavalcante è accennato in modo da far capire che non si tiene conto del "contrappunto" di Farinata » 2.
Fissata in tal modo la propria visuale critica, Gramsci intensifica la lettura di saggi su Dante: La vita di Dante di Cosmo, gli studi desanctisiani, articoli e scritti di Russo, del Romani, di Barbi, Morello ecc.3. Il riassunto della « nota dantesca » lo invia poi alla cognata, perché lo sottoponga al Cosmo, due anni dopo il primo annuncio, con la lettera del 21 settembre 1931. La risposta di Cosmo gli arriverà l'anno seguente e ne dà ricevuta con la lettera del 21 marzo 1932. La risposta è trascritta. nei Quaderni, insieme a una sua rapida riserva [...]

[...] Farinata » 2.
Fissata in tal modo la propria visuale critica, Gramsci intensifica la lettura di saggi su Dante: La vita di Dante di Cosmo, gli studi desanctisiani, articoli e scritti di Russo, del Romani, di Barbi, Morello ecc.3. Il riassunto della « nota dantesca » lo invia poi alla cognata, perché lo sottoponga al Cosmo, due anni dopo il primo annuncio, con la lettera del 21 settembre 1931. La risposta di Cosmo gli arriverà l'anno seguente e ne dà ricevuta con la lettera del 21 marzo 1932. La risposta è trascritta. nei Quaderni, insieme a una sua rapida riserva 4: altri problemi lo occupano e la salute sempre piú malferma lo costringe a concentrare le forze sui temi centrali della sua ricerca. Tuttavia, ancora nell'aprile del 1933, in calce a una lettera in cui descrive l'inesorabile peggiorare del male, troviamo espresso il suo desiderio di proseguire lo studio della questione collegata al X canto e richiede l'invio del « recente volumetto » di Michele Barbi: Dante Vita, fortuna, opere (e precisa: « Editore G. C. Sansoni, Firenze, 1933 »): « Non so resistere alla tentazione di avere questo lavoro, anche se non sarò in grado, ancora per qualche mese, di studiarlo » 5.
1 L. C., p. 82.
2 L. C., p. 166.
3 L. C., p. 143 e L. V. N., p. 34 passim.
A L. V. N., p. 43.
L. C., p. 224.
Rino Dal Sasso 127
Il volumetto lo ricevette e quasi certamente lo lesse, ma crediamo con certa delusione.
3. Per circa vent'anni, dunque, restò vivo l'interesse di Gramsci verso il X canto e i problemi che da esso vedeva sorgere. Amore per Dante? Non di questo si trattava. Conviene anzi chiarire subito il pensiero di Gramsci a questo proposito, perché investe un atteggiamento proprio di gran parte della cultura ufficiale e accademica negli ultimi, decenni dell'ottocento. È questo anzi un momento della polemica antipositivistica di Gramsci, condotta su una piattaforma ideale e metodologica che non è quella crociana, ma quella del marxismo; ed è un momento della sua ricerca sulla formazione dello spirito pubblico in Italia. Non pochi sono i legami con la polemica « antibrescianesca ». Ma si veda. Amore per Dante? « Chi legge Dante con amore? I professori rirnminchioniti che si fanno delle religioni di un qualche poeta o scrittore e ne celebrano degli strani riti filologici, lo penso che una persona intelligente e moderna deve leggere i classici in generale con un certo " distacco", cioè solo per i loro valori estetici, mentre 1"` amore " implica adesione al contenuto ideologico della poesia: si ama il "proprio" poeta, si "ammira" l'artista in generale. L'ammirazione estetica può essere accompagnata da un certo disprezzo "civile", come nel caso di Marx per Goethe » 1. E la distinzione fra « amore » e « ammirazione » ribadisce un anno dopo in un'altra lettera alla moglie: « io ho distinto il godimento estetico e il giudizio positivo di bellezza artistica, cioè lo stato d'animo di entusiasmo, per l'opera d'arte come tale, dall'entusiasmo morale, cioè dalla compartecipazione al mondo ideologico dell'artista, distinzione che mi pare criticamente giusta e necessaria. Posso ammirare esteticamente Guerra e Pace di Tolstoi e non condividere la sostanza ideologica del libro; sei fatti coincidessero Tolstoi sarebbe il mio vademecum, le livre de chevet. Cosí si può dire per Shakespeare per Goethe e anche per Dante » 2.
E a questo proposito corregge anche un precedente giudizio limitativo
1 L. C., p. 125.
2 L. C., p. 205.
128 I documenti del convegno
su Leopardi: il cui « pessimismo » ora non gli pare privo di carattere rivoluzionario. Leopardi, scrive, vive « in forma estremamente dramma tica la crisi di transizione verso l'uomo moderno; l'abbando[...]

[...]sei fatti coincidessero Tolstoi sarebbe il mio vademecum, le livre de chevet. Cosí si può dire per Shakespeare per Goethe e anche per Dante » 2.
E a questo proposito corregge anche un precedente giudizio limitativo
1 L. C., p. 125.
2 L. C., p. 205.
128 I documenti del convegno
su Leopardi: il cui « pessimismo » ora non gli pare privo di carattere rivoluzionario. Leopardi, scrive, vive « in forma estremamente dramma tica la crisi di transizione verso l'uomo moderno; l'abbandono critico delle vecchie concezioni trascendentali senza che ancora si sia trovato un ubi consistam morale e intellettuale nuovo... » 1.
Ma, per tornare ai nostri « dantisti », ogni volta che gli tocca di accennare alla sua « nota » Gramsci non manca di mettere in rilievo la loro vecchiaia e insussistenza culturale: ché altro non può essere un atteggiamento ammirativo e quindi una adesione a valori ideali morti da secoli. La sua polemica si concreta poi nei confronti di due rappresen tanti della « critica storica » e del dantismo ufficiale i quali, sebbene assai diversi per carattere e quanto a probità di studiosi, si incontrano non del tutto casualmente nell'insensibilità verso i valori del pensiero moderno.
Il primo è proprio Umberto Cosmo, del quale Gramsci legge in carcere La vita di Dante: « Devo dire che ne ho tratto meno soddisfazione di quanto credessi, per varie ragioni, ma specialmente perché ho avuto l'impressione che la personalità scientifica e morale del Cosmo abbia subIto un processo di disfacimento. Deve essere diventato terribilmente religioso nel senso positivo della parola » 2.
La risposta di Cosmo deve essere stata addolorata e risentita se Gramsci tiene a precisargli che non intendeva « neanche pensare un giudizio su di lui che ponesse in dubbio la sua rettitudine, la dignità del suo carattere, il suo senso del dovere ».
Il giudizio rifletteva, infatti, l'impressione che le ultime pagine del volume del Cosmo, soprattutto, avevano suscitato in lui, tanto piú che lo ricordava come un uomo moderno, schierato sulla medesima trincea della sua battaglia culturale e morale: « Mi pareva che tanto io come il Cosmo, come molti altri intellettuali del tempo (si può dire nei primi quindici anni del secolo), ci trovassimo su un terreno comune che era questo: partecipavamo in tutto o in parte al movimento di riforma morale e intellettuale promosso in Italia da Benedetto Croce, il cui primo punto era questo, che l'uomo moderno può e deve vivere
1 L. C., p. 125.
2 L. C., p. 1145.
Rino Dal Sasso 129
senza religione e si intende senza religione rivelata o positiva o mitologica o come altrimenti si vuol dire ».
Le ultime pagine della Vita di Dante di Cosmo indicano invece come il suo autore si sia allontanato di molto da quel « terreno comune » : indicano adesione a quanto di mistico vi è nel mondo dantesco e addirittura concludono con un'invocazione all'al di là. Il fatto che tali pagine siano, forse, state dettate da entusiasmo verso il « divino poeta » non nega, anzi conferma, la tesi gramsciana che l'adorazione di un classico diviene adesione al suo contenuto ideologico ed è possibile per una sostanziale debolezza ideologica e filosofica dello studioso. Come era possibile, con tale cultura pronta a ogni cedimento, riformare moralmente e intellettualmente un paese come il nostro, malato da secoli proprio di insicurezza ideale, e di profondo scetticismo? a Gramsci pareva, dun que, un caso che il vecchio professore avesse accettato di compilare, insieme a un fervente cattolico, il Gerosa, « un'antologia di scrittori latini dei primi secoli della Chiesa per una casa editrice cattolica » 1. Tutto ciò, naturalmente, non vietava a Gramsci di sottoporre al Cosmo la sua nota affinché, « come specialista in danteria », gli sappia dire se ha fatto « una falsa scoperta o se veramente meriti la pena di compilarne un contributo, una briccica da aggiungere ai milioni e milioni di tali note che sono già state scritte » 2.
Gramsci infatti, anche se lo giud[...]

[...]amsci pareva, dun que, un caso che il vecchio professore avesse accettato di compilare, insieme a un fervente cattolico, il Gerosa, « un'antologia di scrittori latini dei primi secoli della Chiesa per una casa editrice cattolica » 1. Tutto ciò, naturalmente, non vietava a Gramsci di sottoporre al Cosmo la sua nota affinché, « come specialista in danteria », gli sappia dire se ha fatto « una falsa scoperta o se veramente meriti la pena di compilarne un contributo, una briccica da aggiungere ai milioni e milioni di tali note che sono già state scritte » 2.
Gramsci infatti, anche se lo giudica malato « un po' della malattia professionale dei dantisti » 3, continua a stimare il Cosmo. La sua polemica si rivolge dunque contro una mentalità, contro un vizio proprio della cultura italiana. E anzi, per il timore di dar credito egli medesimo a tale malattia, ritrae subito anche il progetto di compilare un contributo « dantesco » : « La letteratura dantesca è cosí pletorica e prolissa che l'unica giustificazione a scrivere qualcosa in proposito [...]

[...]sci infatti, anche se lo giudica malato « un po' della malattia professionale dei dantisti » 3, continua a stimare il Cosmo. La sua polemica si rivolge dunque contro una mentalità, contro un vizio proprio della cultura italiana. E anzi, per il timore di dar credito egli medesimo a tale malattia, ritrae subito anche il progetto di compilare un contributo « dantesco » : « La letteratura dantesca è cosí pletorica e prolissa che l'unica giustificazione a scrivere qualcosa in proposito mi pare sia quella di dire qualcosa di veramente nuovo, con la maggior possibile precisione e con il minimo di parole possibili » , mentre sua intenzione, data anche l'impossibilità di profittare dell'apparato bibliografico necessario, è di scrivere qualcosa per proprio conto, « per passare il tempo » 4,
1 L. C., p. 132.
2 L. C., p. 138.
3 L. C., p. 1734.
4 L. C., p. 1734.
Rino Dal Sasso 131
pattuglia piú guerrafondaia, interventista e sciovinista: Gramsci ne parla in altra occasione, a proposito del soprannome che questo eroe si era scelto: Rastignac. E precisamente ne park là dove esamina l'origine dei nicciani italiani. Costoro, si chiede, derivano davvero la loro concezione o il loro atteggiamento nicciani dalla lettura e dalla conoscenza di Nietzsche? Sono davvero, queste concezioni «superumane », il prodotto « di una elaborazione di pensiero da porsi nella sfera della " alta cultura ", oppure [hanno) origini molto piú modeste.. per esem pio connesse con la letteratura d'appendice? »
Lo pseudonimo di questo nicciano denuncia proprio tale origine, mentre la sua mentalità curiosa e rodomontica si può documentare proprio dal volume su Dante, da Gramsci diffusamente esaminato nei Quaderni. Ci limitiamo a riassumere i tratti salienti. I1 Morello comincia affermando di essere in possesso della « debita preparazione» 2 per « leggere ed intendere la Divina Commedia, senza smarrirsi nei labirinti delle vecchie congetture, che la incompleta informazione storica e le deficiente disciplina intellettuale3 gareggiavano nel costruire e rendere inestricabili ». A Gramsci non è difficile dimostrare « che egli ha letto superficialmente lo stesso canto decimo e non ne ha compreso la lettera piú evidente » 4.
La prima tesi del Morello è che il canto decimo è « per eccellenza politico ». Al che Gramsci ribatte che « il canto decimo è politico come politica è tutta la Divina Commedia, ma non è politico per eccellenza. Ma al Morello questa affermazione fa comodo per non affaticare le meningi; poiché egli si reputa grande uomo politico e grande teorico della politica ».
La seconda perla raccolta da Gramsci è la spiegazione data dal Morello dell'impassibilità di Farinata mentre Dante e Cavalcante parlano fra di loro. Morello sostiene che Farinata resta immobile e impassibile « perché ignora la persona di Guido », « perché ignora che Guido ha stretto matrimonio con sua figlia » e perché è morto quando Guido aveva
1 L. V. N., p. 122.
2 Il corsivo è di Gramsci.
3 Il corsivo è di Gramsci.
' Tutti i brani riferiti sul Morello in L. V. N., pp. 3842. I corsivi sotto di Gramsci.
132 I documenti del convegno
sette anni. « Se è vero (continuava il Morello) che i morti non possono conoscere da sé i fatti dei vivi, ma soltanto per mezzo delle anime che
li avvicinano, o degli angeli o dei demoni, Farinata può non conoscere la s[...]

[...]eva
1 L. V. N., p. 122.
2 Il corsivo è di Gramsci.
3 Il corsivo è di Gramsci.
' Tutti i brani riferiti sul Morello in L. V. N., pp. 3842. I corsivi sotto di Gramsci.
132 I documenti del convegno
sette anni. « Se è vero (continuava il Morello) che i morti non possono conoscere da sé i fatti dei vivi, ma soltanto per mezzo delle anime che
li avvicinano, o degli angeli o dei demoni, Farinata può non conoscere la sua parentela con Guido e rimanere indifferente alle sorti di lui, se nessuna anima o nessun angelo o demone gliene abbian portata notizia. Cosa che non pare avvenuta » .
Il « brano è strabiliante », scrive Gramsci: non è infatti vero che gli eresiarchi ignorano i fatti dei vivi. Essi ignorano solo i fatti « che si approssimar e son », cioè il presente e l'immediato passato. Ma « nei personaggi di un'opera d'arte, andare a cercare le intenzioni oltre la portata della espressione letterale dello scritto... è proprio da dilettante ». Il Morello « pensa realmente alla vita concreta d'i Farinata nell'inferno oltre il canto di Dante, e pensa persino poco probabile che i demoni o gli angeli abbiano potuto, a tempo perso, informare Farinata di ciò che gli era ignoto. È la mentalità dell'uomo del popolo che quando ha letto un romanzo vorrebbe sapere che cosa hanno fatto ulteriormente tutti i personaggi »; mentalità ben adatta alle pseudonimo morellesco; e in sé non sarebbe certo gran male se non fosse accolta a braccia aperte dalla cultura ufficiale. Ma tralasciamo le altre « superficialità e contraddizioni » del Morello. Che cosa ne conclude Gramsci?
All'inizio della scheda dei Quaderni, [...]

[...]li abbiano potuto, a tempo perso, informare Farinata di ciò che gli era ignoto. È la mentalità dell'uomo del popolo che quando ha letto un romanzo vorrebbe sapere che cosa hanno fatto ulteriormente tutti i personaggi »; mentalità ben adatta alle pseudonimo morellesco; e in sé non sarebbe certo gran male se non fosse accolta a braccia aperte dalla cultura ufficiale. Ma tralasciamo le altre « superficialità e contraddizioni » del Morello. Che cosa ne conclude Gramsci?
All'inizio della scheda dei Quaderni, nello stendere lo schema della nota dantesca, scrive: « Lettura di Vincenzo Morello come corpus vile » . Il Morello è dunque un caso limite. Ma quanto accreditato lo stesso Gramsci neppure sospettava. La sua « strabiliante » conferenza è stata letta alla « Casa romana di Dante ». E se Gramsci afferma che « Rastignac conta meno che un fuscello nel mondo culturale ufficiale » 1, come, si chiede sempre Gramsci, fu permessa la lettura? Non ci vuole davvero « rnolta bravura per mostrarne l'inettitudine e la zerità». Ma intanto essa fu accolta con favore. Gramsci si domandava: « Come è stata giudicata la conferenza dai dantisti? Ne ha parlato 11 Barbi... per mostrarne la deficienza? » 2. Sí, il Barbi ne ha parlato, ma non proprio per mostrarne la deficienza. Nel volumetto che, nella lettera del 3 aprile del 1933, Gramsci chiedeva con tanto calore, egli avrebbe trovato motivo ulteriore
1 L. V. N., p. 45.
2 L. V. N., p. 45.
Rino Dal Sasso 133
di sconforto o di riso. dl Barbi infatti, proprio in quel volume, non esitava a elogiare « l'autorità del naine e l'abilità del critico », sino a definire lo scritto del Morello « lettura bella ed eloquente» 1.
Cosí, allorché scriveva che « il modo migliore di presentare questeosservazioni sul canto decimo pare debba essere proprio quello polemico, per stroncare un ,filisteo classico come Rastignac, per dimostrare, in modo drammatico e fulminante e sia pure demagogico, che i rappresentanti di un gruppo sociale subalterno possono fare le fiche, scientificamente e come gusto artistico, a ruffiani intellettuali come Rastignac »2, Gramsci trascina nella condanna una porzione non modesta né di scarso rilie[...]

[...]nte» 1.
Cosí, allorché scriveva che « il modo migliore di presentare questeosservazioni sul canto decimo pare debba essere proprio quello polemico, per stroncare un ,filisteo classico come Rastignac, per dimostrare, in modo drammatico e fulminante e sia pure demagogico, che i rappresentanti di un gruppo sociale subalterno possono fare le fiche, scientificamente e come gusto artistico, a ruffiani intellettuali come Rastignac »2, Gramsci trascina nella condanna una porzione non modesta di scarso rilievo della cultura italiana, e non solo un caso limite. Questo è il primo contenuto critico della « nota » gramsciana, che coincide con la sua. battaglia ideale, culturale e politica piú generale. Alla cultura retorica dominante per decenni nel nostro paese (e certo neppure ora, anche se travestita, scomparsa), che di Dante stesso ha fatto un mito, spesso senza comprenderlo nella lettera, una specie di icone mummificata, Gramsci contrappone la funzione rinnovatrice e moderna della classe operaia, la visione critica e scientifica di cui è portatrice.
5. Anche il crocianesimo aveva condotto una dura battaglia contro la_ « scuola storica », sulla base di una metodologia critica e dialettica. Era. logico quindi che, anche su questo terreno, Gramsci si incontrasse con_ Benedetto Croce. E comincia col chiedersi: il metodo crociano porta. a risultati migliori, anche nel caso particolare del X canto, della scuola storica? E cioè, ricostruisce con maggiore verità e aderenza il mondo, sensibile e storico del poeta, sa interpretare con maggiore rispetto il linguaggio stesso con cui si esprime? Nel caso del X canto, l'interpretazione crociana si differenzia dai precedessori? No. Come anche il De Sanctis, e come gli eruditi della scuola storica, se pure sulla base di diversi principi e metodologie, anche il Croce vede il X canto come il canto di Farinata, il canto dell'uomo di parte, del combattente politico,. la cui fierezza resta intatta nella condanna, plastica sintesi dei piú pro
1 BARBI, Dante Vita, fortuna, opere, Firenze, 1933, p. 207 passim.
2 L. V. N., p. 45. Il corsivo è nostro.
134 I documenti del convegno
fondi e autentici sentimenti di Dante. La forza con cui è rappresentato, lo sdegno che emana dalle sue parole, i caldi sentimenti di amore patrio, pongono appunto perciò la sua figura tra le piú imponenti e reali dell'Inferno. $ vero che sul finire del canto la sua parola di fuoco si illanguidisce nella anodina spiegazione del dubbio che tormenta il poeta: è trascorso, appunto, il momento creativo, è subentrata la preoccupazione pratica, il medievalismo di Dante, che deve spiegare la struttura del suo regno ultraterreno. È scomparso il poeta. Già il De Sanctis aveva notato « l'asprezza Che caratterizza il decimo canto dell'Inferno dantesco per il fatto che Farinata dopo essere stato rappresentato eroicamente nella prima parte dell'episodio, diventa nell'ultima un pedagogo » 1; ma questa asprezza era sempre parsa plausibile appunto perché il canto X è « il canto di Farinata ». Ma vediamo se veramente è cosí, se davvero è il canto in cui si svolge solo il dramma di Farinata.
Si ricordi lo svolgimento dell'episodio: incontro con Farinata, apparizione di Cavalcante, profezia di Farinata dell'esilio di Dante e infine soluzione, sempre ad opera di Farinata, del « nodo » che inviluppa la mente di Dante. Dal verso 100 al verso 108 Farinata si fa, appunto, pedagogo, come diceva De Sanctis. Oppure, per dirla con le parole di Croce, quel « che tien dietro » alla profezia dell'esilio «dettato da ragioni strutturali... non ha intima vita » 2. È davvero cosí? O piuttosto la didascalia detta da Farinata illumina e Chiarisce un dramma che si è compiuto poco prima nel volgere di un dialogo fulmineo? E questa la
piccola scoperta » di Gramsci. Al Croce (non meno che alla scuola storica) era sfuggito il significato letterale e drammatico del X canto. È sfuggito Che questo canto non contiene un dramma solo, quello di Farinata, ma due: di Farinata e di Cavalcante. E anzi è sfuggito che se non vi fosse Cavalcante mancherebbe un elemento fondamentale della struttura del poema: il sesto cerchio, infatti, risulterebbe privo della legge del contrappasso: « E strano che l'ermeneutica dantesca, pur cosí minuziosa e bizantina, non abbia mai notato che Cavalcante è il vero punito tra Lli epicurei delle arche infuocate, dico il punito di punizione immediata
1 L. C., p. 141.
2 CROCE, La poesia di Dante, Bari, 1922, pp. 8384 e passim.
Rino Dal Sasso 135
e personale e che a tale punizione Farinata partecipa strettamente, ma anche in questo caso " avendo il cielo in gran dispitto" » 1.
sfuggito, insomma, agli eruditi proprio quello che essi dovevano precisare. La loro accurata e mistica attenzione per tutto ciò che è strutturale nel poema dantesco si sarebbe dovuta preoccupare di stabilire quale dannato, nel X canto, rappresenti in atto la pena inflitta agli eresiarchi. Mentre la critica estetica doveva, per suo stesso ufficio, cogliere l'altro dramma che si compiva accanto a quello di Farinata, a questo legato letteralmente, oltre che figurativamente. Non solo è Cavalcante iI punito, e non Farinata; ma Cavalcante rappresenta in forma drammatica la legge del contrappasso, plasticamente vivendo quella punizione, esteticamente esprimendo le ragioni strutturali del canto. O, meglio ancora, il suo dramma si compie in quanto quelle ragioni strutturali esistono. Il suo dramma e quello di Farinata sono intimamente connessi con la struttura del poema. Entrambi « per avere voluto vedere nel futuro... sono privati della conoscenza delle cose terrene per un tempo determinato, cioè essi vivono in un cono d'ombra dal centro del quale vedono nel passato oltre un certo limite e vedono nel futuro oltre un altrettanto limite. Quando Dante si avvicina a loro, la posizione di Cavalcante e di Farinata è questa: essi vedono nel passato Guido vivo ma lo vedono morto nel futuro. Ma nel momento dato Guido è vivo o morto? ».
Il dramma tocca piú dappresso Cavalcante che Farinata. È appunto il suo problema, il suo dubbio. Egli pensa solo al figlio, a Guido, e « al sentir parlar fiorentino si solleva per sapere se Guido è vivo o morto in quel momento... Il dramma diretto di Cavalcante è rapidissimo, ma di una intensità indicibile. Egli subito domanda di Guido e spera che egli sia con Dante, ma quando da parte del poeta, non informato della pena, sente " ebbe ", il verbo al passato, dopo un grido straziante, " supin ricadde, e piú non parve fuori" » 2.
Farinata partecipa indir[...]

[...]ricadde, e piú non parve fuori" » 2.
Farinata partecipa indirettamente a questo dramma o, come avverte Gramsci, avendo in « gran dispitto » le stesse leggi infernali. Vi partecipa, però, per quanto lo consente la sua figura. E con molto acume, in
1 L. C., p. 141.
2 L. C., p. 142.
10.
136 .1 documenti del convegno
vagii spunti Gramsci indica il rapporto figurativo tra Farinata e Caval cante: « esplicitamente, dopo l'" ebbe ", Dante contrappone Farinata a Cavalcante nell'aspetto fisicostatuario che esprime la loro posizione morale; Cavalcante cade, si affloscia... Farinata " analiticamente " non muta aspetto muove collo piega costa ».
E vi partecipa, oltre Che figurativamente, dal punto di vista narrativo: caduto Cavalcante, Farinata profetizza l'esilio di Dante, dimostrando cosí di vedere nel futuro e non nel presente. Appunto cosí, anzi, la curiosità di Dante viene maggiormente appagata. Vi partecipa, infine, quando scioglie, con estremo distacco, il dubbio del poeta, quando gli spiega la pena a cui sono entrambi condannati. E legati sono i due drammi nel sentimento del poeta: l'esilio di Farinata non è diverso dall'esilio di Guido Cavalcanti entrambi nemici del guelfo Dante. È giusto che l'esilio di Dante sia profetizzato da lui: l'uomo di parte Farinata non è diverso dall'uomo di parte Dante, che ha costretto all'esilio e alla morte l'amico piú caro.
Per non aver colto con precisione il testo, quindi, si è perduto sia il senso generale dell'episodio sia il suo reale valore artistico. Non si è, compreso il significato medesimo dell'apparizione di Cavalcante: la critica storica fissandosi a disquisire sul disdegno » di Guido, divenuto « il centro delle ricerche di tutti i fabbricanti di ipotesi e di contributi »; la critica estetica assumendo la figura di Cavalcante per il suo contrappunto figurativo con la scultorea fermezza di Farinata, senza coglierne l'autonoma validità poetica. In realtà, conclude Gramsci, il momento strutturale del canto è profondamente collegato con quello poetico. La distinzione crociana di poesia e non poesia cade, nel concreto di un testo. Qui, ad esempio, il momento poetico non potrebbe esprimersi senza il momento strutturale: « Dante non interroga Farinata solo per " istruirsi "; egli lo interroga perché è rimasto colpito dalla scomparsa di Cavalcante. Egli vuole che gli sia sciolto il nodo che gli impedí di rispondere a Cavalcante; egli si sente in colpa dinanzi a Cavalcante. Il brano strutturale non è solo struttura, è anche poesia, è un elemento necessario del dramma che si è svolto » 1.
Dante, come già Gramsci aveva scritto nel lontano corsivo del
1 L. V. N., p. 36.
Rino Dal Sasso 137
l'Avanti!, è poeta colto: le intuizioni proprie della immaginazione popo lare in lui, per forza, tendono a complicarsi. Egli a volte suggerisce il dramma, a volte la sua poesia è difficile, come in questo canto nel quale il dramma di Cavalcante, appunto « per essere compreso, ha bisogno di riflessione, di ragionamento; che agghiaccia per la sua rapidità e intensità, ma dopo esame critico ».
A Gramsci pare dunque « che questa interpretazione leda in modo vitale la tesi del Croce su la poesia e la struttura della Divina Commedia. Senza la struttura non ci sarebbe poesia e quindi anche la struttura ha valore di poesia ».
6. Ma quali obiezioni potrebbero venir mosse all'interpretazione gramsciana e alle conclusioni che ne trae?
L'episodio di Cavalcante, risponderebbe il Croce, non ha intima vita appunto perché rinvia a qualcos'altro per essere capito. Se esso ha bisogno di una delucidazione successiva, di una didascalia, vuol dire che quel dramma non ha superato la fase della intenzionalità, non si è espresso poeticamente. E, quindi, che la fantasia di Dante in quel momento si è annebbiata e si è lasciata inaridire dalle esigenze strutturali: ragione di piú per affermare che la struttura è qualitativamente distinta dalla poesia. Farinata non ha bisogno della spiegazione strutturale per vivere poeticamente di vita propria. Cavalcante, che ne ha bisogno, non è dramma vissuto ed espresso.
L'obiezione Ylà luogo all'esame di due distinti problemi: l'episodio di Cavalcante, a sé preso, è poeticamente incompiuto per l'intervento di una inibizione di carattere pratico? e quindi, la struttura, il brano strutturale, è una sovrapposizione, un di piú, inessenziale alla vita del dramma? Risponde necessariamente a ragioni pratiche?
Quanto al primo problema, Gramsci si pone in tal modo la questione: « si tratta di una critica dell'inespresso, di una storia dell'indistinto, di una astratta ricerca di plausibili intenzioni mai diventate concreta poesia, ma di cui rimangono tracce esteriori nel meccanismo della struttura » 1.
Stabilito che la incompiutezza del dramma di Cavalcante non ha la
1 L. V. N., p. 36.
138 I documenti del convegno
medesima natura delle « rinunzie descrittive », quali spesso si incontrano nel Paradiso 1, dipende essa allora da una volontaria rinunzia a rappresentare nella sua pienezza quel dramma? È avvenuto in Dante quello che talvolta avviene nei Promessi sposi?: « come quando Renzo, dopo aver errato alla ricerca dell'Adda e del confine pensa alla treccia nera di Lucia: " ... e contemplando l'immagine di Lucia! non ci proveremo a dire cid che sentisse: il lettore conosce le circostanze: se lo figuri". Si potrebbe anche qui trattare di cercare il " figurarsi " di un dramma, conoscendone le circostanze? » 2.
Certamente no: non vi è « niente di comune tra questi modi di espressione di Dante e qualcheduno del Manzoni » 3. Quest'ultimo « si propose di non parlare dell'amore sensuale e di non rappresentarne le passioni nella loro piene[...]


successivi
Grazie ad un complesso algoritmo ideato in anni di riflessione epistemologica, scientifica e tecnica, dal termine , nel sottoinsieme prescelto del corpus autorizzato è possible visualizzare il seguente gramma di relazioni strutturali (ma in ciroscrivibili corpora storicamente determinati: non ce ne voglia l'autore dell'edizione critica del CLG di Saussure se azzardiamo per lo strumento un orizzonte ad uso semantico verso uno storicismo μετ´ἐπιστήμης...). I termini sono ordinati secondo somma della distanza con il termine prescelto e secondo peculiarità del termine, diagnosticando una basilare mappa delle associazioni di idee (associazione di ciò che l'algoritmo isola come segmenti - fissi se frequenti - di sintagmi stimabili come nomi) di una data cultura (in questa sede intesa riduttivamente come corpus di testi storicamente determinabili); nei prossimi mesi saranno sviluppati strumenti di comparazione booleana di insiemi di corpora circoscrivibili; applicazioni sul complessivo linguaggio storico naturale saranno altresì possibili.
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