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da Andrea Binazzi, Raffaele Pettazzoni in KBD-Periodici: Belfagor 1984 - 3 - 31 - numero 2

Brano: RITRATTI CRITICI DI CONTEMPORANEI

RAFFAELE PETTAZZONI

Nel 1952, quando, nei « Libri del tempo » di Laterza, usci Yltalia religiosa di Raffaele Pettazzoni furono in molti, tra i laici progressisti, a recensire e a citare il libro come un momento alto della battaglia contro il confessionalismo della Chiesa cattolica e contro l’affermarsi nella vita sociale e politica di un modo di concepire la religione che non lasciava spazi per la storia, ma tutto tendeva a risolvere in termini di autorità. Ernesto De Martino, sul « Mondo » del 14 marzo 1953, dedicò al libro un lungo articolo dove le forti riserve metodologiche e teoriche lasciavano immediatamente il campo all’apprezzamento dell’opera come « documento significativo dello sforzo compiuto da questo studioso per legare le ricerche storicoreligiose alla problematica del mondo moderno » 1. Secondo il De Martino, dagli scritti raccolti nel volume traspare la preoccupazione « che si stiano preparando giorni duri per le sorti dell’idea laica in Italia, e che quindi anche i frutti della sua [del Pettazzoni] fatica di storico delle religioni rischino di andar dispersi, o quanto meno la loro maturazione ritardata ».

Altri, come Piero Calamandrei, da una diversa angolatura, ma per linee convergenti, nel compiacersi di aver trovato nel libro del Pettazzoni la Resistenza collocata tra i momenti della storia religiosa d’Italia e nell’insistere sul carattere di « insurrezione morale » di quel moto popolare, affermava, dilatando e anche magari genericizzando l’intento dell’autore: « Religione vuol dire serietà della vita, impegno per i valori morali, coerenza tra il pensiero e l’azione: la religione non è soltanto quella che si celebra nelle cerimonie liturgiche »2.

Questo libro, insieme ai primi volumi, pressoché contemporanei, di Miti e leggende, fece conoscere il Pettazzoni anche tra il largo pubblico e

1 E. De Martino, Italia religiosa, in « Il Mondo », 14 marzo 1953, p. 4.

2 P. Calamandrei, Passato e avvenire della Resistenza, ora in Scritti e discorsi politici, voi. I, Storia di dodici anni, Firenze 1966, tomo n, p. 51.176

ANDREA BINAZZI

lo collocò decisamente tra gli intellettuali italiani impegnati a contrastare l’egemonia del clericalismo. In questo schieramento, del resto, egli si era già venuto a trovare quando, tra le famose Lettere scarlatte, fu pubblicata una sua lettera al « Mondo » scri[...]

[...]sso internazionale di storia delle religioni che la presidenza del Consiglio non giudicava opportuno si svolgesse a Roma. In quella lettera il Pettazzoni, con la consueta misura e con grande spirito di tolleranza, faceva appello alle ragioni della scienza e della cultura, ma anche a quelle del buon senso secondo le quali era ingiustificato, e perfino esagerato, pensare che un congresso intemazionale di studiosi avrebbe potuto mettere in discussione i rapporti tra Stato e Chiesa stabiliti dal Concordato e chiedeva pubblicamente, riprendendo una richiesta di Benedetto Croce, che gli oppositori esponessero le loro ragioni, se ne avevano di valide3. In quelli e negli anni successivi, fino alla morte, il Pettazzoni, oltre a proporre con sempre maggiore insistenza, anche se non senza oscillazioni, una visione storica delle religioni, partecipò attivamente alla battaglia civile per la libertà religiosa: nel 1957 fu relatore al sesto convegno degli Amici del Mondo su Stato e Chiesa, nel 1958 parlò a Roma, al Teatro Eliseo, insieme ad Arturo Carlo Jemolo, individuando nella « carenza del principio della libertà religiosa » « un segno dell’arretratezza » dell’Italia e invitando i partiti « laici di massa », sensibili « ai riflessi politici della situazione religiosa italiana», a non preoccuparsi «dei frutti senza occuparsi della radice »4. Riprendeva, in quell’intervento, il problema delle minoranze religiose non cattoliche, di fatto discriminate e private dei diritti garantiti loro dalla Costituzione, che già aveva affrontato nell’ultimo saggio delYItalia religiosa, chiuso da un’amara riflessione: « La libertà religiosa esiste ed esisterà negli Stati Uniti finché i cattolici vi sono e vi saranno in minoranza. Il giorno in cui... i cattolici saranno diventati maggioranza, allora essi, in nome delle prerogative spettanti all’unica Chiesa vera, reclameranno per sé soli il diritto alla libertà »5.

Mentre VItalia religiosa suscitò grande consenso come momento della battaglia anticlericale, come opera storica subi l’attacco dei crociani, soprattutto per il modo in cui vi era affrontata la storia religiosa dell’Italia, dominata, secondo il Pettazzoni, dal contrasto tra la « religione dell’uomo » e la « religione dello Stato » o « rel[...]

[...]lici saranno diventati maggioranza, allora essi, in nome delle prerogative spettanti all’unica Chiesa vera, reclameranno per sé soli il diritto alla libertà »5.

Mentre VItalia religiosa suscitò grande consenso come momento della battaglia anticlericale, come opera storica subi l’attacco dei crociani, soprattutto per il modo in cui vi era affrontata la storia religiosa dell’Italia, dominata, secondo il Pettazzoni, dal contrasto tra la « religione dell’uomo » e la « religione dello Stato » o « religione civica ».

3 Un congresso « non opportuno », in « Il Mondo », 19 gennaio 1952, poi in Religione e società, a cura di M. Gandini, Bologna 1966, pp. 157159.

4 Ver la libertà religiosa in Italia, poi in Religione e società, cit., p. 211.

5 Italia religiosa, Bari 1952, p. 154.RAFFAELE PETTAZZONI

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Il voler ricondurre scrive il De Martino nell’articolo citato questa storia all’antitesi fra religione dell’Uomo e religione dello Stato... il voler ricondurre la storia religiosa d’Italia a questa polarità, da ricercarsi nell’epoca dei Comuni, nel Rinascimento, nel Risorgimento e persino nella Resistenza, non ci sembra un pensiero ricco di energia storiografica, capace cioè di darci uno sviluppo unitario, ma piuttosto uno schema classificatorio a cui assegnare, non senza mortificarli, fatti disparatissimi per genesi, significato e funzione.

Era un duro attacco, ma ancor più drastico risultò il giudizio espresso dal De Martino su « Società » (xi, 1953, p. 231), dove l’opera del Pettazzoni veniva considerata priva di « legittimazione critica e metodologica ».

Dello stesso parere non si dimostrò invece Delio Cantimori in una lunga recensione pubblicata su « Belfagor » del settembre 1953, dove tracciava un profilo del Pettazzoni che riprenderà poi, più ampiamente, nel necrologio apparso nel 1960 sulla « Nuova Rivista Storica »: « Nel secondo saggio della presente raccolta, il Pettazzoni ci offre una novità molto interessante, che metteremmo volentieri, per importanza intrinseca e per il momento che segna nello svolgimento intellettuale di questo nostro grande studioso, accanto alla introduzione alla nuova edizione... di La religione nella Grecia antica. Si tratta di una serie di capitoletti intitolata Momenti della storia religiosa d'Italia »6. L’analisi del Cantimori, rapida, ma ricca di sfumature, tende soprattutto a valorizzare, al contrario di quella di De Martino, la quantità di stimoli e di suggestioni che scaturisce dalle pagine di questi capitoli, mette in guardia dal considerarle, lasciandosi magari trarre in inganno dalla semplicità espositiva, schematiche e superficiali. Coglie infine un carattere essenziale del Pettazzoni quando osserva che « la storia delle religioni, rampollante da una vena che ha percorso [...]



da Recensione di Riccardo Bruscagli a Giovanni da Pozzo, L'ambigua armonia. Studio sull'Aminta del Tasso in KBD-Periodici: Belfagor 1984 - 3 - 31 - numero 2

Brano: 248

RECENSIONI

possibilità della doppia edizione delle opere, una presso Einaudi l’altra presso Laterza, le preferenze di Croce furono per la prima, diretta dall’« azionista » Muscetta, mentre non risparmiò critiche a quella della « sua » casa editrice, che doveva essere diretta da Russo, reduce dalla Russia bolscevica, e alla quale doveva collaborare il « comunista » Ernesto Ragionieri (da questo punto di vista sono interessanti le Lettere di Benedetto Croce a Manlio Ciardo, Bologna, Li Causi Editore, 1983 1).

Il lavoro di Daniela Coli contribuisce a meglio conoscere un periodo decisivo della storia non solo intellettuale italiana, ma anche a delineare un’immagine di Croce, come anche altri epistolari mostrano, meno fiduciosa e ottimistica di quanto le grandi opere non lascino trasparire. Non negli ultimi anni della sua vita ma nel 1929, recensendo il libro del Frànkel che lo riguardava, osservò: « Si può essere, come sono io, rinserrato e stretto per ogni parte dai concetti e dalle argomentazioni che mi vietano di affermare altro che non sia il mondo della storia; e tuttavia sentirsi, come mi sento, sempre disposto ad indirizzare la vista ad altri segni che altri crede di poter additare e che rivelerebbero un altro mondo, un mondo al di sotto o al di sopra della storia e delPumanità. Le savant a Vesprit douteux ». Forse, in que&esprit douteux c’è un aspetto dell’insegnamento crociano che meriterebbe ancora di essere g[...]

[...]n altro mondo, un mondo al di sotto o al di sopra della storia e delPumanità. Le savant a Vesprit douteux ». Forse, in que&esprit douteux c’è un aspetto dell’insegnamento crociano che meriterebbe ancora di essere guardato con interesse.

Franco Martina

Giovanni Da Pozzo, L'ambigua armonia. Studio sull'Aminta del Tasso, Firenze, Olschki (Biblioteca dell,« Archivum Romanicum »), 1983, pp. 330.

Forse proprio perché enigmaticamente sigillata nella sua qualità di « portento », secondo la celebre frase carducciana tante volte replicata dal 1894 ad oggi, la « favola boschereccia » del Tasso sembra invitare senza soste a nuovi assaggi critici, compiuti con le più varie strumentazioni, al fine di carpirne lo sfuggente ‘ segreto \ Di recente ci si sono provati, fra gli altri, Varese, Fenzi, Della Terza, Guglielminetti, Mario Chieregato; dispiegando sul testo tassiano le risorse ora di una sottile ricognizione della fortuna critica, ora di un’articolata analisi interna, orientata prevalentemente in senso storicoideologico, ora di un rigoroso vaglio linguistico, e perfino statisticolessicale. È adesso la volta di Giovanni Da Pozzo, che, ricorrendo, nel corso di questo fitto volume, a diffe
1 Per tale pubblicazione Alda Croce ha scritto poco fa in « Rivista di studi crociani », gennaiomarzo 1983: «Quanto poi ai tagli opportuni nel rendere pubbliche corrispondenze private, voglio riferirmi alle lettere a Manlio Ciardo uscite quest’anno. Se l’editore si fosse rivolto a noi come doveva, avremmo chiesto di omettere alcuni giudizi su amici con i quali erano sorti contrasti, giudizi nella sostanza già noti dalle opere a stampa, ma che in quella forma epistolare impaziente ed eccessiva erano senz’altro da escludere. Queste decisioni, appunto, spettano agli “eredi” ».RECENSIONI

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renziate tecniche di attacco, circuisce YAminta da più lati, ora ripercorrendo le coordinate essenziali della storia politica e sociale di Ferrara nel Cinquecento, ora soffermandosi sul contesto più propriamente culturale in cui la mirabile favola si formò, ora dando spazio alla genealogia delle fonti, da quelle propriamente teatrali a quelle egloghistiche, ora sfruttando le resultanze del lavoro filologico compiuto dagli specialisti (specie dal Sozzi, benemerito editore del teatro tassiano), ora infine applicandosi ad una lettura interna òe\Y Aminta, sezionata in una minuta paragrafatura che accoglie sia osservazioni di carattere strutturale (su Lo statuto dei personaggi, per esempio), sia di ordine linguistico (sul Vocabolario, sulla Sintassi, su vari effetti di lessico) e metrico (Sequenze strutturali e ritmiche), sia rivolte alle più vistose filiazioni del linguaggio (Virgilianismi, Dantismi, Petrarchismi, Mimesi varia) o al rapporto di scambio con gli altri testi tassiani coevi (Circolazione interna ai testi tassiani). manca una finale serie di schede sulla fortuna teatrale della favola, sulle sue varie traduzioni in lingue straniere, i suoi adattamenti musicali e le più famose regie, da quella dei comici Gelosi a quella modernissima di Giancarlo Cobelli.

Sarebbe evidentemente fuori luogo chiedersi se un così considerevole spiegamento di batterie riesca poi ad espugnare davvero la fragile grazia delYAminta, viene voglia di osservare, semmai, che l’adozione di un reticolo così vasto, e dalle maglie di tanto diversa grandezza, finisce col tradire proprio l’elusività caratteristica di quest’opera, elusività che non è evidentemente da fraintendere con un supposto quid metafisico inerente all’opera d’arte in sé, ma dipende invece dalla ricca, forse troppo ricca molteplicità di significati sottesa a questo capolavoro tassiano. Dipende, innanzitutto, dalla sua strategica postazione cronologica, in quel 1573 che vide il poeta lavorare sui tre tavoli della pastorale, del Galealto, della Gerusalemme; e poi dai modi allusivi con cui il paesaggio umano e il décor della corte si specchiano e si implicano nel testo; e, di seguito, dalla sua stessa reticenza nei confronti dell’illustre famiglia delle pastorali ferraresi, alla cui tutela il sottotitolo di « favola boschereccia » sembra volere discretamente sfuggire, evitando le definizioni (egloga, satira, pastorale, tragicommedia) che l’erudita scena estense aveva già conosciuto, e di cui aveva fatto puntuale, aristotelica dissezione... Ed è proprio all’interno di una simile folla di concrete questioni, tuttora largamente inevase nonostante la recente « saturazione di proposte critiche » riconosciuta dal Da Pozzo, che sembra legittimo valutare questo Studio sull'Aminta. In tal senso ci pare che, pur non potendo se non assentire di fronte alla duplice direttiva, storica e linguisticostilistica, seguita dal critico, pure alcuni nodi rimangano irrisolti; o, per meglio dire, alcune pur preventivamente denunciate lacune finiscano con l’assumere evidente rilievo, pure all’interno di un così impegnato sforzo critico. Per esempio, è pur vero che un « esame concreto del linguaggio dellyAminta », analiticamente condotto, « può rivelare pienamente la sua utilità anche prima che la sistemazione delle Rime venga fissata in tutta la sua compattezza », ma rimane altrettanto vero che l’impaccio derivante dal non potersi avvalere di un’edizione critica delle Rime è reale e che, a posteriori, ad analisi 4 interna ’250

RECENSIONI

compiuta, si sente pur sempre la nostalgia dell 'altro lavoro che ancora attende, e che Caretti indicava come necessario fino dal 1942. Non a caso alcune delle pagine più convincenti del Da Pozzo sono proprio quelle sulla Circolazione interna ai testi tassiani, giacché non soltanto di utilizzare le Rime si tratterebbe, ma di fare luce sul Tasso, integralmente inteso, del 1573, ovvero su un delicato crocevia stilistico e formale si, ma poi anche intellettuale e poetico in senso largo. Allo stesso modo, è vero che si può legittimamente applicare un poco di sordina al lavoro sulle fonti, e che può essere lodevole resistere alla « tentazione di ripercorrere la folta rassegna delle pastorali che precedono nel tempo quella tassiana »; ma è anche vero che gli argini del genere letterario sono pur sempre praticabili con profitto, se non altro per la loro capacità di guidare alPinterno di almeno alcuni delicati congegni della favola tassiana, lungo la strada ben solida di un dibattito intellettuale certo difficile e sfumato, ma ormai anche attendibilmente storicizzabile.

In conclusione, il meglio del libro di Da Pozzo mi sembra che vada colto non nella proposta di tesi critiche risolutive, ma proprio nella miriade di singole osservazioni che Passiduo lavoro sul testo riesce a spremere: e che, proprio in quanto miriade, sfuggono evidentemente al resoconto d’ogni più scrupoloso recensore. Ma, almeno, vanno qui ricordate le indicazioni circa la politica culturale di Alfonso n, « più attenta... alPeffimero che alPistituzionale », specchio di una corte non tanto in crisi, ma già quasi svuotata, calvinianamente ‘ inesistente ’; Pintuizione molto felice di un Tasso « intellettuale disorganico », fatalmente destinato ad uno scontro col duca proprio sul terreno dell'idea di corte, « fatta di pragma e di prestigio » per il principe, idea « assolutizzata » invece per il suo poeta; il rapporto istituito fra PAminta e le Conclusioni amorose, ovvero le postille che ad esse preludono, apposte dal Tasso in margine al Trattato dell3amore humano di Flaminio Nobili; le pagine assai convincenti sui virgilianismi e sui petrarchismi, oppure sulla funzionalità del settenario, legato si ai momenti di intensificazione dell’effetto lirico, ma anche visto nella sua ‘ teatralità ’, in rapporto ad « una varietà di ritmo e di movenze che segue l’alternarsi dei momenti della vicenda »; il paragrafo sulla Dispersività lessicale, che sembra fermare nel dato statistico la ricchezza di sfumature e di tonalità pur presenti nell’apparente semplicità della favola e del suo mondo ideologico. Si che non si può, alla fine, non essere d’accordo con le conclusioni dell’autore, che per primo sentirebbe arrivato il momento, nel suo lavoro, di un « commento analitico e cursorio »: Punico che in effetti renderebbe giustizia alla sua assidua lettura, ricomponendo la varietà di una assai frastagliata proposta critica lungo il filo sinuoso, ma reso adesso forse più afferrabile, della portentosa « favola boschereccia » del Tasso.

Riccardo Bruscagli



da Recensione di Remo Ceserani su Francesco Orlando, freudiano del «misanthrope» e due scritti teorici, Torino, Einaudi, 1979, pp. 248 in KBD-Periodici: Belfagor 1980 - maggio - 31 - numero 3

Brano: RECENSIONI
FRANCESCO ORLANDO, Lettura freudiana del « Misanthrope » e due scritti teorici, Torino, Einaudi, 1979, pp. 248.
Questo è il terzo libro di Orlando, su una stessa linea di ricerca. Prima c'è stata la Lettura freudiana della « Phèdre » (1971), poi, come prima riflessione teorica sulla esperienza interpretativa compiuta, Per una teoria freudiana della letteratura (1973). Questo nuovo libro ha al centro una nuova esperienza interpretativa, su un'opera letteraria di genere diverso, la Lettura freudiana del «Misanthrope ». La precede, sotto forma di Introduzione, l'ampia intervista su Psicanalisi e letteratura pubblicata nello « Yearbook of Italian Studies » di Montreal del 197375: non piú solo riflessioni dell'autore, ma confronto con le domande di chiarimento, gli stimoli e i dubbi di due fini studiosi di teoria letteraria come Antonio D'Andrea e Dante Della Terza (si tenga presente che all'intervista originaria sono qui aggiunte alcune interessanti integrazioni). Segue, sotto forma di Appendice, la risposta che Orlando diede, con il titolo Su teoria della letteratura e divisione del lavoro intellettuale, alla recensione di Elio Benevelli al suo libro teorico intitolata Su letteratura, psicanalisi e marxismo, pubblicate, l'una e l'altra, in « Strumenti critici », rispettivamente nel giugno 1975 e nel febbraio 1976.
Dirò anzitutto che cosa ha significato e che cosa significa per me la ricerca di Orlando. Sono per professione studioso di storia della critica e della letteratura e della teoria di entrambe, con le inevitabili delimitazioni all'area italiana e a un numero ristretto di altre aree culturali. Vorrei, nella classificazione che fa Orlando (pp. 22338) tra chi considera la divisione del lavoro intellettuale un bene necessario, chi un bene non necessario, chi un male necessario e chi un male non necessario, vorrei potere a qualche titolo essere ascritto, insieme con lui, con Elio Benevelli e con altri che stimo, nella terza categoria, quella degli « studiosi dalle mani sporche » che « comprendono tutto il danno del trincerarsi nell'unico o nei pochi campi in cui sono competenti, non meno che tutta l'improbabilità di diventare abbastanza competenti in molti altri campi » (pp. 2267). Ritengo infatti che sia dovere di chiunque faccia il nostro mestiere non solo studiare la letteratura nella sua specificità [...]



da Taylan Ozgur, Una strage per i generali [sopratitolo: Verso la dittatura aperta in Turchia] [sottotitolo: La tragedia di Kizildere non ha ancora una sua versione credibile. Sospese le attività politiche di tutti i partiti e si annuncia una nuova «costituzione». Le tre fasi della repressione dal marzo 1971 a oggi. Crisi economico-sociale e instabilità politica] in KBD-Periodici: Rinascita 1972 - 4 - 7 - numero 14

Brano: di Taylan Ozgur
Ankara, aprile —. Il sipario è calato anche sulla commedia delle ultime apparenti « libertà » che la Turchia mostrava come facciata di comodo al mondo. Ai deputati non sono state sufficienti la vergogna e l'umiliazione della seduta del 31 marzo quando hanno recitato orrore e indignazione per il resoconto da mattinale di questura che il ministro degli Interni Serit Kubat forniva loro sulla strage dei dieci guerriglieri e dei loro tre ostaggi inglesi e canadesi. è bastato invocare a gran voce la morte « rapida e esemplare » degli oppositori in carcere. Quest'ultima prova di servilismo non ha retto alla temperie che i militari volevano creare. E così deputati e partiti sono stati mandati a casa, con l'accusa di aver favorito — loro con la finzione di un potere parlamentare inesistente — la « anarchia e la violenza ». Il presidente turco, generale Sunay, li ha licenziati, licenziando « la politica », questo « male che corrompe la Turchia »: è il colpo di Stato all'interno di un colpo di Stato già avvenuto circa un anno e mezzo fa, o meglio il punto terminale di un processo dittatoriale che ha trasformato anche la Turchia, dopo la Grecia e a fianco del Portogallo, in un paese fascista della NATO.
Alla luce di questi sviluppi la strage di Kizildere — il paesino montano in cui hanno trovato la morte i dieci guerriglieri del Gev Donc e i tre tecnici della NATO tenuti in ostaggio — assume un sinistro significato. Era necessario arrivar[...]

[...]di un colpo di Stato già avvenuto circa un anno e mezzo fa, o meglio il punto terminale di un processo dittatoriale che ha trasformato anche la Turchia, dopo la Grecia e a fianco del Portogallo, in un paese fascista della NATO.
Alla luce di questi sviluppi la strage di Kizildere — il paesino montano in cui hanno trovato la morte i dieci guerriglieri del Gev Donc e i tre tecnici della NATO tenuti in ostaggio — assume un sinistro significato. Era necessario arrivare al massacro? L'interrogativo è stato presente da sempre, sin dalle prime notizie sui fatti. Vi erano state troppe versioni governative tra il 29 e il 30 marzo. Prima si era diffusa una nota in cui si affermava che la piccola casa in cui si erano asserragliati i guerriglieri era stata da loro stessi fatta saltare, come se si celebrasse un orrendo suicidio collettivo. Poi si era detto che lè truppe e la polizia, non appena accortesi che i tre ostaggi erano stati uccisi dai guerriglieri, avevano assalito la casa uccidendo questi ultimi. Poi, terza versione, che vi erano stati co[...]

[...]troppe versioni governative tra il 29 e il 30 marzo. Prima si era diffusa una nota in cui si affermava che la piccola casa in cui si erano asserragliati i guerriglieri era stata da loro stessi fatta saltare, come se si celebrasse un orrendo suicidio collettivo. Poi si era detto che lè truppe e la polizia, non appena accortesi che i tre ostaggi erano stati uccisi dai guerriglieri, avevano assalito la casa uccidendo questi ultimi. Poi, terza versione, che vi erano stati combattimenti ravvicinati e che la casa era stata occupata corridoio per corridoio, stanza per stanza (singolare davvero! si tratta di una casetta contadina piccolissima), e che vistisi perduti i guerriglieri avevano assassinato i tre tecnici. Troppe veramente queste versioni perché godessero di una loro credibilità. Ma nessuno aveva potuto smentirle: se sopravviveva infatti una larva di Parlamento, la libertà di stampa era già morta da tempo.
Adesso però la domanda ritorna in termini drammatici: chi ha voluto il massacro di Kizildere? chi aveva interesse a provocare un. fatto di sangue destinato a sollecitare forti emozioni e utili turbamenti? La risposta è semplice, adesso; e non è difficile comprendere che guerriglieri e tecnici siano morti sotto l'intenso bombardamento delle artiglierie governative. Non è difficile comprendere che la vita dei tre tecnici della NATO poteva, essere salvata, ma nulla è stato [...]

[...]le artiglierie governative. Non è difficile comprendere che la vita dei tre tecnici della NATO poteva, essere salvata, ma nulla è stato tentato in questo senso. Si voleva un fatto drammatizzante, si voleva una di quelle occasioni clamorose (e in questo caso sanguinose) che fornissero alibi e consensi al nuovo progetto che si approntava per imprimere alla Turchia un nuovo giro di vite.
Adesso anche altre cose appaiono più chiare. Solo tre settimane fa il primo ministro Nihat Erim si era recato a Washington, e vi era stato ricevuto con particolari onori da Nixon. Il tema dell'incontro era stato la crisi cipriota, ma vi era stato anche un altro particolare tema che aveva, allora, un po' stupito. Erim aveva parlato di un complotto co munista appena stroncato e su questa base aveva ricevuto lodi per la strenua difesa delle libertà in Turchia e soprattutto nuove armi per l'esercito.
Si sa: in paesi come la Turchia tutto ciò che è opposizione democratica viene ricondotto al comunismo. Tuttavia il parlare di complotto organizzato aveva suscit[...]

[...]a Washington, e vi era stato ricevuto con particolari onori da Nixon. Il tema dell'incontro era stato la crisi cipriota, ma vi era stato anche un altro particolare tema che aveva, allora, un po' stupito. Erim aveva parlato di un complotto co munista appena stroncato e su questa base aveva ricevuto lodi per la strenua difesa delle libertà in Turchia e soprattutto nuove armi per l'esercito.
Si sa: in paesi come la Turchia tutto ciò che è opposizione democratica viene ricondotto al comunismo. Tuttavia il parlare di complotto organizzato aveva suscitato una certa sorpresa. Perché ci si chiedeva, proprio ora? a quale fine? La risposta è giunta ora. Si stava preparando — in questo caso sì, un complotto concordato con gli Stati Uniti
— il nuovo colpo di Stato. E Kizildere doveva esserne la scena madre.
Vista di qui la sequenza degli avvenimenti ha una sua logica inesorabile. Il massacro non si era ancora compiuto in quello sperduto villaggio di montagna, che già si passava a una nuova fase della repressione contro tutte le opposizioni: una « fase decisiva » come ha annunciato il governo, con l'obiettivo di « schiacciare » il malcontento e ristabilire una volta per tutte « l'or
dine ».
E' la terza delle ondate repressive. La prima fu quella che seguì immediatamente l'intervento dei militari nel marzo 1971. Quattromila furono gli oppositori di sinistra gettati nelle carceri, alcune centinaia scomparvero senza processi. La seconda seguì di qualche mese. Furono i « grandi processi antiterroristici » che coinvolsero non solo quanto era rimasto dei quadri della sinistra, ma anche il centro e oltre. Intellettuali, giornalisti, professionisti, studenti sfilarono davanti ai tribunali prendendo decine di anni di carcere per aver manifestato, per aver rivendicato la libertà, persino per cose fatte, dette e scritte prima ancora dell'intervento dei militari.
Particolare interessante. Tutti i processi furono istruiti partendo dalla tesi degli « opposti estremismi ». Estremismo venne considerato tutto ciò che era antiamericano, democratico, liberale o comunque legato ai princip; costituzionali. Scrittori e artisti come Azra Erhat, Magdalena Rufer, Yaschar Kemal, economisti come Kucukomer, intellettuali di fama come Erdal Inonu, rettore dell'università americana
— tutta l'élite del vecchio regime liberale — conobbero gli arresti e le tetre carceri delle fortezze militari.
Sono quelli i mesi in cui vengono sciolti il Partito operaio turco, la Federazione delle associazioni socialdemocratiche, in cui l'esercito viene epurato dagli elementi ritenuti infidi, e in cui qualsia[...]

[...]ra antiamericano, democratico, liberale o comunque legato ai princip; costituzionali. Scrittori e artisti come Azra Erhat, Magdalena Rufer, Yaschar Kemal, economisti come Kucukomer, intellettuali di fama come Erdal Inonu, rettore dell'università americana
— tutta l'élite del vecchio regime liberale — conobbero gli arresti e le tetre carceri delle fortezze militari.
Sono quelli i mesi in cui vengono sciolti il Partito operaio turco, la Federazione delle associazioni socialdemocratiche, in cui l'esercito viene epurato dagli elementi ritenuti infidi, e in cui qualsiasi parlamentare sospetto di non essere entusiasta del regime viene privato dell'immunità.
Tuttavia neanche questa seconda e estesa ondata repressiva riesce a risolvere i problemi aperti. Il tessuto reale di una società sottosviluppata
— dove giganteggiano le più drammatiche ingiustizie sociali e in cui domina il neocolonialismo economico, politico e militare degli Stati Uniti — si fa prepotentemente avanti. E provoca una sorta di circolo chiuso. Gli investimenti americani e tedeschi non possono per la loro natura rompere la crosta di una società in cui prevalgono rapporti sociali di produzione arretrati (siamo in generale davanti a una antica feudalità economicoreligiosa), e quindi, a un certo punto la produzione ristagna, provocando a sua volta una crisi di quegli investimenti. La recessione perciò incalza, con milioni di disoccupati e sottoccupati, con i prezzi che aumentano a un ritmo galoppante (10% al mese) e soprattutto col dilagare di acuti fenomeni di .instabilità sociale. Di qui una permanente instabilità politica, una disgregazione inarrestabile della vita politica. Un punto importante di questa crisi fu la fine dell'ottobre dello scorso anno quando Nihat Erim presentò le sue dimissioni rivelando la fragilità dei risultati conseguiti col colpo di Stato del marzo.
Da allora le cose hanno camminato ancora più in fretta di quanto gli stessi governanti pensassero. Il disagio sociale si è trasformato in esplosioni di collera che vanno da scioperi improvvisi e selvaggi ai momenti di rivolta armata di gruppi quali il Gev Donc, frutto di una esasperazione che ha radici profonde nella società turca. Il disagio politico si è tradotto in un allargamento dell'opposizione a strati e gruppi finora lontani da tutto ciò che potesse suonare offesa all'ordine costituito, e soprattutto si è tradotto nel risorgere, al di là dell'epurazione, di un'ala kemalista, del resto tradizionale, nell'esercito. Infine. La stessa composita formazione dello Stato turco ha cominciato a dar segni di crisi profonda con l'esplosione della gestione curda (10 milioni di curdi abitano la Turchia) e di altre minoranze etniche.
E' di fronte a questo dissesto economico, politico, statale e sociale che il gruppo dei militari più reazionari e più legati agli americani ha deciso per la terza volta di riprendere in modo più diretto le redini del potere. 11 paese è in effetti ingovernabile essendo arrivato al punto in cui tutte le sue contraddizioni giungono a un punto esplosivo. Per governarlo ci vorrebbero riforme profonde in tutti i settori della vita politica e economica, rivolgimenti sociali, espansione piena della democrazia, piena riconqu[...]

[...]economico, politico, statale e sociale che il gruppo dei militari più reazionari e più legati agli americani ha deciso per la terza volta di riprendere in modo più diretto le redini del potere. 11 paese è in effetti ingovernabile essendo arrivato al punto in cui tutte le sue contraddizioni giungono a un punto esplosivo. Per governarlo ci vorrebbero riforme profonde in tutti i settori della vita politica e economica, rivolgimenti sociali, espansione piena della democrazia, piena riconquista dell'indipendenza nazionale. Di fronte a questa prospettiva si sceglie ovviamente la strada opposta: un irrigidimento della dittatura. Dopo aver abolito la libertà di stampa, messo fuori legge i partiti di sinistra, distrutto l'autonomia delle università, reso dipendente il potere giudiziario, ora si passa anche alla repressione di ogni forma di vita politica. E si arriva a questo non solo perché c'è in Turchia una reazione feroce nel difendere i suoi privilegi. Vi si arriva anche perché gli Stati Uniti considerano troppo importanti le basi della NATO in Turchia.
Ma le bombe che rompono il silenzio della notte qui a Ankara, come in molte altre città turche, fanno pensare che non si tratterà di una impresa facile.
Verso la dittatura aperta in Turchia
Una strage
per i generali
La tragedia di Kizildere non ha ancora una sua versione credibile. Sospese le attività politiche di tutti i partiti e si annuncia una nuova costituzione ». Le tre fasi della repressione dal marzo 1971 a oggi. Crisi economicosociale e instabilità politica
Nelle foto: il comando di polizia che ha compiuto la strage di Kizildere; l'orrendo spettacolo della casa dopo la sparatoria



da Angelo Scagliarini, Solo ora si indaga sulla ridda di sigle dell'eversione nera [sopratitolo: i magistrati di Bologna approfondiscono la pista dell'associazione sovversiva] [sottotitolo: Dopo lo scioglimento di «Ordine nuovo» nato una miriade di gruppuscoli - ai giudici della strage tutti gli incartamenti delle inchieste di Amato sui fascisti] in KBD-Periodici: l'Unità - Nuova serie - Edizione nazionale 1980 - - agosto - 28

Brano: Dalla nostra redazione BOLOGNA — La pista dell'associazione sovversiva sta interessando sempre di più gli inquirenti di Bologna. E' questa, come si ricorderà, una delle imputazioni da cui è stato chiamato a difendersi il minore Luca De Orazi, finito in carcere anche perché ha «spontaneamente» confessato di aver compiuto una rapina a mano armata.
L'isolamento assoluto del giovane è stato interrotto solo quando a Luca De Orazi fu concesso di scrivere una lettera al genitori. La lettera è passata attraverso le maglie della censura disposta dai giudici. La rilettura di quella missiva, dopo il tuffo nella pubblicistica nera rinverdita dalla cronaca di questi giorni, induce però a pensare che l'accusa di associazione sovversiva possa in realtà, diventare la pista principale per arrivare a individuare chi ha ideato l'infame attentato di Bologna.
«Con quello schifo di strage — ha scritto Luca De Orazi ai genitori — non ho nulla a che fare... ho a che fare, con qualsiasi altro episodio, in cui vi siano stati dei morti o dei feriti». Questa ultima precisazione sta a indicare che i magistrati gli hanno mosso delle contestazioni su altri fatti nei quali ci sono stati, evidentemente, morti o feriti. Quali sono questi fatti? Se, come sembra, gli inquirenti hanno ipotizzato la sussistenza di un reato di associazione sovversiva con altri gruppi del terrorismo nero quali possuno essere i NAR (Nuclei armati rivoluzionari) e i MPR (Movimento popolare rivoluzionario) allora la risposta viene da sé. Ci si ricorda innanzi tutto, dell'assassinio del giudice Mario Amato e dei numerosi attentati che si sono verificati, anche prima di quel delitto, nella capitale e siglati Mpr o Nar. E' certo — oramai — che i magistrati della Procura bolognese hanno chiesto di potere mettere gli occhi sulle carte delle inchieste nelle quali era impegnato il collega romano. Possono dunque avere scoperto la «dottrina» della bomba.
Per quel che si sa Luca De Orazi ha vissuto a lungo nella capitale, facendosi le ossa ad avviso del «teste spontaneo» Mario Guido Naldi, diffusore e segretario di redazione del periodico "Quex", con le frange più inquiete del fascismo romano che coagula attorno a «Terza posizione», un'altra pubblicazione nera che serve di copertura a movimenti sui quali avrebbe dovuto impegnarsi da tempo la curiosità dei servizi di informazione.
I giudici bolognesi hanno richiamato anche altre carte processuali. Correva voce che abbiano posto molta attenzione a un pacco di documenti scoperti sotto una grondaia nella casa di tale Roberto Frigato, un delinquente comune di Villadose, in provincia di Ferrara il quale conviveva con un ex missino, Gianuligi Napoli, 23 anni, che proprio a motivo di quei documenti, fu processato (ma assolto per insufficienza di prove) per l'accusa di ricostituzione di «Ordine nuovo».[...]



da (Nove domande sullo stalinismo) Valdo Magnani in KBD-Periodici: Nuovi Argomenti 1956 - 5 - 1 - numero 20

Brano: VALDO MAGNANI
1. Nel secondo dopoguerra, malgrado l'immenso e legittimo prestigio dell'Unione Sovietica per il suo decisivo concorso alla vittoria, le conseguenze funeste dei metodi di Stalin apparivano sempre più gravi. La rottura della solidarietà pur viva durante la guerra — tra comunismo sovietico e socialismo occidentale, il conflitto con la Jugoslavia rivoluzionaria, la necessità di ripetuti processi terroristici nei paesi di democrazia popolare, la guerra di Corea e il conseguente riarmo dell'Occidènte sotto il . comando americano, questi ed altri fatti, come l'arretratezza di alcuni settori tecnici e culturali sovietici, erano sintomi allarmanti di una situazione che poteva volgere al peggio. Gli attuali dirigenti del PCUS, dopo la morte di Stalin, in ragione della loro ormai scoperta e diretta responsabilità, hanno presa più viva coscienza della necessità di rivedere impostazioni ormai superate e dannose. Non si sono infatti limitati a denunciare i lati negativi e persino deleteri dell'attività di Stalin, aprendo il problema storico della valutazione complessiva di uno dei più importanti personaggi del nostro tempo ma hanno denunciato la necessità di sradicare un metodo che era consolidato da una lunga prassi. Questo, mi sembra, è il significato della condanna del a culto della personalità)): la demolizione del mito di Stalin diventa il pretesto, abbastanza clamoroso da costringere i militanti a una profonda revisione delle abitudini più inveterate, per aprire una fase nuova nella vita della società sovietica.
L'offensiva intrapresa si identifica, intanto, con la richiesta di una discussione aperta nel partito e nella società in generale, discussione che deve sostituire la meccanica ripetizione dei u sacri» giudizi della personalità dominante. Una discussione seria può svolgersi solo se coloro che esprimono un'opinione diversa da quella dei dirigenti sono certi di non essere in alcun modo perseguitati per tale fatto. L'istanza. di discussione democratica sarebbe stata
86 9 DOMANDE SULLO STALINISMO
illusoria e demagogica se non fosse stata accompagnata dalla riabilitazione di coloro che erano stati condannati nel passato per aver avuto opinioni politiche diverse da quelle . del gruppo dirigente capeggiato da Stalin. L'abolizione dei procedimenti giudiziari di carattere eccezionale — senza le guarentigie fondamentali di un processo regolare — ne consegue logicamente. Ma ciò non tocca ancora il fondo delle questioni connesse col metodo staliniano che si intende colpire. Il Partito comunista, lo Stato sovietico sono fondati su dichiarazioni di democrazia sostanziale che intendono rendere concreti i principi dell'89. I singoli membri del popolo eguali — in regime borghese — secondo note espressioni di Marx, nel cielo del loro mondo politico (democrazia formale) e ineguali nell'esistenza terrestre della società divisa in classi, sono, nella società sovietica, proclamati eguali in senso pieno, nei diritti formali e nella concreta possibilità di pesare sulla gestione della società intesa nel senso piú ampio. Espropriata la classe capitalistica era impossibile, nel mondo sovietico, condannare dei cittadini per divergenze politiche poiché si sarebbero negati quei principi sui quali tutta la rivoluzione era fondata. Di qui la riduzione all'impotenza di chi contrastava le tesi del governo o in linea di fatto, mediante interventi polizieschi e amministrativi, o mediante processi, fondati su falsificazioni che dovevano documentare un tradimento, cioè la connivenza col nemico. Uno dei caratteri dello «stalinismo» consiste proprio nel ritenere necessario il potere poliziesco di fatto e la falsificazione per giungere alla fine, superati tutti gli ostacoli contingenti, ad una società aderente ai principi socialisti. L'eliminazione del (( culto della personalità », ripristinando il valore creativo delle opinioni liberamente espresse ed insistendo sulla loro necessità in opposizione alla verità indiscussa burocraticamente discendente dall'alto, si estrinseca in una necessaria eliminazione del potere arbitrario della polizia (lotta contro Beria) e in un rifiuto del metodo della falsificazione (revisione dei processi, revisione della storia, fine del mito della pregiudiziale superiorità sovietica in ogni settore).
L'offensiva antistaliniana appare dunque ad un primo esame un movimento di fondo scaturito dalla stessa società sovietica e
VALDO MAGNANI 87
tendente a ripristinare la normale funzionalità delle istituzioni esistenti, sottraendole ad un arbitrario potere concresciuto in esse — il burocratismo staliniano — attraverso alcune scosse violente partite dall'alto e l'accoglimento delle sollecitazioni democratiche f ermentanti in basso in tutti i settori, dall'agricoltura colcosiana alla tecnica e alla scienza, dalla letteratura alla vita di partito e di fabbrica. La parola d'ordine del ritorno alla legalità e all'antidogmatismo leninista permette di immettere questa ventata di aria nuova nel mondo sovietico senza violente ed impossibili soluzioni di con tinuità.
II. La prima questione che si pone é la seguente: come é stato possibile che la dottrina e le istituzioni rivoluzionarie si risolvessera in un regime fondato sul « culto della personalità » o, fuori dal linguaggio convenzionale, in un regime dittatoriale che aveva necessità di una serie di atti illegali, in senso formale rispetto alle leggi esistenti e in senso sostanziale rispetto ai principi, anche se la forma corrispondeva alla legge scritta ? La risposta a questa domanda, nel campo socialista, é fondata su una estensione temporale del momenta di eccezionalità della rivoluzione nelle condizioni particolari della Russia del 1917 e dopo, sia in considerazione della situazione interna del paese, sia in considerazione dell'atteggiamento di tutto il resto del mondo verso il primo Stato in cui i capitalisti sono stati espropriati. La necessità di intraprendere la costruzione del socialismo in un solo paese e precisamente in un paese di violentissimi contrasti di classe e quindi esplosivo (ciò che ha permesso la vittoria dei bolscevici nella rivoluzione e nella successiva guerra civile), ma grandemente arretrato nei confronti dell'occidente europeo stabilizza per un lungo [...]



da Vasco Pratolini, Una promessa di matrimonio in KBD-Periodici: Nuovi Argomenti 1953 - 7 - 1 - numero 3

Brano: UNA PROMESSA DI MATRIMONIO
Era una bambina ancora, qualche anno prima, con le trecce legate a cercine come un'educanda, e cosí gli occhi e il viso; un velo nero su quei capelli neri, al funerale del padre. Una bambina cresciuta presto, le sottane alla caviglia le conferivano intera la sua altezza, lei sorreggeva sua madre per il braccio e dava la mano al fratellino. Era l'autunno del 1897, ottobre novembre, bisognerebbe frugare nella memoria. Metello si ricordava col solino sotto il collo, il vestito della domenica, i'l cappello in mano. Tirava un gran vento, le foglie sopravanzavano il corteo lungo i viali. C'era la bandiera degli anarchici, c'era il gagliardetto rosso della prima Lega tra i muratori e loro uomini pensavano piìi ad affrontare i soldati per via di quelle bandiere (si aspettavano di vederli sbucare di crocicchio in crocicchio) che non al morto, chiuso ormai nella sua bara in testa al corteo. Non era stato un gesto loro, non una provocazione di anarchici e socialisti, ma il padre di Ersilia l'aveva chi[...]

[...] memoria. Metello si ricordava col solino sotto il collo, il vestito della domenica, i'l cappello in mano. Tirava un gran vento, le foglie sopravanzavano il corteo lungo i viali. C'era la bandiera degli anarchici, c'era il gagliardetto rosso della prima Lega tra i muratori e loro uomini pensavano piìi ad affrontare i soldati per via di quelle bandiere (si aspettavano di vederli sbucare di crocicchio in crocicchio) che non al morto, chiuso ormai nella sua bara in testa al corteo. Non era stato un gesto loro, non una provocazione di anarchici e socialisti, ma il padre di Ersilia l'aveva chiesto, dopo ch'era precipitato dall'impalcatura e prima di spirare all'ospedale. «Portatemi via con la bandiera. Viva Cafiero! D. (Cose che a ricordarle, non pare di averle vissute; e ci si stupisce a non ritrovarle sui libri di lettura). Poi aveva voluto i due figlioli al capezzale: «Ricordatevi che io, vostra madre, è come l'avessi sposata ». E lei, Ersilia: « Lo so, babbo. Erano le tue idee », e sembrava una bambina che ripetesse una lezione, ma anche una donna, la quale tranquillizzava suo padre moribondo e mentalmente, forse, di[...]

[...]a chiesto, dopo ch'era precipitato dall'impalcatura e prima di spirare all'ospedale. «Portatemi via con la bandiera. Viva Cafiero! D. (Cose che a ricordarle, non pare di averle vissute; e ci si stupisce a non ritrovarle sui libri di lettura). Poi aveva voluto i due figlioli al capezzale: «Ricordatevi che io, vostra madre, è come l'avessi sposata ». E lei, Ersilia: « Lo so, babbo. Erano le tue idee », e sembrava una bambina che ripetesse una lezione, ma anche una donna, la quale tranquillizzava suo padre moribondo e mentalmente, forse, diceva una preghiera. Metello era vicino a quel letto, e la guardava. La guardava camminare davanti a sé pochi passi, nel corteo, quando, come ci si aspettava, risuonò uno squillo di tromba e irruppe il plotone dei soldati. Volarono chepì e saltarono diversi gemelli dai solini, fu sparata in aria una scarica di fucileria. II carro funebre era scomparso, siccome la pariglia aveva preso la mano al cocchiere; l'indomani si seppe che il carro aveva urtato di fianco un omnibus a cavalli e la bara era rimasta scoperchiata al
UNA PROMESSA DI MATRIMONIO 115

vento, nel mezzo del viale. Dal tafferuglio, le sole a uscirne intatte, erano state le bandiere che gli alfieri, protetti dai compagni alla prima ondata, avevano messo in salvo ancora sventolandole, fuggendo, di lontano. Metello e qualcun altro, dovettero trascorrere la notte in guardina: il Delegato a cui erano stati consegnati, e che «non era un boja », mosche bianche ma ce n'era, ce n'é sempre state, li rilasciò all'alba, in tempo perché chi aveva da lavorare non perdesse la giornata.
Ersilia lo aspettava davanti al cantiere; non era ancora sparita dalla strada la macchia di sangue lasciatavi da suo padre. Gli andò incontro e gli porse la mano.
« Gr[...]

[...]a, in tempo perché chi aveva da lavorare non perdesse la giornata.
Ersilia lo aspettava davanti al cantiere; non era ancora sparita dalla strada la macchia di sangue lasciatavi da suo padre. Gli andò incontro e gli porse la mano.
« Grazie anche a lei per tutto, e per la colletta. Come ho detto anche agli altri, l'impresario ci ha aggiunto di suo cinquanta lire ». « Così potete tirare avanti per quanto? D.
Non era digiá più una bambina, ota se ne accorgeva; fosse o no il busto, le sporgeva il seno; il suo sguardo era triste, ma fiero.
« Speriamo fino a ché sono necessari », ella disse, ebbe un sorriso che non contrastò per nulla col suo dolore. Ed egli dové fare uno sforzo e ripetersi ch'essa era la figlia dell'anziano compagno morto sul lavoro per non guardarla in un certo modo e non sviare la conversazione.
«Una brutta nottata, in gattabuja, vero? ».
«In cinque anni di ferma che ho fatto, da soldato, ne ho macinata di cella. Ci hanno perfino lasciato i lacci e le cinture ».
Era suonata la sirena, in fretta si salutarono.
Presto, Metello si sarebbe dimenticato perfino il nome di Ersilia. Egli aveva sì «la testa alla politica» (tuttavia ce lo dovevano tirare le circostanze, e il fatto che su dodici mesi se ne lavorava ormai meno di sei) ma anche all'amore. poteva dire di essersi impegnato, appunto perché gli piaceva prendere e lasciare, «una per cantonata ». Era un bel giovane operaio, e non gli mancava la parlantina.
***
Fu per lui un brutto inverno, con nemmeno mezzo toscano nel corso di una giornata; e una primavera in cui s'incominciò e
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si lasciò in tronco un lavoro in Villamnagna. Quindi, erano accaduti i moti di quel maggio del '98 ai quali, sempre cosí fino da allora, Metello si trovò in mezzo e ne avrebbe fatto volentieri a meno. Ma uscire di casa, il martedì 6, e approvare chi gridava «pane! », fu spontaneo, come spiccia l'acqua dalla sorgente e le labbra pronunciano le parole: dopo mesi di disoccupazione, non più soltanto mezzo sigaro gli mancava, ma giusto anche per lui era questione di pane, e di fitto arretrato, di debiti da pagare, di loggione per l' Aida promesso alla fidanzata del momenta, sempre che non lo animassero degli ideali. Poi, trovarsi in prima fila, negli scontri di Piazza Vittorio, venne di conseguenza, sarebbe stato assurdo il contrario. E questa volta non se la sarebbe cavata con una notte di guardina.
La sera successiva l'arresto, erano già stati condotti al carcere e ristretti nel camerone; ci fu di certo come una tregua, un accorda tra le guardie e quelle donne che da ore vociavano dalla strada. Loro si arrampicavano a turno sulle sbarre del camerone. D'un tratto, si fece silenzio e una delle donne gridò:
«Arrestati d'ieri, ascoltatemi. Abbiamo ottenuto di potervi salutare una per volta, ma voi non rispondete se no ci mandano via con la forza. Non possiamo darvi nemmeno notizie di casa, se no dicono che c'é dell'intesa ».
I prigionieri avevano fatto gruppo sotto le sbarre, erano una trentina e la più parte l'uno all'altro sconosciuto; si mordevano la lingua per trattenere il fiato e le parole.
Incominciò, nel gran silenzio, la chiama.
((Io sono la moglie di Monsani Federigo », gridò la stessa voce. «Diteglielo se lui non ha sentito. Ghigo Monsani, sua moglie lo saluta» .
«Io sono la moglie di Baldinotti Armando. Baldinotti Armando, sono la Gina » gridò la seconda.
E la terza: «Martini Pisacane, sono tua moglie Lidia ».
«Gemignani Mariotto, sono Annita », gridò la quarta.
Nel camerone, a ogni nome, un agitarsi di teste, un improvviso vuoto nella calca perché l'uomo potesse arrampicarsi sulle sbar
UNA PROMESSA ßI MATRIMONIO 117
re, da dove tuttavia non si arrivava a vedere la strada, ma il tetto dirimpetto e le poche stelle in cielo.
« Qui c'é una vecchia che non ha abbastanza voce », tornò a gridare la moglie di Ghigó Monsani. «È la mamma di Pananti Sergio... », s'interruppe: «Pananti. Pananti Sergio, fa. il fornaio ».
Metello si teneva da un lato, siccome nessuno l'avrebbe chiamato; non certo sua madre, di cui era figlio unico, e che gli era morta prima ch'egli andasse soldato; non qualcuna delle sue belle, non ci sperava; non la signora Assunta, infine, presso la quale egli stava «a dozzina ».
« Sono la moglie di Fioravanti il tornitore. Fioravanti Giuseppe, il tornitore D.
«Giulio... Giulio Corradi », gridò una voce, si senti il pianto che la strozzava.
«Sestilio! Sono Rosina! ».
«Pantiferi Omero, sono la figliola di Pantiferi Omero. C'é anche la moglie che lo saluta ».
Ora, tra i carcerati, alla sorpresa, al primo impeto di gioia, era succeduto una tensione nervosa, resistevano sempre meno a lasciare senza risposta quei richiami, si capiva che prima o poi qualcuno avrebbe ceduto; già il grosso Monsani aveva dovuto intervenire di prepotenza con la mano sulla bocca di Corradi, il quale davvero non c'entrava con la « rivoluzione », e da due giorni piangeva, le lacrime scendevano a bagnare i suoi baffi di impiegato della Prefettura: «Attraversavo Piazza Goldoni per andare in ufficio e m'hanno preso. Non ho ancora trent'anni e la carriera rovinata. Il Generale Sani mi conosce, ho uno zio capitano, nessuno mi crede », ripeteva, né si rendeva conto ch[...]



da Roberto Guiducci, Pamphlet sul disgelo e sulla cultura di sinistra in KBD-Periodici: Nuovi Argomenti 1955 - 11 - 1 - numero 17

Brano: PAMPHLET SUL DISGELO E SULLA CULTURA DI SINISTRA
Pensavamo che le difficoltà di presentare in termini problematici la questione della cultura di sinistra e dei conseguenti suoi rapporti interni con la politica andassero in questi ultimi tempi diminuendo o addirittura disfacendosi nell'avvio alla soluzione pratica del problema stesso, nell'inizio della sua realizzazione concreta. Nella zona incerta, ed alle volte diffidente, del trapasso, pensavamo però anche che riassumere e teorizzare i vecchi discorsi poteva costituire un aiuto al passaggio, una indicazione sui modi di esso, un contatto fecondo perché ultimo, un addio positivo.
Ognuno sa come i vecchi discorsi sul « problema della cultura » portassero con sé spesso più o meno inconsciamente una sorta di tradimento: mentre si sussurrava (o si gridava) sulle necessità della cultura, queste necessità non si concorreva poi ad avvicinarle, a farle, a oggettivarle. Spesso, quanta più il discorso dichiarava la pretesa di una presenza indispensabile, tanto più la realtà si riduceva al ripiegamento, alla chiusura, all'assenza.
Cominciare a farla, dunque, questa nuova cultura di sinistra, non. prospettarla, era l'unica possibile uscita da questa vite senza fine, da questo sterile accumulare prove da parte della cultura contro un politicismo eccessivo, che si ribaltava come segno inequivocabile dell'impotenza della cultura stessa. Per questo (per parecchi amici) l'accenno conclusivo ai vecchi discorsi fu un modo di trovarci subito d'accordo, una strizzata d'occhi.
Lo scritto « Sulla dialettica politicacultura » (Nuovi Argomenti, n. 1516, 1955) non era dunque che un modo di abbreviare rapidamente la strada, di evitare, prevenendola, la presunzione di un manifesto, di fissare nella paradossalità di uno pseudomanifesto l'esperienza fatta, ed insieme la conferma che il frutto migliore di questa esperienza era la persuasione che la proposta individualistica non aveva più senso, e la
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protesta neppure, ma occorreva materializzare il problema della cultura in cultura di fatto, cominciare ad operare, anche in questo campo, la realizzazione del proprio pensiero.
Insomma, si trattava di gettar via la scala di cui (pur con la vecchia terminologia e con il vecchio modo individualistico) ci si era serviti per salire al piano superiore.
Se dunque si può dire che il primo passo é stato fatto, che le intenzioni si stanno avviando ad una traduzione in atto, che l'organizzazione della cultura di sinistra sta uscendo in qualche primo tentativo dalle affermazioni di principio di qualche intellettuale singolo per proporsi un lavoro collettivo, facciamo attenzione. Non scambiamo ancora una volta il da farsi con il già fatto, la buona volontà con il risultato, lo stimolo con il conseguimento, l'allontanarsi o il rallentarsi di ostacoli con l'averli superati. Di qui appunto prendono le mosse le pagine che seguono, che non sono altro che un « collage » di tesi sostenute in discussione con amici comunisti, socialisti e indipendenti di sinistra, somma di discorsi nati non più sul « perché e se fare », ma sul « come fare facendo ». E in questo senso (e solo in questo) il continuare a parlare della cultura di sinistra ci sembra possa trovare ancora una giustificazione.
***
Inutile dire che le sfumature delle varie posizioni sui criteri e sui modi del lavoro da compiere sono estremamente numerose e complesse, anche perché legate a problemi particolari, ad angoli di prospettiva derivanti dalle condizioni e dai caratteri della propria attività specifica.
Senza dubbio però un elemento piuttosto diffuso e comune a molti é la larghezza dell'interpretazione del disgelo, presentato a nostro avviso troppo spesso a maglie eccessivamente larghe. Così accade che la resistenza effettuata fino a poco tempo fa a questo stesso tipo di problemi, alle volte si rovesci all'improvviso nell'estremo opposto: si dà per scontata la questione del rinnovamento della cultura di sinistra ed in sostanza si afferma che le possibilità sono a portata di mano, che é, se mai, la lentezza degli intellettuali a non afferrarle.
Ma se si chiarisce con esattezza che la funzione dell'organizzazione della cultura di sinistra é quella di essere a servizio della base, di co
PAMPHLET SUL DISGFL() E SULLA CULTURA DI SINISTRA 85
glierne gli sforzi di rinnovamento potenziali, di riprenderli e restituirli in forme tecnicamente elaborate al fine di cooperare ad un continuo aggiornamento ideologico, liberamente dialettizzando con le posizioni politiche, già molti avanzano dubbi, parlano di unità del partito, di non distinzione fra intellettuale e dirigente, ecc., che sono poi tutti vecchi discorsi conservativi e giustificativi. E ben pochi intellettuali alla fine (ma esistono) sono disposti a cominciare a riconoscere a se stessi che se il lavoro di rinnovamento ideologico non é stato effettuato fino ad oggi che in misura molto modesta é anche perché molti uomini di cultura di sinistra, rimanendo ancora chiusi nell'atomismo tipico della tradizione borghese, non hanno saputo affrontarlo con strumenti nuovi. Cosicché essendo la loro attività rimasta (malgrado l'acquisizione di un metodo nuovo di ricerca, quello marxista) nonostante tutto astratta, e quindi relativamente sradicata ed inefficace, gli organi culturali di sinistra si sono trovati di conseguenza in posizione di inferiorità oggettiva nei confronti degli organi politici, attivi e mordenti nella realtà sociale.
Insomma, che la cultura di sinistra sia stata e sia relativamente inefficace tutti son pronti a dirlo (anche perché i fatti sono sufficientemente evidenti), ma ad approfondire cause precise e tracciare prospettive rigorose si é ancora assai poco inclini.
Così il disgelo rischia di confondere e slabbrare una situazione tormentata, anziché risolverla a fondo; e non possiamo nascondere una certa preoccupazione proprio quando sentiamo affermare che, se è vero che la cultura di sinistra era ben al di sotto delle necessità della lotta, la risoluzione del problema è ormai estremamente facile e, nella nuova e più duttile situazione, consiste semplicemente nell'impegno degli intellettuali stessi, che si mettano finalmente a lavorare sul serio, che occupino il loro posto, che esplichino finalmente e con concretezza il loro compito, ottenendo così i risultati necessari.
Senza prendere qui le difese degli intellettuali (difesa che su piano generale non avrebbe neppure senso) e ricordando francamente i loro, (i nostri) torti, vorremmo solo obbiettare, anche a costo di passare per cacciatori di complicazioni, che la soluzione non pile, essere così semplice così facile. essere immediato e spontaneo atto quantitativo di buona volontà, frutto passivo del disgelo (condizione se mai più
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favorevole, non, di per sé, raggiungimento di risultati). In breve, se in questi mesi si è aperta una nuova situazione politica, non pensiamo che la risoluzione del problema della cultura di sinistra ne possa costituire un semplice ed automatico corollario.
E questo perché, come vedremo, il problema non è di allargare o sbloccare qualcosa che già esiste, ma di costruire pazientemente dalle radici qualcosa di diverso.
Se facessimo rapidamente insieme un'analisi degli ultimi dieci anni di attività culturale di sinistra vedremmo che si é sempre andati dicendo nei nostri partiti che le vecchie forme della cultura dovevano essere abbandonate per altre nuove e (a differenza di quanto ora si comincia, come abbiamo visto sopra, a denunciare) che queste nuove forme erano state in definitiva realizzate, che il problema era ridotto, se mai, a rendere il lavoro culturale più efficiente, a trattare alcuni temi piuttosto che altri, ecc.
Il discorso è sempre stato dunque discorso sui contenuti particolari, ben raramente, e mai a fondo, discorso sulle forme, cioè sulla organizzazione della cultura, soprattutto nei confronti dell'organizzazione politica (1).
(1)[...]

[...]abbandonate per altre nuove e (a differenza di quanto ora si comincia, come abbiamo visto sopra, a denunciare) che queste nuove forme erano state in definitiva realizzate, che il problema era ridotto, se mai, a rendere il lavoro culturale più efficiente, a trattare alcuni temi piuttosto che altri, ecc.
Il discorso è sempre stato dunque discorso sui contenuti particolari, ben raramente, e mai a fondo, discorso sulle forme, cioè sulla organizzazione della cultura, soprattutto nei confronti dell'organizzazione politica (1).
(1) Qui conviene forse ripetere che, nel corso dello scritto, per politica e cultura di sinistra non si intendono due fatti diversi, ma due aspetti diversi di quell'unità che è l'ideologia. La differenziazione non è per contenuto od oggetto che è sempre il medesimo: la realtà economicosociale, ma per dinamica di ricerca, per modo di procedere nel proprio lavoro specifico. Se infatti per la politica l'ideologia deve essere sempre un tutto perfettamente concluso e coerente di fronte ad ogni atto, per la cultura l'ideologia è sempre il muoversi a un fine, ed i momenti del suo sviluppo possono essere anche a linee multiple, a indirizzi intrecciati, a prospettive complesse entro limiti molto articolati e vasti. L'unità dell'ideologia (quindi fra le due facce politica e culturale) non è, di conseguenza, un a a priori », ma un risultato cui sempre tendere in un processo « ad infinitum » in cui i due aspetti interagiscono dialetticamente fra loro scambiandosi, a reciproco vantaggio, i risultati via via conseguiti.
Il non rispettare i due aspetti dello svolgimento dell'ideologia significherebbe di volta in volta ridurla ad un solo termine: di qui, i casi estremi di un politicismo integrale o della pura as[...]

[...]articolati e vasti. L'unità dell'ideologia (quindi fra le due facce politica e culturale) non è, di conseguenza, un a a priori », ma un risultato cui sempre tendere in un processo « ad infinitum » in cui i due aspetti interagiscono dialetticamente fra loro scambiandosi, a reciproco vantaggio, i risultati via via conseguiti.
Il non rispettare i due aspetti dello svolgimento dell'ideologia significherebbe di volta in volta ridurla ad un solo termine: di qui, i casi estremi di un politicismo integrale o della pura astrazione.
L'equilibrio sta invece in una politica nutrita culturalmente e quindi atta all'intervento non intuitivo, ma rigoroso, ed in una cultura politicamente responsabile, e cioè determinata nelle sue possibilità d'orientamento e nelle sue scelte dalle necessità concrete della pratica.
E infine come per politica marxista si intende l'aspetto di intervento come somma
PAMPHLET SUL DISGELO E SULLA CULTURA DI SINISTRA 87
Naturalmente non abbiamo difficoltà a riconoscere che in linea di massima é vero che i partiti di sinistra non hanno mai richiesto drasticamente una adesione ed una corrispondenza totali della cultura alla loro politica. Ma non consentendo il formarsi di un luogo collettivo, specifico ed organizzato e quindi munito d'autorità, dove potesse svilupparsi la ricerca originale e spregiudicata, e di conseguenza la critica, essi hanno però favorito di fatto l'atteggiamento individualistico e l'apporto singolo, con ciò perpetuando proprio quei vizi tipici degli intellettuali, come l'atomismo e l'accademismo, che venivano così a sublimarsi in ben apprezzate e del resto comode virtù.
Ognuno di noi sa le pietose istorie degli abbecedari realistici, degli er[...]

[...] hanno però favorito di fatto l'atteggiamento individualistico e l'apporto singolo, con ciò perpetuando proprio quei vizi tipici degli intellettuali, come l'atomismo e l'accademismo, che venivano così a sublimarsi in ben apprezzate e del resto comode virtù.
Ognuno di noi sa le pietose istorie degli abbecedari realistici, degli erbari lysenkiani, della « tsitatcina » o citomania dei classici, ecc.
E certamente non accenniamo qui a, questa parte negativa per riportare a galla penose situazioni che riteniamo chiaramente abbandonate (2), ma per rendere esplicito come da un determinato tipo di orga
di tutti gli interventi a tutti i livelli, così per cultura marxista non s'intende solo l'aspetto dell'alta cultura, ma anche quello delle competenze specifiche e particolari a qualsiasi livello, come andremo più avanti meglio chiarendo.
L'accento del discorso cade sugli intellettuali solo e proprio in quanto strumenti responsabili di elaborazione della cultura, come i dirigenti di partito lo sono per l'elaborazione della politica, senza con c[...]

[...] riteniamo chiaramente abbandonate (2), ma per rendere esplicito come da un determinato tipo di orga
di tutti gli interventi a tutti i livelli, così per cultura marxista non s'intende solo l'aspetto dell'alta cultura, ma anche quello delle competenze specifiche e particolari a qualsiasi livello, come andremo più avanti meglio chiarendo.
L'accento del discorso cade sugli intellettuali solo e proprio in quanto strumenti responsabili di elaborazione della cultura, come i dirigenti di partito lo sono per l'elaborazione della politica, senza con ciò naturalmente negare la possibilità della compresenza delle due responsabilità quando questo positivamente accada.
(2) L'analisi di questi fatti va tuttavia, a nostro avviso, francamente effettuata, ma in sede opportuna. Due sono gli opposti pericoli di affrontare in modo errato la questione, modi che rapidamente potremmo definire: « idealistico » e « cristiano D.
II primo pretende la minimizzazione dei fatti sul piano dell'ordinaria amministrazione o addirittura la svalutazione di esso. (La rivoluzione costa questo ed altro. Ma il fissare i limiti di costo alla stessa rivoluzione non è all'interno della problematica rivoluzionaria, non è parte dell'ideologia, non è l'umanizzazione della .freddezza del salto dialettico?). Per questo tipo di interpretazione gli errori cadono in certo modo fuori della storia, sono scarti, rottami. Ma qui la concezione idealistica prende la mano: la storia si riduce ad una parte della storia, quella positiva, lineare, coerente e con tutti i documenti in regola; l'altra si elimina, si liquida. I panni sporchi si gettano via, non si lavano neppure in famiglia.
L'altro modo, quello « cristiano », pretende invece la confessione dei peccati. Più che l'indirizzare in modo nuovo il lavoro, ci si preoccupa della dichiarazione dei torti, si crede che sia doveroso ottenere questo esito per riscattare la storia. Poi, giudici e giudicati, salvatesi reciprocamente le anime, si possono quietare.
Ma la concezione marxista della storia è ben più drammatica: gli errori non si riparano trasponendoli fuori o al di sopra del corso storico, gli errori restano un fatto, sono, in quanto avvenuti, irriducibili.
Il loro superamento può essere, a questo punto, solo dialettico, cioè un andare oltre
88 ROBERTO GUIDUCCI
nizzazione della cultura non possono derivare che corrispondenti risultati.
E i risultati sono quelli che sono se dopo dieci anni l'interessantissima e seria inchiesta sulla cultura condotta da Cesarini e Onofri sul Contemporaneo approda a qualificarli quali: « tramonto dell'idealismo filosofico, attualità dell'antifascismo, bisogno di distensione ideologica ». Tre ovvietà, soltanto che si pensi ai tanti anni ormai trascorsi dopo la Resistenza e dopo la pubblicazione di Gramsci.
Le cose erano arrivate al punto in cui la borghesia italiana, che subito dopo il '45 aveva, insieme alle staffe, perso anche la capacità di offrire una propria ideologia, era riuscita a compiere un notevolissimo ricupero per prendere in contropiede il netto passo in avanti della classe operaia e contadina effettuato nel` dopoguerra con un imponente sviluppo quantitativo.
Di fronte al non indifferente bagaglio delle nuove sociologie, delle nuove tecniche economiche, delle nuove estetiche, delle nuove filosofie, sfornate da un lavoro collettivo soprattutto americano che non aveva mai visto l'uguale, ci si ritrovò balbettanti (non potendosi piú dinanzi ad una situazione di fatto giocare la rozza carta di dichiararne la nullità e l'inesistenza), provinciali, impreparati. Si propose finalmente di studiare i principi primi delle armi dell'avversario quando esse già sparavano all'impazzata facendo vuoti nel proprio schieramento. I politici stretti, esecutivi, erano certamente in grado di presentare apparentemente le carte in regola. A loro si dovevano l'estensione su scala nazionale
che tenga conto delle maggiori difficoltà, della più onerosa pesantezza che viene ad opporre una realtà che contiene i solchi, le tracce degli errori stessi.
Di qui la via, a nostro avviso, autentica: quella della ricostruzione storica del movimento operaio «fino al giorno prima » con i suoi successi, i suoi vantaggi, le sue difficoltà, i suoi errori.
Se davanti agli avversari occorrerà nonostante tutto dichiarare ancora sprezzantemente il nostro diritto di non accettare le loro critiche interessatamente stravolte, all'interno di noi stessi è indispensabile l'aggiornamento storiografico su piano strettamente scientifico. E del resto solo in questa sede e con questo metodo che anche dagli errori si può cavare dialetticamente il succo dell'esperienza. E poiché i due piani (verso l'esterno, verso l'interno) dovranno e[...]

[...]diritto di non accettare le loro critiche interessatamente stravolte, all'interno di noi stessi è indispensabile l'aggiornamento storiografico su piano strettamente scientifico. E del resto solo in questa sede e con questo metodo che anche dagli errori si può cavare dialetticamente il succo dell'esperienza. E poiché i due piani (verso l'esterno, verso l'interno) dovranno essere probabilmente spesso distinti fra loro, non è detto che I'articolazione fra politica e cultura non possa giovare anche a rendere più semplice la risoluzione di questo così complesso problema.
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PAMPHLET SUL DISGELO E SULLA CULTURA DI SINISTRA
del Partito, la sua omogeneizzazione, la sua solida organizzazione, un ruolo giocato su piano internazionale. Essi avevano effettivamente sfruttata fino in fondo, diremmo all'ultima goccia, la forza ideologica che veniva dalla trádizione marxista. Ma avevano supposto un avversario pressoché immutabile e statico, anzi in continua involuzione, alla vigilia di una crisi. Improvvisamente se ne trovarono davanti uno diverso e rafforzato. Cioè anche una realtà economicosociale nuova da studiare e da capire, da riafferrare e da dominare.
A questo punto su piano internazionale avvenne il disgelo. Fu una grossa vittoria della pace. Per un momento, anche all'interno la pressione dell'avversario comincia a diminuire, a mutare metodo.
Ed ora siamo a questo punto. Ma è inutile farsi delle tranquille illusioni: abbandonarsi ad una quieta attesa. La cosa più urgente da avvertire é che il disgelo deve avere una contropartita occidentale, e l'ha: la distanza, l'allontanamento delle speranze da un punto di soluzione radicale, il distendersi della tensione immediata, urgente, intransigente.
La borghesia ottusa morde il freno e sente freddo proprio ora, nel disgelo, e vorrebbe continuare la calda corsa che aveva cominciato cosl bene nella notte neomedioevale. Ma la borghesia intelligente si prepara a mettere ventimila lire nella prossima busta paga e l'operaio che le prende senza nausea è per il momento perduto.
Così mi pare valga la pena di ripetere che il disgelo è un momenta difficile della lotta, non una tregua. Ognuno di noi vede come la sinistra occidentale potrebbe uscirne anche silenziosamente ed insensibil mente sconfitta.
Mai come ora appare una posizione astratta il mito del proletariato in quanto tale, come osso non frantumabile della storia, come Spirito hegeliano rovesciato e conficcato nella terra. Qui i[...]



da Rocco Scotellaro, L'uva puttanella (con una nota introduttiva di Carlo Levi) in KBD-Periodici: Nuovi Argomenti 1955 - 11 - 1 - numero 17

Brano: NUOVI ARGOMENTI
N. 1718 Novembre 1955 Febbraio 1956
L'UVA PUTTANELLA
Pubblichiamo qui alcuni dei frammenti inediti del libro l'« Uva puttanella » di Rocco Scotellaro. Il volume è comparso in questi giorni, per i tipi di Laterza. E un avvenimento importante nella nostra letteratura: è certamente una delle opere più ricche di valore e di peso di questi anni, da tutti i punti di vista: come creazione poetica originale, come racconto di fatti e descrizione di condizioni e avvenimenti di vita che sono vicini a tutti noi, come documento meridionalista, come strumento di lotta ed espressione di libertà. È forse la migliore delle opere dello scrittore lucano, morto a trent'anni, quella in cui, con più larghezza che nelle poesie, con più libertà e complessità che nell'o Inchiesta », Rocco ha espresso se stesso e insieme il mondo contadino in movimento, di cui egli era parte e guida.
L'« Uva puttanella » (come il lettore vedrà leggendo il libro, e dando un'occhiata alla lunga prefazione che lo accompagna) fu lasciato incompiuto per la morte di Rocco: e quello che è stato pubblicato in volume sono le parti finite e coerenti dell'opera; quelle che Rocco aveva portato a termine, e che si legano in unità, non soltanto per l'ispirazione comune, ma anche per l'argomento e lo sviluppo narrativo. Il piano dell'opera (successivamente, in vari momenti, tra il 1950, data dell'inizio, e il 1953, data della sua morte, modificato) era assai più ampio: ma della maggior parte del libro progettato non restano che note schematiche, appunti; indici sommari. L'opera avrebbe richiesto molti anni di lavoro, tanto che Rocco, talvolta, se ne scoraggiava, e pensava (quasi per un presagio) che non l'avrebbe mai potuta portare a termine.
Le parti pubblicate del libro hanno avuto, quasi tutte, una stesura continuata (soprattutto la prima parte, e l'ultima, quella
2 ROCCO SCOTELLARO
del carcere). Ma il metodo di lavoro di Rocco presupponeva una continua e minuziosa annotazione, una sorta di meditazione scritta (e scritta nella maniera più estemporanea, su foglietti sparsi, su frammenti di carta, su scatole di sigarette e di cerini, su quanto gli capitava per mano); una mole di materiale, che gli doveva servire poi nella redazione definitiva, che spesso è difficile distin
guere da altre note, ché non avevano rapporto con il libro. E come un diario di appunti, nei quali vediamo rivivere il nostro amico, animati tutti dalla unità della sua persona. Ci pare dunque di estremo interesse pubblicare qui qualcuno di questi frammenti, tra í moltissimi che egli ha lasciato.
I frammenti dell'u Uva puttanella » possono distinguersi in tre categorie:
1) quelli programmatici (schemi di lavoro, indici, interpretazioni e spiegazioni di figure, personaggi, situazioni che avrebbero dovuto poi essere sviluppate, analisi del conc:tto di ,a Uva puttanella », citazioni di fonti, ecc.);
2) le note varie, appunti di immagini, di frasi, di discorsi, materiale generico e disponibile per l'opera da compiere. (In questo secondo gruppo di frammenti, numerosissimi, è, come ho detto, difficile, e talvolta impossibile, distinguere quelli che si riferiscono direttamente all'« Uva puttanella» dalle note fatte con altra intenzione o senza una destinazione particolare. Ma, in un certo senso, essi possono tutti riattaccarsi all'e Uva », perché nel libro, così come più recentemente era stato concepito, avrebbero dovuto trovare espressione unitaria tutte le diverse esperienze dell'autore);
3) quelli narrativi (che il lettore potrà agevolmente situare nel contesto del libro: alcuni sono delle varianti precedenti, o delle aggiunte che non avevano ancora trovato il loro posto, come, ad esempio, i frammenti della prigione, che non abbiamo potuto inserire nel libro per non interrompere lo sviluppo del racconto).
Ci è parso opportuno, (e crediamo di fare cosa utile e gradevole al lettore) pubblicare qui una parte di questi frammenti, che ci auguriamo possano essere poi raccolti tutti in volume, insieme alle lettere, agli scritti vari, agli articoli su differenti argomenti,
'I I
L'UVA PUTTANELLA 3
già pubblicati qua e là e praticamente introvabili, o lasciati inediti da Rocco. Nel primo gruppo abbiamo raccolto alcuni degli schemi dell'opera, dei commenti al concetto di « Uva puttanella », delle note di lavoro di Rocco. Nel secondo alcuni dei brevi appunti tratti dai quaderni stessi in cui Rocco andava scrivendo il suo libro; e inoltre alcune pagine di uno dei molti quaderni di note, cos? ricche di materiale espressivo. Nel terzo gruppo infine, pubblichiamo i frammenti narrativi, che corrispondono alle varie parti del libro, e che serviranno al lettore, come una appendice, a completare e approfondire la propria lettura.
Tutti questi frammenti, pur nel loro disordine e nella loro incompiutezza, entrano nel quadro di un'opera che è la più viva espressione e la più diretta testimonianza di un mondo nuovo di immagini e di vita, che nasce dal movimento contadino, lo rappresenta e lo esprime. Sono parole nuove, piene insieme di verità e di poesia. Questi frammenti ne mostrano la formazione e la nascita: tanto più commoventi dunque, perché così direttamente legati a una meditazione che era insieme azione e creazione; che trovava nel movimento contadino la sua fonte, e che riportava al movimento contadino le immagini che, rappresentandolo, lo facevato reale.
Carlo Levi
FRAMMENTI DELL'« UVA PUTTANELLA »
Io
1.
Questò racconto, ispirato solo in parte a fatti realmente avvenuti e a persone anagrafiche, ha rasentato appena l'autobiografia e l'inchiesta che sono gli strumenti più diretti della comunicazione. Per un'autobiografia mancano altri elogi e altri biasimi, e poi si
4 ROCCO SCOTELLARO
sa bene l'inganno di ogni lettera scritta all'amico ed all'amata; per un'inchiesta occorrevano calcoli che possono benissimo non tornare alla fine come accade nella varia pronunzia dello stesso verso in una poesia. Gli appunti presi sono stati un esercizio qualunque di calligrafia e di pittura del momento. Ripetendoli qui, essi hanno la forza fredda degli ossi, dispersi, nemmeno legati in scheletro. L'ordine che non c'è non lo troverete come appunto è nel grappolo d'uva che gli acini sono di diversa grandezza anche a volere usare la piú accurata sgramolatura. Questi sono acini piccoli, apireni, seppure maturi che andranno ugualmente nella tina del mosto il giorno della vendemmia. Cosi il mio paese fa parte dell'Italia.
Io e il mio paese meridionale siamo l'uva puttanella, piccola e matura nel grappolo per dare il poco succo che abbiamo. Infine l'invenzione e la realtà sono ugualmente gratuite, malgrado ogni strumento di misura e di paragone e perciò nessuno — uomini e partiti — si quereli e i giudici, li prego, non diano retta alle chiacchiere.
2.
Disegno generale del libro «L'uva puttanella»
la parte — Le dimissioni questa volta mi riportano, nudo e fanciullo, alla vigna del padre.
Istintivamente, perduta ogni illusione di potere essere utile agli altri e pensando di non essere stato utile a me stesso, vorrei prendere in mano la vigna e l'attività del padre.
Con le persecuzioni violente che cominciavano saremmo stati schiacciati tutti. Le forze dei signori, l'autorità loro e delle vecchie leggi si ricostituivano. Le nostre parole diventavano vecchie. C'era tuttavia una serie di fatti e di cose, che restavano, che dovevano restare.
2' parte— Storia dei movimenti locali. Comizi. Caratteri e tipi. Partiti locali, attuali e passati. I sindaci degli altri comuni. La chiesa cattolica. Il Vescovo.

L'UVA PUTTAN[...]

[...] persecuzioni violente che cominciavano saremmo stati schiacciati tutti. Le forze dei signori, l'autorità loro e delle vecchie leggi si ricostituivano. Le nostre parole diventavano vecchie. C'era tuttavia una serie di fatti e di cose, che restavano, che dovevano restare.
2' parte— Storia dei movimenti locali. Comizi. Caratteri e tipi. Partiti locali, attuali e passati. I sindaci degli altri comuni. La chiesa cattolica. Il Vescovo.

L'UVA PUTTANELLA 5
Un maestro: Mazzarino.
Le prime elezioni del giugno '46, le amministrative.
Le prime dimissioni, dopo il 18 aprile '48.
Il Commissario prefettizio. Gli esami a Bari.
Le elezioni del nov. '48. Il Battesimo : non posso fare il
compare.
Ero una peschiera, avevo acqua pulita o sporca, io non c'en
travo. Votavano per me la Presidente dell'Azione cattolica e persino
i delinquenti.
Realizzazioni: Io non me ne vaco a ra qua
si la grazia nun mi fa.
3a parte — Il carcere 8 febbraio '5025 marzo '50. Le occupa
zioni di terre.
La religione della camorra. La libertà.
Come purtroppo si può essere politici oggi: con o contro
1; Americ scendo sempre la parte di uva puttanella.
4a parte — L'amore che non viene. La madre, la città.
Il paese resta come un piatto melmoso in fondo al cuore.
L'emigrazione.
5a parte — Ritorno al paese: elezioni del 7 giugno. Il semi
cerchio.
3.
L'Uva puttanella: Le ideologie, la ricchezza, la violenza, la religione e le potenze terrestri e arcane sono forze che vogliono vincere la loro battaglia su tutti gli uomini.
Gli uomini ne rimangono feriti, schiacciati o rotti, come cocci, tuttavia con la loro invincibile personalità animale « Se noi vogliamo, nessuno ci scoprirà » si dicono, anzi, per difendersi.
L'asprezza dei contadini è un carattere individuale inconfondibile; la loro adesione a un movimento è assuefazione incosciente e forzata, la loro speranza è sempre disperata perché gli uomini non vogliono bene agli uomini; per loro le linee di una qualsiasi logica, la più reale e palmare, possono essere sconvolte da un maleficio sempre corrispondente.
6 ROCCO SCOTELLARO
La provvisorietà del mondo orienta il contadino al pieno godimento di una vita, anche misera, stentata e grama; d'altra parte lo induce alla credenza religiosa.
Ma il credo religioso é anch'esso logica costruzione di uomini non c'è niente di veramente credibile.
« Se Dio c'è lo sa lui ». Il Dio è anche il maleficio.
La macchina forse potrebbe urtare contra la loro diffidenza, e vincerla, ma la macchina non é più misteriosa di un serpe. Il giorno di festa è un giorno di dura fatica.
I morti sono l'umiliazione della propria carne ad opera del maleficio.
I vivi sono portatori di maleficio, che o dorme o si sveglia nelle liti, nei furti, negli assassini.
Il padre e la madre sono i primi rivelatori del male.
Le malattie stanno nell'aria e si combinano per inaspettati colpi di vento.
La nascita è un premio prezioso che ci possono rubare e che bisogna assicurare col battesimo.
L'amore non esiste. Esiste il disamore che si esprime nelle combinazioni, negli innesti, nei matrimoni quando due esseri inconciliabili sono uniti con un ferro rovente del caso. L'atto sessuale riprova soltanto l'aspirazione all'amore.
Siamo qui, senza volontà di vita, con la paura della morte. Il lavoro é un richiamo della terra .che ci vuole sempre più in profondo.
Gli animali e i prodotti della terra sono la misura del nostro essere.
Ma gli uomini, tutti gli uomini e le donne sono diversi da me in tutto.
Siamo uguali nel disamore e nella morte.
4.
Dalla parte del più forte.
Machiavelli accettò per destino irrimediabile la condizione dei governati secondo la convinzione che se anche questi riusci
vano con moti a travolgere i poteri dovevano poi rientrare ai loro posti, essendo determinante la condotta dei potenti a generare o governare la storia.
Machiavelli era più psicologo che storico del suo tempo e quell'economia era rivestita del carattere del signore capace o impotente alle regole del giuoco dell'anima umana.
Perciò non vide analizzò lo stato dei governati, misurandone le reazioni e distinguendole in spontanee e forzate o provocate e dirette. In Italia i movimenti popolari non sono ancora stati studiati dal punto di vista delle classi inferiori.
Queste mantengono in vita, per sé, l'ordine di idee delle classi più vicine al potere: che si possa essere salvi e godere la relativa comodità restando sempre, col variare dei tempi, dalla parte del più forte.
5.
c< Perché così come coloro che disegnano e' paesi si pongono bassi nel piano a considerare la natura dei monti e de' luoghi alti, e per considerare quella de' bassi si pongono alti sopra de' monti, similmente, a conoscere bene la natura de' populi, bisogna essere principe, e a conoscere bene quella dei principi, bisogna essere populare ».
Machiavelli, Il Principe.
u Vivendo adunque gli uomini intra tante persecuzioni, portavano descritti negli occhi lo spavento dello animo loro, perché, oltre agli infiniti mali che sopportavano, mancava buona parte di loro di poter rifuggire all'aiuto di Dio, nel quale tutti i miseri sogliono sperare; perché, sendo la maggior parte di loro incerti a quale Dio dovessero ricorrere, mancando di ogni aiuto e di ogni speranza, miseramente morivano ».
Machiavelli, Istorie Fiorentine.
6.
Uva puttanella sono gli amici miei ed io, ostriche attaccate a un masso, che non vedono e non sanno il segreto delle barche, delle petroliere, delle portaerei e dei cacciatori subacquei.
8 ROCCO SCOTELLARO
Viviamo al coperto delle preoccupazioni degli economisti, anche se riusciamo a capire le loro lotte e perciò ne profetizziamo l'inutilità. Al coperto delle ultime conoscenze fisiche: il peggio é sapere che non avremo dei figli, abbastanza adulti e intelligenti (non li avremo affatto) che potranno spiegarci domani cib che capita sotto i nostri occhi oggi quando loro non sono ancora nati.
7.
Scrivendo un racconto si deve ammettere l'implicita conoscenza dei fatti, che sono quelli e potrebbero essere infiniti altri della realtà; l'aria, invece, del racconto costituisce un'altrettale realtà della fantasia, ed è la sola che conti.
8.
Era tutta questione di farsi vedere.
Uno avrebbe lavorato con gioia[...]

[...]avremo dei figli, abbastanza adulti e intelligenti (non li avremo affatto) che potranno spiegarci domani cib che capita sotto i nostri occhi oggi quando loro non sono ancora nati.
7.
Scrivendo un racconto si deve ammettere l'implicita conoscenza dei fatti, che sono quelli e potrebbero essere infiniti altri della realtà; l'aria, invece, del racconto costituisce un'altrettale realtà della fantasia, ed è la sola che conti.
8.
Era tutta questione di farsi vedere.
Uno avrebbe lavorato con gioia quando il lavoro si consuma come una gioia.
Ma appena — dopo un'ora — smettere il lavoro per spandere la gioia. Chiamatela vanità o soltanto desiderio di moltiplicarsi di abbracciare di riempire l'aria di sé col foglio aperto in mano, con la targa dell'allegrezza.
Così l'acino piccolo forzava le porte per vedere il sole tra gli acini grossi, e non si moltiplicava, non si faceva grande.
9.
Ka f ka
Nella mia Uva puttanella non é questione di puttanismo politico, fenomeno comune ai capi e ai gregari delle chiese e dei partiti e a tutti gli u[...]

[...]rsi vedere.
Uno avrebbe lavorato con gioia quando il lavoro si consuma come una gioia.
Ma appena — dopo un'ora — smettere il lavoro per spandere la gioia. Chiamatela vanità o soltanto desiderio di moltiplicarsi di abbracciare di riempire l'aria di sé col foglio aperto in mano, con la targa dell'allegrezza.
Così l'acino piccolo forzava le porte per vedere il sole tra gli acini grossi, e non si moltiplicava, non si faceva grande.
9.
Ka f ka
Nella mia Uva puttanella non é questione di puttanismo politico, fenomeno comune ai capi e ai gregari delle chiese e dei partiti e a tutti gli uomini.
Si tratta, invece, di una rinuncia all'essere, di riluttanza al divenire maturi e grandi.
Ho visto uomini in divisa consacrarsi al sangue, e povera gente in fila per il tozzo di pane giornaliero: persone normali; ho visto arraffoni e speculatori, ladri e assassini: persone poco normali;

L'UVA PUTTANELLA 9
capi chiese e capindustrie e capipopoli: anormali; artisti col capo
volante, esseri non esseri, ma uccelli, sia che abbiano o non abbiano
pane e comodi.
Mia madre mi vuole bene, io non le voglio bene, o soltanto
qualche volta per abbandono o malanno provvisorio.
C'é gente che studia e deve arrivare, arriva ed é contenta.
C'é persone che vogliono sposarsi e si sposano.
Io non so che fare, forse mi ucciderò: sarà l'unico gesto nor
male, di cui spero essere capace.
Penso che Dio è l'uomo più furbo di questa terra, sta nascosto
in un buco per manovrarci così bene.
10.
Uva puttanella é l'uva che ha l'acinellatura : consiste nella presenza di acini più piccoli tra quelli di grandezza normale.
Questi acini sono apireni (senza semi) e, se non restano verdi (acinellatura verde), maturano fino a essere più dolci di quelli normali (acinellatura dolce).
L'acinellatura dipende dalla mancata o incompleta fecondazione.
11.
L'uomo dell'Uva puttanella ha il solo problema : l'attesa del giorno in cui a suo dispetto sarà gettato nel tinello per far mosto.
12.
L'uva puttanella era in mezzo ai suoni di tromba di tutti i giornali che annunciavano le vittorie delle elezioni amministrative, ognuno giubilava, nessuno aveva perso.
13.
L'analfabetismo di ritorno — che significava cancellate le tracce degli esami universitari, spente le immagini di fisica, di chimica, delle piante e delle loro famiglie — riguardava anche lui: come si legge una via per la prima volta senza che si sappiano
10 ROCCO SCOTELLARO
le vicende passate e presenti che le dànno anima, e lui voleva saperle, così gli pareva a costo di non sprofondare sempre in giù — che la pioggia o il sereno, il corvo e la bucanvillea avevano tutti una ragione e legge conosciute dagli uomini, che era necessario' riapprendere, ripetersi, impara[...]

[...]ificava cancellate le tracce degli esami universitari, spente le immagini di fisica, di chimica, delle piante e delle loro famiglie — riguardava anche lui: come si legge una via per la prima volta senza che si sappiano
10 ROCCO SCOTELLARO
le vicende passate e presenti che le dànno anima, e lui voleva saperle, così gli pareva a costo di non sprofondare sempre in giù — che la pioggia o il sereno, il corvo e la bucanvillea avevano tutti una ragione e legge conosciute dagli uomini, che era necessario' riapprendere, ripetersi, imparare a memoria.
O sprofondare, si : ma cos'altro aveva fatto in quel tempo se non aderire col suo giornale spiegato intorno alle case e alle famiglie, fasciandone tutto il paese?
Non era contadino, non era un disperato vero, un calzolaio, un prete, avvocato, giudice, per quale legge dunque si muoveva? viandante del tutto, carrozzone inerte di un treno, che può passare da un deposito all'altro e girarsi l'Italia.
Uva puttanella che una malattia conosciuta dagli enologhi aveva invaso il grappolo, senza devastarlo del tutto: acini avevano resistito, acini no : questi piccoli sulle raspe non erano più cresciuti da luglio, ma maturati, dolci come gli altri, col sole dentro, la polvere sulla pelle.
II°
1.
Mi ritiravo le notti, con tutti gli atti e i peccati del giorno, solo veramente, eppure mai mi capitava di non essere accompagnato.
Quelli, dov'ero stato a bere e giocare, mi mettevano in mezzo, guerrieri di un re pari loro, con una divisa di fierezza mi scortavano fino alla porta di casa. Avanti e intorno erano [...]

[...]e i peccati del giorno, solo veramente, eppure mai mi capitava di non essere accompagnato.
Quelli, dov'ero stato a bere e giocare, mi mettevano in mezzo, guerrieri di un re pari loro, con una divisa di fierezza mi scortavano fino alla porta di casa. Avanti e intorno erano nascondigli, vicoli sopra e ai lati; di fronte era l'entrata della casa del mio padrino, senza battenti, dava in una scala e poi, in alto c'era la porta. Era sempre scuro là e nel vicolo a fianco. Se uno mi voleva tirare un colpo, era facile, ma i miei compagni mi proteggevano, guerrieri e fraterni, dei loro mantelli o delle giubbe, con le mani nelle tasche, fino a che non scomparivo dietro la mia porta e i cardini stridevano e il ferro tintinnava tra i passanti dell'altro battente.
L'UVA PUTTANELLA Il
2.
« Non andare dentro alle persone in questo modo ».
Frase dettami da una ragazza che aveva un segreto
amoroso che io volevo sapere.
3.
— Requie e riposo al Purgatorio. La mia povera vita! Giovinotto fermatevi qua.
Alla gruccia appoggiava il moncone quando voleva riposarsi.
Aveva la faccia rossa, due ciocche di bianchi capelli sul cuoio rosso come la faccia, un paio di baffi folti. E la sua voce era stridula, erano le sue parole note di trombetta. — Sono nativo del Gargano vicino a San Michele.
— Grazie assai — cantava — mio giovinotto per la mia povera vita.
4.
11 maggio: consiglio per il cambio della guardia. Denice: va giusto Laurenziana viene che viene, porta un piretto di vino e beviamo in consiglio.
5.
Erano pronti i calamai, sette, neri sulle pezze di carta assorbente: ai quattro lati, disposte diagonalmente le penne. La scolaresca è pronta, diceva Rocco, dopo aver apparecchiato.
6.
Genzano, prima del consiglio: — Oh, sindaco, stasera c'è la mia terra.
7.
Scardillo. Prima di andartene, toglimi dalle spalle mio cognato disoccupato, cagli il posto di bidello.
8.
Noi chiediamo una cosa giusta : ci hanno denunziati per le terre. Chi sa come andrà. Dio e la fortuna.
12 ROCCO SCOTELLARO
9.
I tavoli in consiglio erano tre: una sfilata di calamai e di penne nei due tavoli tra loro, in fondo la libreria con i volumi di raccolta Leggi e decreti dal 1800 e dispari.
10.
La terra da Miglionico a Grottole, dove c'erano gli ulivi, era grassa nella nebbia.
11.
Dove mangiano quattro, mangiano cinque. Tendenza a ridurre ogni giorno il proprio cibo e il proprio spazio di terra.
12.
Il Prefetto di Matera rimprovera il veterinario Petrillo, che al suo passaggio era rimasto seduto avanti al circolo Unione, senza salutarlo.
— Io stavo qui con la mia Signora, era V.E. che doveva semmai salutare noi. — La risposta del veterinario ebbe il consenso dei b[...]



da (Comunismo e occidente, 3°) Benno Sarel, Proletariato e ordine democratico popolare nella Germania Orientale in KBD-Periodici: Nuovi Argomenti 1954 - 5 - 1 - numero 8

Brano: PROLETARIATO E ORDINE DEMOCRATICO POPOLARE NELLA GERMANIA ORIENTALE (3°)
Terza tappa della lotta operaia nella Germania Orientale (1949 1951 1953)
La società industriale moderna soffre di una contraddizione: essa separa l'operaio dal prodotto del suo lavoro, rifiuta alla classe operaia il diritto alla gestione delle fabbriche nel momento stesso in cui la tecnica rende possibile e necessaria tale gestione. La lotta che la classe operaia é indotta ad ingaggiare, per la sua stessa situazione, non tende ad altro che a riunire il lavoratore al prodotto del suo lavoro.
Sotto il capitalismo l'operaio è forza di lavoro, ed il suo prodotto é merce soggetta alla legge del mercato che gli sfugge non appena uscita dalle sue mani. La separazione fra l'operaio ed il prodotto del suo lavoro é chiara, decisa, codificata nelle leggi. Nella società democratico popolare esiste una separazione analoga. Il prodotto del lavoro é qui uno degli elementi del piano, legge fondamentale del paese formulata con riguardo alle necessità che si impongono al Governo e sulla quale gli operai non hanno influenza. La lotta operaia continua dunque, ma ad ogni tappa della sua storia, la sua forma e i modi con cui si esprime sono determinati dalla situazione generale della società. Ora, il dilemma del nuovo regime consiste nel fatto che esso non può distaccarsi dalla classe operaia, affidarsi ad essa; non pue, tende gli operai completamente in disparte dalle decisioni economiche, consentire loro di assumere influenza sulla Commissione del piano. Questo dilemma é il quadro entro il quale si svolge la vita della fabbrica. Il piano non può funzionare bene senza una partecipazione operaia ai suoi organismi di base; d'altro canto, l'equilibrio dell'impresa si basa sull'idea della proprietà del popolo. Il piano, nella fabbrica, é formulato da organizzazioni comprendenti tanto i dirigenti quanto gli operai: sindacato e partito. Queste organizzazioni, tenuto conto dei nuovi rapporti di lavoro che dovrebbero regnare entro l'impresa, sono poste da
Continuazione dai n. 6 e 7.
164 COMUNISMO E OCCIDENTE
vanti al compito di far proporre dalla loro base operaia un piano conforme alla politica governativa. Ma, come abbiamo visto, classe operaia e governo sono presi entro ingranaggi contrastanti.
La lotta operaia si svolgerà dunque in seno alle organizzazioni ufficiali, prendendone spesso in prestito il linguaggio e le formule ideologiche. La separazione sociale corrispondente alla separazione fra il lavoratore ed il prodotto del lavoro, passerà conseguentemente attraverso al sindacato ed allo stesso partito. Per forza di cose questa separazione sarà fluida, imprecisa, e lo sarà altrettanto nei vertici della fabbrica quanto negli operai. Infatti, se da un lato si vuol attrarre gli operai nelle Commissioni che stabiliscono il piano, dall'altro lato gli operai approfittano della situazione per esercitare una influenza effettiva nell'organizzazione del lavoro, nella pianificazione dei salari e, indirettamente, nella produzione della fabbrica.
Grazie al sistema dei cottimi, delle gare di emulazione, degli stacanovisti, che abbiamo analizzato (1), il regime democraticopopolare logora l'antica solidarietà operaia, ma le fornisce d'altro canto l'occasione di avvicinarsi più che mai al suo scopo: la gestione delle fabbriche.
Nel suo sforzo di superare le proprie divisioni e di avanzare, la classe operaia si muove entro una contraddizione dialettica, che vuole che essa agisca e si organizzi e che, allo stesso tempo, elabori la propria ideologia. La classe operaia può riuscirvi più o meno bene. Come abbiamo visto, la situazione obbiettiva le é sfavorevole nella Germania Orientale del 1949. Tuttavia essa ha un punto di vantaggio al proprio attivo, il fatto di annoverare nelle proprie file ancora molti uomini esperimentati e colti. Giacché ad ogni nuova tappa la classe operaia mette in discussione non soltanto la propria condizione attuale, ma tutto il proprio passato. Gli operai della Germania Orientale assimileranno più lentamente di una classe operaia nuova la situazione nella quale li ha posti la democrazia popolare, ma il processo sarà senza dubbio più profondo e, di conseguenza, più completa e più ricca la sintesi.
Nelle pagine che seguono studieremo le tappe della lotta operaia nella Germania Orientale dopo il suo risveglio del 1949. Non potremo, in questo quadro, attardarci sulle prime tappe del 1949 e del 1951. Quanto alle lotte operaie del giugno 1953, le analizzeremo dedicando una speciale atteniione al settore dal quale hanno preso le mosse, l'industria edilizia.
(1) Vedi Nuovi Argomenti, marzoaprile 1954.
BENNO SAREL PROLETARIATO E ORDINE DEMOCR[...]


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