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da Luigi Rodelli, Noterelle e schermaglie. I cattolici, la politica e la morale assolutistica in KBD-Periodici: Belfagor 1980 - luglio - 31 - numero 4

Brano: 482 NOTERELLE E SCHERMAGLIE
forse dirmelo San Pietro alla resa dei conti, non certo i colleghi di una scuola pubblica e laica che devono oggi pagare i costi psicologici e potrebbero anche pagare — cose di un attimo — quelli economici morali per le colpe di una gestione confessionale che, nel passato, ha saputo costruirvi sopra cinicamente rendite colossali, salvo scaricare oggi l'intero problema, senza mediazioni, senza strutture adeguate, sulle spalle di una categoria sindacalmente sprovveduta.
RENATO ROVETTA
I CATTOLICI, LA POLITICA E LA MORALE ASSOLUTISTICA
Sentiamo dire (l'ha detto recentemente Andreotti) che la presenza dei cattolici nella società italiana è legata a una capacità reale di testimonianza, non a formule giuridiche. Sta di fatto che, legati o no alle formule, i cattolici italiani contestano assai poco, seppure non accettano con convinzione, quello strumento giuridico, il Concordato, che è espressione di una formula a cui la S. Sede non rinuncia; e la formula è quella della religione cattolica come religione dello Stato italiano (non denegata dalla quarta bozza di revisione), con quel che segue e seguirà.
Ma che cos'è la capacità di testimonianza? Testimoniare la fede è l'atto che il credente compie nel sentirsi in rapporto con l'assoluto, con la verità rivelata. La « dimensione sociale della fede », di cui parlano i cattolici, non è l'effetto di molteplici, libere interpretazioni della « volontà di Dio » da parte dei singoli credenti, ma è il presupposto stesso di quella mediazione ecclesiastica tra l'uomo e Dio che fa della Chiesa cattolica una istituzione chiusa, con la pretesa dell'universalità.
Per quanti sforzi facciano i cattolici per identificare la democrazia col pluralismo, esaltando la funzione della famiglia e della parrocchia come « società intermedie » tra l'individuo e lo Stato, ciò che resta irrisolto nella loro dottrina è il problema dell'educazione all'autonomia di giudizio e alla responsabilità personale di ciascuno, che è il problema della democrazia.
L facile capire perché la morale cattolica dia un contributo cosí scarso all'instaurarsi della democrazia, cosí come scarso è quello di tutte le altre concezioni assolutistiche e totalizzanti che pongono il fondamento della morale sulla base di verità e di valori non assoggettabili alla prova del dubbio, dell'opposizione e del controllo. Da questo punto di vista, il determinismo marxista può avere effetti non diversi dal provvidenzialismo cattolico (cosí come, sul versante del terrorismo, il mito leninista si intreccia con la palingenesi cristiana).
Il vecchio conflitto tra le due verità, quella della fede e quella della scienza, è oggi venuto meno, non perché, come sostengono alcuni, la scienza sia oggi conciliabile con la fede, ma perché la scienza non è piú concepita come un metodo per scoprire la verità, ma come un vaglio per eliminare gli errori in un progresso indefinito. Dopo Einstein (ci ha spiegato Popper), un'ipotesi o una teoria può
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dirsi scientifica a condizione che formuli proposizioni che possano essere assoggettate a un controllo che dimostri che non sono sbagliate.
Favorire il[...]

[...] conflitto tra le due verità, quella della fede e quella della scienza, è oggi venuto meno, non perché, come sostengono alcuni, la scienza sia oggi conciliabile con la fede, ma perché la scienza non è piú concepita come un metodo per scoprire la verità, ma come un vaglio per eliminare gli errori in un progresso indefinito. Dopo Einstein (ci ha spiegato Popper), un'ipotesi o una teoria può
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dirsi scientifica a condizione che formuli proposizioni che possano essere assoggettate a un controllo che dimostri che non sono sbagliate.
Favorire il formarsi di una mentalità scientifica significa favorire il formarsi di una mentalità democratica; e il problema della scuola non si risolve ma si aggrava decidendo di finanziare con denaro pubblico le scuole cattoliche, nelle quali, sull'esempio del professor Zichichi, consulente del papa, si insegna a mistificare il rapporto tra scienza e fede, tra libertà e autorità, tra democrazia e papismo.
Mentre Giovanni Paolo II perfeziona i suoi piani di cattolicizzazione degli africani, la fungibilità del papato al potere come fine reale dell'istituzione cattolica emerge nitidissima dal diario segreto di un prelato ateo. La pubblicazione postuma è avvenuta a cura di Carlo Falconi, col titolo L'uomo che non divenne papa (Mondadori 1979). Stupisce vedere fino a che punto il fascino del potere e dell'istituzione possa essere alimentato in solitudine dalla pompa del rituale e dalle macchinazioni di palazzo. Anche sul trono papale, tuttavia, il potere conosce eclissi e tramonti.
Immutabile, invece, è lo spirito dell'istituzione ecclesiastica, alla cui base c'è il convincimento di Sant'Agostino che la « libertà dell'errore » sia male peggiore della « morte dell'anima ». Al fine di tutelare quel bene che è la « salvezza » dell'anima di ciascuno, l'Inquisizione ha avuto dai papi, per secoli, il compito di sospettare e punire: chi ci assicura che l'« eretica pravità » non si sia insinuata nell'anima nostra, o in quella del nostro migliore amico, padre, fratello? Ciò che conta è che il sospetto dell'autorità sia stato formulato: come nel caso di Galileo. Non è importante ciò che il soggetto fa, ma ciò che ne pensa l'autorità. Da noi, ancora oggi, il diritto processuale penale è quello inquisitorio, ideato dalla Chiesa. I veri continuatori della tradizione romanistica, in questo campo, non siamo noi, ma gli inglesi col processo accusatorio anglosassone. Lo dimostra, senza troppi tecnicismi, il libro di un giurista, scritto per coloro che hanno a cuore le libere istituzioni: Italo Mereu, Storia dell'intolleranza in Europa (Mondadori 1979).
Sul piano politico, del resto, l'ideologia medievalizzante della superiorità della Chiesa sul potere politico è meno remota di quanto ci possa esser sembrato in questi ultimi anni, sotto l'abbaglio del Concilio Vaticano ri. L'ultimo tentativo di imporre la cosiddetta « pax christiana » con una campagna di persuasione di massa risale a meno di trent'anni fa e ha avuto per fulcro l'idea di Roma. L'« operazi[...]

[...]rista, scritto per coloro che hanno a cuore le libere istituzioni: Italo Mereu, Storia dell'intolleranza in Europa (Mondadori 1979).
Sul piano politico, del resto, l'ideologia medievalizzante della superiorità della Chiesa sul potere politico è meno remota di quanto ci possa esser sembrato in questi ultimi anni, sotto l'abbaglio del Concilio Vaticano ri. L'ultimo tentativo di imporre la cosiddetta « pax christiana » con una campagna di persuasione di massa risale a meno di trent'anni fa e ha avuto per fulcro l'idea di Roma. L'« operazione Sturzo » per la conquista del comune di Roma fu organizzata da Pio xrr nel 1952, in concomitanza con la crociata « per un mondo migliore », guidata dal recentemente scomparso « microfono di Dio », il gesuita Riccardo Lombardi [1].
Il misticismo di papa Pacelli si coniugava con la politica e aveva in serbo la « rigenerazione cattolica della società », che il papa voleva realizzare senza
[1] A sentire questo nome, la redazione di « Belfagor » non può non ricordare ai lettori piú recenti una noterella di venti anni Ia, autore MASSIMO MILA, Il ruzzolone di padre Lombardi, « Belfagor » 4 (1949), pp. 9193, raccolta poi nella nostra strenna divorzista L'Italia clericale del 1974.
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indugi, col diretto intervento nel sociale, in termini di riconquista ecclesiastica, al punto da sentirsi limitato nella sua attività restauratrice dalla presenza stessa del partito della democrazia cristiana. Se è vero che « nell'economia del suo pensiero » vi fu, come scrive oggi uno storico cattolico, « una deconsiderazione della mediazione politica », non si può non sorridere osservando che a farsi interprete presso De Gasperi delle impazienze papali era nel 1946 quello stesso Guido Gonella che ha guidato la delegazione governativa italiana per la revisione del Concordato con la S. Sede, dal 1976 al 1980. .
Ricostruendo dall'interno della vita della chiesa romana le vicende che vanno dalla Conciliazione all'« operazione Sturzo », lo storico cattolico di cui parliamo prende le distanze da quella visione del mondo in cui la fede esige un immediato riscontro sociale; ma le cose non vanno molto diversamente con l'odierna ideologia del pluralismo, cosí com'è intesa dai cattolici, soprattutto in relazione all'assistenza pubblica, alla scuola e alla collettività civile nel suo complesso. è ancora chiaro quale sia l'effettivo contributo delle cosiddette comunità ecclesiali del dissenso cattolico alla formazione di un'etica civile. Nel titolo del suo libro, Andrea Riccardi mette le virgolette e un punto interrogativo: Roma « città sacra »? (Vita e pensiero, 1979). Quel che è certo è che la città lasciata all'Italia dalle amministrazioni capitoline democristiane è una città in decomposizione.
Il papa polacco lancia intanto i suoi ponti alla « negritudine cattolica »; e Arturo Carlo .Jemolo sogna Chiese cristiane « autonome », di là e di qua dal Mediterraneo (con o senza la poligamia, che gli africani non sono disposti ad abbandonare), nella speranza di una « riunione » futura sotto l'egemonia del Vaticano (« La Stampa », 13 maggio 1980). In nome di che cosa? In nome della morale cattolica: « quell'altissima dottrina morale », quell'insegnamento del Vangelo che avrebbe « toccato l'apice » della morale. Una morale assolutistica, che favorisce l'ipocrisia. Una morale che non conosce al suo interno la prova del dubbio, dell'opposizione e del controllo. Una morale che noie è vita morale.
LUIGI RODELLI



da [Gli interventi] Boris Ziherl in Studi gramsciani

Brano: Boris Ziherl

Mi si permetta di esprimere la mia riconoscenza all'Istituto Gramsci per averci data la passibilità di intervenire ai lavori del Convegno dedicato alla attività pratica e teorica del grande rivoluzionario e pensatore italiano Antonio Gramsci.

In Jugoslavia il nome di Gramsci è largamente conosciuto e non solo per l’attività da lui svolta negli anni tra il 1918’21, non solo per la sua opposizione al fascismo ohe contro di lui si accani nel modo più barbaro. Il nome di Gramsci è conosciuto nel nostro Paese attraverso la traduzione in serbo e in sloveno delle lèttere che egli venne scrivendo dal carcere, e per gli studi che sulla sua figura vengono condotti. Le Lettere dal carcere di Gramsci hanno profondamente commosso l’opinione pubblica jugoslava e sono state largamente diffuse non solo tra i comunisti. È significativo che la personalità di Gramsci è stata presentata in Jugoslavia attraverso una prefazione scritta per l’edizione slovena delle Lettere da Ivan Reggent, un vecchio rivoluzionario ben noto tra i comunisti italiani e jugoslavi. È con vivo rammarico che dobbiamo riconoscere che in Jugoslavia sono state pubblicate fino ad ora solo le Lettere di Gramsci ma già si è al lavoro per la traduzione degli altri suoi scritti.

Non sfugge a noi il profondo legame che unisce Gramsci alla vita del suo paese; non si può essere un dirigente rivoluzionario del movimento operaio se questo legame non è profondo. Solo questo legame, per esprimerci con parole di Lenin, può fare di un individuo un dirigente autorevole. In Gramsci questo legame si manifestò nella capacità di interpretare e di assimilare creativamente, alla luce del marxismo, la storia578

Gli interventi

italiana, i suoi sommovimenti. Già dalle Lettere noi abbiamo colto la capacità di Gramsci di penetrare al fondo dei fenomeni politici, economici e culturali della storia presente d’Italia. Abbiamo colto in Gramsci, nella sua battaglia ideale, il rigetto della superficiale negazione delle posizioni altrui, il suo modo di penetrare il pensiero dell’avversario e di coglierne dall’interno le radici degli errori. Procedimento proprio di una mente non dogmatica, ma dialettica.

meno sensibilmente ci colpisce, nelle Lettere di Gramsci, il suo profondo umanesimo che tanta suggestione esercita anche verso coloro che sono su posizioni ideologiche le più lontane dal comuniSmo. Il Convegno al quale abbiamo l’onore di partecipare, col suo fecondo lavoro, ci ha rivelato aspetti nuovi della personalità e del pensiero di Gramsci e con ciò stesso anche nuovi aspetti della storia del movimento operaio italiano. Nella persona di Gramsci si trova la migliore conferma del fatto che la classe operaia italiana si presenta oggi come l’erede legittima delle migliori e più deviate 'tradizioni della storia italiana.

Questo Convegno attesta altresì che uno dei metodi più efficaci per la conoscenza reciproca tra il movimento operaio dei diversi paesi, le loro idee, le loro 'esperienze, le loro tradizioni rivoluzionare, è quello di studiare a fondo la loro storia politica e ideale. A maggior ragione ciò è vero per il movimento operaio di due paesi vicini quali l’Italia e la Jugoslavia, i quali hanno interessi t[...]

[...] migliore conferma del fatto che la classe operaia italiana si presenta oggi come l’erede legittima delle migliori e più deviate 'tradizioni della storia italiana.

Questo Convegno attesta altresì che uno dei metodi più efficaci per la conoscenza reciproca tra il movimento operaio dei diversi paesi, le loro idee, le loro 'esperienze, le loro tradizioni rivoluzionare, è quello di studiare a fondo la loro storia politica e ideale. A maggior ragione ciò è vero per il movimento operaio di due paesi vicini quali l’Italia e la Jugoslavia, i quali hanno interessi tanto comuni, nella lotta per il progresso e la prosperità dei loro popoli. Siamo certi che questo Convegno contribuirà a rafforzare i già solidi legami di amicizia tra i movimenti operai dell’Italia e della Jugoslavia.



da Libri ricevuti in KBD-Periodici: Belfagor 1980 - marzo - 31 - numero 2

Brano: [...]RICEVUTI
ALBERTO ARBASINO, Un paese senza, Milano, Garzanti, 1980, pp. 354. Dopo Fantasmi italiani, il libro sulle endemiche piaghe della nostra società, dopo In questo stato, il libroinchiesta sul comportamento degli italiani durante il « caso Moro » (si veda a questo proposito il ritratto critico dell'autore in « Belfagor », gennalo 1979), Arbasino fissa una nuova testimonianza sul costume, anzi sul malcostume italiano dell'ultimo decennio e ne completa il quadro. Il libro si propone di riempire quei vuoti determinati, nella storiografia italiana, dall'assenza di materiali fissati « a caldo » contemporaneamente agli eventi, come le lettere e i diari, che in altre società costituiscono invece testimonianze preziose. Un paese senza è un commiato ai poco amati anni Settanta e agli avvenimenti, per lo piú funesti, che li hanno segnati. Il bilancio non poteva che essere negativo e le pagine si sono riempite delle scioccaggini, dei deliri, dei qualunquismi che hanno infestato, negli ultimi tempi, molte conversazioni su temi di attualità. Le opinioni di Arbasino sugli eventi e sui comportamenti che hanno caratterizzato la storia recente del nostro paese già si conoscevano, in questo libro vengono ancora una volta riconfermate; chi, da Un paese senza, si aspettasse una gratificazione per gli italiani cosí impietosamente svergognati nei due libri precedenti rimarrebbe inequivocabilmente deluso: non sono, questi, momenti propizi ai buoni auspici e alle facili speranze. La novità sostanziale sta, invece, nell'impianto strutturale: si tratta, questa volta, di parecchie centinaia di piccoli pezzi frammentari, massime, aforismi, o « minisaggi » come li definisce l'autore, sugli argomenti di attualità che hanno occupato piú frequentemente le pagine dei quotidiani. Nessun criterio, apparentemente, li ordina: un tema viene affrontato, abbandonato, ripreso quando non ci si pensava piú, come spesso accade nelle conversazioni piú libere. Il volume può essere letto come un romanzoconversazione nel quale, però, i personaggi sono stati eliminati tout court per lasciare posto solo alle « cose dette ». Forse un simile destino di privazione è dato in sorte anche al nostro paese (non piú Italia e non piú Stato): i suoi numerosi « senza » brulicano incessanti tra le chiacchiere. (MARIA LUISA VECCHI).
EDMONDO DE AMICIS, La Carrozza di tutti. La Torino d'allora (1896), illustrazioni originali di Massimo Quaglino, presentazione di Giovanni Tesio, a cura di Andrea Viglongo, Torino, Viglongo. 1980, pp. 326. Il libro, che è ora ristampato da Andrea Viglongo in una edizione annotata e riccamen[...]



da Remo Ceserani, Enciclopedie per ragazzi in KBD-Periodici: Belfagor 1980 - marzo - 31 - numero 2

Brano: NOTERELLE E SCHERMAGLIE 231
crazie; e non si maledice a Scelba o viceversa. Si litiga cordialmente, tra gli sportivi o no, per l'impiego dei rapporti da usarsi su strada o lungo le rampe [...]. Le sanguigne facce dei contendenti non sono disumane come quelle riprodotte sui giornali dopo gli incidenti dello sciopero [...] Ognuno va a casa sudato ma soddisfatto [...] cosa non comune in questi tempi ipocondriaci. Si dimentica persino che, tra poco, va in vigore il nuovo prezzo del pane. Siamo grati a Bartali. Nella tetraggine di uno dei piú disperati periodi della Patria egli rappresenta una piccola luce [...] È una nota di Fede quella che egli reca: una parentesi di ottimismo (r[aimondo] m[anzini], Su Bartali tutti concordi, « L'Avvenire d'Italia », 25 luglio 1948).
STEFANO PIVATO
ENCICLOPEDIE PER RAGAZZI
E un piacere registrare una novità positiva nel panorama sconfortante delle enciclopedie per ragazzi: la pubblicazione de Il mondo dei bambini, realizzato dalle Emme edizioni di Milano, sotto la direzione di Pinin Carpi (già noto come autore di fiabe e libri per bambini) e pubblicato e distribuito dalla UTET di Torino.
Non sto a ripetere (vedi « Belfagor » xxxi, 1976, pp. 58194) che la qualità media delle enciclopedie per ragazzi, che si prendono una grossa fetta del mercato della vendita rateale in Italia, è e rimane — anche dopo gli sforzi recenti di grossi
e prestigiosi editori come Mondadori e De Agostini — paurosamente bassa e caratterizzata da: passiva dipendenza delle grandi enciclopedie per adulti; meccanica adesione agli originali stranieri da cui molto materiale viene tradotto (con il risultato di proporre ai piccoli lettori aspetti del mondo e costumi in cui non si possono riconoscere), linguaggio incerto fra il tono didattico che fa cascare le nozioni dall'alto e il bamboleggiamento sdolcinato, totale mancanza di spirito critico e forte condizionamento ideologico, sciocchezzario (ecco una tipica perla:
« La lingua francese è molto precisa e duttile; per lungo tempo è stata considerata la piú adatta in materia diplomatica e amorosa. I francesi tengono infatti in gran considerazione le belle maniere »: da Ricerche su La Francia, di D. Lifshitz, edizione i[...]

[...]do e costumi in cui non si possono riconoscere), linguaggio incerto fra il tono didattico che fa cascare le nozioni dall'alto e il bamboleggiamento sdolcinato, totale mancanza di spirito critico e forte condizionamento ideologico, sciocchezzario (ecco una tipica perla:
« La lingua francese è molto precisa e duttile; per lungo tempo è stata considerata la piú adatta in materia diplomatica e amorosa. I francesi tengono infatti in gran considerazione le belle maniere »: da Ricerche su La Francia, di D. Lifshitz, edizione inglese Mc Donald, edizione italiana Mondadori, Milano 1974, p. 11).
sto a ripetere le tristi considerazioni sull'evidente squilibrio fra da una parte la buona qualità e la scarsa diffusione del materiale scolastico ed educat;.vo prodotto, per l'insegnamento elementare (libri di appoggio, guide, schedari, strumentario, matematiche 80, collane specializzate come « La ricerca », ecc.) e dall'altra parte la cattiva qualità e l'alta diffusione del materiale destinato a ragazzi
e famiglie, come sono i libri di testo (ancora molto brutti, ancora deturpati, i sussidiari, dall'assurda e obbligatoria parte iniziale sulla religione, approvata dal vescovo e offerta gratuitamente dallo Stato, catechismo dogmatico che fa a pugni
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contro qualsiasi impostazione critica dell'insegnamento e smentisce di fatto qualsiasi blabla sul pluralismo) e ancor piú le pubblicazioni cosiddette « parascolastiche », destinate a bambini e famiglie, come sono appunto le enciclopedie e i libri per le famigerate « ricerche ». La situazione, in questo settore culturale, è analoga a quella del rapporto fra quotidiani, settimanali « seri » e riviste da una parte e settimanali diffusissimi per donne, giovani, sportivi, ecc. dall'altra, fra romanzi e fotoromanzi, o fra romanzi e fumetti: un rapporto che, come è noto, caratterizza come particolarmente depressa la situazione della produzione e circolazione di cultura in Italia. In tante famiglie italiane entrano questi libri — in tante questi soltanto, comprati faticosamente a rate — che presentano un'immagine del mondo semplificata, frammentata, falsificata (un'immagine che per parte loro le grandi enciclopedie per adulti, in crisi anch'esse come rappresentazioni globali della conoscenza, non riescono piú a comunicare).
Quella diretta da Pinin Carpi è anch'essa un'enciclopedia (non lo dichiara sul frontespizio, ma lo ammette nella prefazione « A tutti i bambini »), tuttavia si
sforza di essere la meno enciclopedia possibile. Nessun piano complessivo troppo rigido: sinora sono usciti quattro volumi, Il libro delle case, Il libro delle figure, Il libro dell'acqua, Il libro del mondo senza storia (ciascuno di 152 pagine con molte illustrazioni, ciascuno 9.500 lire); sono in corso di pubblicazione gli altri quattro volumi, Il libro della fantasia, Il libro dei paesi, Il libro della storia del mondo, Il libro dello spazio. Nessuna pretesa di rappresentare alfabeticamente o per settori di specializzazione il sapere del mondo. Nessun atteggiamento di magica trasmissione delle conoscenze fondamentali, che quando uno le possiede gli danno in mano le chiavi del tesoro o la conquista del futuro.
Nella scelta dei temi da trattare e poi nella realizzazione delle singole pagine di testo e illustrazioni, la redazione è partita dalla curiosità dei bambini, non solo presunta o ipotizzata, ma reale: la redazione, ben affiatata e affiancata da specialisti (come Folco Quilici), ha lavorato a stretto contatto con alcuni maestri e alcune classi di varie scuole elementari, soprattutto dell'area milanese. Il libro è stato costruito insieme con i bambini, presenta i loro disegni e i loro lavori, propone disegni e lavori da fare. Si indovina, dietro la pagina, il lavoro fatto con i ragazzi, parlando con loro, usando passione e intelligenza, mettendo a loro disposizione del materiale (soprattutto illustrativo) scelto con gusto e con « occhio ». Si indovinano i redattori mentre lavorano in famiglia con i propri figli o i maestri con i loro allievi, soprattutto nelle scuole sperimentali. Il tono dello scambio fra adulti e bambini, maestri e allievi è quello giusto:
Con questa enciclopedia cercheremo anzitutto di interessarvi, di divertirvi, di appassionarvi — cosí scrivono gli autori nella premessa —, senza preoccuparci di istruirvi, di farvi diventare delle persone colte, che sanno tantissime cose [...] Il mondo dei bambini, insomma, non lo abbiamo realizzato per rendervi sapienti, ma per farvi contenti. Cosí pubblichiamo molte cose insolite, nuove, di paesi vicini e lontani con tante belle figure, storie, giochi, poesie, proprio come piacciono a voi. Certo, vi diciamo anche quali sono le nostre opinioni su vari argomenti. Perciò vorremmo fare un patto con voi: come tutti, grandi e piccoli, avete il diritto di giudicare ogni cosa, di dire se la trovate giusta o sbagliata. Quindi considerate sempre che quello che vi diciamo è ciò che pensiamo noi, ma che[...]

[...] voi. Certo, vi diciamo anche quali sono le nostre opinioni su vari argomenti. Perciò vorremmo fare un patto con voi: come tutti, grandi e piccoli, avete il diritto di giudicare ogni cosa, di dire se la trovate giusta o sbagliata. Quindi considerate sempre che quello che vi diciamo è ciò che pensiamo noi, ma che voi potete pensarla in un modo completamente diverso.
NOTERELLE E SCHERMAGLIE 233
Un solo appunto mi sento di fare a questa impostazione, riguardante il linguaggio. Mentre il linguaggio usato è di solito piano e concreto, senza bamboleggiamenti e senza sfoggi di sapienza, ogni tanto si insinuano qua e là, non sufficientemente controllati, degli aggettivi, che portano all'interno dello scambio fra gli autori e i lettori il mondo degli adulti e dei suoi valori: « Il famoso pittore veneziano Canaletto dipinse [...] il bellissimo rito dello sposalizio del mare », « Certe navi sono cosí grandi che anche se le onde del mare sono impetuose e violente, la navigazione procede tranquilla », « In questo antico dipinto », « un antico villaggio », « la villa Barbaro di Maser [...] è una delle piú belle ville italiane e fu ideata da un famoso architetto », « questo bel quadro », « questo bellissimo villaggio rotondo si trova nella immensa foresta dell'Amazzonia », « questo paesaggio è un delicato acquarello », ecc. Bisognerebbe fare una legge, che proibisca drasticamente l'uso degli aggettivi nelle scuole: i libri dei maestri ne pullulano, i quaderni dei ragazzi, che li riprendono meccanicamente, ne rivelano tutta l'approssimazione semantica.
Come si colloca questo libro nel panorama della produzione parascolastica? Un colpo alla tranquilla (e molto redditizia per chi la dominava) situazione delle enciclopedie l'ha dato a suo tempo Io e gli altri (vedi l'articolo citato in « Belfagor » 1976). Provocatorio al limite dell'ingenuità, generoso e coraggioso, quel tentativo fu importante perché smosse le acque, contrappose alle vecchie una nuova enciclopedia, che trattava temi fino allora tabú, problematizzava molti concetti ritenuti indiscutibili, confessava apertamente una propria impostazione ideologica di sinistra. Io e gli altri, proprio perché fece scendere in campo ispettori ministeriali e magistrati di educazione borbonica, e attirò i loro fulmini, sembrò l'opera giusta in quel momento, in cui si tentava di rinnovare a fondo la scuola, si apriva un contatto con i quartieri e le forze sociali esterne, si tentava la democratizzazione delle strutture attraverso i consigli. La provocazione diede qualche frutto: qualcosa è penetrato nei libri di testo, certi temi non sono piú tabú e in molte situazioni gli insegnanti hanno cominciato a lavorare diversamente. Ma il contesto politico generale, come è noto, è mutato in peggio, il rinnovamento si è fermato, i consigli sono abortiti.
Il mondo dei bambini nasce da una situazione avanzata, per tanti aspetti privilegiata: quella di alcune buone scuole sperimentali, di alcuni buoni inse
gnanti e di una casa editrice specializzata. A sostenere l'opera, infatti, c'è l'espe
rienza, molto raffinata e quasi snobistica, delle Emme edizioni, produttrici di libri e fiabe che, per qualità grafica e dei testi, hanno superato ogni precedente modello italiano; a sostenerla, inoltre, c'è il lavoro di ricerca pedagogica, anche questo
d'avanguardia, della collana « Il puntoEmme ». C'è, poi, la personalità e l'esperienza di Pinin Carpi, e la sua capacità di parlare direttamente ai bambini, di pensare con loro.
Il problema allora è: potrà inserirsi questo libro nel mondo della scuola e incidere sul lavoro scolastico? La mia impressione, francamente, è che non ce
la farà. Le Emme edizioni, una volta realizzata l'opera, han capito che non potevano affidarsi alla propria esile organizzazione per distribuirla. Si sono cosí accordate con la UTET, una casa molto solida, forse la piú solida d'Italia, produttrice
234 NOTERELLE E SCHERMAGLIE
di grossi testi universitari, dizionari e collane di classici, non priva di esperienza nella letteratura per l'infanzia (la collana gloriosa « La scala d'oro », le enciclopedie « Il tesoro » e « Il nuovo Galileo »), provvista di una vasta rete per la vendita rateale. Bisogna però tener presente che il piazzista della UTET ha legami molto stretti con una precisa fascia sociale ed è in essa che penetra quasi esclusivamente: la borghesia professionale, le classi colte e agiate. Pensato per la nuova scuola in cui i bambini imparano a crescere e lavorare insieme, il libro rischia cosí di divenire lo strumento di lavoro autonomo, e autonomo soprattutto dalla scuola, dei bambini appartenenti a una precisa élite sociale e culturale. Spero di sbagliarmi, naturalmente, e che le cose non vadano cosí; ma mi pare che anche questo libro, pur cosí nuovo e ben fatto, non sia in grado di attenuare la divaricazione fra, da una parte, in alcuni quartieri alti delle città, le scuole sperimentali a tempo pieno, i laboratori artigiani, i teatri e le librerie per ragazzi, e dall'altra parte, nelle periferie e nelle campagne, la scuola tradizionale, la televisione, le cartolerie e le edicole con la solita robaccia, i piazzisti che spingono i soliti « Quindici ».
REMO CESERANI



da Stefano Pivato, Il mondo cattolico e lo sport: Gino Bartali in KBD-Periodici: Belfagor 1980 - marzo - 31 - numero 2

Brano: NOTERELLE E SCHERMAGLIE 227
IL MONDO CATTOLICO E LO SPORT: GINO BARTALI
La recente edizione di un testo miscellaneo dedicato a Fausto Coppi I conferma come da qualche tempo anche lo sport venga assunto, almeno da parte di alcuni storici, a paradigma di fenomeni la cui correlazione in riferimento al piú ampio contesto politico, sociale ed economico appare evidente. Il mito del `campionissimo' e della sua rivalità con Gino Bartali, tramandatosi attraverso una specie di storia sussurrata e proiezione di modelli etici è, probabilmente, uno di quei temi che, vuoi per l'appartenenza al fenomeno sportivo cosí esposto alla deformazione mitologica, vuoi per le implicanze — presunte o reali ma comunque fortemente presenti nell'immaginario popolare — di carattere politico e sociale, non possono essere obiettivamente sottovalutati.
Nel testo in questione i motivi della rivalità frA coppisti e bartaliani vengono ricondotti da Luigi Manconi e Nicola Gallerano, che si preoccupano di ridurre entro eque proporzioni affrettate equazioni bartaliani/democristiani e coppisti/ comunisti, piú che a motivazioni direttamente politiche anche a quella che definiscono la « fisionomia [...] psicologica e caratteriale dei due personaggi simbolo: quella di Coppi, propria di una personalità complessa intelligente tormentata, alludeva in qualche modo a un'idea di modernità e di progresso, perfino di anticonformismo; quella di Bartali, perbenista sempliciotta dome[...]

[...]efiniscono la « fisionomia [...] psicologica e caratteriale dei due personaggi simbolo: quella di Coppi, propria di una personalità complessa intelligente tormentata, alludeva in qualche modo a un'idea di modernità e di progresso, perfino di anticonformismo; quella di Bartali, perbenista sempliciotta domenicale, suggeriva piuttosto sentimenti moderati e tranquillizzanti, anche passatisti ». A parte la problematicità di una siffatta contrapposizione si può quindi dire che fin dall'origine tale rivalità non sia derivata da motivi esclusivamente sportivi ma — come ancora suggeriscono i due autori — in un clima politico e culturale dominato dalla guerra fredda, dalle « contrapposizioni manichee e irriducibili tra americani e sovietici (e tra filoamericani e filosovietici), occidentali e orientali, democristiani e comunisti, Truman e Stalin, De Gasperi e Togliatti » 2, la dichiarata professione di fede cattolica, e poi democristiana, di Bartali certamente entrava nel conto.
1. In effetti la lettura della stampa cattolica del periodo suggerisce quanto martellante dovesse essere, non solo sulla stampa ma nei circoli, negli oratori, in parrocchia, quella sorta di ammirazione che crebbe attorno alla figura di Bartali il quale, già nel 1937, confessava come « in tutte le strade e perfino nei solitari passi arrampicati per i poggi piú impervi, c'è sempre l'immancabile gruppo di giovani cattolici capitanati dall'assistente che mi grida a squarciagola il suo incoraggiamento » (Confidenze di Bartali, « L'Avvenire d'Italia », 18 maggio 1937).
La popolarità del « magnifico atleta cristiano », precedente a quella di Coppi, non è tuttavia disgiungibile da un clima politico e da quelle motivazioni che pervadono il mondo cattolico fra gli anni '30 e '40 e, piú in particolare, dal significato
t G. CASADIO e L. MANCONI (a cura di), Un uomo solo. Vita e opere di Fausto Coppi. Scritti e int[...]

[...]pi, non è tuttavia disgiungibile da un clima politico e da quelle motivazioni che pervadono il mondo cattolico fra gli anni '30 e '40 e, piú in particolare, dal significato
t G. CASADIO e L. MANCONI (a cura di), Un uomo solo. Vita e opere di Fausto Coppi. Scritti e interventi di Andrea Carrea, Franco di Ciolo, Nicola Gallerano, Antonio Ghirelli, Enrico Ghezzi, Lucio Lombardo Radice, Francesco Moser, Anna Maria Rodari, Carmelo Samonà, Sergio Turone, un alto prelato; con una poesia inedita di Roberto Roversi, Milano, Piú libri, 1979.
2 Postfazione di Nicola Gallerano e Luigi Manconi a Un uomo solo... cit., p. 155.
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che lo sport ha rivestito per i cattolici. Se sul piano organizzativo la nascita dell'associazionismo cattolico diviene, all'inizio del secolo, una di quelle manifestazioni del « clericalismo allo stato diffuso » — secondo un'efficace espressione di Antonio Labriola — sul piano pedagogico esprime un modo di porsi antitradizionale. Un modo di porsi che non tende piú a presentare il cattolico secondo quei caratteri « domestici e infermicci » che, secondo Nietzsche, informavano la pratica quotidiana del cristiano e che la cultura anticlericale di inizio secolo iden
tificava con l'immagine del cattolico pio, servile e codino. Lo sport offriva ai cattolici la opportunità di riscattare quelle immagini e di presentarsi alle masse popolari come campioni di vitalità, di agonismo e capaci di esprimere una corag
giosa competitività. Le capacità fisiche e atletiche di Bartali, la sua audacia e le sue vittorie bene si prestavano ad alimentare un mito collettivo attraverso il quale si esprimeva, in un certo senso, quella filosofia del coraggio cristiano che avrebbe dovuto, proprio attraverso la diffusione della pratica sportiva, « rompere quella brutta tradizione la quale ci fa considerare come degli uomini paurosi e
sprezza il cristianesimo quasi fosse la religione dei fiacchi e dei deboli » (Echi, « L'Avvenire d'Italia », 25 giugno 1904).
In questo quadro il mito bartaliano diviene un veicolo di modelli di comportamento non solo religiosi ma anche politici e sociali. E il campione toscano assolve un ruolo non dissimile da quello degli `eroi positivi' dei fervorini e delle filotee sui quali il pubblico dei fedeli era invitato ad esemplare l'azione quotidiana.
Cosi Bartali diviene, nell'arco di oltre un decennio di attività, un modello non solo sportivo ma, soprattutto, umano in cui si sommano tutte le qualità
positive del buon cattolico e dell'onesto cittadino. Il campione devoto è presentato come il simbolo della morigeratezza attraverso l'astinenza dagli alcolici, vec
chio e caro motivo dell'etica cattolica: « Tutti sanno [...] che è terziario francescano e particolarmente devoto a Santa Teresa di Lisieux, beve solo acqua... » (G.U., Un grande atleta, « Pro familia », 7 agosto 1938, p. 480).
Piú spesso attraverso il campione toscano si celebra il senso dell'unità familiare:
Ha voluto far le feste a casa, con la moglie e i bambini. È un uomo Bartali che ama onorare i doveri che impongono all'uomo il rispetto della famiglia [ ...1 si è dato da fare per abbellire l'Albero di Natale dei suoi ragazzi, ha personalmente provveduto ad acquistare per essi i doni per la festa piú attesa dai piccoli: la Befana. È diventato, Bartali, un uomo qualsiasi, un papà affettuoso e straordinariamente dolce e sentimentale. Lui, aspro dominatore delle altissime vette (N. Giorgetti, Bartali 1949, « Stadium », aprile 1949, p. 24).
Fra [...]

[...]zi, ha personalmente provveduto ad acquistare per essi i doni per la festa piú attesa dai piccoli: la Befana. È diventato, Bartali, un uomo qualsiasi, un papà affettuoso e straordinariamente dolce e sentimentale. Lui, aspro dominatore delle altissime vette (N. Giorgetti, Bartali 1949, « Stadium », aprile 1949, p. 24).
Fra i ruoli esercitati dal « magnifico atleta cristiano », Bartali è anche il sim
bolo della ruralità (Abele secondo la tradizione biblica) contrapposto a quello della città (Caino):
Il segreto della `continuità' è anche, e soprattutto, nella purezza patriarcale della sua vita: marito, padre esemplare, le tentazioni, i trionfi, i denari della grande città non l'hanno allettato mutato: egli è rimasto l'artigiano, il contadino, il lavoratore toscano, attaccato alla sua gente, alla sua terra, alla sua casa [...] (L. Ferretti, Gino Bartali, « Stadium », aprile 1949, p. 6).
NOTERELLE E SCHERMAGLIE 229
Va tuttavia detto come, accanto al mito domestico e familiare del pio Bartali
emerge, nella stampa cattolica quello del Bartali pugnace, combattivo, affatto remissivo e simbolo della riscossa del mondo cattolico; un Bartali nel quale si
sostituisce — secondo una felice definizione — alla « figura mansueta del francescano quella del pugnace domenicano » (C. Trabucco, Intervista con Bartali, « L'Avvenire d'Italia », 28 luglio 1948). E, sotto la pugnace veste del domenicano, Gino Bartali è colui che con le sue vittorie consacrate alla Madonna di Lourdes o a Santa Teresa di Lisieux offre alle masse popolari italiane « il senso della virtú della loro stirpe » (Idem); è colui che Pio xii, nel 1947, additava alle schiere degli uomini di Azione Cattolica invitandoli alla mobilitazione contro il pericolo comunista:
[ ... ] è l'ora dell'azione [ ... ] è l'ora della prova. La dura gara di cui parla San Paolo è in corso; è l'ora dello sforzo intenso. Anche 'pochi istanti possono decidere la vittoria. Guardate il vostro Gino Bartali, membro dell'Azione Cattolica: egli ha piú volte guadagnato l'ambita `maglia'. Correte anche voi in questo campionato ideale, in modo da conquistare una ben piú nobile palma: Sic currite ut comprehendetis (I Cor. 9, 24) (Discorso di S.S. Pio XII agli uomini di Azione Cattolica, « La Civiltà Cattolica », III, 1947, p. 553).
2. Occorre tuttavia mettere in luce come il mito bartaliano, pur essendo caratterizzato per tutta la sua durata da una sostanziale continuità di contenuti, ha assunto significati diversi nei differenti contesti politici in cui si è mosso, ossia durante gli ultimi anni del regime fascista prima e nel corso del dopoguerra poi. Non c'è dubbio infatti che il campione toscano abbia rappresentato, fino alla caduta del fascismo, una sorta di contrapposizione ai modelli etici e sociali del regime. E ciò tenuto anche conto delle dichiarazioni di ossequio al fascismo, rilasciate all'indomani di ogni impresa, e che, a mio avviso, scaturivano piú da un formale ossequio per una certa liturgia da parata, doverosa per un personaggio della sua fama, che da un'intima adesione a certi modelli di regime.
Il mito bartaliano nasce nella seconda metà degli anni '30 ossia in un periodo di difficili intese fra il mondo cattolico e il fascismo a cui fa da sfondo, sulla piazza e nella stampa di regime, il ritorno di un greve anticlericalismo. In un clima che, attraverso le polemiche sulle leggi razziali e le limitazioni per l'iscri
zione ai circoli cattolici mirava a subordinare l'azione del mondo cattolico a quella del regime, anche il mito bartaliano coi suoi connotati specificamente `cattolici',
contribuiva ad affermare l'orgoglio e la presenza di una tradizione autonoma di cui
nonostante i compromessi col fascismo, la chiesa intendeva salvaguardare l'autonomia.
E tali motivazioni si colgono meglio analizzando alcune serializzazioni etiche
di cui si faceva portavoce il « magnifico atleta cristiano » e nelle quali non è forse azzardato cogliere una diffusa antipatia per quelle che la stampa cattolica definiva
le « esagerazioni del materialismo sportivo » criticando alcuni stereotipi proposti dallo sport di regime e predominati dalle masse muscolari come quello, ad esem
pio, di Primo Camera.
Simbiosi ideale di spirito e di corpo Bartali, anche nel comportamento verso
i suoi avversari sembra non obbedire al cliché dello sportivo fascista, ma piut
230 NOTERELLE E SCHERMAGLIE
tosto, tradurre alcuni principi dell'etica cattolica. Cosí infatti, secondo un cronista sportivo che commentò le sue gesta al Tour del 1938, trattenne i suoi gregari che
volevano `dare una lezione' al belga Vervaecke reo di aver fatto cadere in un burrone il campione toscano: « Lasciatelo, Dio lo punirà » (G.U., Un grande atleta, cit.).
Ma soprattutto come modello umano Bartali si discostava alquanto da quei connotati che, secondo l'ideologia di regime, avrebbero dovuto contraddistinguere l'uomo del fascismo attraverso l'ostentazione di quella `maschilità' che era accompagnata spesso da un largo contorno di atteggiamenti di un `sano virilismo sessuale'. Bartali, contrariamente a quei modelli: «È casto per convinzione morale
e igienica, ma non è misogino, egli si sposerà un giorno [...] ma non tiene a distinguersi per essere un porcellino scatenato » (A. Cojazzi, Bravo Bartali, « Rivista dei giovani », xviii, 1937, n. 6, pp. 27778).
E fino a che punto Bartali interpretasse quella ideale simbiosi fra forza fisica
e spirituale su cui la stampa cattolica insisteva ci è dato di coglierlo, nel dopo
guerra, anche attraverso le polemiche che accompagnavano la rivalità con Fausto Coppi. La critica sportiva cattolica non lesinava encomi anche a Fausto Coppi, tuttavia la simpatia per il `campionissimo' era di natura prevalentemente biotipica, di ammirazione per le capacità atletiche, per la sua straordinaria forza muscolare. Infatti, nell'agosto del 1949 all'indomani della vittoria di Coppi al Tour nel quale Bartali si era classificato secondo, l'organo dell'associazionismo sportivo cattolico, riconoscendo che Coppi era ormai « il piú forte, il piú `fenomenale' » lamentava come mancasse « a coronamento di questa inimitabile macchina sportiva fatta di muscoli e di stile, l'alone di umanità che circonfonde ed esalta l'atletica e nobile figura di Gino [...] questo cristiano che non chiude la sua fede in un eremo ma la
professa per tutte le vie del mondo » (L. Ferretti, Gino Bartali, « Stadium », agosto 1949, pp. 56).
3. Non è facile, a causa anche di un'enfatica mitizzazione tramandatasi nella
fantasia popolare, dare il giusto peso ad uno dei punti piú controversi della vicenda bartaliana ossia al ruolo taumaturgico della sua vittoria, al Tour de France
nel 1948 in coincidenza con le calde giornate seguite all'attentato a Togliatti. Sul problema, sfiorato di recente anche da Massimo Caprara, la stampa cattolica non sembrò, in quei momenti, nutrire il minimo dubbio sulla capacità che quella
vittoria ebbe come deterrente contro la rabbia popolare in seguito all'attentato al leader comunista.
Il 25 luglio 1948 Raimondo Manzini, allora direttore de « L'Avvenire d'Italia », nell'articolo di fondo del quotidiano bolognese, intessendo le lodi dello
« sportivo cristiano, dell'atleta perfetto [...] dal calmo viso velato d'ombre » e attribuendogli capacità che solo poteva nutrire chi era cresciuto « alla scuola morale di un'educazione [...] dalla quale sono partiti per utili traguardi [...] i Fanfani, i La Pira, i Malvestiti » cosí concludeva:
Una volta tanto, nelle città, intorno agli altoparlanti, i capannelli non sono all'ascolto di irose concioni o di notizie terrorizzanti: non si discute sull'ultimo agente della Celere sbucciato dalla ferina bestialità del civilizzato cannibalismo delle demo
NOTERELLE E SCHERMAGLIE 231
crazie; e non si maledice a Scelba o viceversa. Si litiga cordialmente, tra gli sportivi o no, per l'impiego dei rapporti da usarsi su strada o lungo le rampe [...]. Le sanguigne facce dei contendenti non sono disumane come quelle riprodotte sui giornali dopo gli incidenti dello sciopero [...] Ognuno va a casa sudato ma soddisfatto [...] cosa non comune in questi tempi ipocondriaci. Si dimentica persino che, tra poco, va in vigore il nuovo prezzo del pane. Siamo grati a Bartali. Nella tetraggine di uno dei piú disperati periodi della Patria egli rappresenta una piccola luce [...] È una nota di Fede quella che egli reca: una parentesi di ottimismo (r[aimondo] m[anzini], Su Bartali tutti concordi, « L'Avvenire d'Italia », 25 luglio 1948).
STEFANO PIVATO
ENCICLOPEDIE PER RAGAZZI
E un piacere registrare una novità positiva nel panorama sconfortante delle enciclopedie per ragazzi: la pubblicazione de Il mondo dei bambini, realizzato dalle Emme edizioni di Milano, sotto la direzione di Pinin Carpi (già noto come autore di fiabe e libri per bambini) e pubblicato e distribuito dalla UTET di Torino.
Non sto a ripetere (vedi « Belfagor » xxxi, 1976, pp. 58194) che la qualità media delle enciclopedie per ragazzi, che si prendono una grossa fetta del mercato della vendita rateale in Italia, è e rimane — anche dopo gli sforzi recenti di grossi
e prestigiosi editori come Mondadori e De Agostini — paurosamente bassa e caratterizzata da: passiva dipendenza delle grandi enciclopedie per adulti; meccanica adesione agli originali stranieri da cui molto materiale viene tradotto (con il risultato di proporre ai piccoli lettori aspetti del mondo e costumi in cui non si possono riconoscere), linguaggio incerto fra il tono didattico che fa cascare le nozioni dall'alto e il bamboleggiamento sdolcinato, totale mancanza di spirito critico e forte condizionamento ideologico, sciocchezzario (ecco una tipica perla:
« La lingua francese è molto precisa e duttile; per lungo tempo è stata considerata la piú adatta in materia diplomatica e amorosa. I francesi tengono infatti in gran considerazione le belle maniere »: da Ricerche su La Francia, di D. Lifshitz, edizione i[...]

[...]do e costumi in cui non si possono riconoscere), linguaggio incerto fra il tono didattico che fa cascare le nozioni dall'alto e il bamboleggiamento sdolcinato, totale mancanza di spirito critico e forte condizionamento ideologico, sciocchezzario (ecco una tipica perla:
« La lingua francese è molto precisa e duttile; per lungo tempo è stata considerata la piú adatta in materia diplomatica e amorosa. I francesi tengono infatti in gran considerazione le belle maniere »: da Ricerche su La Francia, di D. Lifshitz, edizione inglese Mc Donald, edizione italiana Mondadori, Milano 1974, p. 11).
sto a ripetere le tristi considerazioni sull'evidente squilibrio fra da una parte la buona qualità e la scarsa diffusione del materiale scolastico ed educat;.vo prodotto, per l'insegnamento elementare (libri di appoggio, guide, schedari, strumentario, matematiche 80, collane specializzate come « La ricerca », ecc.) e dall'altra parte la cattiva qualità e l'alta diffusione del materiale destinato a ragazzi
e famiglie, come sono i libri di testo (ancora molto brutti, ancora deturpati, i sussidiari, dall'assurda e obbligatoria parte iniziale sulla religione, approvata dal vescovo e offerta gratuitamente dallo Stato, catechismo dogmatico che fa a pugni



da senza firma, Continua la tensione greco-turca [sopratitolo: Egeo] in KBD-Periodici: Rinascita 1976 - 8 - 20 - numero 33

Brano: EGEO
Continua
la ten sione
greco turca
Benché della contesa siano state investite diverse sedi internazionali — dal Consiglio di sicurezza dell'Onu. alla Corte di giustizia dell'Afa — e benché la diplomazia americana si sia subito messa in movimento per cercare di tessere una soluzione di compromesso, può accendersi in qualunque momento la scintilla destinata a far precipitare in guerra la crisi che oppone Grecia e Turchia, paesi membri della Nato, per la questione della piattaforma continentale nell'Egeo. la tensione è stata allentata dal rientro — definito del resto momentaneo dalle autorità di Ankara nel porto di Istanbul della nave oceanografica Sismik I, la cui missione di ricerca petrolifera a ovest dell'isola ellenica di Lesbo aveva fatto esplodere la crisi. Questo perché, nonostante che entrambe paiano restie a lasciar deteriorare la tensione fino al conflitto aperto, le posizioni delle due capitali restano distanti e perché, nel suo significato, la crociera della Sismik è sembrata soprattutto un pretesto nei difficili raporti grecoturchi, sempre sottoposti a pericolose oscillazioni nei momenti caldi della situazione in Medio Oriente. Non si comprenderebbero altrimenti le ragioni per le quali la crisi continui nonostante l'esistenza di ampi margini di negoziato o, se non altro, di un accordo parziale capace almeno di far rientrare l'allarme militare, in cui sono stati posti i due eserciti, e di congelare la contesa.
Il fatto è che per Atene, con la missione della Sismik, si sono riaperte diverse questioni: in primo luogo, appunto, quella di principio che riguarda le acque territoriali nell'Egeo, nel momento in cui è al centro della conferenza internazionale dell'Onu il problema del diritto marittimo e, quindi, dello sfruttamento delle risorse sottomarine; e poi quella di Cipro. Non sono state casuali le allarmate affermazioni del presidente Makarios il quale ha detto di temere la riapertura delle ostilità da parte dei turchi nell'isola, dove la divisione è stata imposta due anni or sono dalla forza delle armi e non da un accordo politico. Del resto, proprio in questo precedente risiede la diffidenza che il governo ellenico sta manifestando verso l'iniziativa di Kissinger, diretta a patrocinare un accordo bilaterale dall'alto del bisogno degli Stati Uniti che i due paesi hanno per quello che riguarda la loro economia: Ad Atene non solo non si nasconde il timore che, come due anni fa, il segretario di Stato possa far pendere l'ago della bilancia a favore degli avversari in un'eventuale intesa, ma addirittura che i negoziati possano servire a coprire e agevolare un colpo di mano turco. Per aggirare simili rischi il governo di Caramanlis — cosciente anche della sua inferiorità militare e delle spinte interne, di contrastante direzione, volte tutte però a raggiungere positivi risultati — cerca piuttosto una trattativa più ampia e di veder sanciti i propri diritti in consessi internazionali le cui decisioni potrebbero garantire ulteriori passi verso una sistemazione



da Vito Grasso, Turchia. Contraddizioni dell'alleato di ferro [sottotitolo: Anche qui la politica americana e della NATO è stata messa in discussione. I primi incerti passi della democrazia dopo la dittatura militare. Ma adesso i militari hanno recuperato gran parte del loro potere] in KBD-Periodici: Rinascita 1974 - 8 - 30 - numero 34

Brano: Turchia
Contraddizioni
dell'alleato di ferro
Anche qui la politica americana e della Nato è stata messa in discussione. I primi incerti passi della democrazia dopo la dittatura militare. Ma adesso i militari hanno recuperato gran parte del loro potere
di Vito Grasso
La virata con cui Washington ha sposato, dopo avere appoggiato l'avventura cipriota dei colonnelli greci, la maggior parte delle tesi turche, potrebbe far credere che la Turchia sia un « alleato di ferro », sicuro al cento per cento, in quel nodo geografico e strategico che fa di quel paese il punto di saldatura tra la Nato e la Cento e lo spartiacque tra il mondo socialista e il mondo arabo. Le cose non stanno così. La condotta della diplomazia statunitense testimonia anche la preoccupazione che la presenza americana in Turchia fosse rimessa in discussione, con nuovi slittamenti di Ankara e scelte autonome di politica estera. Occorre infatti ricordare che l'attuale governo di Ankara mostrò subito, fin dal suo sorgere, di volere perseguire su varie questioni una politica meno dipendente nei confronti degli americani. E non a caso, benché la Turchia non abbia ragioni di rimettere in discussione l'Alleanza atlantica e goda anzi del sostegno degli Stati Uniti e della condotta passiva (quindi di appoggio) da parte dei comandi Nato, lo stesso Ecevit ha discusso, con velate critiche, il ruolo della Nato e, a ben vedere, non ha considerato, nel corso di tutta la crisi, gli Stati Uniti come un interlocutore esclusivo e privilegiato.
Il 12 marzo 1971 in Turchia vi fu un colpo di Stato militare e per due anni e mezzo il paese fu governato con lo stato d'assedio e la legge marziale. Privo di ogni consenso popolare, incapace di fronteggiare i drammatici problemi del paese, il regime militare entrò in crisi nella primavera del 1973 quando, al momento delle elezioni del presidente della Repubblica, da parte del Parlamento, subì una prima sconfitta. Nonostante il Parlamento fosse manipolato, esautorato, e per l'occasione particolarmente minacciato, il candidato dei militari non passò e fu invece eletto un exammiraglio di convinzioni legalitarie e costituzionali. I militari furono costretti a indire nuove elezioni legislative e nell'autunno dello stesso anno il Partito repubblicano del popolo di Butlent Ecevit — contro il quale si erano coalizzate tutte le forze conservatrici e vi erano interventi continui dell'ambasciata americana — ottenne una schiacciante vittoria, avvicinandosi alla' maggioranza assoluta e conquistando una solida maggioranza relativa. La vittoria fu molto indicativa: il partito repubblicano, infatti, era l'unica formazione legale che si ispirava a un programma democratico, e, sia pure genericamente, di sinistra (v. Rinascita del 4 gennaio 1974, n. 1). In altri termini, la dittatura militare siglava il suo fallimento col successo di una forza che appariva decisa a intraprendere l'opera di ricostruzione economica e di restaurazione democratica.
Tuttavia la situazione interna turca presenta un quadro che non può non suscitare perplessità riguardo alla vo lontà di rinnovamento che pure esiste nel gruppo repubblicano.
Il Partito repubblicano del popolo, dopo l'allontanamento e poi la morte La fortezza di Famagosta dove i turcociprioti erano rimasti assediati dall'EokaB
di Inönü, sotto la guida di Bulent Ecevit si è profondamente rinnovato, uscendo dal confuso nazionalismo panturco che lo aveva caratterizzato negli anni della sconfitta e che lo aveva reso debole di fronte al più conseguente conservatorismo dei Menderes prima, e dei Demirel poi. Le scissioni interne, avvenute tutte a destra, non solo non lo hanno indebolito, come si è visto, nelle recenti elezioni politiche, ma gli hanno dato la possibilità di elaborare delle linee programmatiche intorno alle ,quali chiamare tutte le forze progressiste del paese. Ecevit non ha esitato a dichiarare, in un paese in cui l'attribuzione della qualifica di comunista era sufficiente per essere deportati, che il suo partito è socialista e vuole, attraverso la democrazia, risolvere i problemi sociali e di struttura più profondi del paese. sono mancate iniziative concrete per dare almeno un avvio alle riforme più urgenti.
La situazione parlamentare e delle forze politiche e sociali in campo, ha però costretto Ecevit ad una alleanza con il Partito della salvezza nazionale, espressione dei gruppi musulmani più retrivi se non sul piano economicosociale, certo sul piano dei diritti civili e delle libertà politiche. Data la .indisponibilità ad entrare nella coalizione di governo dell'influente Partito della giustizia (diretto dal conservatore Demirel) il quale ha anzi organizzato il boicottaggio del governo nelle amministrazioni locali in cui ha la maggioranza; e data la impossibilità di ogni accordo con gli scissionisti di destra dello stesso partito repubblicano e con la formazione politica che si richiama al defunto Menderes; in breve dopo una lunga e travagliata crisi che minacciava di ripiombare il paese nel buio della dittatura militare, Ecevit ha trovato un'intesa con i gruppi religiosi presenti in Parlamento.
In questa situazione, il Partito della salvezza nazionale di Erbakan, pur essendo numericamente poco cospicuo, risulta condizionante e funge da freno alle iniziative di parte repubblicana. Vi è stato in questo senso il test dell'amnistia a favore dei prigionieri po litici. Decretata con ritardo solo nel luglio scorso, essa non è stata ancora interamente applicata e molti importanti prigionieri politici — fra cui Behice Bohran, presidentessa del disciolto Partito dei lavoratori turchi, condannata dalla giunta militare a venti
anni di lavori forzati sono ancora
in prigione. Per contro, Ecevit ha autorizzato la costituzione di un Partito socialista turco, che è avvenuta nello scorso giugno e ha raccolto i militanti del Partito dei lavoratori e altri gruppi marxisti.
Ma l'altra vera e pesante ipoteca che grava sul governo di Ecevit è la presenza in posizioni di controllo delle istituzioni dell'apparato militare. I generali golpisti pur politicamente squalificati e costretti con le elezioni a trasmettere i poteri a quell'Ecevit che all'indomani del colpo di Stato avevano incriminato, hanno sì subìto le indicazioni dei paese, ma nel contempo hanno conservato tutte le posizioni chiave per poter eventualmente ricattare il governo. L'azione a Cipro ha inoltre dato prestigio professionale agli ufficiali turchi e ne ha rafforzato, pertanto, anche la posizione politica. In un esercito che ha avuto occasione di combattere solo rail'atto della sua formazionenella guerra di liberazione del 1923 — e che, in seguito ha potuto soltanto inviare due battaglioni alla guerra di Corea, la guerra cipriota, sostenuta da un'ondata di nazionalismo restituisce indubbiamente ai generali un'autorevolezza ed una funzione capaci di far dimenticare gli scandalosi privilegi di cui godono, le crudeltà e l'imperizia da essi dimostrate nel governo, le responsabilità per il colpo di Stato.
Se già prima della crisi di Cipro, la presenza dei militari costituiva per Edevit un pericoloso condizionamento, essa appare oggi più minacciosa e tale da consigliargli una estrema prudenza non solo nei rapporti interni ma an che nella politica estera della Turchia: alla quale non giova certo uno stato di tensione permanente che determinerebbe l'aumento delle spese militari con pregiudizio per la ricostruzione economica, e un riaccresciuto potere dell'esercito con un arresto della incipiente democratizzazione.
Un appunto a parte merita la situazione della sinistra, duramente colpita dalla dittatura militare nelle sue diverse espressioni. Duramente colpita è, anzi, dire poco. I colpi portati alle organizzazioni operaie e popolari dai militari sono stati di una durezza eccezionale e hanno provocato guasti profondi sia sul terreno delle strutture organizzate del movimento che su quello dei suoi orientamenti, dominati per un certo periodo da una spinta estremistica, come unica risposta alla brutalità della repressione. Non è perciò azzardato affermare che i processi di ricostruzione della sinistra, ancora peraltro non levale, siano destinati a pesare nel medio e nel lungo periodo. OPcri i protas'nnisti sono da una parte Ecevit e dall'altra il blocco di forze conservatrici che hanno un loro perno nei eenerali. E dallo svoleimento della crisi cipriota dipenderà molto della partita che essi stanno giocando all'interno del paese.



da [Gli interventi] Livio Maitan in Studi gramsciani

Brano: Livio Maitan

In alleimi scritti di Gramsci esistono annotazioni sul pensiero di Trotzki. La mia opinione è che questi giudizi di Gramsci non siano pertinenti, cioè riguardino non il reale pensiero di Trotzki, ma una sua deformazione.

Come primo esempio faccio subito quello del motivo cui si è rifatto stamattina Togliatti, il motivo della cosiddetta guerra manovrata e della cosiddetta guerra di posizione.

Benché il riferimento gramsciano non appaia del tutto chiaro, ritengo legittima l'interpretazione secondo cui Gramsci si riferirebbe alla tattica del «fronte unico» adottata dairinternazionale Comunista dopo il III Congresso mondiale. A questa tattica corrisponderebbe la guerra di posizione, valida per i paesi deirOccidente, dove sarebbe riuscita inapplicabile la tattica della guerra manovrata applicata in Russia nel ’17.

Ora, questa valutazione non corrisponde affatto alle posizioni dell’Internazionale Comunista che della strategia e della tattica valide in una fase di crisi rivoluzionaria si è occupata nei suoi due primi Congressi, mentre il problema del « fronte unico » si poneva su un piano ben diverso. La svolta idei IH Congresso era in realtà determinata da una relativa attenuazione della crisi rivoluzionaria e dalla necessità di un parziale ripiegamento dati gli sviluppi della situazione e non riguardava affatto una presunta differenziazione nei metodi di lotta per la conquista del potere in Occidente rispetto all’Oriiente.

Quanto a Trotzki poi, l’equivoco di Gramsci viene accentuato. Infatti, come è facile constatare, nella battaglia per il « fronte unico » contro gli ultrasinistri, Trotzki si è trovato sulla stessa linea di Lenin, assumendo persino in un’occasione ili ruolo di relatore a nome della Direzione delrinternazionale.580

Gli interventi

Altro esempio della scarsa pertinenza delie critiche di Gramsci a Trotzki: la teoria della rivoluzione permanente, sulla quale Togliatti ha riferito un accenno di Gramsci che [...]



da Massimo Mila, L'antico e il progresso nel carteggio tra Verdi e Boito in KBD-Periodici: Belfagor 1984 - 3 - 31 - numero 2

Brano: L’ANTICO E IL PROGRESSO NEL CARTEGGIO TRA VERDI E BOITO

Nel 1978 l’istituto di studi verdiani, allora diretto da Mario Medici, pubblicò i due volumi del Carteggio VerdiBoito, a cui si spera possa seguire un giorno la pubblicazione del Carteggio VerdiRicordi, assicurato all’istituto stesso dal tempestivo intervento dell’attuale direttore, Pierluigi Petrobelli. Ciò dovrebbe costituire l’avvio di quella edizione totale dell’epistolario verdiano che la cultura italiana deve a se stessa, edizione che si auspica avvenga così come indica la natura stessa del materiale, per blocchi di carteggi con singoli corrispondenti, assicurando la continuità logica e storica degli argomenti ed escludendo la pazzesca dispersione di un ordine cronologico assoluto, valido ovviamente solo per le frattaglie, cioè per i casi di lettere occasionali.

La pubblicazione del Carteggio VerdiBoito, a cura di Mario Medici e di Marcello Conati, fu resa possibile da una catena generosa d’atti di mecenatismo. Ci fu anzitutto la donazione delle lettere di Verdi a Boito, che quest’ultimo aveva piamente conservato e poi, morendo senza eredi diretti, affidato al proprio esecutore testamentario Luigi Albertini, ultimo direttore del « Corriere della Sera » prima del fascismo. Questi aveva sposato la seconda figlia di Giuseppe Giacosa, legato a Boito da lunga amicizia, e tra la giovane coppia e il vecchio poeta e musico s’era stretto un legame d’affetto che durò fino alla scomparsa del maestro, nel 1918. Fu il 4 novembre 1973 che i figli di Luigi Albertini, Leonardo ed Elena, consegnarono il prezioso lascito all’istituto di studi verdiani nella sua sede di palazzo Marchi a Parma. Si trattava di 141 lettere.

Altre lettere di Verdi a Boito, precisamente trentuno, vennero all’istituto dal lascito del musicologo inglese Frank Walker, molto legato all’istituto stesso, tanto che dopo la sua morte il fratello consegnò all’istituto una cassa delle sue carte. Essa conteneva tra l’altro e qui mi servo delle parole di Mario Medici nella Prefazione « un notes di appunti di mano di Piero Nardi, come dire del più autorevole biografo di Boito, e fogli dattiloscritti, sempre provenienti dal Nardi, relativi a testi di lettere e dispacci indirizzati da Verdi a Boito ». Sono per lo più documenti brevi,152

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d’importanza relativamente minore, ma « attendibili senz’ombra di dubbio » — sono parole di Mario Medici « ed i cui originali sembrano essersi volatilizzati ».

Infine due lettere di Verdi provengono dall’archivio di Sant’Agata dove se ne conserva l’autografo (forse una brutta copia?), e due provengono da altre fonti.

Restava, naturalmente, da ripristinare l’altra voce del dialogo epistolare. Le lettere di Boito a Verdi — salvo due i cui originali si trovano, stranamente, nella Donazione Albertini — sono conservate negli archivi di Sant’Agata, e la cortesia della famiglia CarraraVerdi ne ha consentito le fotocopie all’istituto di studi verdiani. In tutto, 301 lettere, distribuite nell’arco esatto dell’ultimo ventennio dell’Ottocento, e attestanti la collaborazione artistica che produsse l'Otello e il Falstaff, nonché il rifacimento del Simon Boccanegra. Le ultime trattano diffusamente dei Quattro pezzi sacri, per la cui esecuzione, prima a Parigi, poi a Milano e altrove, Boito si batté insistentemente contro la riluttanza e, diciamo pure, la musoneria dell’ottuagenario maestro.

E restava, infine, da trovare i fondi per la costosa pubblicazione. Questa fu resa possibile grazie all’assegnazione all’istituto d’uno dei Premi Mattioli, elargiti dalla Banca commerciale italiana, su proposta congiunta dell’economista Sergio Steve e dello storico Franco Venturi, sobillati con molesta insistenza da chi scrive questo articolo. Ecco dunque riunite 176 lettere di Verdi; in numero un po’ minore quelle di Boito. Ci sono tutte? No, e nella prefazione di Mario Medici si citano casi evidenti di lettere che « dovevano » esserci, ma che sono sparite.

Come in esergo, e riprodotta in facsimile, una lettera di Verdi che non fa parte del carteggio 18801900, ma è molto anteriore. È la lettera che Giuseppe Verdi scrisse a Boito nel 1862 per accompagnare il regalo d’un orologio quale ringraziamento per la collaborazione occasionalmente prestata dal ventenne letterato nell 'Inno delle Nazioni, cantata per coro e orchestra che Verdi, così restio a lavori di circostanza, aveva stranamente accettato di scrivere per l’Esposizione Universale di Londra. Forse perché, sotto sotto, lo rimordeva la coscienza del tempo perduto in quel pasticciaccio, regalò a Boito un orologio: « Vi ricordi il mio nome, ed il valore del tempo ». Figurarsi se Boito non avrà scritto una bella lettera di ringraziamento! Ma non ci rimane: Verdi Giuseppina Strepponi potevano prevedere che quel giovanotto sarebbe diventato un giorno tanto importante. Ecco un caso tipico di lacuna sicura.

Tra questo preambolo ed il corpus vero e proprio del carteggio sta come un macigno l’episodio che per lunghi anni tese un velo d’incomprenl’antico e il progresso nel carteggio tra verdi e boito

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sione, se non di ostilità, tra i due artisti. Un anno dopo la casuale collaborazione di Verdi e Boito nell’inno delle Nazioni, Pii novembre 1863, si era rappresentato alla Scala I profughi fiamminghi, prima opera di Franco Faccio, 23 anni, esponente della « giovane scuola » lombarda. In un banchetto per celebrare il successo, contrastato, dell’opera, Arrigo Boito, giovane, scapigliato fautore di quello che allora si diceva l’avvenirismo, avrebbe improvvisato seduta stante la Ode saffica col bicchiere alla mano, dove si brinda « Alla salute dell’Arte italiana! / Perché la scappi fuora un momentino / Dalla cerchia del vecchio e del cretino ». E si aggiungeva: « Forse già nacque chi sovra l’altare / Rizzerà Parte, verecondo e puro, / .Su quell’altar bruttato come un muro / Di lupanare ». Con riferimento al festeggiato Faccio, ma fors’anche con un segreto pensierino a se stesso e all’embrionale progetto del Mefistofele.

Purtroppo la cosa non si fermò 11, nell’a[...]

[...]ove si brinda « Alla salute dell’Arte italiana! / Perché la scappi fuora un momentino / Dalla cerchia del vecchio e del cretino ». E si aggiungeva: « Forse già nacque chi sovra l’altare / Rizzerà Parte, verecondo e puro, / .Su quell’altar bruttato come un muro / Di lupanare ». Con riferimento al festeggiato Faccio, ma fors’anche con un segreto pensierino a se stesso e all’embrionale progetto del Mefistofele.

Purtroppo la cosa non si fermò 11, nell’allegria un po’ goliardica d’un banchetto fra giovani artisti. L’Ode venne pubblicata, il 22 novembre, nel « Museo di famiglia » dell’editore Treves. Verdi la lesse e incassò. In una lettera a Tito Ricordi commentò asciutto asciutto: « Se anch’io, tra gli altri, ho sporcato l’altare egli lo netti ed io sarò il primo a venire ad accendere un moccolo » (citato in: Giuseppe Verdi, Autobiografia dalle lettere, a cura di Carlo Graziosi [ma: Aldo Oberdorfer], Milano, Mondadori, 1946, pag. 4178, n. 1).

Questo spiega facilmente perché manchino in principio molte lettere di Boito: evidentemente non vennero conservate, trattandosi di persona non grata. A rimuovere questo tremendo ostacolo provvide, molti anni dopo, la paziente diplomazia di Giulio Ricordi, che dopo YAida e le ripetute asserzioni del maestro di avere chiuso col teatro, mal si rassegnava a perdere i prodotti di quella gallina dalle uova d’oro. Come abbia agito piano piano per ristabilire un contatto tra Verdi sdegnato e Boito, che nel frattempo aveva versato alquanto acqua fresca nel vino dei suoi entusiasmi avanguardistici, lo ricostruisce assai bene Mario Medici nella prefazione.

Il 26 gennaio 1871 (Boito lavorava alla revisione del Mefistofele dopo il fiasco alla Scala, ma già aveva adocchiato quel soggetto del Nerone che gli fu poi croce di tutta la vita) Ricordi scrive a Verdi:

Le spedii un libretto dell’Amleto\ ed a proposito entro di botto in un Gran progettoW... eh'Ella sa ch’io rumino peggio di un bue!!... Dunque Ella mi fece motto due o tre volte del Nerone... e vidi che questo soggetto non le spiaceva.

Ieri Boito fu da me, ed io pumfl sparai la cannonata: Boito mi domandò una notte di riflessione, e stamane fu qui, e si trattenne lungamente meco di questo affare. La conclusione si è che Boito si riputerebbe l’uomo il più felice.154

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il più fortunato se potesse scrivere il libretto del Nerone per Lei: e rinuncerebbe subito e con piacere all’idea di fare la musica (prefazione, pag. xxvi).

Si affaccia qui il primo esempio di quella straordinaria devozione di Boito verso il maestro, spinta fino airautoannientamento, che non sarebbe poi mai venuta meno nei venti anni della loro collaborazione. E stranamente Verdi, che più tardi vedremo scrupolosissimo verso i diritti del collega, questa volta non montò in cattedra di correttezza, non ricusò l’offerta generosa, ma in due lettere del 28 e del 30 gennaio tergiversò. « Non posso oggi rispondervi sull’affare Nerone!! Non ho un minuto da perdere. Gran progetto, voi dite! verissimo, ma è realizzabile? » (prefazione, pag. xxvi). E poi (mentre Ricordi assicurava: « Boito, sotto la di Lei direzione, farebbe bene, molto bene »): « Eccomi a voi pel Nerone. È inutile che io ripeta quanto io ami questo soggetto. È inutile altresì che aggiunga quanto mi sarebbe grato aver a collaborare un giovine poeta, di cui ho avuto anche ultimamente, in quest 'Amleto, occasione di ammirare il moltissimo talento » (si trattava del libretto per VAmleto di Faccio).

« Ma voi conoscete abbastanza bene le cose mie, ed i miei impegni... Non ho il coraggio di dire: facciamo, oso rinunciare a così bel progetto. Ma ditemi, caro Giulio, non potremmo lasciare sospeso per qualche tempo questo affare, e riprenderlo più tardi? » (prefazione, pag. xxvixxvn).

Non se ne fece nulla, ma intanto il grande ostacolo era rimosso. Otto anni più tardi Ricordi torna alla carica col nuovo progetto di Otello, probabilmente mettendo sotto Boito con una certa brutalità d’uomo di affari, senza nemmeno essere ben sicuro che Verdi fosse d’accordo. Certo è che nell’estate 1879 Boito informava ripetutamente il Tornaghi, uomo di fiducia di Ricordi, dei rapidi progressi nella stesura del libretto. « Dirai a Giulio che sto fabricando il ciocolatte » (prefazione, pag. xxvn). E il 24 agosto: « Domani o posdomani affronterò i primi versi dell’ultimo Atto. Tutto sarà finito in tempo » (ibidem). E un mese più tardi: « Se io non consegno a Giulio questa settimana Desdemona strozzata temo ch’egli strozzi me » (prefazione, pag. xxvm).

Quando da questa parte fu sicuro del fatto suo, Ricordi chiese senz’altro a Verdi di poter venire a Sant’Agata in compagnia del poeta, per porre le basi dell’affare. Questa volta sì che Verdi si trincerò dietro un reticolato di precauzioni, di prudenza e di discrezione, e così facendo ci fornì, tra l’altro, la vera istoria del primo germe di Otello. Ecco una lettera, datata 4 agosto 1879 per uno dei soliti lapsus cronologici di Verdi, ma da posticipare almeno al 4 settembre, se non addirittura al 4L’ANTICO E IL PROGRESSO NEL CARTEGGIO TRA VERDI E BOITO

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ottobre, considerando il fatto che Desdemona era ancora da strozzare il 21 settembre.

Sarà sempre gradita una vostra visita in compagnia d’un’amico, che ora sarebbe s’intende, Boito. Permettetemi però che su quest’argomento vi parli molto chiaro, e senza complimenti. Una sua visita m’impegnerebbe troppo ed io non voglio assolutamente impegnarmi. Come sia nato questo progetto del Cioccolatte Voi lo sapete... Pranzavate meco insieme ad alcuni amici. Si parlò d’Otello, di Sheaspeare [sic], di Boito. Il giorno seguente Faccio mi condusse Boito all’albergo. Tre giorni dopo Boito mi portò lo schizzo d’Otello, che lessi e trovai buono. Fatene, gli dissi, la poesia; sarà sempre buona per Voi, per me, per un’altro et. et...

Ora, venendo qui con Boito, io mi trovo obbligato necessariamente a leggere il libretto che Egli porterà finito.

Se trovo il libretto completamente buono io mi trovo in certo modo impegnato.

Se trovandolo buono, suggerisco delle modificazioni che Boito accetta, io mi trovo anche maggiormente impegnato.

Se poi, anche bellissimo, non mi piace, sarebbe troppo duro dirgli in faccia quest’opinione!

Nò nò... Voi siete già andato troppo oltre, e bisogna fermarsi prima che nascano pettegolezzi e disgusti. A mio avviso, il miglior partito, (se lo credete e conviene a Boito) è quello di mandarmi il Poema finito, affinché io lo possa leggere, e manifestare con calma la mia opinione senza che questa impegni nissuna delle parti.

Una volta appianate queste difficoltà alquanto spinose sarò felicissimo di vedervi arrivare qui con Boito (prefazione, pag. xxvii).

Che la lettera sia da riportare a ottobre, piuttosto che a settembre, pare convalidarlo anche una lunga lettera di Ricordi a Verdi, il 5 settembre, che rispecchia uno stadio non ancora cosi avanzato delle trattative. Con molti salamelecchi l’editore indugia ancora a persuadere il maestro dei sentimenti di devozione che quei giovani scapestrati Boito e Faccio

nutrono per lui. « So, se la memoria non mi falla, che Boito ebbe qualche torto verso di lei; ma carattere nervoso, bizzarro, scommetto che non seppe di commetterlo, o non trovò mai modo di rimediarvi ». Adesso, assicura Ricordi, è tutto diverso: « Nei frequenti nostri ritrovi Boito parlò sempre di Verdi con venerazione ed entusiasmo; se altrimenti, non mi sarebbe amico ». Non solo, ma quando vengono i due compagnoni, Boito e Faccio, nel suo ufficio dove campeggia un grande ritratto di Verdi, lo sogguardano esclamando: « Ma e quello li, proprio non scriverà più? » (prefazione, pag. xxvm).

Le fatiche, un poco untuose, di Ricordi andarono a buon porto:156

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Questa camicia di Nesso dell’editore mi mette sempre in una ambigua posizione!!... poiché per un sentimento di delicatezza temo sempre ch’Ella possa credere che sia Vaffarista che parla!!... e ciò mi ripugna. Certo sarebbe soverchia ingenuità il dirle che un’opera di Verdi non sia una vera fortuna materialmente parlando!!... ma questa idea è cento volte sorpassata e per così dire oscurata dalla immensa indicibile emozione che mi dà il pensiero di un lavoro che renderà sempre più glorioso, s’è possibile, il di lei nome, e farà risplendere di nuova luce quella carissima Arte italiana (ibidem).

Verdi conosceva bene i suoi polli, ossia i suoi editori, italiani e francesi, ed era l’ultima persona a lasciarsi abbagliare da simili sparate, ma questa volta abbassò prudentemente qualcuna delle sue barriere difensive. Il 10 novembre 1879 accusava pacatamente ricevuta del libretto a Ricordi. « Ricevo in questo momento il ciocolatte. Lo leggerò stasera, perché ora ho la testa imbrogliata d’affari » (prefazione, pag. xxix).

Poi si chiuse nel mistero di un lungo silenzio, almeno allo stato attuale dei documenti. Passano nove mesi di qui alla prima lettera del nostro Carteggio, che reca la data del 15 agosto 1880. Ricordi friggeva. Il 24 luglio scriveva a Boito: « È necessario svegliare un poco il nostro Verdi! (...) Io ho il presentimento che Verdi abbia messo un po’ a dormire il moro! » (prefazione, pag. xxx).

Una lettera di Giuseppina Verdi Strepponi a Ricordi, volta a ritardare la decisiva visita di Boito, tanto patrocinata da Ricordi, illustra bene la situazione:

Ella sa, come avvenne l’affare per questo perfido Jago. Si può dire che Verdi è entrato alla cieca e senza volerlo in questa specie di rete. Una cosa ne ha chiamata un’altra e da un niente, da una semplice parola lanciata col bicchiere dell’allegria alla mano, è nato un libretto. Verdi lo ha preso, e benché senza impegno l’ho più volte sentito dire, non senza malumore; Io mi lego troppo

— le cose vanno troppo avanti ed assolutamente non voglio esser costretto a fare, quello che non vorrei, etc. etc. (note alla Lettera 2).

(Si noti, incidentalmente, in questa lettera l’espressione « da una semplice parola lanciata col bicchiere dell’allegria alla mano ». Può darsi che sia una sopravvivenza inconscia. Ma Giuseppina era abbastanza donna e abbastanza malignetta per non ricordarsi che il famigerato brindisi di Boito s’intitolava: Ode saffica col bicchiere alla mano).

In realtà, e sebbene Giuseppina esorti a « lasciare, almeno pel momento, le cose come sono, facendo intorno al Moro il più gran silenzio possibile », la prima lettera del carteggio introduce già in medias res. La progettazione del dramma occupa interamente lo spirito del compositore,l’antico e il progresso nel carteggio tra verdi e boito

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la cui attenzione si appunta sul finale dell’Atto ni, vero punctum dolens dell’opera, come Boito aveva riconosciuto in una lettera a Ricordi, e da questi poi riferita, l’8 novembre 1879, alla moglie di Verdi: « C’è ancora il terzetto dell’Atto 3, pezzo capitale, che mi fa disperare. Di tanto in tanto lo abbandono per mandare avanti qualche altra scena, poi ritorno al terzetto e lo ritrovo più arcigno che mai! » (prefazione, pag. xxix).

Sono cinque le lettere, dal 15 agosto al 2 dicembre 1880, in cui si sviluppa il confronto di librettista e compositore su questo finale terzo di Otello. Poi subentra il progetto di rifacimento del Simon Boccanegra, che occupa 24 lettere, da una lunghissima di Boito del 6 dicembre, fino al 15 febbraio 1881. Seguono alcune lettere d’argomento vario, tra cui l’opposizione di Verdi ad avere il proprio busto nel ridotto della Scala e la machiavellica sottigliezza delle sue argomentazioni per non contribuire di tasca propria a quello di Bellini, quindi ritorna sul telaio YOtello per una cinquantina di lettere, ma con una lunga interruzione, durante la quale il carteggio ovviamente si dirada, dalla fine d’agosto 1881 fino alla drammatica, ma benefica crisi dell’aprile 1884, quando Boito, a Napoli, anche qui in un banchetto d’artisti, s’era forse lasciato scappare qualche parola imprudente, oppure era stato frainteso dal corrispondente del giornale « Roma », che gli attribuì il rammarico di non poter musicare lui stesso il Jago. Verdi, venutone a conoscenza, incaricò Franco Faccio di dire a Boito « che io, senz’ombra di risentimento, senza rancore di sorta gli rendo intatto il suo manoscritto. Più ancora, essendo quel libretto di mia proprietà, glielo offro in dono qualora egli intenda musicarlo » (note alla Lettera 46).

La lunga e un po’ contorta lettera di scuse che Boito gli rivolse è documento commovente della sua devozione. Assicura il maestro d’avere scritto questo libretto « solo per la gioja di vederlo riprendere la penna per causa mia, per la gloria di esserle compagno di lavoro per l’ambizione di sentire il mio nome accoppiato al suo ». Quasi antiveggendo e confutando in anticipo certe illazioni critiche dei giorni nostri, che vorrebbero attribuire all’influenza di Boito un’azione indebita, e non interamente propizia, sulla natura artistica del maestro, sulla sua spontaneità, Boito precisa: « Se io ho saputo intuire la potente musicalità della tragedia Schakespeariana [sic], che prima non sentivo, e se l’ho potuta dimostrare nei fatti nel mio libretto gli è perché mi son messo nel punto di vista dell’arte Verdiana, gli è perché ho sentito scrivendo quei versi ciò ch’ella avrebbe sentito illustrandoli con quell’altro linguaggio mille volte più intimo e più possente, il suono ». Per convincere Verdi con la sua appassionata protesta Boito non esita a rilasciare una commovente confessione della propria impotenza creativa.158

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Maestro, ciò che Lei non può sospettare è l’ironia che per me pareva contenuta in quell’offerta senza sua colpa. Veda: già da sette od otto anni forse lavoro al Nerone (metta il forse dove vuol Lei, attaccato alla parola anni o alla parola lavoro) vivo sotto quell’incubo; nei giorni che non lavoro passo le giornate a darmi del pigro, nei giorni che lavoro mi dò dell’asino e così scorre la vita e continuo a campare, lentamente asfisiato [sic] da un Ideale troppo alto per me. Per mia disgrazia ho studiato troppo la mia epoca (cioè l’epoca del mio argomento) e ne sono terribilmente innamorato e nessun altro soggetto al mondo, neanche l’Otello di Schakespeare [sic], potrebbe distogliermi dal mio tema (...). Giudichi ora Lei se con questa ostinazione potevo accettare l’offerta sua. Ma per carità Lei non abbandoni l’Otello, non lo abbandoni, le è predestinato, lo faccia, aveva già incominciato a lavorare ed io ero già tutto confortato e speravo già di vederlo, in un giorno non lontano, finito.

Lei è più sano di me, più forte di me, abbiamo fatto la prova del braccio e il mio piegava sotto il suo, la sua vita è tranquilla e serena, ripigli la penna e mi scriva presto: Caro Boito fatemi il piacere di mutare questi versi ecc. ecc. ed io li muterò subito con gioja e saprò lavorare per Lei, io che non so lavorare per me, perché Lei vive nell[...]

[...]a lavorare ed io ero già tutto confortato e speravo già di vederlo, in un giorno non lontano, finito.

Lei è più sano di me, più forte di me, abbiamo fatto la prova del braccio e il mio piegava sotto il suo, la sua vita è tranquilla e serena, ripigli la penna e mi scriva presto: Caro Boito fatemi il piacere di mutare questi versi ecc. ecc. ed io li muterò subito con gioja e saprò lavorare per Lei, io che non so lavorare per me, perché Lei vive nella vita vera e reale dell’Arte io nel mondo delle allucinazioni (Lettera 46).

Verdi accettò le scuse, con una certa degnazione.

Lietissimo di questa nostra spiegazione, che era però meglio fosse avvenuta quando tornaste da Napoli. Ripeto anch’io le vostre parole, per ciò che riguarda Otello. Se n’è parlato troppo! Troppo il tempo trascorso! Troppo i miei anni d’età! E troppo i miei anni di servizio1.!! Che il pubblico non abbia a dirmi troppo evidentemente ‘ Basta ’!

La conclusione si è che tutto questo ha sparso qualche cosa di freddo su quest’Otello, ed ha irrigidita la mano, che aveva cominciato a tracciare alcune batture (Lettera 47).

Era vero che, sebbene Boito gli mandasse subito per Jago « una specie di Credo scellerato (...) in un metro rotto e non simetrico » (Lettera 48), e Verdi lo ringraziasse a volta di corriere (« Bellissimo questo credo: potentissimo e shaesperiano [sic] in tutto »), tuttavia continua ancora nel maestro il distacco che da tre anni gli aveva, come diceva lui, irrigidita la mano. « Intanto è bene lasciare un po’ tranquillo quest’Otello, che è anch’esso nervoso, come siamo Noi; Voi forse più di me » (Lettera 49).

Queste soste che ritardano la composizione di Otello non vanno però attribuite come spesso si ritiene a stanchezza fisica connessa con la vecchiaia. Verdi eXYOtello non lavora a spizzico, a piccole dosi, come lui stesso amava dare ad intendere e come in effetti avverrà per il Falstaff. S’interrompe talvolta, a lungo, per cause esterne. Quando lavora, la sua applicazione è feroce, tale quale come negli « anni di galera ». Boito nel’antico e il progresso nel carteggio tra verdi e boito

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era impressionato: « Giulio mi disse che Lei aveva già quasi terminato lo strumentale del i Atto!! Badi di non affaticarsi troppo. Il tempo non le manca » (Lettera 79).

Il disgelo avvenne verso la fine dell’anno. Il 9 dicembre, da Genova, Verdi annuncia: « Pare impossibile, ma pure è vero!!! Mah!!!! M’occupo, e scrivo!!... senza pensare al poi... anzi con decisa avversione al poi. Sentite dunque (...) avrei bisogno di quattro versi per ciascuno a parte » (Lettera 53).

Ci fu ancora un’interruzione nell’estate seguente. Verdi si era trasferito a Sant’Agata verso la fine d’aprile, e il 10 settembre 1885 scriveva: «Da che sono qui (ho rossore a dirlo) non ho fatto nulla! Un po’ la campagna, i bagni, il caldo eccessivo e... diciamolo pure, la mia inimmaginabile poltroneria hanno posto ostacolo» (Lettera 59). Ma neanche un mese dopo poteva annunciare: « Ho finito il Quart’Atto e respiro! » (Lettera 60). (Era andato avanti con l’ultimo Atto, saltando sul tormentatissimo terzo.) La composizione non s’interruppe più (« Io non ho finito l’Opera », Lettera 71, 21 gennaio 1886; « Io vado avanti m[...]



da Andrea Binazzi, Raffaele Pettazzoni in KBD-Periodici: Belfagor 1984 - 3 - 31 - numero 2

Brano: RITRATTI CRITICI DI CONTEMPORANEI

RAFFAELE PETTAZZONI

Nel 1952, quando, nei « Libri del tempo » di Laterza, usci Yltalia religiosa di Raffaele Pettazzoni furono in molti, tra i laici progressisti, a recensire e a citare il libro come un momento alto della battaglia contro il confessionalismo della Chiesa cattolica e contro l’affermarsi nella vita sociale e politica di un modo di concepire la religione che non lasciava spazi per la storia, ma tutto tendeva a risolvere in termini di autorità. Ernesto De Martino, sul « Mondo » del 14 marzo 1953, dedicò al libro un lungo articolo dove le forti riserve metodologiche e teoriche lasciavano immediatamente il campo all’apprezzamento dell’opera come « documento significativo dello sforzo compiuto da questo studioso per legare le ricerche storicoreligiose alla problematica del mondo moderno » 1. Secondo il De Martino, dagli scritti raccolti nel volume traspare la preoccupazione « che si stiano preparando giorni duri per le sorti dell’idea laica in Italia, e che quindi anche i frutti della sua [del Pettazzoni] fatica di storico delle religioni rischino di andar dispersi, o quanto meno la loro maturazione ritardata ».

Altri, come Piero Calamandrei, da una diversa angolatura, ma per linee convergenti, nel compiacersi di aver trovato nel libro del Pettazzoni la Resistenza collocata tra i momenti della storia religiosa d’Italia e nell’insistere sul carattere di « insurrezione morale » di quel moto popolare, affermava, dilatando e anche magari genericizzando l’intento dell’autore: « Religione vuol dire serietà della vita, impegno per i valori morali, coerenza tra il pensiero e l’azione: la religione non è soltanto quella che si celebra nelle cerimonie liturgiche »2.

Questo libro, insieme ai primi volumi, pressoché contemporanei, di Miti e leggende, fece conoscere il Pettazzoni anche tra il largo pubblico e

1 E. De Martino, Italia religiosa, in « Il Mondo », 14 marzo 1953, p. 4.

2 P. Calamandrei, Passato e avvenire della Resistenza, ora in Scritti e discorsi politici, voi. I, Storia di dodici anni, Firenze 1966, tomo n, p. 51.176

ANDREA BINAZZI

lo collocò decisamente tra gli intellettuali italiani impegnati a contrastare l’egemonia del clericalismo. In questo schieramento, del resto, egli si era già venuto a trovare quando, tra le famose Lettere scarlatte, fu pubblicata una sua lettera al « Mondo » scri[...]

[...]sso internazionale di storia delle religioni che la presidenza del Consiglio non giudicava opportuno si svolgesse a Roma. In quella lettera il Pettazzoni, con la consueta misura e con grande spirito di tolleranza, faceva appello alle ragioni della scienza e della cultura, ma anche a quelle del buon senso secondo le quali era ingiustificato, e perfino esagerato, pensare che un congresso intemazionale di studiosi avrebbe potuto mettere in discussione i rapporti tra Stato e Chiesa stabiliti dal Concordato e chiedeva pubblicamente, riprendendo una richiesta di Benedetto Croce, che gli oppositori esponessero le loro ragioni, se ne avevano di valide3. In quelli e negli anni successivi, fino alla morte, il Pettazzoni, oltre a proporre con sempre maggiore insistenza, anche se non senza oscillazioni, una visione storica delle religioni, partecipò attivamente alla battaglia civile per la libertà religiosa: nel 1957 fu relatore al sesto convegno degli Amici del Mondo su Stato e Chiesa, nel 1958 parlò a Roma, al Teatro Eliseo, insieme ad Arturo Carlo Jemolo, individuando nella « carenza del principio della libertà religiosa » « un segno dell’arretratezza » dell’Italia e invitando i partiti « laici di massa », sensibili « ai riflessi politici della situazione religiosa italiana», a non preoccuparsi «dei frutti senza occuparsi della radice »4. Riprendeva, in quell’intervento, il problema delle minoranze religiose non cattoliche, di fatto discriminate e private dei diritti garantiti loro dalla Costituzione, che già aveva affrontato nell’ultimo saggio delYItalia religiosa, chiuso da un’amara riflessione: « La libertà religiosa esiste ed esisterà negli Stati Uniti finché i cattolici vi sono e vi saranno in minoranza. Il giorno in cui... i cattolici saranno diventati maggioranza, allora essi, in nome delle prerogative spettanti all’unica Chiesa vera, reclameranno per sé soli il diritto alla libertà »5.

Mentre VItalia religiosa suscitò grande consenso come momento della battaglia anticlericale, come opera storica subi l’attacco dei crociani, soprattutto per il modo in cui vi era affrontata la storia religiosa dell’Italia, dominata, secondo il Pettazzoni, dal contrasto tra la « religione dell’uomo » e la « religione dello Stato » o « rel[...]

[...]lici saranno diventati maggioranza, allora essi, in nome delle prerogative spettanti all’unica Chiesa vera, reclameranno per sé soli il diritto alla libertà »5.

Mentre VItalia religiosa suscitò grande consenso come momento della battaglia anticlericale, come opera storica subi l’attacco dei crociani, soprattutto per il modo in cui vi era affrontata la storia religiosa dell’Italia, dominata, secondo il Pettazzoni, dal contrasto tra la « religione dell’uomo » e la « religione dello Stato » o « religione civica ».

3 Un congresso « non opportuno », in « Il Mondo », 19 gennaio 1952, poi in Religione e società, a cura di M. Gandini, Bologna 1966, pp. 157159.

4 Ver la libertà religiosa in Italia, poi in Religione e società, cit., p. 211.

5 Italia religiosa, Bari 1952, p. 154.RAFFAELE PETTAZZONI

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Il voler ricondurre scrive il De Martino nell’articolo citato questa storia all’antitesi fra religione dell’Uomo e religione dello Stato... il voler ricondurre la storia religiosa d’Italia a questa polarità, da ricercarsi nell’epoca dei Comuni, nel Rinascimento, nel Risorgimento e persino nella Resistenza, non ci sembra un pensiero ricco di energia storiografica, capace cioè di darci uno sviluppo unitario, ma piuttosto uno schema classificatorio a cui assegnare, non senza mortificarli, fatti disparatissimi per genesi, significato e funzione.

Era un duro attacco, ma ancor più drastico risultò il giudizio espresso dal De Martino su « Società » (xi, 1953, p. 231), dove l’opera del Pettazzoni veniva considerata priva di « legittimazione critica e metodologica ».

Dello stesso parere non si dimostrò invece Delio Cantimori in una lunga recensione pubblicata su « Belfagor » del settembre 1953, dove tracciava un profilo del Pettazzoni che riprenderà poi, più ampiamente, nel necrologio apparso nel 1960 sulla « Nuova Rivista Storica »: « Nel secondo saggio della presente raccolta, il Pettazzoni ci offre una novità molto interessante, che metteremmo volentieri, per importanza intrinseca e per il momento che segna nello svolgimento intellettuale di questo nostro grande studioso, accanto alla introduzione alla nuova edizione... di La religione nella Grecia antica. Si tratta di una serie di capitoletti intitolata Momenti della storia religiosa d'Italia »6. L’analisi del Cantimori, rapida, ma ricca di sfumature, tende soprattutto a valorizzare, al contrario di quella di De Martino, la quantità di stimoli e di suggestioni che scaturisce dalle pagine di questi capitoli, mette in guardia dal considerarle, lasciandosi magari trarre in inganno dalla semplicità espositiva, schematiche e superficiali. Coglie infine un carattere essenziale del Pettazzoni quando osserva che « la storia delle religioni, rampollante da una vena che ha percorso [...]


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Grazie ad un complesso algoritmo ideato in anni di riflessione epistemologica, scientifica e tecnica, dal termine , nel sottoinsieme prescelto del corpus autorizzato è possible visualizzare il seguente gramma di relazioni strutturali (ma in ciroscrivibili corpora storicamente determinati: non ce ne voglia l'autore dell'edizione critica del CLG di Saussure se azzardiamo per lo strumento un orizzonte ad uso semantico verso uno storicismo μετ´ἐπιστήμης...). I termini sono ordinati secondo somma della distanza con il termine prescelto e secondo peculiarità del termine, diagnosticando una basilare mappa delle associazioni di idee (associazione di ciò che l'algoritmo isola come segmenti - fissi se frequenti - di sintagmi stimabili come nomi) di una data cultura (in questa sede intesa riduttivamente come corpus di testi storicamente determinabili); nei prossimi mesi saranno sviluppati strumenti di comparazione booleana di insiemi di corpora circoscrivibili; applicazioni sul complessivo linguaggio storico naturale saranno altresì possibili.
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