Brano: CHE COSA E' STATO «IL POLITECNICO»
(194519471
Erano i primi d'agosto del '45, stava per sparire Hiroshima, e, da noi, il governo Parri resisteva ancora. Lavoravo ad un nuovo « indipendente di sinistra », che Vittorini diresse per due o tre giorni. I linotipisti del Corriere guardavano con simpatia e commiserazione quei giornalisti improvvisati, che eravamo noi, prendersi confidenza con piombi e banconi. Allora Vinorini era ardente e alato, parlava per ellissi; leggevamo « Uomini e No », stam
pato su una grigia carta di guerra; e quella Nota scomparsa dalle più
recenti edizioni ch'era tanto chiara, per chi avesse saputo leggervi: « Cer
care in arte il progresso dell'umanità è tutt'altro che lottare per tale progresso sul terreno politico e sociale. In arte non conta la volontà, non conta la coscienza astratta, non contano le persuasioni razionali... La mia appartenenza al Partito Comunista indica dun[...]
[...]rdente e alato, parlava per ellissi; leggevamo « Uomini e No », stam
pato su una grigia carta di guerra; e quella Nota scomparsa dalle più
recenti edizioni ch'era tanto chiara, per chi avesse saputo leggervi: « Cer
care in arte il progresso dell'umanità è tutt'altro che lottare per tale progresso sul terreno politico e sociale. In arte non conta la volontà, non conta la coscienza astratta, non contano le persuasioni razionali... La mia appartenenza al Partito Comunista indica dunque quello che voglio essere mentre il mio libro pub indicare soltanto quello che in effetti io sono ». Era già una difesa, una recinzione di territori. Restava la parola « progresso ». Di qui, in realtà, Vittorini non s'è mosso: troppo forte in lui il sentimento del «progresso» tecnico nella letteratura, della avanguardia degli scrittori e delle sue proprie invenzioni e ricerche; e, a un tempo, troppo forte l'antipatia per le intenzioni e la volontà. Voler essere un comunista significa: « non lo sono». La « debolezza d'uomo », cui la Nota attribuiva tutti i demeriti del libro, doveva ben presto diventare la cittadella da difendere contro la coscienza astratta, le persuasioni razionali. Ma, per me, allora, quelle distinzioni parevano molto più ovvie di quanto non siano oggi. Non sapevo quasi nulla del mondo milanese, dei rapporti esistenti fra la gente che volteggiava intorno a[...]
[...] ricerche; e, a un tempo, troppo forte l'antipatia per le intenzioni e la volontà. Voler essere un comunista significa: « non lo sono». La « debolezza d'uomo », cui la Nota attribuiva tutti i demeriti del libro, doveva ben presto diventare la cittadella da difendere contro la coscienza astratta, le persuasioni razionali. Ma, per me, allora, quelle distinzioni parevano molto più ovvie di quanto non siano oggi. Non sapevo quasi nulla del mondo milanese, dei rapporti esistenti fra la gente che volteggiava intorno alla stampa e alle riviste di allora. Cercavo avidamente di sapere e di capire più che potevo di quel ch'era stata, a Milano, la Resistenza; e intanto facevo fatica a distinguere facce e idee. In quell'estate andavo ricopiando certe mie poesie. Le detti a Vittorini e lui in cambia mi fece leggere dei fogli dattiloscritti: il programma di una rivista. Partecipai ad alcune riunioni. Si cominciò a preparare il primo numero del Politecnico. Perché credo opportuno ricor
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darlo, oggi? Perché fu l'occasionale teatro di alçune delle contraddizioni mag giori che ci hanno condotti fin qui.
Nel programma, il « settimanale dei lavoratori » prevedeva per ogni numero un articolo di « agitazione culturale »: «La cultura deve partecipare alla rigenerazione della società italiana. Come? »; «Che cosa ha inteso dire Ehrenburg quando ha scritto: «Anche l'ortolano uscirà dai suoi stessi sistemi tradizionali di cultura'e apprezzerà la cultura di Picasso? ».; scritti propriamente politici e riferiti ad avvenimenti del giorno e ai problemi della ricostruzione: «L'alluminio deve tornare nelle case di tutti»; «Quali possibilità di evoluzione porta la legge Gallo nello stato attuale della agricoltura loinbarda»; scritti di storia politicoeconomica estera e italiana, quelli che dettero poi il tono ad ogni singolo numero del settimanale, destinati a coprire tutto un vastissimo settore di informazione e di critica. Articoli di « storia della cultura o di agitazione culturale », come, ad esempio, «La cultura per fl New Deal e contro il New Deal », «Il cracianesimo nella scuola italiana attraverso la Riforma Gentile »; studi di analisi criticostorica del pensiero scientificofilosofico (« Tono divulgativo », annotava il programma): « A che punto è il pensiero di Dewey? E possibile una evoluzione dell'esistenzialismo in senso progressivo?»; articoli «ideologici »: «Che cosa significa dittatura del proletariato? »; narrazioni; problemi letterari: « Che cosa è utile, che cosa è dannoso per la coscienza civile degli uomini nell'opera di André Gide »; «Non tutti i cosidetti ermetici sono ermetici »; «Giornalismo e realizzazione artistica nella letteratura sovietica »; « biografie di giornali e periodici, inchiesta su quel che si legge, su quel che si potrebbe e vorrebbe leggere, condotte per provincie e categorie sociali»; problemi relativi alla musica, allo sport, alle feste popolari, alle biblioteche. Seguivano alcune altre proposte di argomenti, fra le più aguzze: « Ritratti di categorie morali. Gli obiettivi. Quelli che dicono di essere comunisti e non si sono iscritti perché non vogliono la dittatura del proletariato, ecc. E dove sono finiti? Non nel (e qui una lacuna dattilografica; propongo: «P.d.A. ») nei socialisti nemmeno, ma nei democratici cristiani o nei liberali... Inchieste sui cattivi pittori... Radiografie e biografie sulle case editrici». « Pericolo di `operazione culturale' ovvero menscevismo della situazione d'oggi» «Responsabilità dell'antifascismo militan
te... Incapacità di riconoscere i suoi uomini di cultura ».
Appena cominciò il lavoro redazionale (e poi, durante tutto il primo periodo di vita del Politecnico, che va dalla fine di settembre del 1945 al
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6 aprile 47, vigilia delle elezioni municipali di Milano) si fecero sentire le voci contraddittorie dei diversi redattori. Era un lavoro appassionante e lo
ricordo con piacere. « Per fare il Politecnico — diceva Vittorini ci vogliono
le fiamme al didietro, come i carabinieri ». Non era l'ardore a mancarci. Ma ci si avvide subito che la vita del settimanale subiva influenze difficili a decifrare, contraccolpi dei rapporti personali del direttore e dell'editore col Partito Comunista. Credo, anzi che questa, a me ignota, stor[...]
[...]i redattori. Era un lavoro appassionante e lo
ricordo con piacere. « Per fare il Politecnico — diceva Vittorini ci vogliono
le fiamme al didietro, come i carabinieri ». Non era l'ardore a mancarci. Ma ci si avvide subito che la vita del settimanale subiva influenze difficili a decifrare, contraccolpi dei rapporti personali del direttore e dell'editore col Partito Comunista. Credo, anzi che questa, a me ignota, storia dei rapporti fra la direzione culturale del P. C. e il «settimanale di cultura» sia un'altra storia del periodico. Non ero iscritto al Partito e molto, quindi, mi restava celato.
Il Politecnico, almeno in un primo momento, si propose di rivolgere agli intellettuali dell'antifascismo, alla frazione (( radicale » della borghesia e a quei lavoratori che la Resistenza aveva presentati alla responsabilità politica, un discorso complesso dove l'informazione (e la divulgazione) di tutti i resultati di quella cultura contemporanea «progressista» che il fascismo aveva cetata o stravoltat fosse, per metodo, linguaggio e correlazione di soluzioni e problemi, una proposta o fondazione di « cultura nuova ». L'ambizione del progetto era di interpretare uno stato d'animo allora assai diffuso nell'Italia settentrionale: che esistesse al di sopra delle singole denominazioni politiche una tradizione riw. luzkauadaa e progressista del pensiero filosofico e scientifico, storico, letterario e artistico da proporre alle nuove leve culturali; così come esisteva un programma politico comune alle sinistre dell'antifascismo. Si è parlato con ironia di una « cultura da C.L.N. »; e non é esatto, se si considera che l'accento fu posto prevalentemente su formule marxiste. Certo é invece che ii Politecnico non si sottrasse in parte e in quella sua prima fase alla pretesa di presentare come obbligato passaggio alla cultura dei suoi lettori, quelle che erano state le letture, le simpatie, gli itinerari biografici del direttore e dei redattori: di non aver saputo distinguere fra necessario e accessorio.
E che cos'era questa cultura rivoluzionaria? L'articolo di Vittorini sul primo numero della rivista (che per molti, frettolosi e interessati, bastò a qualificare per sempre, o a squalificare, il settimanale) augurava un pensiero che governasse e non solo consolasse la società civile. Ossia un pensiero, una
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cultura che fossero identici per la classe politica e per quella tradizionalmente «intellettuale ». (L'assenza di precisione su questo punto di partenza è all'origine di tutte le seguenti incertezze). Si chiedeva una cultura che «prendesse il pote[...]
[...] che cos'era questa cultura rivoluzionaria? L'articolo di Vittorini sul primo numero della rivista (che per molti, frettolosi e interessati, bastò a qualificare per sempre, o a squalificare, il settimanale) augurava un pensiero che governasse e non solo consolasse la società civile. Ossia un pensiero, una
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cultura che fossero identici per la classe politica e per quella tradizionalmente «intellettuale ». (L'assenza di precisione su questo punto di partenza è all'origine di tutte le seguenti incertezze). Si chiedeva una cultura che «prendesse il potere ». E in forma volutamente ingenua si esprimeva così quella certa unione di pragmatismo e marxismo che sarebbe stato i? tratto più appariscente del secondo Politecnico, quello in forma di rivista. Ma, al tempo stesso, c'era, dichiarata subito, l'assunzione d'una «cultura» genericamente antifascista come possibile punto di partenza: di qui il richiamo, fin dal primo numero, della guerra di Spagna, per il suo grande patetico di rivoluzione tradita dov'era confluito tutto l'antifascismo mondiale. Il romanza di Hemingway sulla guerra di Spagna cominciava ad esser pubblicato a puntate fra le sbarre rosse e nere, come una bandiera di anarchici, del settimanale; però i tagli operati allora nel testo del romanzo, se non valsero a scagionare Vittorini di fronte ai suoi dirigenti di partito dall'accusa di eccessiva amore per quel « decadente » scrittore americano, stanno a dimostrare come non si volesse guardar troppo da vicino a quella guerra di Spagna, che, pur era stata la drammatica prova dell'Intelligenza di sinistra.
Ma subito, al secondo numero, una citazione di Lenin sconsigliava i politici dal distrarre uno specialista culturale con immediati compiti politici; come se il giornale avvertisse subito il pericolo di essere impiegato come bruto strumento di propaganda. La si vide, in redazione, alle proteste violente suscitate da una assai infelice interpretazione classista dell'opera del Manzoni, pubblicata anonima, (e dovuta, si disse, a E. Sereni). Si discuteva molto, in redazione; Vittorini, poco amante delle dispute e temperamento insofferente di critiche, ne evitava le sedute. Si dovette ottenere che le discussioni fossero stenografate per costringerlo a intendere, almeno per iscritto, le nostre critiche.
Al terzo numero si iniziava la conversazione con i cattolici; ma, almeno apparentemente, la correzione di Balbo alla formula dell'editoriale di apertura, non veniva ripresa o rilevata, né dal settimanale né da Bo (« Cristo non è cultura») che, poco dopo, si apprestava a replicare a Vittorini. Si può cogliere intanto la nascita di quella polemica sulle arti figurative che si tra scina tuttora: Guttuso parla d'una nuova epoca «eroica» che si apre per la pittura, ma già una didascalia posta sotto un manifesto di guerra giapponese afferma in modo perentorio quella che sarà uno dei punti centrali (mai però affrontato e risolto criticamente) del periodico: l'identità fra «arte
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vera » e « arte rivoluzionaria ». Vedi (n. 4) il frammento di Malraux (di prima della guerra, naturalmente): «Non sono né Claudel né Proust che significano la borghesia, è Henri Bordeaux ». (Segue questa nota redazionale: ((Non sono né Montale né Svevo che significano la borghesia italiana, è Lucio d'Ambra »). In questo quarto numero, dedicato alla Francia contemporanea, dove ad una poesia di Eluard fa contrappeso una di Spender, c'è già una pagina di Sartre; nel numero seguente, accanto ad un affresco di Diego Rivera c'è la copertina d'uno dei quaderni della Bauhaus; quello dedicato alla Rivoluzione di Ottobre si apre con una poesia di Montale e si chiude con le foto di un balletto psicanalitico. Accanto a questi esempi solo apparentemente contraddittori, si moltiplicano le dichiarazioni e i programmi di una
umile e orgogliosa novità: « Politecnico si legge nel n. 4 non è
l'organo di diffusione d'una cultura già formata ma uno strumento di lavoro per una cultura in formazione... Compito speciale che il POLITECNICO Si è scelto per contribuire alla formazione in Italia di questa cultura è di fare da legame tra le masse lavoratrici e i lavoratori stessi della cultura ». E, nel n. 5: «Il POLITECNICO... non presume affatto rinnovare la cultura italiana, ma vuole soltanto mostrare che sarebbe una buona cosa rinnovarla ». « Ogni rivoluzione è stata un tentativo più a meno riuscito della cultura viva di strappare il potere a Cesare e alla cultura morta che sempre è serva di Cesare e di instaurar, il «regno dei cieli», cioè il suo regno, sulla terra... Lenin era tipicamente uomo di cultura...» (n. 6). Sono appena passati due mesi dall'uscita del settimanale, e Vittorini, rispondendo a Bo, e ad altri critici del suo primo editoriale, accetta la traduzione del conflitto nella semplicistica contrapposizione di «via di fuori» e «via di dentro », di salvezza di tutti e di salvezza individuale, di storia e antistoria; un conflitto che ai giorni nostri continua ad essere volgarizzato a favore di scelte sentimentali e, in verità, ipocritamente interessate 1:
Tu parli di due vie, Carlo Bo, una che è dentro a noi e una che è fuori di noi. Io non voglio neanche dire che la via è una sola. Ma tu dici che
1 Nei numeri della rivista [e precisamente negli scritti « Leggere i classici? a (n. 3132), Capoversi su Kafka (n. 37), Azione e espressione (n. 35), Diario di un giovane borghese (n. 39), Rivoluzione e conversione (n. 39)1 ci fu, da parte mia, un tentativo di riprendere, con accento diversa, quei motivi.
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la più lunga è la via fuori di noi e la più breve quella dentro di noi. Io invece dico che é il contrario: che più breve é la via di fuori. È la via più umile, Carlo Bo, la più umana e terrena: per questo più breve. E quando tu indichi l'altra, da seguire, sei anche tu uno orgoglioso com'è Mila ed ogni idealista: mostri lo stesso orgoglio loro. Che cosa credi? Di potere mai compiere dentro a te solo quella «più grande e più vera rivoluzione »
cui pur aspiri?
Vittorini non vi sos[...]
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la più lunga è la via fuori di noi e la più breve quella dentro di noi. Io invece dico che é il contrario: che più breve é la via di fuori. È la via più umile, Carlo Bo, la più umana e terrena: per questo più breve. E quando tu indichi l'altra, da seguire, sei anche tu uno orgoglioso com'è Mila ed ogni idealista: mostri lo stesso orgoglio loro. Che cosa credi? Di potere mai compiere dentro a te solo quella «più grande e più vera rivoluzione »
cui pur aspiri?
Vittorini non vi sostiene (e non potrebbe, tanto vive in lui sono le vene nietzschiane e roussoiane di adorazione della vita e del presente, immuni da contaminazioni di pessimismo esistenziale, di angoscia storica) le tesi d'uno storicismo integrale; ma gli altri polemizzano con lui come se quelle tesi fossero le sue. Sopra la sua testa, si discute coi comunisti, anzi con la
Iunga bestemmia» del pensiero moderno, dalla Riforma ai giorni nostri. Né sono sufficienti gli esempi di indipendenza di fronte all'ortodossia cul turale sovietica, che il settimanale continua a moltiplicare, pubblicando Olescia o Babel, parlando di uno Chagall o di un Pasternak come di artisti rivoluzionari, ponendo sullo stesso piano le vittorie del progresso democratico americano e quelle del progresso socialista.
Certo, in quel primo tempo almeno, la redazione non vede chiaro in quale direzione si debba andare, anche se avverte quanto importi l'esistenza di un foglio come il Politecnico nella situazione di allora. Era l'inverno 194546, uno dei più tetri inverni di quegli anni. Milano pareva risentire di tutta la tensione e la stanchezza del tempo di guerra. Chi veniva da Roma, già avvezzo ad un diverso dopoguerra, faceva fatica a capire come si potesse vivere in quella città di macerie e fango dove, sul far della sera, le strade si spopolavano, dove si leggeva e si scriveva a lume di candela con guanti, cappotto e passamontagna, dove la gente faceva ancora la coda per il pane e il riso, e tutte le notti suonavano i colpi di mitra e di rivoltella degli « spiombatori » e dei banditi, da scali merci, depositi ,ferroviari, fabbriche. All'alba i giornali erano neri di titoli e di grida. L'inverno pareva una unica lunga notte; e la città sentiva intorno a sé il vuoto della campagna, si ripiegava su se stessa per non perdere il poco tepore del suo alito. La redazione del Politecnico era allora non lontana dalla cappella dell'antico lezzaretto manzoniano, in un quartiere ch'era diventato il porto di mare dei camionisti, allora re delle strade, e dei borsari neri; fitto di donne, di osterie, di sale da ballo. Dagli alberghi di piazza d'Annunzio, dove, con i
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loro carri armati al parcheggio, stavano acquartierati, vi calavano, al crepuscolo, i militari occupanti. Delitti straordinari, seguiti da imponenti funerali, dividevano l'attenzione della folla con i cortei di disoccupati, e i comizi. Qualche volta il Politecnico veniva incollato ai muri cittadini; e ci dava un brivido d'orgoglio veder i nomi e i pensieri della poesia e dell'arte, di un amore che si era sempre creduto votato all'ombra e al riserbo, tremare all'aria e alla nebbia, lettura dei passanti, dei reduci dagli occhi smorti, dei vagabondi 2. Talvolta si andava nei circoli operai, nelle fabbriche, a parlare del Politecnico. Ricardo una sera, verso Piazzale Corvetto, una specie di hangar mal illuminato, pieno di operai, di donne con i bambini sulle ginocchia; e ascoltavano parlare del Politecnico come di una cosa loro, come si trattasse del loro lavoro e della loro salute, e interrogavano, volevano sapere. (Si arrivò perfino a proporre una tournée di tutta la redazione attraverso l'Italia meridionale e la Sicilia). Capitavano in redazione i personaggi di quegli anni: operai affamati, giornalisti, avventurieri, ex partigiani, ragazze scappate di casa, mentecatti. Arrivavano montagne di manoscritti, la più parte diari di guerra, di prigionia, di vita operaia, poesie esemplate sulle traduzioni degli americani, racconti di vita clandestina. Si aveva l'impressione che, dovunque il settimanale giungesse — e ce lo confermava l'enorme corrispondenza dei lettori — molti animi che erano stati scossi dalla recente esperienza rispondessero alle nostre incerte, astruse parole. Era, per noi, la conferma della scoperta che avevamo fatta durante la guerra: quella delle incredibili possiWHO. della nostra provincia, delle energie latenti nelle classi mute. Con quella conferma, o scoperta, che ci stordivano, non era facile mantener la testa fredda. Era l'indistinto caos delle culture italiane, quello che vedevamo attraverso quelle lettere; e per la prima volta ci venne per la mente che l'opera alla quale era degno consacrarci fosse di conoscere davvero che cosa significassero quelle culture e misurarle col mondo grande dei paesi lontani; perché « dappertutto è terreno di scontro... e la rivoluzione è una sola », come allora scriveva Pavese. Eppure, a nostro onore, devo dire che nessuno si illudeva di risolvere i problemi andando verso il popolo. Tanto
2 In sei mesi il settimanale, oltre a poesie di Saba, Montale, Solmi, Sinisgalli e di molti giovani, pubblicò traduzioni di testi poetici di Rimbaud, Larbaud, Éluard, Jacob, Aragon; Lorca, Alberti, Altolaguirre; Leonhardt, Brecht, Toller; Pasternak, Majakowskj, Bloch; Auden, Spender, Mac Neice, Eliot; Whitman, Mac Leish, Sandburg, Gold, Prokosch, Rolfe, Lindsay, ecc,
ii i
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che, quando al n. 8, fu annunciata la costituzione dei «Gruppi di Amici del Politecnico», si avverti che l'iniziativa coincideva con uno dei tentativi accennati dalla direzione culturale del Partita Comunista per controllare maggiormente il settimanale e insieme per potenziarlo; e ci fu una notevole resistenza a quei «gruppi» che sarebbero facilmente diventati, come tutte le analoghe formazioni di quel tempo, portavoce di comodo del Partita Comunista e firmatari di manifesti. Il Partita Comunista stava passando ad una fase di consolidamento delle proprie attività, assumendo gran parte dei compiti che nell'Italia prefascista erano stati del Partita Socialista; e, fra questi, compiti di vera e propria divulgazione culturale. Pensarono, quei dirigenti, di poter impiegare a questi fini la popolarità del settimanale di Vittorini? Vi fu un momento nel quale lo pensarono; ma la composizione politicamente eterogenea della redazione e la stessa personalità del direttore dovettore presto dissuaderli. Il Politecnico non poteva diventare quello che, proprio in quel tempo, cominciava ad essere il Calendario del Popolo.
Si moltiplicano d'altra parte i punti di frizione fra le posizioni del settimanale e quelle del Partita Comunista; come i ripetuti atteggiamenti anticlericali di Vittarini (vedi posizione in favore del divorzio, in nota ad un
articolo di A. C. Jemolo, nel n. 9); come la pubblicazione (n. 16) di un passo di Sartre e di uno di MerleauPonty « un marxismo vivente dovrebbe
salvare la ricerca esistenzialista invece di sofocarla»; con questo commento redazionale:
È questa — crediamo 'noi — una esigenza più o meno chiaramente sentita da quanti son persuasi che il posto proprio dell'uomo d'oggi e di domani sia in una sempre più risoluta coscienza di come siano irriducibili tanto la necessità quanto la libertà
o, nel n. 23, una critica piuttosto dura ad una iniziativa culturale dei comunisti francese (« Per una enciclopedia»). La stessa polemica iniziale — che è il motivo centrale della rivista continua a trascinarsi di numero in numero, con scritti di Balbo, Giolitti, Fortini, Ferrata, .finché comincia a farsi chiaro che essa non è altro che il problema della posizione del marxismo nel mondo moderno. Contro le interpretazioni socialdemocratiche di Karl Renner e contro la tentazione idealistica (e di Vittorini) dei «furori
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culturali » c'è (n. 26) una messa a punto di Balbo, (love è contenuto un accenno importante, che è già una critica al linguaggio del settimanale:
Questo successivo e strenuo «riemergere» della purezza, della tensione umana dalla formula che non serve più, che è insufficiente per costruire le nuove formule, la più larga e più comprensiva cultura tecnicamente sempre più articolata, . non si può certo definire con la parola "amministrazione", ma non si può nemmeno definire con la parola « furore culturale ». Tale parola non comprende abbastanza il senso del dato, della condizione obbiettiva e quindi la necessità dell'inserzione funzionale, del mordente preciso.
E non combatte il grave male dell'« eterna illusione »: credere che senza illusione l'uomo non si muova più.
Contro le tendenze e le pressioni rivolte a far del Politecnico uno stru mento di ordinaria amministrazione politica, Vittorini, nel n. 27, scriveva parole che ancora echeggiavano i ricordi mitici della Cultura Popular della repubblica spagnuola e che sarebbero suonate in contraddizione con quelle sue di pochi mesi dopo:
Le grandi affermazioni della cultura, i suoi rivolgimenti, le sue svolte, si hanno proprio nei momenti in cui sembrerebbe più saggio (agli stolti) lasciarli da parte. Quando, per esempio, un nemico sovrasta con le armi; quando manca il pane: quando occorre ricostruire tutto in un paese. È allora, é nell'emergenza, che può formarsi una nuova cultura.
Ma questo appello all'entusiasmo suonava come i proclami supremi delle
città assediate. Con un articolo di autocritica, il settimanale si trasforma in rivista.
Chiariti i motivi economici che impongono la cessazione del settimanale, si legge:
Noi non abbiamo avuto, col settimanale, una funzione propriamente creativa, o, comunque, formativa. L'altra funzione, la divulgativa, ci ha preso, a poco a poco, e sempre di più la mano, abbiamo anche polemizzato, ma abbiamo detta ben poco di nuovo. In quasi tutte le posizioni che abbiamo prese, pur senza mai sbagliare indirizzo, ci siamo limitati a gridare mentre avremmo dovuto dimostrare. E troppo spesso abbiamo dato sotto
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forma di manifesto quello che avremmo dovuto dare sotto forma di studio. Troppo spesso abbiamo affidato alla grezza testimonianza dei lettori quello che avrebbe avuto bisogno della rielaborazione di scrittori. Ci siamo trovati così a divulgare delle verità già conqu[...]
[...]o anche polemizzato, ma abbiamo detta ben poco di nuovo. In quasi tutte le posizioni che abbiamo prese, pur senza mai sbagliare indirizzo, ci siamo limitati a gridare mentre avremmo dovuto dimostrare. E troppo spesso abbiamo dato sotto
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forma di manifesto quello che avremmo dovuto dare sotto forma di studio. Troppo spesso abbiamo affidato alla grezza testimonianza dei lettori quello che avrebbe avuto bisogno della rielaborazione di scrittori. Ci siamo trovati così a divulgare delle verità già conquistate mentre avremmo dovuto cooperare alla ricerca della verità. Il nostro intento era e rimane anche divulgativo. Ma era, e non è stato, di conquistare e creare su piano divulgativa. La necessità della trasformazione in rivista mensile ci offre il modo, per la più larga misura di tempo e di spazio che ci concede, di approfondire il nostro lavoro. Ora noi potremo vigilare su noi stessi. Liberi come saremo dalla pressione degli avvenimenti non si tratterà più, per noi, di collaborare all'azione politica. Si tratterà di svolgere un'attività che sia azione di per se stessa, com'è, quando crea, l'azione culturale.
La rivista pubblicherà quasi cinquecento delle sue fittissime pagine, riprendendo in parte temi già accennati dal settimanale, in parte sviluppando temi nuovi. Vi si nota, oltre alla collaborazione abituale del settimanale (Cantoni, Ferrata, Giuliano, Rodano, Rognoni, Terra, Trevisani, Preti, Serra, Pandolfi, Rago, Del Bo, ecc.) e ad una più estesa presenza di giovani (Risi, Del Boca, Del Buono, Giglio, Porzio, Tadini, Calvino, ecc.) anche quella di scrittori e di studiosi che il carattere del settimanale aveva tenuti discosti: Bo, Brancati, Pea, Sereni, Gatto, Argan... E i motivi principali ne sono: l'esplorazione dei rapporti fra marxismo e scienza economica, psicanalisi, pragmatismo, esistenzialismo; delle possibilità di nuove vie della critica letteraria e della critica del teatro, del cinema, delle arti figurative; dei problemi sociali del nostro paese veduti nel loro aspetto politico. E tutto ció sullo sfondo dell'unico problema: quello dei rapporti fra azione culturale e partiti politici, fra cultura «di sinistra» e Partito Comunista.
Non v'è dubbio che il passaggio del Politecnico da settimanale a mensile coincide con la fine dell'idillio fra gli intellettuali che avevano aderito al comunismo nello spirito dei C.L.N. e i dirigenti politici del Partito che si apprestava ad affrontare le difficili prove degli anni seguenti. De Gasperi è da alcuni mesi capo del governo, e si capisce che vi resterà a lungo. Matura la svolta della politica americana. S'era fatto un gran discorrere di «partito nuovo », in quel tempo. Il V Congresso del P. C. affermava, nel nuovo statuto, la possibilità di appartenere al partito indipendentemente dalle proprie convinzioni filosofiche e religiose. Vedremo come il Politecnico, per bocca di Vittorini, interpreterà questa affermazione come la possibilità
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di rimettere in discussione gli stessi principi del marxismoleninismo; quando (e bastava aver letto, a questo proposito, gli scritti di Lenin sulla religione) l'unità nei fini politici più immediati era considerata solo propedeutica a quella ideologica. Tuttavia, quella « apertura » del Partito Comunista pareva fin da allora contraddetta dalla progressiva « chiusura » della situazione politica. Si doveva provvedere ad organizzare la difesa. Ecco perché l'affermazione contenuta nell'ultimo numero del settimanale, di voler «approfondire la ricerca » voleva anche dire che era divenuto impossibile, ormai, intrattenere un dialogo immediato con un pubblico di lettori appartenente a cate gorie che l'attività del Partito prevedeva oggetto di una scrupolosa disciplina ideologica. Il pensiero e l'arte della tradizione rivoluzionaria non possono più esser presentati per una mozione degli affetti, ma debbono esser ripensati criticamente; è necessario vedere che cosa, in realtà, consegua alle generiche istanze di rinnovamento. Ma questa ricerca, (faranno capire i dirigenti culturali del P. C. a Vittorini), non pub esser compiuta portando lo smarrimento e l'incertezza fra i « compagni di base ». Ecco perché la rivista si preoccupa subito di definirsi « indipendente di sinistra », e di riaffermare che non è una rivista comunista.
Precauzioni insufficienti. Il nome di Vittorini, in qualche modo, impe gna il Partito. A nessun livello si possono ammettere « deviazioni a. Di qui il conflitto; che si è creduto evitare ritirandosi in una pubblicazione per specialisti ma che si conduderà solo con la fine della rivista.
A leggere ora tutta l'intricata rete di lettere, risposte, repliche si ha, come spesso avviene in questi casi, l'impressione che la parte più importante della discussione non si sia svolta per iscritto, ma nelle conversazioni e nei rapporti personali. Il linguaggio della polemica è in genere, molto cortese, con qualche occasionale e intenzionale durezza. Ma, ripeto, si ha l'impressione che, almeno in principio, non si vogliano scrivere i termini autentici della questione. Infatti, quali sono le critiche? Luporini considera (cito dalla replica di Ferrata nel n. 30, II della rivista, che è del giugno 1946) la « nuova cultura » pretesa dal Politecnico «una velleitá romantica, un'illusione moralistica, e un abbraccio di generosi malintesi » 3; Alicata e per
3 Quasi con le medesime parole, anni più tardi, G. Pampaloni, giudicherà il Politecnico (in Belfagor) «una generosa illusione n. Con la differenza che, per Luporini, l'illusione moralistica è nell'intento predicatoria, parenetico, del foglio; per Pampaloni è illusorio, probabilmente, nel senso che « Cristo » non è cultura, ad ogni tentativo di sto
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lui Togliatti, che su «Rinascita» (ottobre 1946) dichiara esplicitamente di averne ispirata la nota, rimproverano una « ricerca astratta del nuovo, del diverso, del sorprendente ». Ora é , davvero sorprendente che queste critiche paiono riferirsi al settimanale, ai più scoperti difetti del settimanale, fingendo di ignorare le ragioni del passaggio a rivista e l'autocritica compiuta. Vittorini lo farà ben notare in una prima nota alla lettera di Togliatti (n. 3334). Gli scritti di Luporini, Alicata, Togliatti, hanno insomma un falso scopo — la critica al confusionarismo del Politecnico settimanale — ed uno scopo reale: mettere in guardia i lettori comunisti contro i pericoli[...]
[...]erti difetti del settimanale, fingendo di ignorare le ragioni del passaggio a rivista e l'autocritica compiuta. Vittorini lo farà ben notare in una prima nota alla lettera di Togliatti (n. 3334). Gli scritti di Luporini, Alicata, Togliatti, hanno insomma un falso scopo — la critica al confusionarismo del Politecnico settimanale — ed uno scopo reale: mettere in guardia i lettori comunisti contro i pericoli deviazionistici dell'« approfondimento » nella rivista mensile; e, al tempo stesso, provocare una decisiva autocritica del direttore della rivista. Il risultato sarà, naturalmente, che le critiche alla rivista come tale passeranno in second'ordine e il centro della discussione diventerà quello dei rapporti fra attività (o autorità) culturale e attività (o autorità) politica.
Non c'è dubbio che, da un punto di vista tanto politico quanto filosofico, le repliche di Ferrata e di Vittorini agli scritti di Luporini, Alicata e Togliatti sono evasive e manifestamente insufficienti. Finché si tratta di pubblicare Hemingway o Sartre o Reed, di mostrare simpatie per la narrativa sovietica, di difendere Gide`contro i «codini» o di parlar di «psicanalisi progressiva », tutto questo, almeno nel 1946, e in Italia, non sarebbe sufficiente a mettere in difficoltà disciplinari Vit[...]
[...]ale e attività (o autorità) politica.
Non c'è dubbio che, da un punto di vista tanto politico quanto filosofico, le repliche di Ferrata e di Vittorini agli scritti di Luporini, Alicata e Togliatti sono evasive e manifestamente insufficienti. Finché si tratta di pubblicare Hemingway o Sartre o Reed, di mostrare simpatie per la narrativa sovietica, di difendere Gide`contro i «codini» o di parlar di «psicanalisi progressiva », tutto questo, almeno nel 1946, e in Italia, non sarebbe sufficiente a mettere in difficoltà disciplinari Vittorini e la sua rivista. Piuttosto, dietro gli scritti di Cantoni su Burnham, di Preti su Dewey e sull'Antiduering, di Leontiev sul pensiero economico sovietico; dietro le citazioni di Gramsci (che appunto in quei mesi cominciava ad esser pubblicato 4), si delinea la possibilità di un dibattito di fondo sui motivi essenziali del marxismo, e attraverso quello, della costituziond di un gruppo, di un nucleo di studio 5. O, in altri termini si forma la possibilità di un luogo di incon
ricizzare l'eterno gioco dell'anima non può concludersi che in una capitolazione di fronte al « Principe di questo mondo».
4 Ma si aspetta ancora oggi la ristampa degli scritti dell' Ordine Nuovo.
5 Cito per tutti gli altri numerosissimi esempi un passo redáziöñáte che é nel primo numero della rivista: vi si parla di una dichiarazione della segreteria del P.C.I. (relativa ad un comunicato del P.C. francese sulla questione di Trieste) nella quale si invitano i comunisti francesi ad un contatto diretto col movimento democratico e operaio italiano prima di giudicare sulla questione di Trieste. E si aggiunge: «Queste parole significano che esiste una situazione nuova per i comunisti nel mondo e che i comunisti italiani sono maturi per comprenderla e darle sviluppo di vita. E finito il tempo nel quale era sufficiente, da parte dei comunisti, `risolvere' ogni questione sul piano dottri
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tro e di discussione per quegli intellettuali che opportunismo o sincera evoluzione politica avrebbero portato, negli anni, seguenti, fuori del Partito Comunista. Una parte di costoro, evidentemente non vorrà che «tornare all'ovile », ma un'altra parte avrebbe potuto costituire una linea ideologica e politica su posizioni non comuniste senza avventurarsi sul piano inclinato della collaborazione _ con la restaurazione idealistica e cattolica. Taluno, per questa supposizione, mi chiamerà ingenuo; non nego che, per uno spregiudicato giudizio politico, il Partito Comunista abbia guadagnato a perderli piuttosto che a trovarli, molti degli intellettuali che in questi anni hanno abbandonato le sue file o le sue vicinanze; ma essi erano, come d'altronde una buona parte di quelli che sono tuttavia nel Partito, solo la prima fila, la più visibile, di tutta una categoria di intellettuali che furono dell'anti fascismo e della Resistenza e che, negli anni di cui stiamo facendo discorso, scomparivano dalla vita politica e si ritiravano negli studi privati, con resultad forse ricchi di futuro ma, al presente, ben gravi. E poi uno degli aspetti più singolari di tutta la polemica è che vi si discutono i rapporti fra gli intellettuali e il Partito Comunista fing ndo di dimenticare che quel problema aveva dei precedenti storici e che quei precedenti si chiamavano non solo teoria del partito secondo Lenin ma storia del pensiero rivoluzionario marxista e non marxista fino a Lenin, e non leninista fino al 1924, e non stalinista dopo il 1924, storia insomma dei rapporti fra gli intellettuali e i partiti operai, in tutto il mondo, nell'[...]
[...]he vi si discutono i rapporti fra gli intellettuali e il Partito Comunista fing ndo di dimenticare che quel problema aveva dei precedenti storici e che quei precedenti si chiamavano non solo teoria del partito secondo Lenin ma storia del pensiero rivoluzionario marxista e non marxista fino a Lenin, e non leninista fino al 1924, e non stalinista dopo il 1924, storia insomma dei rapporti fra gli intellettuali e i partiti operai, in tutto il mondo, nell'ultimo mezzo secolo; che la guerra di Spagna aveva pur avuto, in questo senso, una sua storia; che la storia degli intellettuali comunisti e non comunisti in Unione sovietica, in Germania, in Cina, aveva pur qualcosa da insegnare. Gli uni e gli altri paiono invece preoccupatissimi di non estendere la discussione là dove solo avrebbe un senso, cioè sul terreno storicopolitico. E poi sembra impossibile che Vittorini, nelle righe più appassionate della sua Lettera a Togliatti ((pando discorre della rivoluzione che ha come fine l'individuo, quando dice di sperare in una rivoluzione straordinaria, o parla dell'occhio vitreo del Partito, o rifiuta di suonare il piffero per la rivoluzione o definisce i compiti dello scrittore rivoluzionario) non si rendesse conto che, pur nella
nano o su quello deliberativo della Terza Internazionale... è necessario che pongano una dialettica concreta delle varie situazioni nazionali... lo spirito del marxismo è nel superamento effettivo del contrasto non nella rinuncia a porlo fino alle sue estreme conseguenze v.
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apparente confusione del suo dettato, egli chiedeva non solo un mutamento della politica culturale del P. C., ma una nuova teoria politica, una nuova filosofia. E, prima cosa, non tanto si trattava di rivendicare una autonomia teorica ma proprio l'autonomia pratica di poter continuare la rivista senza quegli ostacoli (ben «pratici ») che una sconfessione avrebbe portato con sé.
Le obiezioni di Onofri — che replica a Vittorini nel n. 36 della rivi
sta tutte in sé validissime (egli ricorda, fra l'altro, che l'attività politica è, non diversamente da quella « culturale », una attività superstrutturale) e di più evidente vicinanza al pensiero di Gramsci, spingono il problema al loro punto cruciale. Dice Onofri a Vittorini:
Forse che, quando tu hai scritto quelle tue lettere, non ;,svolgevi un lavoro culturale in connessione con la politica, non volevi appunto una politica in un certo modo per avere una cultura in un certo modo?
Nella sua breve risposta, Vittorini non raccoglie quella decisiva obiezione per limitarsi a' ribattere il suo rifiuto di una politica che ricorra alla forza contro la cultura, e di una alienazione «par la politique ». Infatti la rivendicazione di autonomia culturale, la richiesta di poter continuare senza scomuniche un certo lavoro di indagine culturale, era una richiesta politica; equivaleva a chiedere che il Partita Comunista cominciasse a considerare parte necessaria, elemento indispensabile al progresso della causa del socialismo, il lavoro critico dei « compagni di strada» e di tutti coloro che condividendo le finalità rinnovatrici del socialismo pretendevano, negli specifici campi della propria attività culturale, quali che ne fossero i riflessi politici, ad una integra autonomia critica. Era — o meglio avrebbe dovuto essere e non fu — la rivendicazione della pluralità necessaria contro la teoria della pluralitàminor male, destinata a naufragare nella unitàunanimità.
Nella primavera del 1947, dopo la pubblicazione della Lettera a Togliatti (la rivista era uscita, sino allora, in cinque fascicoli), non poche persone e motivi volevano indurre Vittorini ad interrompere subito il periodico. Nella sede di via Filodrammatici, lugubre come un circolo filologico, non esisteva più una vera e propria redazione. Fra i collaboratori ci furono discussioni a tempesta. Chi voleva la fine immediata della rivista, con o senza un manifesto conclusivo, chi ne voleva la continuazione, con o senza il medesimo editore, accettando eventualmente di diminuire il numero delle pagine
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e la periodicità; chi ancora avrebbe voluto tornare al settimanale. In una lettera, cercai di chiarire la mia opinione. E, rileggendomi, credo di non aver avuto torto:
... mi rifiuto, proprio perché non credo ad una politica avvilita a mero fatto, violenza o negatività, mi rifiuto, dico, ad ammettere questo ridicolo contrasto fra verità assolute dell'indagine culturale e quelle provvisorie, mezze verità e mezze menzogne, o insomma tutte menzogne, che sarebbero della pratica politica. Le due figurazioni insomma, del chierico assorto negli eterni veri e quella del pratico dalle mani impastate e grossolane sono ambedue volgari figurazioni, figure d'uomini volgari, di cattivi chierici e di pessimi pratici; e come tali dovremo sempre combatterli, con le loro medesime armi. Ma il solo modo di combatterli è quello di prenderli in parola. Cioè: discuterli. Quando i piccoli politici (di oggi o di ieri) proclamano la necessità della dissimulazione, della tattica e della ragion di stato o di partito, supponiamoli veri politici; diamo subito importanza a quelle loro idee; aiutiamoli anzi a tradurre in idee la loro balbuzie; ed ecco che avremo innanzi non più una volgare figurazione, ma una teoria, un fatto di cultura... L'errore di tutti i cattivi amici di Politecnico e di Rinascita, l'errore nel quale tu stesso sembri talvolta cadere, è quello di credere che l'unità fra cultura
e politica sia una trovata provvisoria, un matrimonio di ragione, qualcosa che va bene per il tempo di pace... Per me invece è evidente che cultura
e politica sono la medesima cosa, espressa con. mezzi diversi; che, insomma, cóntrasto si può avere soltanto fra due teorie e due pratiche; che ogni volta che un pensiero non ha mano o le ha deboli o che le mani non han pensiero
e lo han fiacco, saranno un astratto « pensiero » ed una volgare « politica ». Insomma non esiste un momento nel quale per ordine di chiunque sia sospeso il dovere di dire la verità... Io credo che, senza orgoglio né umiltà eccessive si debba dichiarare la propria condizione di uomini di cultura
e seguirla fino in fondo dicendo le proprie verità, anche a costo dello scandalo...
Intanto, in Francia e in Italia, i comunisti venivano estromessi dai governi. Della rivista, uscirono ancora quattro numeri di trentadue pagine ciascuno. L'ultimo (dicembre 1947) chiedeva: « Aiutate il Politecnico con un nuovo abbonamento ». Un numero di commiato — che avrebbe dovuto spiegare le ragioni dell'interruzione — non venne mai 6. Vittorini ci disse
e Ho copia d'una lettera che mandai, il 22 gennaio del '48, a Vittorini. Vi é detto,
fra l'altro:
« A poco a poco abbiamo capita che non potevamo pretendere di insegnare quel
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d'aver avuto contatti con altri editori, desiderosi di assumere la rivista, ma di avervi rinunciato perché sarebbero stati inevitabili controlli e limitazioni, politici, di natura opposta a quelli che rendevano ormai impossibile la continuazione della rivista. Lo credo senz'altro; ma, a questo scrupolo politico, si aggiungeva un motivo personale, l'esaurimento dei motivi di interesse e di avventura, la stanchezza di un lavoro dispersivo, i dubbi medesimi nati da nuove letture e nuovi contatti (Vittorini era tornato a Parigi alla fine del giugno 1947, dove i suoi libri e la sua persona avevano avuto un grande successo, dopo essere stato, l'autunno precedente, ospite del Comité des Ecrivains); e soprattutto il desiderio di tornare al proprio lavoro di narratore, interrotto, meno la parentesi del Sempione, dal 1945. Con la primavera del 1948 finiva il dopoguerra; molti andavano sempre piú rapidamente perdendo le consuetudini, le amicizie e i ricordi che erano stati della dandestinità e delle speranze; per quanto apparisse precaria la pace, subentrava un naturale desiderio di sistemazione e di raccoglimento; per qualche anno tutti avevano fatto tutti i mestieri eccetto il proprio ed era parso possibile risolvere i massimi problemi in un articolo di giornale. Ci si avvedeva allora che, proprio come le città bombardate, molti istituti della vecchia Italia monarchica e fascista — come quelli giornalistici, editoriali, universitari —
che non sapevamo ed abbiamo cercato di dire via via che imparavamo... abbiamo rappresentato... l'unico tentativo coerente di critica culturale, letteraria, di costume che sia stata tentata dalla liberazione in poi. I difetti son stati l'imprecisione [...]
[...]so possibile risolvere i massimi problemi in un articolo di giornale. Ci si avvedeva allora che, proprio come le città bombardate, molti istituti della vecchia Italia monarchica e fascista — come quelli giornalistici, editoriali, universitari —
che non sapevamo ed abbiamo cercato di dire via via che imparavamo... abbiamo rappresentato... l'unico tentativo coerente di critica culturale, letteraria, di costume che sia stata tentata dalla liberazione in poi. I difetti son stati l'imprecisione filosofica, il gusto di certe trovate sonore, l'impossibilità di spingere a fondo certe premesse e di concretare
un gruppo di buoni libri; e — questo un po' per colpa o per virtù tua, un po' per
viltà altrui non aver saputo legare cinque o dieci persone, strettamente, alle sorti della rivista ed al suo significato. Se questo fosse stato, oggi tu potresti affidare ad altri, almeno temporaneamente, la conduzione della rivista. E invece... oggi, se il Poli deve scomparire, sembra scomparire come l'organo personale di Vittorini e per i casi polrtici e ideologici personali di Vittorini.
...mi chiedo se è bene o male che il Poli muoia; male è certo... soprattutto perché il discorso del Poli è a metà, a metà il suo tentativo di accordare marxismo politico e 'altro', critica alla religione e fede religiosa, cultura e politica, il suo tentativo di parlare politica, senza essere 'politica'. E finalmente perché rappresenta una esigenza di comunisti o diciamo di rivoluzionari che non ha nulla a che fare con la terza forza o altre scempiaggini, ma che non deve accontentarsi della politica culturale del P. C. e nemmeno delle sue semplificazioni propagandistiche su gli U.S.A., l'U.R.S.S., Sartre, il cattolicesimo, Gesù e il Piano Marshall. Io non ti incito alla eresia per l'eresia, come avrei fatto forse un anno fa. Mi domando se siamo più utili .tacendo o parlando, testimoniando e agendo perché le scelte non totnino ad essere sublimi e grottesche come in tempo di guerra; perché sono persuaso che non siamo in fase 'qualitativa' ma assai piattamente 'quantitativa'. Insomma, mi sembra venuto il momento davvero di attenuare la propria flessibilità e di stabilire quale sia il limite di rottura, il limite al[...]
[...]i rottura, il limite al quale devi dire che il Partito ha torto oppure non devi dir nulla e tacere... ».
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riprendevano a vivere o a vegetare, grazie alla «libera iniziativa privata », senza dar retta ai piani regolatori. E non mancavano, anzi crescevano ogni giorno coloro che in tutto questo vedevano solo una conferma del loro cattolico pessimismo, coltivando amorevolmente quella cattiva coscienza che, negli ultimi anni, par diventata per molti un titolo d'onore.
Così dunque finiva il Politecnico. Pochi mesi più tardi, spento l'ottimismo elettorale del convegno fiorentino promosso dall'Alleanza della Cultura, dopo il 18 aprile e l'attentato a Togliatti, Vittorini, di ritorno dal congresso di Wroclaw, leggeva a Ginevra, alle Rencontres Internationales, una memoria sulla letteratura engagée 7 dov'era riaffermato l'equivoco del quale era morto il Politecnico; e ne forniva così la conclusione. Invece di andare innanzi, riprendere l'osservazione di Onofri ed affermare che, sì, la richiesta di indipendenza della ricerca letteraria é una richiesta politica, la richiesta di una certa politica culturale da imporre ai dirigenti politici, il contenuto della Lettera a Togliatti viene ridotto, dalla distinzione di cultura e politica qual era, alla distinzione di letteratura e politica e finalmente di poesia e letteratura, per non dire all'opposizione fra poesia e cultura. Invece di difendere dalla riduzione all'immediato propagandistico e insomma dalla critica delle armi, dalle soluzioni di forza dei comitati centrali, tutta la cultura, tutta la ricerca, anche quella di più immediate risultanze politiche (come quella storica, filosofica, economica) e quindi implicitamente proporre al suo partito, restandovi o uscendone, e più in genere agli organismi della «sinistra» italiana, con le armi della critica, nuove soluzioni teoriche e pratiche, Vittorini finiva col formulare la richiesta «corporativa» della libertà della letteratura. Il periodico, che s'era aperto chiedendo una « cultura che prendesse il potere» si chiudeva con una istanza assai meno preoccupante per i nostri uomini di governo. Sarebbe invece stato possibile dar battaglia sulla breccia aperta dalla Lettera a Togliatti, assumere intero il compito di ripensamento delle ideologie rivoluzionarie che, proprio in quei mesi, gli scritti di Gramsci stavano riproponend[...]
[...]hiesta «corporativa» della libertà della letteratura. Il periodico, che s'era aperto chiedendo una « cultura che prendesse il potere» si chiudeva con una istanza assai meno preoccupante per i nostri uomini di governo. Sarebbe invece stato possibile dar battaglia sulla breccia aperta dalla Lettera a Togliatti, assumere intero il compito di ripensamento delle ideologie rivoluzionarie che, proprio in quei mesi, gli scritti di Gramsci stavano riproponendo agli intellettuali italiani? Ma, per far questo, sarebbe stato necessario ottenere dai collaboratori della rivista una disciplina, un lavoro di comune
7 « Poiché l'artista é naturalmente engagé in quanto é artista. Engagé alla propria spontaneità, engagé dalla esperienza collettiva di cui è spontaneo portatore... engagé
a sealth» (Rassegna d'Italia, marzo 1949). Doveva bastare, e bastò infatti, a rassicurar
t sulla strada che avrebbe presa l'exdirettore del Politecnico,
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ricerca, un coordinamento degli sforzi; sarebbe stato necessario costituirsi in gruppo, bruciare rapidamente le incertezze pratiche, pianificare la rivista, farne uno strumento di lotta teorica a lunga scadenza. Né è detto che la forma della rivista sarebbe stata la più adatta, quel lavoro si sarebbe forse espresso meglio in libri comuni 8. Si sarebbe 'avuto comunque un evento, per il nostro paese, straordinario: la costituzione di un gruppo di intellettuali che si scambiano i resultati delle loro ricerche e procedono insieme. Volle invece ognuno aver ragione per proprio conto, finendo, qual più qual meno, con aver torto di fronte alla propria responsabilità sociale. Può esser facile risposta quella che vede in tutto ciò i limiti della personalità del direttore del Politecnico. Portato (e questa è responsabilità dei dirigenti del P. C.) dall'onda di marea della Resistenza ad un compito, che, per esser menato a buon fine, voleva una pazienza ed una preparazione grandi, egli non ebbe né l'una né l'altra, né seppe rinunciare ad esser sempre il primo, la vedetta... È evidente che, malgrado i lunghi scritti storici e filosofici, il secondo Politecnico é una .rivista per immagini liriche, una rivista letteraria nel senso migliore (o peggiore) di questa parola. Questo avvertivano bene i collaboratori: i Balbo, i Cantoni, i Preti e molti altri (Giulio Preti vi era certo l'uomo dalle idee più chiare e più ricche, dal polso capace di condurre avanti l'impresa) non parteciparono mai o quasi mai alla vita della redazione, Vittorini non sapeva celare la sua insofferenza nei confronti di uomini avvezzi al rigore logico e metodico; né, d'altra parte, le critiche filistee dei professori arrivavano a capire come, sotto apparenze discutibili e personaggi e forme improprie, imposte dalle circostanze, si andassero dibattendo questioni che andavano ben oltre l'episodio e l'importanza della rivista. Non solo: ma era proprio alla schiera degli uomini di lettere tradizionali, i quali avevano lungamente ignorata e disprezzata la rivista (e aspettavano a braccia aperte il ritorno del figliuol prodigo) che, fra '46 e '47, essa andava sempre più, e naturalmente, rivolgendosi.
Bisogna tuttavia aggiungere che probabilmente era impossibi[...]
[...]ircostanze, si andassero dibattendo questioni che andavano ben oltre l'episodio e l'importanza della rivista. Non solo: ma era proprio alla schiera degli uomini di lettere tradizionali, i quali avevano lungamente ignorata e disprezzata la rivista (e aspettavano a braccia aperte il ritorno del figliuol prodigo) che, fra '46 e '47, essa andava sempre più, e naturalmente, rivolgendosi.
Bisogna tuttavia aggiungere che probabilmente era impossibile, nell'aria del 1948, tentar su di una nuova disciplina e rigore una ripresa della rivista; essa avrebbe richiesto inevitabilmente una immediata rottura con il Partito Comunista e un lungo, forse definitivo, periodo di isolamento. Ora, il '48 fu anno di battaglie aperte, di situazione ancora fluida. Forse nessuno di
8 Vittorini pensò ad una serie di volumidialogo. Ma non se ne fece poi nulla.
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coloro che più tardi sarebbero usciti dal P. C. o dai quali — come ebbe a dire, in un pauroso accesso d'orgoglio, un di costoro — il P. C. sarebbe uscito, era preparato alla serietà del compito. Così, quando, quattro anni più tardi, su La Stampa, Vittorini farà la sua prima dichiarazione pubblica dopo il suo allontanamento dal comunismo, gli antichi collaboratori saranno dispersi ai quattro venti, restituiti per la maggior parte a quella « spontaneità » culturale così cara ai politici delle restaurazioni, che è quasi esattamente l'inverso della libertà.
Nato da una forse ingenua e irresponsabile fiducia nel garibaldinismo culturale; cresciuto fino ad intravvedere quale avrebbe dovuto essere il lavoro di gruppo di intellettuali che intendessero operare al rinnovamento del proprio paese; finito quando, all'avvicinarsi di un lavoro difficile, oscuro e rischioso, si è rivelata la debolezza teoretica, l'incertezza, la mancanza di pazienza, di costanza, di tenacia e l'anarchico individualismo tradizionale ai nostri uomini di lettere, il Politecnico non avrebbe meritato, spento com'è ormai il timbro della sua voce, tanto lungo discorso, se la sua vicenda non
seguitasse ad essere piena di insegnamenti[...]
[...] all'avvicinarsi di un lavoro difficile, oscuro e rischioso, si è rivelata la debolezza teoretica, l'incertezza, la mancanza di pazienza, di costanza, di tenacia e l'anarchico individualismo tradizionale ai nostri uomini di lettere, il Politecnico non avrebbe meritato, spento com'è ormai il timbro della sua voce, tanto lungo discorso, se la sua vicenda non
seguitasse ad essere piena di insegnamenti. Se soprattutto e questo è
il suo merito, che nessuna critica può contestargli — i principali problemi d'oggi son quelli medesimi che esso ha posti e, per primo, descritti in forma generale: da quello, posto dalla sua stessa esistenza, d'un linguaggio non tecnico né volgarmente divulgativo a quello dei rapporti fra dirigenti culturali e dirigenti politici, da quello delle relazioni fra il pensiero marxista e le altre correnti del pensiero contemporaneo a quello di nuove vie possibili dii metodologia critica.
Il socialismo italiano e i partiti che non sappiamo per quanta tempo ancora lo rappresentano, non ha fatto che rinviare questi problemi. Una nuova generazione di studiosi e di scrittori, assai diversa dalla nostra, lavora ormai intorno ad essi, quasi tutta avviata sulle tracce della problematica gramsciava. E forse manca a coloro solo una più stretta unione di esperienze e di ricerche, un maggior coraggio dei propri resultati e 'la capacità di resistere alle difficoltà pratiche e a quelle morali che nascono dall'abbandonare gli organismi politici costituiti, all'isolamento e alla disperazione per riuscire a fondare, in mezzo al caos e all'incertezza, in un duro rifiuto di molte lusinghe, qualche resultato. Altro discorso, ma meno diverso da quanto si possa credere, si dovrebbe fare per chi, fuor delle oscillazioni delle mode, lavora ad opere di narrativa e di poesia. Viene forse, in noi e, fuori di noi,
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nei più giovani, una maturità per la quale né la speranza né la disperazione siano degli alibi; dove la vita nella città e quella extra rzoenia non si neghino e si contraddicano ma l'una sia garante della libertà dell'altra. La posizione di svantaggio della cultura socialista in Italia, rispetto a quella francese (dovuta soprattutto al fatto di non aver vissuto direttamente in tutte le sue fasi la grande querelle moderna fra comunismo e pensiero rivoluzionario non stalinista) é forse paradossalmente compensata dall'assenza d'una forte tradizione di democrazia borghese e dalla obiettiva asprezza dei conflitti di classe. Con più urgenza che altrove si pone qui — al limite delle culture e delle propagande in latta e profittando della pausa concessa dalla situazione internazionale — la necessità della elaborazione, della «invenzione », di soluzioni diverse ai conflitti fra libertà e autorità, fra direzione culturale e direzione politica che il socialismo ha incontrati e suscitati sul suo cammino. Qui; vale a dire, non in una astratta geografia occidentale o orientale... La responsabilità internazionale degli intellettuali e politici italiani, la sfida posta loro dalla situazione, sono fre le più rischiose ed onorevoli, quale che sia per essere l'avvenire del nostro movimento operaio.
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