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da Mario La Cava, Il grande viaggio in KBD-Periodici: Nuovi Argomenti 1954 - 5 - 1 - numero 8

Brano: [...]overa del luogo. V'erano pescatori, carrettieri, lavoratori dei campi, manovali, e qualche artigiano che aveva la bottega sul posto. Qua e là si apriva la porta di qualche cantina frequentata pure da popolani di altra parte del paese.
La pulizia, purtroppo, difettava alquanto, e non era difficile vedere animali d'allevamento passeggiare tranquillamente, malgrado il divieto comunale, per le contorte stradette: si sentiva allora il porco gridare, nell'attesa del cibo, che pareva lo scannassero, la capra chiamare la padrona, mentre allegramente saltava dalla porta di casa fin sul letto a due piazze, e le galline annunziare l'uovo, dopo essersi nascoste per farlo : si perdeva l'uovo e gravi litigi nascevano talora tra le donne sospettose che si accusavano l'una con l'altra.
Ma più spesso la pace regnava nel borgo, tra le famiglie che si conoscevano fin dall'infanzia e si trattavano come parenti. Sotto alle pergole, davanti alle case, nell'ombra benefica che le foglie e i fitti rami intrecciati facevano a riparo del sole, le donne stavano ferme a filare la lana, a fare la calza, a rammendare o a chiacchierare nei lunghi meriggi estivi. Uomini giocàvano alle bocce o ai birilli, quando non avevano da lavorare, ragazzi si divertivano colle nocciuole, coi soldini o colla trottola. Certe volte, senza bisogno di andare in cantina, gli uomini mettevano un tavolo di fuori, e facevano grandi partite amichevoli alle carte.
Il resto del paese aveva i signori, i commercianti, gli impiegati colla gente del popolo che viveva alle loro dipendenze o che comunque era in rapporti con loro: la vita si svolgeva nel paese colle sue simpatie e antipatie, colle sue ambizioni, colla sua lotta per il miglioramento economico[...]

[...] alle bocce o ai birilli, quando non avevano da lavorare, ragazzi si divertivano colle nocciuole, coi soldini o colla trottola. Certe volte, senza bisogno di andare in cantina, gli uomini mettevano un tavolo di fuori, e facevano grandi partite amichevoli alle carte.
Il resto del paese aveva i signori, i commercianti, gli impiegati colla gente del popolo che viveva alle loro dipendenze o che comunque era in rapporti con loro: la vita si svolgeva nel paese colle sue simpatie e antipatie, colle sue ambizioni, colla sua lotta per il miglioramento economico di ognuno, e di ciò si vedevano gli aspetti mutevoli, oltre che negli uomini, nelle case, nelle strade, nel decoro degli ambienti
IL GRANDI VIAGGIO 89
che cresceva col tempo. Il paese progrediva, le classi sociali si confondevano, i costumi lentamente si evolvevano.
Nel « Borgo » invece, niente di tutto questo. Non si costruivano nuove case, e se si costruivano avevano tutta l'aria delle vecchie, povere e dimesse, colle quali si confondevano; la gente faceva il suo lavoro, solitaria e indipendente, e non voleva aver a che fare coi signori e coi ricchi, dai quali preferiva stare lontana. Perfino gli artigiani non avevano altra clientela che non fosse quella di coloro che li stesso vi abitavano. Ma se qualcuno andava in America e ritornando portava soldi, allora il vecchio borgo più non era buono per lui e la casa nuova che si costruiva . s'aggiungeva a quell[...]

[...]nte faceva il suo lavoro, solitaria e indipendente, e non voleva aver a che fare coi signori e coi ricchi, dai quali preferiva stare lontana. Perfino gli artigiani non avevano altra clientela che non fosse quella di coloro che li stesso vi abitavano. Ma se qualcuno andava in America e ritornando portava soldi, allora il vecchio borgo più non era buono per lui e la casa nuova che si costruiva . s'aggiungeva a quelle del paese, belle e grandi, allineate lungo la strada del mare.
Giuseppe Cantilo era l'unico calzolaio del «Borgo» dopo che alcuni anni fa vi era venuto da un paese di montagna vicino, in seguito al suo matrimonio : Rosaria, la moglie, aveva avuto in dote una casa di due stanze in quel luogo, e per questo egli, che più volte era stato in dubbio, l'aveva sposata, trasferendosi quivi. In una stanza aveva aperto bottega, e tutto il giorno Giuseppe, con un ragazzo che l'aiutava; seduto davanti al deschetto, con un grembiule azzurro sulle ginocchia, batteva i chiodi col martello o tirava lo spago, colle mani e coi denti, o tagliav[...]

[...]ue stanze in quel luogo, e per questo egli, che più volte era stato in dubbio, l'aveva sposata, trasferendosi quivi. In una stanza aveva aperto bottega, e tutto il giorno Giuseppe, con un ragazzo che l'aiutava; seduto davanti al deschetto, con un grembiule azzurro sulle ginocchia, batteva i chiodi col martello o tirava lo spago, colle mani e coi denti, o tagliava col trincetto la suola, secondo l'arte che aveva imparato.
Era un uomo ancora giovane, con un po' di pancetta per la sua vita sedentaria, piccolo di statura, cogli occhi vivi e mobili; le sue mani, ingrossate dal lavoro, erano tanto nere che non si schiarivano nemmeno quando si lavava. Aveva i capelli neri e fitti, spesso impolverati verso la sera o a causa del vento che dalla strada aveva soffiato attraverso la porta aperta o per il suo stesso lavoro sulle scarpe della povera gente. La moglie, della stessa eta, sembrava più vecchia per una banda di capelli bianchi sulla fronte, ed egli per questo, tanti anni prima, aveva tentennato prima di sposarla.
Dalla porta di mezzo che introduceva nella camera del letto, dove vi era pure quello della bambina maggiore, mentre la più piccola dormiva ancora coi genitori, entrava la moglie Rosaria : spesso i due coniugi stavano insieme: la loro vita era tranquilla, se non felice, poiché la felicita é difficile su questa terra, e ora parlavano di una cosa ora di un'altra, talvolta, ma per poco, bisticciandosi.
9U MARIO LA CAVA
Diceva Rosaria : « Hai visto che Maria del povero Carmine non può vestirsi di chiaro, dopo tanti anni che teneva il lutto, nemmeno ora che si era sposata? ».
«Perché? Cosa le é successo? ».
« È morta la cognata! E non era quindici giorni che si era sposata! Va nel paese del marito e deve di nuovo vestirsi a nero... ».
« Sempre con questo lutto Maria! Ma chi é che é morto? ».
«Non the l'ho detto? La cognata, la sorella del marito, una ragazza di vent'anni bella come un fiore, che tanti la volevano... ».
«Pazienza! Il Signore non vuole nessuno troppo contento... ».
Compariva un cliente, un manovale del luogo che diceva di dover partire per trovare lavoro, e chiedeva delle scarpe che aveva dato per accomodare. «No, non l'ho ancora fatte! Ho dovuto fare altro lavoro d'urgenza. Domani! ».
« Ma se é una settimana che mi rimandate di giorno in giorno! No, io ve l'avevo detto. Debbo partire! Porterò, vuol dire, le scarpe da qualche maestro del paese » protestava il cliente.
« Portatele dove volete. Non ho potuto servirvi. Avevo altri impegni... ».
« Eh si! Altri impegni! E perché mi avevate promesso per una settimana fa, e poi p[...]

[...], e difendeva il marito: « Vi prometto io che gliele ricorderò io. Dopo che finirà le scarpe di Giuditta, l' `incaramel lata', che deve sposare, farà le vostre... ».
«Quando dunque debbo ritornare? Ditemi una parola definitiva! » chiedeva il cliente.
« Domani vi avevo detto, venite meglio dopodimani, così saremo più sicuri » prometteva Giuseppe; e la moglie, di rincalzo: « State si curo, compare Domenico, che ve le farà ». Il cliente allora se ne andava.
Interveniva di nuovo la moglie e diceva: «Gliele puoi pure accomodare... ».
« Parlare é la cosa più facile — rispondeva Giuseppe —. Se non ho un minuto libero!... ».
«E lui perché non paga come gli altri? » — diceva il ragazzo che
IL GRANDE VIAGGIO 91
sapeva le faccende della bottega —. Giuseppe non rispondeva, mentre era intento al lavoro, e sorrideva appena.
Correndo e tenendosi per mano comparvero le due figliuole, Ernesta, la maggiore, e Lidia che aveva solo tre anni; la più grande aveva sette anni, andava a scuola, e faceva da guida nella casa alla più piccola. Venivano dai nonni e dalle zie che abitavano vicino, quasi di fronte, e avevano fame. La madre diede loro una fetta di pane per ognuna, bagnato coll'olio.
Le bambine si misero a mangiare, mentre il padre era contento che col suo lavoro niente mancasse nella famiglia : un piatto caldo di pasta o di legumi o di verdura era sempre a loro disposizione; qualche volta mangiavano la carne o il pesce.
Giusto il giorno prima Luigi il pescatore gli aveva promesso mezzo chilo di pesce; glielo avrebbe portato lui stesso, a casa, poiché stavano vicini; e Giuseppe domandò: « Non é tornato Luigi dal mare? ».
Credo di no » rispose Rosaria.
S'accorse questa che il fico piantato davanti alla sua casa, e di cui un ramo arrivava fino alla porta, dalla parte di sopra, ondeggiava. « Debbono essere i ragazzi! » — pensò — e s'affacciò per scacciarli, se fossero saliti col pericolo di rompere i rami.
Era solo Felicetto, il figlio di Luigi il pescatore, che si dondolava; e poiché era quieto [...]

[...]deggiava. « Debbono essere i ragazzi! » — pensò — e s'affacciò per scacciarli, se fossero saliti col pericolo di rompere i rami.
Era solo Felicetto, il figlio di Luigi il pescatore, che si dondolava; e poiché era quieto abbastanza, Rosaria non lo scacciò. «Sta attento a non rompere i rami! » gli disse; e poi: «Tuo padre é ritornato dal mare? ».
«No, ancora no! » rispose il bambino.
Comare Carmela della famiglia Crispini che abitava dirimpetto nello stretto vicolo, chiuso poco più in là da una siepe di fichidindia che davano sulla campagna alberata, la chiamò a voce alta, colla sua caratteristica pronunzia strascicata : le due famiglie più volte erano state in lite per delle piccolezze, malgrado la cagione principale fosse nella naturale malignità della famiglia Crispini, per cui nessuno poteva vederla. Ora si erano di nuovo fatte amiche, e Rosaria fu sollecita a rispondere: «Un momento, e vengo ».
Rientrò in casa, prese la calza, ed usci per andare a trovare comare Carmela che l'aspettava sulla porta: si intrattennero alquanto; e poi
92 MARIO LA CAVA
Rosaria si licenziò per andare dai suoi genitori che abitavano poco più in là.
Costoro stavano con le due figlie rimaste zitelle in casa, ed erano molto vecchi, poiché il padre aveva sposato in seconde nozze una donna non più tanto giovane: ora il padre, il vecchio fabbro Felice, era cadente, magro nel suo corpo rimpicciolito, colla barba bianca che sembrava S. Giuseppe; mentre la madre, che aveva una gamba slogata, stava quasi tutto il giorno a letto o seduta su una sedia, dove lentamente filava.
Le figlie zitelle erano il loro amaro tormento : la maggiore, di nome Agata, aveva tutti i capelli grigi e rassomigliava a Rosaria, di qualche anno più grande. Un tempo era stata fidanzata con un giovane di migliore condizione che poi non aveva voluto sposarla; e più nessuno si era avvicinato a lei. La minore, Peppina, mai era stata chiesta da alcuno, ed era cresciuta timida e scontrosa.
Si adattava ai lavori di campagna — mentre Agata lavorava di cucito preparando vestiti da spose per quelle ragazze che non potevano andare da una sarta migliore — e in quel momento proprio era ritornata con un sacco di erbe. Taciturna e aspra le lavava su una vaschetta di creta messa in mezzo alla stanza d'entrata.
Rosaria aveva da annunziare la novità della giornata, appresa dopo il discorso che aveva fatto con commare Carmela : la sua figliuola era stata chiesta in ispos[...]

[...]o il discorso che aveva fatto con commare Carmela : la sua figliuola era stata chiesta in isposa da Sebastiano della famiglia Riccio, colla quale però erano stati in lite, e perciò non lo volevano. Ma Rosaria aveva capito che il matrimonio si sarebbe fatto.
«Dopo tutto quello che si son dettò da una parte e dall'altra! » disse Rosaria.
« Tu credi che tutti sono come noi che siamo andati troppo per il sottile? » rispondeva Agata.
« A me non me ne importa niente. Che sposino o non sposino é lo stesso. Mi dispiace che ho dovuto correre tutti i campi per trovare questa minestra! » aggiungeva Peppina.
Parlarono allora di nuovo dei fratelli lontani, in Egitto : li avevano sposato tutt'e due, e da molti anni non venivano. Ma si ricordavano dei genitori ai quali ogni mese mandavano qualche cosa. E proprio il giorno prima avevano scritto una lettera.
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IL GRANDE VIAGGIO 93
« Filippo dice che la moglie é abortita per la terza volta, e così é rimasto senza nemmeno un figlio. Ma dico io che moglie s'é scelta che non sa fare figli? » disse la madre, che si interessava alle cose della famiglia e aveva la mente lucida. Il padre sembrava assente, era tutto occupato a fiutare tabacco.
« Ah! Ah! » rise Rosaria. « Deve essere forse qualche pupa di legno, bella in viso, ma senza pancia... ». Agata fece colla bocca una piccola smorfia di dispetto contro la cognata che non conosceva, mentre Pgppina, giacché era fatta così, arrossi di vergogna alle parole della sorella.
« Quell'altra — riprese la madre — fece qualche gatto e poi le mori. Segno che l'aveva f[...]

[...]a. Il padre sembrava assente, era tutto occupato a fiutare tabacco.
« Ah! Ah! » rise Rosaria. « Deve essere forse qualche pupa di legno, bella in viso, ma senza pancia... ». Agata fece colla bocca una piccola smorfia di dispetto contro la cognata che non conosceva, mentre Pgppina, giacché era fatta così, arrossi di vergogna alle parole della sorella.
« Quell'altra — riprese la madre — fece qualche gatto e poi le mori. Segno che l'aveva fatto bene... ».
« Dice che viene Filippo? » domandò il padre. E poi: « E di Antonio dice che viene? ».
« Ma no, che non vengono! » rispose Agata. « È da ieri che ve lo sto dicendo, e ancora non l'avete capito... ».
«Beh! Purché abbiano la salute e guadagnino bene» riprese il padre. Si rivolse a Rosaria e domandò: « Ma Giuseppe perché non passa mai da noi? Stiamo a due passi e non lo vedo mai. Lo vedo soltanto passare... ».
Agata rispose per la sorella : « Il signorino riceve solo le visite, non le restituisce... ».
Ma Rosaria non seppe scusare il marito. Il quale amava i parenti della moglie, ma si annoiava ai discorsi che soleva fare il vecchio fabbro Felice su un passato che non conosceva e al quale non si interessava.
Quando Giuseppe usciva, talvolta si fermava un momento a salutare i parenti; tal'altra, specialmente se era in compagnia tirava d[...]

[...]ure, quando non aveva voglia di lavorare o doveva andare a comprare la suola, anche di giorno. Il suo lavoro non era ostinato e continuo; perché egli non aveva sogni di ricchezza per la sua vita, si contentava di quello che guadagnava, e non voleva sacrificarsi. oltre misura.
Ritornata Rosaria a casa sua per preparare la cena della sera, Giuseppe già aveva smesso il lavoro, aveva licenziato il ragazzo e si era
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lavato. Le bambine giocavano tra di loro, e la più piccola rincorreva la grande, dandole dei piccoli colpi colle mani, gridando e ridendo.
«Per il pesce é inutile parlare, stasera — disse Rosaria metterò la.
pasta e la farò col pomidoro ».
« No, non é venuto! » rispose Giuseppe.
Ma proprio in quel momento comparve Luigi, il pescatore. «Non abbiamo pescato nemmeno una coda di pesce! E abbiamo fatto cinque cali! È una sfortuna, un malaugurio, proprio quando ti avevo promesso il mezzochilo di triglie ».
« Non fa niente. Non ti preoccupare per me. Mi dispiace che non avete preso niente! ».
Ed io per dispetto vado a bere un quarto di vino, in cantina! Tu non vieni? ».
« No, no » rispose tentennando Giuseppe. Ma Luigi non insisté, e s'allontanò, allegro malgrado la disdetta. « Arrivederci, arrivederci cornmare Rosaria! » disse il pescatore.
Rimasti soli, Rosaria accese il fuoco nel fornello messo in un canto della stanza da lavoro, dopo averlo tolt[...]

[...]urio, proprio quando ti avevo promesso il mezzochilo di triglie ».
« Non fa niente. Non ti preoccupare per me. Mi dispiace che non avete preso niente! ».
Ed io per dispetto vado a bere un quarto di vino, in cantina! Tu non vieni? ».
« No, no » rispose tentennando Giuseppe. Ma Luigi non insisté, e s'allontanò, allegro malgrado la disdetta. « Arrivederci, arrivederci cornmare Rosaria! » disse il pescatore.
Rimasti soli, Rosaria accese il fuoco nel fornello messo in un canto della stanza da lavoro, dopo averlo tolto da un bugigattolo oscuro che doveva servire da cucina, ma che non era mai adoperato. Fece friggere il pomodoro nell'olio per la salsa; poi avrebbe fatto bollire l'acqua nella pentola per la pasta.
La sera intanto era calata e la stanza era piena di ombra; i volti non si vedevano e, nell'attesa di accendere il lume, mentre i figliuoli s'erano chetati, Rosaria parlava. « Il padre ha domandato tanto di te — diceva al marito —. Si lagna che non ti vede mai, che non vai a trovarlo; e se passi davanti alla porta, non ti fermi nemmeno... ».
Era la verità, e Giuseppe che sentiva il torto taceva. Rosaria continuava: «Ci vuole tutti con sé. Non fa che domandare quando Filippo e Antonio ritornano dall'Egitto... ».
«Aspetta, che ritorneranno!...» esclamò Giuseppe.
« Certo un padre vuole sempre i figli vicino! ».
« Questo si ».
« Ma nemmeno loro stanno tanto bene in Egitto colle malattie che dicono di avere avuto. Tutt'e due hanno sposato, e nessuno ha avuto figli... ».
IL GRANDE VIAGGIO 95
« Se non fosse stato per le malattie... Colle malattie non si sta bene in nessun posto n concluse Giuseppe.
Prima ancora che Giuseppe si fosse fidanzato con Rosaria o avesse pensato di fidanzarsi, aveva conosciuto i due fratelli di lei: con Filippo aveva fatto il soldato assieme e si erano voluti tanto bene da rivedersi anche dopo, più volte; con Antonio la conoscenza era avvenuta in un negozio di pelli del paese della marina, dove Giuseppe andava a comprare la roba occorrente per il suo lavoro, e dove Antonio aiutava il padrone nella vendita.
In seguito i due fratelli erano partiti per l'Egitto, ma il destino aveva voluto che Giuseppe si fidanzasse con la loro sorella, Rosaria, che prima di allora non aveva conosciuta. Il matrimonio stava per fallire, perché Giuseppe, troppo giovane, si era pentito del passo che stava per fare; ma fu per un riguardo ai fratelli lontani che tutto si aggiustò, decidendosi alfine a sposare la donna che, del resto, per la dote che portava, non era un partito sconveniente per lui.
Dall'Egitto i due fratelli mantennero buone relazioni sia con Rosaria che con Giuseppe: non scrivevano spe[...]



da Vittorio Lanternari, Approccio antropologico al rifugiato mondiale in KBD-Periodici: Belfagor 1984 - 3 - 31 - numero 2

Brano: VARIETÀ E DOCUMENTI

APPROCCIO ANTROPOLOGICO AL RIFUGIATO MONDIALE

Il problema dei rifugiati rientra nella categoria delle « calamità provocate dall’uomo » (« manmade disasters »), come altri (D’Souza) hanno scritto e, noi aggiungiamo, per le quali è più arduo, all’uomo, porre rimedio. Certo si danno casi di calamità naturali collettive grandi siccità, terremoti, inondazioni cui seguono ondate di fuggiaschi in cerca di nuove sedi. Ma di massima il problema dei rifugiati nasce da conflitti politici, guerre, persecuzioni. è un problema soltanto moderno. Anzi è forse uno dei più antichi problemi posti dalla storia dei popoli nei loro contatti e nei loro conflitti. Ed è proprio la storia ad insegnarci qualcosa circa i processi d’inserimento, adattamento o di rigidità etnicoculturale, di acculturazione, integrazione, assimilazione o di marginalizzazione, ghettizzazione e persecuzione a cui furono sottoposte le popolazioni più diverse nei trapianti massicci, imposti o volontari, ch’esse subirono nelle più varie circostanze in tempi remoti e meno remoti. La storia c’insegna specialmente gli effetti a lungo termine, sul piano dei comportamenti collettivi e dei rapporti interculturali, seguiti tra i più diversi gruppi etnici costretti per qualsiasi causa a insediarsi in terre straniere.

La « cattività babilonese » degli antichi Ebrei è un caso che apre la storia dei rifugiati nel mondo vicinoorientale; la diaspora ebraica dopo la distruzione di Gerusalemme nel i secolo d.C. dà il via ad uno dei più grandiosi processi storici di dispersione di rifugiati nel mondo occidentale. Pensiamo anche ai grandi rimescolamenti di popoli che seguirono le invasioni di « barbari » nell’alto Medioevo europeo; alle masse di perseguitati religiosi fuggiti dall’Inghilterra in America nel ’600, e che fondarono quella Nuova Inghilterra da cui sarebbero nati gli Stati Uniti di oggi. Sostanziali analogie col problema dei rifugiati, sotto il profilo socioculturale, ha l’intero capitolo della tratta di schiavi africani portati nei secoli xvixvm e oltre in America, dove unendosi formarono le cosiddette « nazioni » secondo la loro origine etnica, e dove a lungo termine avrebbero anche dopo l’emancipazione alimentato l’insorgere di sempre nuovi problemi nei rapporti etnici e culturali tra il mondo negro e il mondo della società ufficiale americana.

Una parentela col problema dei rifugiati, per quel che riguarda gli aspetti socioculturali del loro incontro con la società ospitante, ha anche il fenomeno della stabilizzazione di emigrati in paese straniero, dove essi vengono a costituire altrettante minoranze etniche, linguistiche e culturali, in un complesso e196

VITTORIO LANTERNARI

contraddittorio rapporto di integrazione e diversificazione con la società dominante. Comune è infatti la crisi culturale, psicologica, eticosociale del trapianto in ambienti nuovi e dentro società aliene. Anche se differenze vi sono tra l’altro nel fatto che gli emigrati « fuggirono » dal paese d’origine per evadere dalla miseria e dal sottosviluppo non da minacce di guerre o persecuzioni ed in piccoli gruppi famigliari o come individui singoli, mentre i rifugiati formano per lo più gruppi unitari, comunità e perfino masse omogenee unite da un comune destino che simultaneamente o in breve periodo li ha « costretti » a fuggire.

Qualche insegnamento ci viene, per un approccio al problema dei rifugiati, anche dal caso delle minoranze etniche trapiantate da secoli in paesi dell’area occidentale Europa, Stati Uniti, Canada per esempio le « colonie » albanesi del Mezzogiorno d’Italia, o di minoranze costituitesi in epoche recenti (Portoricani e Haitiani negli usa; Indiani nei paesi dell’Africa orientale, ecc.). Un caso particolarmente indicativo è quello delle minoranze di nomadi (gli Zingari) da secoli trapiantate tra popolazioni sedentarie in Europa. Da questi casi impariamo quanto forte è l’esigenza di salvaguardare e serbare gelosamente le tradizioni, la cultura, la propria identità originaria tra i « rifugiati »; e quanto è pressante all’opposto nella società ospitante la tendenza a integrarli, omologandoli alla propria cultura, riservando loro ostilità, disprezzo e comportamenti persecutori nel caso ch’essi (penso in particolare a numerosi casi riguardanti gli Zingari) rifiutino d’integrarsi nella società borghese ufficiale (i nomadi come sedentari, i negri come proletari o borghesi tra i bianchi in usa, albanesi come italiani nel nostro Mezzogiorno).

Certamente nei tempi moderni, e sempre più negli ultimi decenni con l’aggravarsi di squilibri, conflitti e moti politici nel Terzo Mondo, con la nuova esplosione di conflittualità sociali, politiche e religiose all’interno dei paesi dell’area capitalista e socialista, è cresciuta la popolazione dei rifugiati. La disperata fuga dal Vietnam dei « BoatPeople » e la diaspora dei Palestinesi imposta da Israele con la guerra nel Libano sono segni d’una sempre più sconvolgente tragedia che investe le più diverse popolazioni. Il fenomeno di massicce fughe d’interi popoli s’è esteso a macchia d’olio soprattutto nei paesi africani, latinoamericani, asiatici, con ripercussioni immediate nei paesi europei, e comunque nei paesi occidentali industrializzati, assunti in molti casi come preferibili terre d’asilo. Si è cosi cominciato ad avvertire l’esigenza di prendere coscienza critica dei problemi posti dalla presenza di rifugiati nel mondo: problemi che solo sotto la pressione degli eventi e dei conflitti che ne insorgono, si cerca di affrontare ora nella loro autonomia e nella loro multiformità. Ciò come premessa all’organizzazione d’interventi operativi da parte di organismi politici, assistenziali, amministrativi, religiosi, ecc.: interventi intesi a cercare soluzioni, o almeno proposte di soluzioni alla somma dei problemi che i rifugiati pongono al mondo contemporaneo e a tutti i paesi che ne fanno parte senza possibilità, per nessuno d’essi, d’ignorarli o rimuoverli: o come paesi da cui si fugge, o come paesirifugio.APPROCCIO ANTROPOLOGICO AL RIFUGIATO MONDIALE

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La prima osservazione da fare, in un quadro d’assieme, è quella della molteplicità ed eterogeneità dei problemi posti dalla condizione di rifugiato, in relazione alle circostanze storiche, sociopolitiche, religiose del loro espatrio. L’espatrio può essere forzoso o volontario, è in tutti i casi agevole distinguere dove termina la componente « forzosa » e dove comincia quella « volontaria ». Guerre, persecuzioni politiche, ideologiche, religiose, ma anche grandi siccità (Sahel), terremoti, trapianti imposti (i Bahari del Bangladesh nel Pakistan, i Somali nomadi forzosamente sedentarizzati, ecc.) danno luogo a processi di fughe colléttive. Fuggono interi gruppi etnici o gruppi famigliari, ovvero individui singoli. Eterogeneità di problemi è data dalla diversità caso per caso — di cultura rispetto ai paesi ospitanti, dalla diversità di estrazione socioculturale dei distinti individui, delle famiglie o dei gruppi: d’origine rurale o urbana, di livello illetterato o letterato, di vari mestieri e ruoli, come contadini, professionisti, studenti, ecc. Diverse esigenze e specifici problemi si pongono per bambini, giovani, adulti, anziani, nonché per i sessi diversi. Altri sono poi i problemi che si pongono per rifugiati in campi di primo asilo, altri per quelli d’insediamento durevole, o definitivo. Alcuni hanno perciò distinto problemi di « emergenza » (relativi a bisogni primari e immediati), di « sussistenza » (assistenza in attesa di smistamento) e d’« insediamento definitivo ». Emblematici di tale eterogeneità d[...]

[...] e specifici problemi si pongono per bambini, giovani, adulti, anziani, nonché per i sessi diversi. Altri sono poi i problemi che si pongono per rifugiati in campi di primo asilo, altri per quelli d’insediamento durevole, o definitivo. Alcuni hanno perciò distinto problemi di « emergenza » (relativi a bisogni primari e immediati), di « sussistenza » (assistenza in attesa di smistamento) e d’« insediamento definitivo ». Emblematici di tale eterogeneità di situazioni e di esigenze sono i casi africani: dall’Ogaden etiopico alla Somalia; dall’Ogaden all’Europa, dall’Eritrea in Italia

o a Gibuti; dalPUganda in Tanzania, Zaire, Kenya e USA; dalla Rhodesia allo Zimbabwe; dal Sudan meridionale ai paesi prossimi e poi ritorno in Sudan; dall’Angola, Guinea Bissau, Mozambico durante le lotte di liberazione; dal Sahel, ecc.

L’enormità e l’eterogeneità dei problemi che si pongono nell’insieme, specie di fronte al tentativo di pervenire ad alcune generalizzazioni di qualche utilità non solo scientifica, ma anche operativa, sono tali da rendere improbabile l’assunto stesso di proposte risolutive universalmente valide.

Noi conosciamo bene, nel campo delle discipline antropologiche, i processi di disgregazione socioculturale determinati dall’urto fra società e culture differenti nel contesto coloniale e postcoloniale: sia quando si tratti d’urto violento di una forza egemonica espansionista che introduce fattori sociali, politici, economici, religiosi e insomma modelli culturali impositivi, tali da mettere in crisi l’intero assetto delle società tradizionali; sia che si tratti dell’incontro non violento tra culture separate da un marcato dislivello e da radici storiche assolutamente eterogenee. Ricordo qui i più diversi casi d’incontro della civiltà occidentale, mercantile, industriale con le società tribali, preindustriali, prive di economia monetaria, del Terzo Mondo.

Conosciamo gli effetti di crisi psicosociale e di vuoto culturale che tali incontri o scontri producono a livello collettivo. Conosciamo anche i variabili processi di reintegrazione o di sintesi culturale con i quali le società già tradizionali hanno risposto e rispondono alla crisi che disgrega i sistemi eticosociali, religiosi, parentali, politici tradizionali, e che vanifica il sistema di valori198

VITTORIO LANTERNARI

coesivi tramandati dagli antenati. Conosciamo d’altronde la situazione dei negri nelle homelands segregazioniste del Sudafrica, dove dominano malnutrizione e denutrizione, supersfruttamento di manodopera a basso costo, separazione degli adulti dalle famiglie per ragioni di lavoro, perdita del senso di protezione materna da parte dei bambini, portati alla morte per denutrizione. Anche questa è una situazione che ha punti di contatto col problema dei rifugiati: malgrado le differenze dovute al fatto che per i negri l’« espatrio » s’identifica con la loro ghettizzazione in riserve site in quella che è, a rigore, la loro «patria», ad opera di bianchi «immigrati» ma egemoni.

Ma la condizione del rifugiato ha qualcosa di più pericolosamente e sottilmente logorante dei casi suesposti. Infatti nei casi indicati la crisi investe gente pur sempre unita in un ambiente territoriale etnico e sociale originario, e pertanto in grado, per il vincolo che la lega alla sua terra e nella (malgrado tutto) perdurante unitarietà sociale, di opporre resistenza alle forze disgreganti. La forza della memoria ancestrale e della cultura tradizionale, condivisa comunitariamente, offre loro possibilità di rispondere e reagire positivamente alla crisi. È significativo che periodiche rivolte di negri si verifichino in Sudafrica, e che tutte le società del Terzo Mondo investite dall’ondata espansionista e prevaricatrice della civiltà occidentale abbiano elaborato, e continuamente elaborino vie nuove ed autonome da percorrere, secondo i criteri di un sincretismo culturale che volta a volta s’innesta alle tradizioni e alla cultura avita, senza mai rinnegarla, ma reinterpretandola in sintesi originali.

Ma i rifugiati, diversamente, sono stranieri in terra straniera. Sono sradicati dalle strutture territoriali, abitative, ambientali. Sono fisicamente strappati dalle tradizioni nei loro aspetti pratici, rituali, sociali. Essi subiscono una violenza fisica diretta: patimenti, miseria, malattie, fame, isolamento. Il disastro subito con lo sradicamento minaccia di distruggere senza compenso la cultura e i valori cui sono radicati per nascita: la loro stessa identità etnica, sociale, psicologica. Il loro è un lancio nel vuoto, in un « limbo culturale » reso tragico dalla mancanza d’immediate prospettive risolutone. I casi che abbiamo pocanzi nominato, riguardano da un lato società tradizionali scontratesi in situ con civiltà estranee, dall’altro minoranze etnicolinguistiche e culturali inserite nel mondo occidentale. In tutti tali casi si tratta di genti venute a trovarsi al bivio tra modelli alternativi e diversi, fra una spinta conservatrice tradizionalista, ed una controspinta modificatrice destrutturatrice. Ma in tutti i casi del genere s’apre la possibilità di elaborare risposte originali ed autonome. Il rifugiato si trova senza alternative che dipendano da sua libera scelta. Il momento della « fuga » lo pone drasticamente dinanzi a un solo problema: salvare la sua integrità fisica, cioè sopravvivere. E quando abbia trovato un paese d’asilo immediato dovrà ancora cercare e trovare quello d’insediamento durevole. E quand’anche abbia trovato la sede definitiva, allora s’impone per lui drammaticamente un problema non meno vitale: quello di salvare la sua identità culturale. Infatti il rifugiato rischia, nel paese straniero tanto più quanto più tale paese è « diverso » dal suo originario per ambiente fisico, clima, storia, culturaAPPROCCIO ANTROPOLOGICO AL RIFUGIATO MONDIALE

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di perdere totalmente se stesso; di non potersi più riconoscere attraverso lo specchio di altri che condividano in modi ufficiali (e non clandestini o solo privati) lingua, costumi, tradizioni, religione, valori, cultura. Anche mescolandosi con altri di cultura congenere, il rifugiato non può non sentirsi isolato nel mezzo d’una società largamente maggioritaria e aliena, tendenzialmente indifferente se non ostile e comunque « diversa ». Nel migliore dei casi viene a formarsi una contraddittoria e psichicamente lacerante dicotomia fra un modo di vita « ufficiale » nei rapporti esterni con la società dominante, ed un modo « riservato » e privato, con uso della lingua materna e rispetto degli usi nativi all’interno della famiglia e della minoranza di cui egli fa parte.

Il trauma del rifugiato, dopo superata la crisi dell’espatrio e le drammatiche vicende in vista di un insediamento, è il trauma dell’isolamento, della perdita dei propri centri di riferimento ideologico e culturale, in condizioni d’impotenza e di frustrazione. Angoscia, depressione psichica, vuoto psicologico sono gli effetti correnti del « limbo culturale », della minaccia di perdita d’id[...]

[...]rni con la società dominante, ed un modo « riservato » e privato, con uso della lingua materna e rispetto degli usi nativi all’interno della famiglia e della minoranza di cui egli fa parte.

Il trauma del rifugiato, dopo superata la crisi dell’espatrio e le drammatiche vicende in vista di un insediamento, è il trauma dell’isolamento, della perdita dei propri centri di riferimento ideologico e culturale, in condizioni d’impotenza e di frustrazione. Angoscia, depressione psichica, vuoto psicologico sono gli effetti correnti del « limbo culturale », della minaccia di perdita d’identità. Ne seguono: mania di persecuzione, paure, fantasie d’aggressione, desiderio di morte e di autodistruzione. Lacerante si fa la contraddizione tra la cultura interiorizzata in origine mi riferisco ad individui adulti e socializzati nella cultura nativa ed il bisogno d’adattamentointegrazione nella cultura straniera.

Il dilemma tra conservazione e integrazione, fra tradizione e cambiamento è il dilemma fondamentale del rifugiato nel suo rapporto con l’ambiente ospitante. Ed è da notare con sorpresa che proprio questo problema, vitale e dominante nell’intera fenomenologia del rifugiato, non ha finora trovato una percezione adeguata negli autori e negli studi dedicati al problema dei rifugiati. La letteratura in questione (vedi Bibliografia), scarsamente aperta e sensibile a problemi d’ordine socioculturale, il più delle volte si lascia ispirare dalla convinzione, più

o meno i[...]



da Vittorio Lanternari, Discorso sul messianismo in KBD-Periodici: Nuovi Argomenti 1960 - 9 - 1 - numero 46

Brano: DISCORSO SUL MESSIANISMO
La tradizione occidentale d'origine giudaicocristiana ha così profondamente e univocamente improntato il nostro corredo di idee circa i fenomeni religiosi, che può facilmente sembrare improprio — se non irriverente — parlare di messianismo in un senso che di proposito trascende il filone religioso giudaicocristiano. Recentemente uno studioso cattolico mi faceva osservare che il termine « messianismo » non può legittimamente applicarsi a fenomeni religiosi che non siano in qualche modo legati all'ambiente culturale originario da cui il termine stesso (cc messia », dall'ebraico máshiah = « l'unto » (di Dio), ossia « l'eletto ») trae la sua vera radice etimologica. In proposito, c'è da osservare anzitutto che lo stesso termine ebraico aveva originariamente un significato talmente generico e — per così dire — extramessianico (nel senso cristiano), che con esso indicavasi ugualmente un sommo sacerdote, un monarca israelita, in quanto cerimonialmente investiti di un'alta dignità, o perfino un alienigena pagano come il persiano Ciro, liberatore degli Ebrei deportati in Babilonia. Vero è che il termine poteva anche applicarsi a quel personaggio annunciato ed atteso per un tempo futuro dal ceppo d'Israele, da cui, secondo numerosi passi profetici, sarebbe stato determinato l'avvento dell'epoca aurea, apportatrice di libertà, pace, concordia, giustizia. Ma soltanto per effetto della successiva tradizione religiosa, cioè soltanto in ambiente cristiano ellenistico (Giov. I, 41; IV, 25), il termine « messia » doveva via via rimaner circoscritto, per identificarsi con la figura storica del « salvatore » (cc unto » = christ6s), atteso e interpretato come rinnovatore del mondo.
Dunque il termine « messia » ha pur esso una storia, avendo mutato nel tempo la portata della propria accezione, da un significato generico ad uno ristretto e individuale. L'identificazione messiaGesù è sancita in Occidente da una tradizione bimillenaria;
14 vITTORIo LA_NTERNARI
ma non pare ora scientificamente illegittimo — anche alla luce della storia stessa del termine — riestendere il significato di questo ultimo, almeno dal punto di vista di una storia comparativa delle religioni, così da abbracciare una serie ben ampia di manifestazioni corrispondenti: salvo l'obbligo — ben s'intende — di ravvisare, al di là delle analogie, anche le differenze concrete fra i vari tipi di manifestazioni «messianiche ». Del resto, lo stesso complesso messianico germogliato in ambiente giudaico e riconfermato in ambiente cristiano, con la figura di un futuro salvatore, non nasce dal nulla, né é frutto d'improvvisa, miracolosa intuizione ad opera di questo o quel profeta: es[...]

[...]di vista di una storia comparativa delle religioni, così da abbracciare una serie ben ampia di manifestazioni corrispondenti: salvo l'obbligo — ben s'intende — di ravvisare, al di là delle analogie, anche le differenze concrete fra i vari tipi di manifestazioni «messianiche ». Del resto, lo stesso complesso messianico germogliato in ambiente giudaico e riconfermato in ambiente cristiano, con la figura di un futuro salvatore, non nasce dal nulla, é frutto d'improvvisa, miracolosa intuizione ad opera di questo o quel profeta: esso bensì rivela radici profonde e lontane, che affondano certamente fino allo strato mosaico, e assai presumibilmente piú indietro: poiché lo stesso Mosaismo é sintesi nuova, (1) di elementi in gran parte piú antichi. Comunque, i profeti ebraici posteriori, a lor volta si riallacciano ad un tema d'attesa messianica già contenuto nell'arcaico messaggio mosaico (Deut. XVIII, 1522), rielaborandolo in forme adatte alle nuove esigenze di liberazione: o che il messia si denomini « Servo di Dio » (Isaia, XXXV, XLII), « Signore di giustizia » (Geremia, XXIII, 58), o « Figlio dell'uomo » (Ezechiele, XX, 33, 42, XXXIII), o « Capo dell'esercito » (Daniele, IX, 2327), ecc.
Come ipotesi di lavoro ci sembra dunque che per « messia » debba intendersi ogni ente — singolare o plurale, piú o meno antropomorfo — atteso da una collettività, nel quadro della vita religiosa, come futuro apportatore di salvezza.
Ora, nel quadro generale della storia religiosa, ci pare legittimo porre il problema, se l'atteggiamento messianico sia connaturato, peculiare, esclusivo del filone giudaicocristianoislamico (in ordine: Mosé e profeti, Apocalisse, Mahdismo): o se esso piuttosto trovi corrispondenza in religioni eterogenee d'ambiente primitivo, indipendentemente da influenze occidentali.
Già un altro grande filone messianico ricorre nel campo di certe religioni storiche fra le maggiormente progredite, Zoroastri
(:) Per il Mosaismo, come sintesi religiosa di componenti arcaiche, d'origine in parte pastorale e in parte agricola, v. LANTERNARI, La grande festa, Milano, 1959, pp. 44851.
DISCORSO SUL MESSIANISMO 15
smo e Buddismo. Nel Zoroastrismo si attendeva la venuta del Saosyant, futuro Salvatore, per la decisiva lotta contro il dio del male Angramaniu e il finale trionfo del bene. Da questa concezione, intrecciata con le teorie indoiraniche del progressivo corrompimento degli evi cosmici fino alla ripresa di un nuovo ciclo del tempo, nasceva in seno al Buddismo popolare la concezione del Budda futuro, Maitreya, che quando il male avrà saturato il mondo scenderà un di sulla terra per ripristinare il regno del bene (2). Come si vede, l'attesa di un ente sovrannaturale che dovrà venire o tornare, a coronamento di un intero ciclo di esistenza degli uomini, per aprire un'era nuova liberatrice, é comune ad altre religioni fuori del filone giudaicocristianoislamico. In tutti i casi é interessante notare fin d'ora che l'attesa messianica viene promossa nell'ambito di movimenti religiosi di salvezza, così come Zoroastrismo, Buddismo, Mosaismo, Profetismo ebraico dell'esilio, Cristianesimo: e che tali movimenti sorsero a volta a volta in ottemperanza di bisogni reali di rinnovamento e catarsi, per effetto di uno stato di oppressione, angoscia, conflitto a livello collettivo e sociale (3).
Ma converrà meglio, per avvicinarci al problema di fondo, chiederci ancora: quali sono le forme concrete, fuori dalle « grandi religioni storiche », in cui si manifesta un corrispondente, o almeno embrionale atteggiamento messianico; e ancora: su quale terreno culturalesociale il messianismo alligna in misura tanto evidente da costituire veri e propri movimenti di attesa di salvezza?
Sarà bene brevemente riandare, in proposito, ad uno dei più
(2) E. ABEGG, Der Messiasglarnben ìn Indien und Iran, BerlinLeipzig 1928.
(3) Per quanto ri[...]

[...]goscia, conflitto a livello collettivo e sociale (3).
Ma converrà meglio, per avvicinarci al problema di fondo, chiederci ancora: quali sono le forme concrete, fuori dalle « grandi religioni storiche », in cui si manifesta un corrispondente, o almeno embrionale atteggiamento messianico; e ancora: su quale terreno culturalesociale il messianismo alligna in misura tanto evidente da costituire veri e propri movimenti di attesa di salvezza?
Sarà bene brevemente riandare, in proposito, ad uno dei più
(2) E. ABEGG, Der Messiasglarnben ìn Indien und Iran, BerlinLeipzig 1928.
(3) Per quanto riguarda la nascita del Zoroastrismo in rapporto al conflitto di due correnti culturali eterogenee e contrapposte, cfr. il mio volume La grande festa, Milano, 1959, p. 448. Quanto alla nascita del Buddismo e del Cristianesimo in rapporto al conflitto fra sacerdotalismostatalismo e bisogni popolari, cfr., Le mie osservazioni, in « Nuovi argomenti » 4243, 1960, pp. 1001. Quanto al profetismo ebraico d'epoca preesilica (Amos, Isaia, ecc.), esso va posto in rapporto con le catastrofiche calamità in atto (scisma politicoreligioso, caduta del regno di Samaria) e altre intravvisabili all'orizzonte, per il popolo ebraico a causa dell'ostilità di temibili potenze vicine, e della supremazia babilonese. Quanto infine ai profeti dell'esilio, essi operano in condizioni di attuale catastrofica e disperazione collettiva. In tutti i casi i profeti interpretano un bisogno di liberazione da mali attuali o imminenti, storicamente determinati e storiograficamente identificabili.
16 VITTORIO LANTERNARI
nuovi e significativi capitoli della moderna storia delle religioni: quello che concerne i movimenti profetici di libertà e di salvezza, detti variamente movimenti nativisti, revivalisti, di attesa messianica, ecc. Nella ricca letteratura riguardante i movimenti profetici a livello etnologico — senza contare i movimenti profetici di ambiente colto e moderno — sono appena iniziati tentativi di sintesi morfologica e comparativa. Da pochi mesi é uscito il primo lavoro d'assieme, di orientamento tipologico, che raccoglie e riordina il materiale etnologico su scala universale (G. Guariglia, Prophetismus und Heilsertvartungsbeivegungen als völkerkundliches und religionsgeschichtliches Problem, HornWien 1959). Un secondo lavoro di sintesi universale, orientato in senso storico più che tipologico, é quello dello s[...]

[...]assieme, di orientamento tipologico, che raccoglie e riordina il materiale etnologico su scala universale (G. Guariglia, Prophetismus und Heilsertvartungsbeivegungen als völkerkundliches und religionsgeschichtliches Problem, HornWien 1959). Un secondo lavoro di sintesi universale, orientato in senso storico più che tipologico, é quello dello scrivente (V. Lanternari, Movimenti religiosi di libertà e di salvezza dei popoli oppressi, Milano, Feltrinelli, 1960) (4).
Nel quadro dei problemi che riguardano i movimenti profetici e che ne rendono vivo e attuale lo studio, lo storico delle religioni avrà un particolare interesse ad individuare la « struttura » dei vari movimenti in questione, ossia l'insieme dei temi mitici e rituali che via via li caratterizzano. Ma, per intendere la natura e la funzione di tali movimenti, egli dovrà scomporre tale struttura nelle differenti ed eterogenee componenti storicoreligiose, identificare gli elementi della tradizione arcaica che vi sono conservati, quelli acquisiti dalle religioni superiori (Cristianesimo), e infine il significato, la funzione della nuova sintesi religiosa in ciascuno effettuata.
In relazione a quest'ultima esigenza, sarà importante stabilire il preciso rapporto esistente fra il messianismo in quanto fenomeno storico e la mitologia precristiana tradizione. Generalmente i profeti annunciano l'avvento o il ritorno di alcuni esseri mitici, che si configurano come i demiurghi dell'auspicato rinnovamento del mondo. L'avvento o il ritorno messianico di tali figure si presenta come sviluppo e rielaborazione di altrettanti temi mitici tradizio
(4) II materiale utilizzato in questo saggio, tranne nei casi differentemente indicati. è desunto dal mio volume.
DISCORSO SUL MESSIANISMO 17
nali. Vediamo dunque, in primo luogo, di delineare in sintesi i principali di questi temi nelle rispettive rielaborazioni moderne.
Uno dei temi più frequenti é quello dell'eroe culturale scomparso, di cui alcuni miti originari annunciavano esplicitamente il. ritorno. Tale tema sta al fondo di numerosi movimenti profetici presso civiltà eterogenee: il movimento Koréri (is. Schouten, N. Guinea olandese) e dei Waropen (5) (N. Guinea olandese), i movimenti brasiliani degli uominidio, dei pagé e dei beatos,[...]



da (Mito e civiltà moderna) Vittorio Lanternari, Frammenti religiosi e profezie di libertà fra i popoli coloniali in KBD-Periodici: Nuovi Argomenti 1959 - 3 - 1 - numero 37

Brano: [...]ongo Belga, il Nyassa, l'Africa Equatoriale Francese. Sono di ieri i moti sediziosi del Kenya e dell'Africa occidentale. Per l'etnologo e per lo storico delle religioni che non abbia veli sugli occhi — come invece può esser indotto ad avere il funzionario coloniale — ciò non é una sorpresa. È l'eco conturbante ma per nulla inatteso di fermenti religiosi — ancor prima che politici i quali hanno maturato e vanno sconvolgendo la cultura dell'Africa Negra da oltre un cinquantennio con vigore crescente. Alla radice di ogni rivolta politica e militare di popoli indigeni stanno effettivamente altrettanti moti di rinnovamento religioso premonitori, cioè i culti profetici di liberazione.
Essi son venuti fiorendo nell'Africa Negra, dal Sud Africa alla Rhodesia, al Tanganika all'Africa Equatoriale e Occidentale, all'Angola, al Congo all'Uganda al Kenya, ecc. Ma altri numerosissimi sono venuti sviluppandosi e via via diffondendosi, dove piú presto dove più tardi, in Melanesia, Polinesia, Indonesia e nell'America indigena settentrionale e meridionale. Di pari passa con l'urto tra cultura egemonica e culture aborigene: soprattutto via via che le conseguenze dell'urto si son fatte pressanti e sconvolgenti — specialmente a seguito delle due guerre mondiali — i movimenti profetici dei popoli indigeni si sono imposti all'attenzione delle amministrazioni coloniali e delle chiese occidentali, oltreché della cultura moderna. Essi rappresentano il prodotto spontaneo dell'urto culturale tra aborigeni e bianchi: estranei pertanto a qualsiasi propaganda o gioco politico di grandi potenze moderne. Del resto la stessa natura religiosa dei movimenti di rinnovamento di cui andiamo a parlare denuncia una caratteristica propria delle culture native: le quali sono portate, da una tradizione culturale
(1) II materiale presentato in questo saggio fa parte di un volume di prossima pubblicazione per la Casa Ed. Feltrinelli.
FERMENTI RELIGIOSI E PROFEZIE DI LIBERTÀ FRA I POPOLI COLONIALI 55
maturatasi attraverso esperienze di miseria e soggezione d'ogni sarta, a reagire contro l'oppressione, la preoccupazione, la frustrazione, su terreno religioso oltre e prima che su terreno organizzativopolitico. A tal punto ogni loro manifestazione culturale, d'ordine economico e sociale, politico, artistica, filosofico ecc., é tradizionalmente permeata di spirito religioso.
Altrettanti culti profetici hanno preceduto, accompagnato, ispirato le più crude reazioni dell'irredentismo indigeno alle invasioni territoriali dei bianchi. E ogni qualvolta le radicali pretese di espulsione degli Europei dal territorio nativo sono venute meno, definitivamente frustrate come nel caso degli Indiani delle praterie o dei Maori della Nuova Zelanda, allora altri, nuovi culti profetici sono sorti: essi annunciano e promuovono programmi di autonomismo culturale e religioso, reagendo alla politica di segregazione razzista, di assimilazione forzata, di detribalizzazione e deculturazione perseguita dalle amministrazioni coloniali nonché dalle chiese missionarie.
I culti profetici sono formazioni religiose estremamente varie e complesse. Se per un verso in essi si esprime il bisogno di rinnovamento della cultura nativa venuta a contatto con la cultura a moderna » e si instaurano determinati, necessari rapporti con i bianchi (oltre e al di sopra della polemica anticolonialista), da un altro verso essi risultano profondamente legati alla tradizione religiosa indigena e, attraverso questa, alle varie esperienze esistenziali d'ogni cultura. Pertanto l'intero corredo miticorituale di ciascuna cultura riaffiora in ogni formazione profetica, sia pure attraverso rielaborazioni, trasformazioni più o meno consapevoli, revisioni e scelte volta per volta determinate dalle stesse esigenze di sopravvivenza e di salvezza in quanta nucleo culturale autonomo.
Da una parte i culti profetici indigeni sono documento sconcertante e inoppugnabile del dinamismo insito nelle culture a livello etnologico : e bastano da soli a far cadere come irrisoria ogni antica illazione circa una pretesa staticità della vita culturale e religiosa di queste civiltà. D'altra parte essi sanciscono, con il loro anelito di libertà, con l'ansia di salvezza terrena da cui sono animati i proseliti, la funzione profana delle religioni cosiddette « primitive » e in definitiva di ogni religione popolare: funzione volta alla risoluzione di concrete crisi esistenziali determinate dalla dinamica storica: funzione che consiste nell'instaurazione di forme adeguate di riscatto miticorituale.
56 VITTORIO LANTERNARI
Uno degli epicentri dei movimenti profetici africani é la regione compresa fra l'una e l'altra riva del Medio e Basso Congo (Congo Francese e Belga), con irradiazioni nell'Africa Equatoriale Francese e nell'intero Congo Belga.
In qual modo e con quasi specialissimi effetti ivi s'incontrino il Cristianesimo e la religione locale già s'intravvede sintomaticamente da un'antica notizia. Un Cappuccino il quale agli inizi del sec. 18° operò fra i Bakongo per riordinare le missioni del Regno indigeno del Congo, incontrò una strana profetessa, Donna Beatrice. Costei si vantava di aver ricevuto visioni e sogni vaticinatori, nonché un'esperienza di morte e rinascita, in base a cui era convinta di reincarnare in sé S. Antonio. Ella annunciava imminente il di del Giudizio finale. Fra gli «angeli» da cui si lasciava contornare, uno ne prescelse (sedicente San Giovanni), con cui visse e da cui ebbe un figlio. Ella fondò un movimento « Anta niano », subito seguito da numerosi proseliti, volto alla restaurazione del regno di San Salvador e al ripristino di antichi costumi tradizionali condannati dai Missionari. Il missionario fece mandare al rogo la profetessa, ma gli adepti della setta — che a mire politiche di restaurazione univa evidenti pretese di conservatorismo religioso, antimissionario e anticristiano — sopravvissero a lungo. E un primo esempio del sincretismo paganocristiano. In esso si attua un culto paganizzato di S. Antonio, dove il santo cristiano — in base all'iconografia corrente secondo cui egli regge il bambino Gesù — viene interpretato come figura divina preposta alla feconditàfertilità (2). Del resto il sincretismo Bakongocristiano comporta un altro elemento quanto mai sintomatico. Tra i feticci magici impiegati per favorire la caccia, viene impiegato ordinariamente il crocefisso (3). E dunque un sincretismo nel quale gli elementi portati dai missionari sono reinterpretati in funzione clamorosamente pagana, perdendo ogni valenza caratteristicamente cristiana. L'esempio è eloquente a mostrare su quale linea si svolga, anche nei successivi sviluppi, l'incontro tra due mondi culturali così eterogenei: da un lato le forme religiose indigene legate alle esigenze vitali più immediate — fecondità, fertilità, buon successo alla caccia —, dall'altro il Cristianesimo, nato dalla crisi di civiltà urbane medioorientali ed occidentali, improntato ad esigenze di tutt'altro ordine e inadeguato, almeno nelle forme genuine europee, ai bisogni religiosi locali.
(2) J. Juvelier, Relation sur le Congo du Père Laurent de Lucques (17001717). Bruxelles 1953.
(3) R. Wannijn, Objets anciens en metal du Bas Congo, « Zaire », V, 1952, 39194.
FERMENTI RELIGIOSI E PROFEZIE DI LIBERTA FRA I POPOLI COLONIALI 57
Uno dei tratti religiosi peculiari delle culture congolesi, come si vede, è il feticismo, o impiego cultuale e socialmente utile di oggetti opportunamente confezionati e pertanto « caricati » di valore taumaturgico. Ora il feticismo è in stretto rapporto con le prime manifestazioni profetiche di questa grande regi[...]

[...]Objets anciens en metal du Bas Congo, « Zaire », V, 1952, 39194.
FERMENTI RELIGIOSI E PROFEZIE DI LIBERTA FRA I POPOLI COLONIALI 57
Uno dei tratti religiosi peculiari delle culture congolesi, come si vede, è il feticismo, o impiego cultuale e socialmente utile di oggetti opportunamente confezionati e pertanto « caricati » di valore taumaturgico. Ora il feticismo è in stretto rapporto con le prime manifestazioni profetiche di questa grande regione (4) : manifestazioni che presentano fin dapprincipio, e che poi continueranno a serbare fino ai giorni recenti, la combinazione — per null'affatto ingiustificata come vedremo — di due essenziali caratteri, cioè un intento dichiaratamente xenofobo ostile ai bianchi, una funzione di protezione dalla magia nera.
È del 1904 il primo grande movimento profetico, ed ha carattere tipicamente feticista e insieme xenofobo. Il fondatore fu Epikilipikili, taumaturgo autore e divulgatore di un nuovo feticcio (bwanga), composto di polveri e parti di animali, dotato di speciali poteri contro ogni forza ostile, e in particolare contro la magia nera. Fu fondata un'organizzazione magica che guadagnò proseliti via via in regioni più vaste e ottenne il consenso dei capi locali. La ricetta tra l'altro doveva immunizzare gli indigeni dai proiettili sparati dai bianchi. In realtà l'organizzazione magica di Epikilipikili è il prototipo e la forma embrionale di quelle numerose società segrete (Mani di Boma, Punga o Muana Okanga fra i minatori del Katanga, Nebili degli Azande, ecc.) che nell'Africa centrale e occidentale dovevano svilupparsi, sul ceppo di precedenti associazioni tribali di mutua difesa contro la magia nera, caricandosi di una precisa funzione antioccidentale. Fatto sta che un anno dopo la costituzione della setta di Epikilipikili, nel 1905, scoppiava una sanguinosa rivolta contro i bianchi nel Kasai (fiume Sankuru) : ed altri moti, pur essi fondati sul medesimo culto feticista, si propagavano nelle regioni del Cuango e della Lukenie (5). I fondatori di questi culti segreti imponevano rigide norme di resistenza passiva contro i colonizzatori europei: boicottaggio delle merci, dei tessuti, del sale, rifiuto di pagare tributi e di prestare servigi ai bianchi.
Così iniziarono, con la qualifica di veri culti religiosi di libertà, i primi moti antieuropei. Se, come avvenne nel 1905 e nei successivi episodi, i fucili dei bianchi avevano la meglio contro le sedizioni e le soffocavano, era facile agli indigeni convincersi che la sconfitta dipendeva da trasgressioni commesse alle, norme cultuali. Infatti le varie associazioni segrete svolgevano riti particolari.
(4) Comhaire, « Africa », 1955, 55.
(5) De Jonghe, pp. 567.
58 VITTORIO LANTERNARI
Più tardi, nel sudovest della stessa provincia del Kasai, i Bashilele si univano in un'analoga organizzazione fondata sull'uso di una panacea (nkisi) o feticcio, che ingerito dagli iniziati li avrebbe immunizzati da malat[...]



da (9 Domande sul romanzo) Sergio Solmi in KBD-Periodici: Nuovi Argomenti 1959 - 5 - 1 - numero 38

Brano: SERGIO SOLMI
1) Sempre, quando si parla di crisi del mondo contemporaneo, o delle sue singole strutture, comincio ad allarmarmi. Troppo spesso l'evocazione della « crisi » appare un modo comodo di eludere i problemi affogandoli in una apocalittica indeterminatezza. si può parlare della « crisi del romanzo », cosi come si parla di crisi della produzione agricola, o di crisi in borsa. Estensivamente parlando, di romanzi, oggigiorno, in Italia, se ne stampano fin troppi. , in un senso generale, il romanzo sarà mai in crisi, perché l'attitudine al raccontare è ingenita nell'uomo, come quella al canto, o al disegno.
Tuttavia di crisi, in un senso assai più circoscritto, si può parlare sotto entrambi gli aspetti enunciati nella domanda. Dopo la guerra, non sono sorti che tre o quattro scrittori particolarmente
54 SERGIO SOLMI
notevoli, in aggiunta ai pochi che già si erano rivelati nel periodo precedente come romanzieri compiuti e significativi. Questo potrebbe anche voler dire che il « neorealismo » non ha mantenute tutte le sue promesse. Effettivamente, come opinavo, rispondendo una diecina di anni fa ad una inchiesta, mi pare della R.A.I., il « neorealismo », sorto dal bagno di esperienze aperte e drammatiche degli anni della guerra, dell'occupazione tedesca, della Resistenza, appariva troppo legato alla contingenza per avere radici profonde, e andare, pur negli esempi positivi, molto al di là di quegli elementi di schiettezza immediata, di freschezza descrittiva, di ingenua emotività che il pungolo dell'ora storica eccezionale aveva ridestato su di un piano abbastanza diffuso. Sicché, al pari della contemporanea esperienza cinematografica di quel nome, anche quella fioritura narrativa — spesso rappresentata da diari, o da diari appena trasposti in narrazioni —, fu di breve durata (a parte, beninteso, i pochi scrittori che, inizialmente sorti sotto quel segno, hanno avuto la forza di svilupparsi per vie proprie).
In un altro senso pure si può parlare di « crisi del romanzo », con riferimento stavolta al « ridimensionamento » operato su certi generi letterari (come, in altri campi, su certe forme dell'arte plastica o di quella musicale), da nuovi mezzi di comunicazione offerti dalla tecnica moderna, nonché dalla « standardizzazione » dei bisogni, e quindi dei gusti e dei correlativi prodotti, altro fenomeno costitutivo della nostra epoca. Innovazioni che hanno portato; per fare un esempio, alla morte di quella tipica creazione dello slancio romantico, e della sua intima e generosa fusione di letterario e di popolare, che fu, appunto, il romanzo « popolare » o « d'appendice » : e che appare essere stato sostituito, nelle sue finalità di svago e di « transfert » psicologico, dal cinematografo e dalla T.V., nonché da quei prodotti in serie che sono i romanzi polizieschi, i « fumetti », e le novelle sentimentali dei rotocalchi (i quali prodotti, rappresentando essenzialmente « estratti in scatola » di processi psicologici ed emdtivi tipizzati, sono necessariamente impressi da un sostanziale irrealismo — anche se per avventura intriso di elementi brutalmente realistici —, e sono perciò
9 DOMANDE SUL ROMANZO 55
destinati ad operare una chiusura, anziché un'apertura, verso la vita, come è invece compito dell'espressione letteraria).
Se si pensa alla totale ostruzione dei canali verso il romanzo popolare tradizionale, propria della narrativa moderna (quei canali che mantenevano invece aperti grandi scrittori del secolo scorso, come Balzac, Hugo, la Sand, Manzoni, Dostoiewskj); se si pensa al completo tramonto dell'epica popolare ottocentesca nei suoi esemplari più riconoscibilmente letterari, da Walter Scott a Dumas Padre a Sue fino a Emile Gaboriau, e della fusione che essa operava di rappresentazione storicosociale, psicologia e mito collettivo; se si pensa alla conseguente clausura e « aristocraticizzazione » del romanzo (parallela, del resto, a quella della poesia, della musica e delle arti figurative), si avrà un aspetto di « crisi » su di un piano generale, del resto in atto da molto tempo.
2) Il romanzo cc saggistico » non è una novità nella storia letteraria. Il più o meno frequente intervento dell'autore nella narrazione, sia per trarre il succo morale della vicenda narrata, sia per consolidarne la verisimiglianza di prospettive mediante excursus descrittivi o storici, rappresenta già di per sé un atteggiamento « saggistico ». Si pensi all'abbondanza dell'elemento documentario nel romanzo picaresco spagnolo (ad esempio, nel Guzmán de Alfarache, le ampie digressioni sugli statuti dei mendicanti, o sulla vita dei forzati sulle galere), o alla ricchezza dell'osservazione psicologica generale in quello francese del '6 e del '700, o alla divagazione morale e precettistica in quello inglese del '700. Si pensi alla descrizione della peste nei Promessi sposi, o alle grandi parentesi storiche, sociali e filosofiche nei romanzi di Balzac o di Hugo; o, infine, alla sistematica inserzione di « saggi » fantasticoeruditoumoreschi in Moby Dick.
Bisogna giungere alle teorie del naturalismo, con la correlativa imposizione, per il romanziere, di un atteggiamento di spettatore indifferente, e il tentativo di infondere alla narrazione l'oggettività anonima della tranche de vie, per trovare bandito programmaticamente dal romanzo l'elemento morale, riflessivo, documentario, in una parola « saggistico ». Laddove nel romanzo classico il narratore non rinunciava, normalmente, ad assumere un
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proprio punto di vista, a fornire un'angolatura generale alla sua prospettiva, il romanziere naturalista — pur non giungendo, evidentemente, a realizzare il suo programma —, mira a trasfondere integralmente il proprio pensiero e sentimento, le proprie reazioni al mondo, nell'apparente anonimità del fatto narrato. Venne poi un tempo in cui, « consule Gide », si vagheggiò una più assoluta tendenza all'anonimità e impersonalità, e si tentò di elaborare un concetto di « romanzo puro », come pura successione e durée di fatti narrati, analogo a quello, che negli stessi anni si era andato dibattendo, di « poesia pura ».
Nulla dunque di più naturale che il romanzo si riavvicini alle sue antiche fonti, sia pure con modi radicalmente moderni, ossia più strettamente integrando l'elemento generale e saggistico alla narrazione, attraverso una prevalenza di procedimenti analitici e diffusivi, così come avviene, anche se in modi tra di loro incomparabili, in un Proust o in un Musil. Soltanto, non credo affatto che il romanzo « saggistico » sia destinato a soppiantare quello « di pura rappresentazione », proprio perché ritengo, all'opposto, che in un mondo di civiltà profondamente diviso come il nostro, sotto la spinta di un più intenso « farsi » storico, urtante contro pesanti resistenze tradizionali, una delle caratteristiche del romanzo, come di altre espressioni letterarie o artistiche, sia la coesistenza di diversissime forme e modi e ideali stilistici e morali.
3) Conosco e apprezzo alcune delle opere che vanno sotto il nome della scuola narrativa francese del « nuovo realismo », o « école du regard » (come l'ha chiamata Emile Henriot). Ma apprezzo assai meno le teorie con le quali i loro autori intenderebbero appoggiarle e giustificarle. Non mi sembra esatto affermare che un tale tipo di romanzo « volge le spalle alla psicologia », bensì che esso tende piuttosto a rilevarla in modi indiretti, o implicandola in movimenti e passaggi di ordine strettamente fisiologico, corporeo, o lasciandola indovinare mediante le tracce enigmatiche che la vicenda romanzesca ha lasciato sugli og[...]

[...]ere che vanno sotto il nome della scuola narrativa francese del « nuovo realismo », o « école du regard » (come l'ha chiamata Emile Henriot). Ma apprezzo assai meno le teorie con le quali i loro autori intenderebbero appoggiarle e giustificarle. Non mi sembra esatto affermare che un tale tipo di romanzo « volge le spalle alla psicologia », bensì che esso tende piuttosto a rilevarla in modi indiretti, o implicandola in movimenti e passaggi di ordine strettamente fisiologico, corporeo, o lasciandola indovinare mediante le tracce enigmatiche che la vicenda romanzesca ha lasciato sugli oggetti visualmente recepiti e descritti, o facendola scaturire per suggestione dall'apparente oggettività di un contesto dialogato ecc. A parte le differenze che presentano tra loro i vari scrittori censés di appar
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tenere a detta scuola, e che rendono assai difficile escogitare per essi un reale denominatore comune (quale vero rapporto c'è fra Beckett, Butor, la Sarraute, RobbeGrillet?), a parte le parziali somiglianze con modi del romanzo poliziesco (in ispecie nel caso di RobbeGrillet), mi pare che quanto può vagamente apparentare quegli scrittori, e far pensare ad un atteggiamento, quanto meno' in una zona assai rarefatta, in certo grado comune, consiste nello sviluppo, in forme narrative, di intenzioni e modi già noti alla lirica francese degli ultimi decenni, diretti ad accentuare l'emozione, per così dire, obliterandola, e in realtà isolandola con reagenti negativi (vuoi d'indifferenza, vuoi di distrazione laterale, vuoi vagamente nostalgici, o scopertamente ironici), in maniera da presentare, per così dire, lo scavo in rilievo, o viceversa.
Roland Barthes, a proposito di RobbeGrillet, ha accennato alla crisi della civiltà borghese, e della relativa psicologia, e, quindi, all'attualità di un « formalismo assoluto » (le dégré zéro de l'histoire). Ma anche questa tesi poco mi convince. La psicologia di un mondo in crisi non vuol dire assenza di psicologia, ma piuttosto ambiguità, contraddizione, che quindi può benissimo essere resa, magari in modi anch'essi ambigui e contradditori.
Perciò l'ult[...]

[...]rtamente ironici), in maniera da presentare, per così dire, lo scavo in rilievo, o viceversa.
Roland Barthes, a proposito di RobbeGrillet, ha accennato alla crisi della civiltà borghese, e della relativa psicologia, e, quindi, all'attualità di un « formalismo assoluto » (le dégré zéro de l'histoire). Ma anche questa tesi poco mi convince. La psicologia di un mondo in crisi non vuol dire assenza di psicologia, ma piuttosto ambiguità, contraddizione, che quindi può benissimo essere resa, magari in modi anch'essi ambigui e contradditori.
Perciò l'ultimo romanzo di RobbeGrillet, La jalousie, che sembra intenda realizzare in pieno la definizione di Barthes, sopprimendo la psicologia mediante la soppressione dello stesso personaggio principale (ridotto a un ipotetico, astratto e innominato punto di vista attorno a cui ruota il racconto), resta un prodotto eccezionale, il risultato di una specie di scommessa, e in definitiva astratto e volontario. Mentre il precedente romanzo, Le voyeur, presentava, invece, nella forma indiretta di cui s'è accennato, l'evocazione di una realtà psicologica — sia pure bruta ed elementare —, destando di riflesso quella forza emotiva, senza la quale non si dà romanzo, arte in genere.
Mi sembra poi che rientri solo di scorcio nella pur vaghissima definizione della « scuola », la recente Modification di Michel Butor, col suo delicato impasto di minuta percettività realistica, di alternanze e ritorni di episodi evocati mnemonicamente, e la ben preparata sorpresa di veder sfociare, alla, fine, la vicenda
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interiore del protagonista in un mito culturale, proiezione sognata di un mito interno.
A mio modo di vedere, il « nuovo realismo » ha comunque il merito di sperimentare energicamente prospettive inedite, sonde ancora impreviste nel Russo dell'esistenza: il che, in un'epoca di incertezza e di cambiamento, mi sembra essere inerente al compito stesso del romanzo.
4) Mi pare che neppure l'« io » del romanzo classico equivalesse in tutto e per tutto a una « terza persona », bensì venisse a costituire, per il narratore, un più sicuro aggancio al punto di vista prospettico. Dello stesso ordine sono gli espedienti usati dalla narrativa classica (e anche in epoche più recenti, fino al Conrad), di interporre, ad esempio, fra l'autore e la vicenda narrata la figura di un terzo, di un testimone ex visis o ex auditis, da cui si finge proveniente la narrazione. Espedienti elementari, diretti a garantire l'autenticità del tono narrativo ricollegandolo alle sue presunte fonti orali, o scritte.
La « terza persona » direttamente accampata, senza schemi o mediazioni, dal romanzo ottocentesco, presuppone una società più formata e consapevolmente articolata nelle sue strutture, un mondo di valori sufficientemente stabili, per cui la caratterizzazione iniziale del personaggio risulti evidente, spontanea, nel quadro di qualificazioni e caratterizzazioni sociali, di concetti e giudizi generali ben noti e inequivocabili al lettore, su cui l'originalità individuale possa stagliarsi con tutte le sue precise sfumature. La « terza persona » del romanzo d'oggi vive ancora sull'eredità di quel presupposto, con tutta l'ambiguità che essa implica.
L'autobiografismo della narratip„ odierna é invece segno d'una fluidità e incertezza di valori, data, fondamentalmente, da un mondo in rapida trasformazione, o, come si dice, « in crisi », per cui l'imperniarsi della narrazione sull'oc io » viene a costituire, per il romanziere, una garanzia di autenticità che altrimenti potrebbe riuscirgli dubbia (e, di riflesso, al lettore). Di fronte ad un mondo, a figure dai lineamenti deformati, mobili od equivoci, quale maggior sicurezza di verificazione che l'offrirli fluttuanti e dissolti, per così dire, nella esperienza c in fieri » di un protagonista, coinci
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dente, in ipotesi, e talora addirittura in fatto, almeno parzialmente, con lo stesso autore?
5) Come è noto, anche da estetiche errate sono spesso uscite opere egregie. La particolare sterilità della formula del « realismo socialista » mi sembra dovuta al fatto che non si tratta già, in sé e per sé, di una dottrina errata, bensì di una dottrina che mira non direttamente al fenomeno artistico in quanto tale, ma lateralmente ad esso, al suo riflesso documentario o morale. L'acuto, per quanto in definitiva irres[...]

[...]rrate sono spesso uscite opere egregie. La particolare sterilità della formula del « realismo socialista » mi sembra dovuta al fatto che non si tratta già, in sé e per sé, di una dottrina errata, bensì di una dottrina che mira non direttamente al fenomeno artistico in quanto tale, ma lateralmente ad esso, al suo riflesso documentario o morale. L'acuto, per quanto in definitiva irresoluto, pensiero di Gramsci, condizionato in egual grado da crocianesimo e marxismo, ha toccato in anticipo il problema, con vigore impareggiabile, laddove, in Letteratura e vita nazionale, riconosce l'esistenza « di due serie di fatti, uno di carattere estetico, o di arte pura, l'altro di politica culturale, (cioè di politica senz'altro) », soggiungendo: « Che l'uomo politic,;) faccia una pressione perché l'arte del suo tempo esprima un determinato mondo culturale è attività politica, non di critica artistica ». In altri temini, il concetto di « realismo socialista » non appartiene al campo delle poetiche, ma al campo della politica culturale. E lo stesso Gramsci, poco più in là, in quanto « politico », vagheggia infatti una « letteratura funzionale », alla stregua dell'« architettura funzionale », di cui già allora si parlava, senza nascondersi il carattere praticistico della « coercizione » e « pianificazione » occorrenti per farla sorgere.
Oggi, a più di vent'anni di distanza dalla morte di Gramsci, dopo aver constatato in atto la sostanza e i limiti del « realismo socialista », dopo di aver sviluppato, anche per una utilizzazione in profondo di altre correnti del pensiero moderno, una fenomenologia dell'arte assai più particolareggiata e complessa di quella che poteva ritenersi implicita nel grande chiarimento crociano, possiamo identificare il problema anche sotto un altro profilo. Sappiamo che l'opera romanzesca è, come ogni altra opera, letteraria o artistica, la risultante, la sintesi di un incontro del singolo con la realtà (e uso a bella posta, per comodità di discorso, questi termini grossolani, perché non si tratta, in effetti, di un incontro di una sintesi, ma di un processo unico di esperienza che si matura, coestensivo alla vita stessa dell'uomoartista, e, a sua volta,
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al flusso della realtàambiente). Ora, le teorie del « rispecchiamento », su cui si basa il realismo socialista, anziché far cadere l'accento sul momento della sintesi particolaritàoggettività (che é il momento della vera comunicazione, in cui l'esperienza singola si autentica, si universalizza nel lettore, come scambio fra individuo concreto così e così foggiato e condizionato storicamente, e altro individuo altrettanto concreto), lo fanno cadere sul momento astratto, avulso, della pura oggettività, o pura corrispondenza esterna alle strutture del reale. Sembrerebbero così configurare non già l'atteggiamento naturale dell'artista, ma un atteggiamento di cronista, nel migliore caso di storico, ma neppure in questi atteggiamenti, a rigore, si può prescindere dal momento particolare, soggettivo dell'esperienza in atto. Questa corrispondenza puramente oggettiva non può quindi risultare che un'ipostasi del reale.
Avviene allora, per la fatale conversione di ogni contenutismo in formalismo, che la parte di invenzione, di agio, di libertà dell'artista, dato il tema « pianificato » e strutturato esternamente, si rifugia nell'episodio, nella pagina, nella frase (ad es., la bella descrizione, la bella, o caratteristica, « tipizzazione »). Così la forma si scinde veramente dal contenuto, e si fa accademica.
In conclusione, se qualche opera che va sotto l'etichetta dei « realismo socialista » si é salvata, o si salverà, sarà sempre in virtù di un equivoco, di una più o meno casuale coincidenza con lo scopo propagandistico, polemico o dottrinale. E, nella sua stessa valutazione, interverranno sempre motivi elasticamente politici, ossia varianti a seconda dei movimenti di contrazione e di distensione imposti dalla situazione e dall'opportunità politica.
Gramsci osservava ancora: « Se il mondo culturale per il quale si lotta é un fatto vivente e necessario, la sua espansività sarà irresistibile, esso troverà i suoi artisti ». Gramsci assegnava quindi alla « coercizione » e al « piano » il compito di una specie di maieutica, per accelerare un processo storico necessario. Ma la realtà é sempre destinata a mostrarsi assai più complicata e difficile di quella sognata nella generosa visione del politico (e lo stesso Gramsci ha sovente perfetta coscienza di questa complessità). L'azione per la nascita di un mondo nuovo, che é fatto della
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volontà degli uomini operanti su di una storia padroneggiata solo approssimativamente e parzialmente, é sempre per fatalità laterale al progetto. D'altra parte il mondo nuovo é veramente nuovo anche per la sua prevalente quantità d'imprevisto. Qui é la debolezza del « realismo socialista », che, mirando alla realtà attraverso íI « piano », all'essere attraverso il « dover essere », ne sopisce e ne smorza i contrasti, e ne lascia sfuggire il più vero fondo.
6) Mi riferisco a quanto detto più sopra circa il « romanzo saggistico », della necessaria coesistenza, in un'epoca di rapida trasformazione, di diversi ideali e schemi e modi narrativi. Riesco perciò a concepire benissimo un ipotetico futuro romanzo fortemente contrassegnato da un denso « mezzo » linguistico (écriture artiste, linguaggio separato e individualmente elaborato, e magari d'invenzione personale, alla Joyce), così come un romanzo linguisticamente, stilisticamente spoglio, che « lasci parlare le case ». Parimenti, in altro campo, vedo la possibilità della coesistenza di un'opera pittorica intensamente « astrattizzata », e di un'altra apparentemente di forme tradizionali, entrambe nuovissime e a pieno livello moderno. Non ho mai creduto nelle mitologie formalistiche dell'avanguardia, ma molto alla intensità e pienezza dell'esperienza e dell'avventura personale, e alla loro istintiva concordanza coi motivi profondi del tempo.
7) Occorre distinguere. Alcuni scrittori di oggi, particolarmente del tipo « neorealista », usano il dialetto, o l'argot o lo slang nei dialoghi dei loro romanzi, nella sua funzione tradizionale caratterizzante e « localizzante », ossia come pura materia oggettiva, a scopo di individuazione realistica di ambienti e personaggi. In qualcuno — da noi C.E. Gadda —, tale funzione caratterizzante, pur sussistendo in una certa misura, diventa secondaria, e l'uso del meneghino o del romanesco, intellettualisticamente sottolineato, il più spesso coesistente con espressioni in lingua, e magari in lingua dotta, diventa, al pari dell'uso di terminologie e costrutti a volta arcaici, classicheggianti, tecnici, o accademici ecc., un espediente diretto all'ispessimento del mezzo linguistico.
Nel suo impiego tradizionale, tale ispessimento tendeva essenzialmente a finalità comiche, umoristiche, per effetto, ad esempio,
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di una gravità destinata a rilevare, per via di contrasto, una fatuità, un'assurdità. Nella nostra epoca, in cui le distinzioni classiche del comico, del tragico, del sublime ecc., si sono straordinariamente mescolate e rese irriconoscibili, le cose non stanno più allo stesso modo. Ma qualcosa di un tale carattere — una solidità, un equilibrio destinati a mettere in luce una mancanza, un disquilibrio —, si rivela anche nell'uso più moderno del mezzo. Il denso impasto linguistico e stilistico, col lavorio d'invenzione che esso implica, adempie, nel tono narrativo gaddiano, ad una funzione di schermo, di difesa, di maschera protettiva nell'affrontare una materia che l'autore sente troppo scottante e compromettente, e che un tono « normale » non sopporterebbe. O, se meglio si vuole, di una lente, nello stesso tempo ravvicinante e deformante, interposta fra l'occhio del narratore e i fatti narrati. Difesa di una intimità, solida testuggine protettiva nell'avvicinamento ad una estraneità. L'invenzione verbale e la dilatazione sintattica, con l'intensa messa a fuoco dei particolari, adempiono anche ad una funzione rallentatrice, di sosta e di preparazione — e quindi di sorpresa — in quel difficile processo di avvicinamento.
Tenuto conto di una simile complicata e tormentata disposizione al racconto, l'uso del dialetto, inserito in una struttura stilistica intenzionalmente sostenuta e imperturbabile, con le sue volute sintattiche auliche o indirette, entra anch'esso come espediente eterogeneo, solidificante nello stesso tempo che caratterizzante. Si tratta ormai di un dialetto per modo di dire, tanto le sue inserzioni sono cariche di responsabilità espressive. In codesta sua funzione « impropria » (e a parte quanto più intimamente si attiene alla personalità assai complessa del Gadda), l'uso del dialetto può anche ricordare la sua assunzione a félibrige da parte di certi poeti d'oggi (un mezzo tradizionale che diventa nuovo, in quanto impiegato ad esprimere sentimenti sottili e ombreggiati, che sembrerebbero dover sfuggire per principio alla natura arcaica, eguagliante, disindividualizzante, proverbiale dei dialetti. Ed é invece proprio all'ambiguità dell'effetto che é affidata la grazia individuante). Penso, in particolare, alle belle liriche friulane di P.P. Pasolini: del resto, anche l'uso del romanesco nella prosa di ro
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manzo di quest'ultimo risponde, se pure con un più insistito vezzo filologico, ad una disposizione complessa, benché diversissima da quella del Gadda.
Va da sé, peraltro, che mi sembra estremamente improbabile un romanzo « pensato » e scritto integralmente in dialetto. Ritengo, anzi, che il destino di simili sopravvivenze dialettali sia legato alla progressiva fatale scomparsa dei dialetti.
8) Nonostante mi possano essere addotti alcuni recenti esempi contrari, o apparentemente contrari — ma essi dovrebbero venire attentamente analizzati uno per uno —, non credo molto a un'effettiva reviviscenza del romanzo storico, e meno ancora alla possibilità, oggi, di un romanzo nazionalestorico, ne[...]

[...]tegralmente in dialetto. Ritengo, anzi, che il destino di simili sopravvivenze dialettali sia legato alla progressiva fatale scomparsa dei dialetti.
8) Nonostante mi possano essere addotti alcuni recenti esempi contrari, o apparentemente contrari — ma essi dovrebbero venire attentamente analizzati uno per uno —, non credo molto a un'effettiva reviviscenza del romanzo storico, e meno ancora alla possibilità, oggi, di un romanzo nazionalestorico, nell'accezione precisata nella domanda. Per «ricostruire vicende e destini che non siano puramente individuali », appartenenti ad un « blocco » storico del passato, occorrerebbe una piattaforma ideale e ideologica presente assai più salda di quella che può essere consentita in un tempo di rapido mutamento e di conseguenza disorientamento, in cui è già difficile in principio, per l'artista, trovare la via di una propria qualsiasi autenticità. E intendo piattaforma ideale in un senso effettivo, costitutivo, come equilibrio di maturate esperienze e persuasioni interne, non già come adesione, pur sincera, a sistemi e dottrine. Oggi come oggi, penso che il romanziere possa sentirsi assai più intensamente sollecitato da aspetti e casi di vita contemporanea, e dai problemi che essi suscitano; e, naturalmente, di storia contemporanea, facenti anch'essi parte, direttamente o indirettamente, della sua esperienza o quanto meno della sua memoria. Posso tutt'al più pensare a un romanzo storico come « mascherata » storica, esprimente cioè, dietro una convenzionale ambientazione storica, sentimenti e preoccupazioni d'oggi.
L'ultimo punto di domanda: «vicende e destini... fuori dal tempo storico » penso alluda al romanzo utopistico, o d'anticipazione, o « fantascientifico ». Ma, per un tale tipo di romanzo, sarebbe necessario un gusto distaccato per il gioco delle ipotesi, per i problemi generali, che, se è spesso riscontrabile negli anglosassoni, e in qualche misura nei francesi, mi sembra esuli generalmente dalla natura eccessivamente concreta, sospettosa verso le
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« idee », impegnata d'istinto nella realtà immediatamente circostante, del letterato italiano. Si veda, ad esempio, come le innegabili qualità di estro fantastico e di garbo narrativo nei racconti di un Buzzati vengano fatalmente, il più spesso, ad ancorarsi a motivi spiccioli di costume, o addirittura a fatti di cronaca; angustiando i propri significati nell'angolatura di una moralità tradizionalistica e piccolo borghese. Maggiore apertura, mi sembra, in alcuni recenti racconti di Bigiaretti.
9) Non rispondo appositamente all'ultima domanda, perché la mia risposta avrebbe un senso solo se appoggiassi, o auspicassi, o prevedessi, l'affermazione di una forma o di una corrente di romanzo sulle altre. Poiché così non penso, e fra le mie predilezioni entrano indifferentemente romanzi cosiddetti realistici, o saggistici, o fantastici ecc., con solo riferimento alla forza e all'intensità della visione che essi esprimono, la mia risposta acquisterebbe il carattere ozioso e svagato di quelle alle consuete inchieste sui e dieci libri da salvare », e simili.
Se, tuttavia, qualche previsione mi é consentito di avanzare sull'avvenire del romanzo, dir) che, da molto tempo, si sono spente le epoche unitarie del romanticismo e del naturalismo, in cui si poteva pensare ad una produzione di opere salienti come prodotto di uno slancio espressivo in certa misura comune — anche a non voler parlare di vere e proprie « scuole ». Non credo neppure che siano da attendersi risultati da sforzi in direzione di una narrativa più intensamente autoctona e « nazionale », dato che i caratteri peculiarmente « nazionali » del romanzo si sono in buona misura indeboliti e confusi in questi tempi di Weltliteratur. Inoltre, come sono diventati incerti, da una parte, i confini fra il romanzo e il saggio, o il diario, così possono domani diven tare, o ridiventare, incerti i confini fra il romanzo e la lirica, o fra il romanzo e il dramma ecc.
Da qualche decennio a questa parte, piuttosto, le opere di maggior significato apparse nel campo del romanzo mostrano caratteri spiccatamente solitari, e non lasciano [...]

[...] i caratteri peculiarmente « nazionali » del romanzo si sono in buona misura indeboliti e confusi in questi tempi di Weltliteratur. Inoltre, come sono diventati incerti, da una parte, i confini fra il romanzo e il saggio, o il diario, così possono domani diven tare, o ridiventare, incerti i confini fra il romanzo e la lirica, o fra il romanzo e il dramma ecc.
Da qualche decennio a questa parte, piuttosto, le opere di maggior significato apparse nel campo del romanzo mostrano caratteri spiccatamente solitari, e non lasciano dopo di sé continuatori, ma, tutt'al piú, epigoni e imitatori.
Evitandosi, dunque, di considerare il problema sotto riflessi
troppo tecnicistici o ideologici, si deve piuttosto comprendere lo sviluppo del romanzo come facente tutt'uno coi destini della letteratura in generale, identificantisi a loro volta questi ultimi coi destini stessi della storia. Da questo più ampio punto di vista, direi che non mi sembrano probabili in questo tempo mutamenti o rinnovamenti collettivi, ma che sia per ora da contare piuttosto, sul sorgere di opere genuine e solitarie, impegnanti un'intera esperienza di vita nella rivelazione di « spaccati » originali e nuovi della realtà, che ce ne agevolino quella più intensa presa di coscienza che é il fine unico di ogni letteratura.
SERGIO SOLMI



da [Gli interventi] Roberto Battaglia in Studi gramsciani

Brano: Roberto Battaglia

Paimiro Togliatti ha formulato un’osservazione che mi sembra di grande interesse per lo studio del pensiero di Gramsci. Mi riferisco all'osservazione con cui egli ha accennato alla novità del pensiero di Gramsci rispetto a quello di Antonio Labriola.

Cito dalla relazione di Togliatti: «La guida delle conclusioni leniniste sulla natura dteU’imperialismo fa superare a Gramsci il punto morto cui era giunta all’inizio del secolo l’indagine politica di A. Labriola e alla quale aveva corrisposto in sostanza la impossibilità del movimento operaio italiano di liberarsi sia dal riformismo che dall’estremismo ». Togliatti ha cosi richiamato la nostra attenzione non solo sulla linea di displuvio che corre tra il pensiero di Labriola e quello di Gramsci, ma sulla nuova prospettiva in base alla quale 'Gramsci va elaborando i suoi concetti, la prospettiva dell’età dell’imperialismo.

Affrontare quest’argomento, cioè la concezione di Gramsci dell’età dell’imperialismo, è evidentemente un tema assai vasto e impegnativo ed

10 qui non posso che limitarmi ad enunciarne qualche aspetto più evidente. Mi sembra che sia necessario innanzi tutto chiarire quale sia stato

11 « punto morto » cui arrivò il Labriola; e di qui partire per determinare il pensiero di Gramsci, per comprendere il suo metodo di formazione, il modo con cui egli — diciamo cosi — assimila la concezione leninista.

Il pensiero del Labriola sulletà dell’imperialismo, fino ad oggi è stato poco studiato ed è particolarmente noto attraverso l'interpretazione che ne ha dato Benedetto Croce. Quest’ultimo ha rivolto infatti un elogio di « fedeltà al marxismo » al Labriola, riferendosi agli atteggiamenti che526

Gli interventi

questi avrebbe assunto sulla questione coloniale: «Labriola — dice il Croce — guardò con simpatia all’impresa d’Africa e si manifestò favorevole a'U’impresa di Tripoli, fedele anche in ciò al marxismo che non concepisce un serio movimento proletario se non preceduto da un serio e pieno svolgimento della borghesia ».

Penso che è sempre opportuno diffidare degli elogi di fedeltà al marxismo che vengono fatti dagli avversari del marxismo. E, anche in questo caso, se noi studiamo il pensiero del Labriola nelle sue determinazioni storicopolitiche, ci accorgiamo che le cose son ben diverse da come l’ha enunciate Benedetto Croce. In r[...]

[...] — dice il Croce — guardò con simpatia all’impresa d’Africa e si manifestò favorevole a'U’impresa di Tripoli, fedele anche in ciò al marxismo che non concepisce un serio movimento proletario se non preceduto da un serio e pieno svolgimento della borghesia ».

Penso che è sempre opportuno diffidare degli elogi di fedeltà al marxismo che vengono fatti dagli avversari del marxismo. E, anche in questo caso, se noi studiamo il pensiero del Labriola nelle sue determinazioni storicopolitiche, ci accorgiamo che le cose son ben diverse da come l’ha enunciate Benedetto Croce. In realtà il Labriola quando intervenne nel ’90 sulla questione della colonia Eritrea, non intervenne in nessun modo per manifestare la sua « simpatia » verso quell’impresa. Egli stesso ci dice esplicitamente in Cuore e Critica del 16 aprile lo scopo che si proponeva in tale occasione: «La mia lettera pubblicata sul Risveglio è indeterminata perch’io la volli fare cosi. Era diretta a1 Braccarmi: e perciò la tesi socialistica doveva essere presentata nella figura retorica della insinuazione. Detto questo non ho bisogno di aggiungere che io non credo punto alla capacità dello Stato borghese di risolvere uno solo dei problemi sociali [...]



da Georg Lukacs, Inchiesta sull'arte e il comunismo. Introduzione agli scritti di estetica di Marx ed Engels in KBD-Periodici: Nuovi Argomenti 1953 - 3 - 1 - numero 1

Brano: INTRODUZIONE AGLI SCRITTI vi r, i ¡LA
DI MARX ED ENGELS (*)
Gli studi letterari di Marx ed Engels hanno una forma letteraria assai peculiare; é quindi opportuno persuadere prima di tutto il lettore della necessità di questa forma, affinché egli passa adottare l'atteggiamento indispensabile a una corretta lettura e comprensione degli studi stessi. Occorre sapere innanzitutto che Marx ed Engels non hanno mai scritto un libro o uno studio organico su questioni letterarie nel vero senso della parola. Marx ha bensì sempre sognato, all'epoca della sua maturità, di poter esporre in un ampio studio le sue idee sullo scrittore da lui prediletto, Balzac. Ma questo progetto restò, al pari di tanti altri, soltanto un sogno. Il grande pensatore fu talmente assorbito, fino al giorno della sua morte, dalla sua opera economica fondamentale, che questo progetto quello di un libro su Hegel poterono essere attuati.
Perciò questo libro comprende in parte delle lettere e degli appunti desunti da colloqui e in parte singoli passi, estratti da libri di diverso contenuto, in cui Marx ed Engels hanno toccato le questioni principali della letteratura. Così stando le cose, é ovvio che la scelta e il raggruppamento di tali passi non risalgano agli autori stessi. I lettori tedeschi conoscono l'eccellente edizione curata dal Prof. M. Lifschitz (« Marx und Engels über Kunst und Literatur )), Verlag Bruno Henschel, Berlin).
La constatazione di questo fatto é però ben lungi dall'implicare che i frammenti qui raccolti non costituiscano un'unità orga nica e sistematica di pensiero. Solamente bisogna che prima ci intendiamo sull'indole di tale sistematicità, quale risulta dalle idee
(*) Ringraziamo l'editore Einaudi alla cui cortesia dobbiamo l'autorizzazione a pubblicare il presente scritto. Esso farà parte di un volume del Lukács di prossima pubblicazione.
G. LUKÁCS INTRODUZIONE AGLI SCRITTI DI MARX ED ENGELS 31
filosofiche di Marx ed Engels. Qui non abbiamo naturalmente modo di soffermarci a spiegare la teoria della sistematizzazione marxista, e ci limitiamo ad attirare l'attenzione del lettore su due punti di vista che essa comporta. Ii primo consiste in ciò, che il sistema marxista — in netto contrasto con la moderna filosofia borghese — non si distacca mai dal processo unitario della storia. Per Marx ed Engels non vi é che una sola scienza unitaria, lal scienza della storia, che concepisce l'evoluzione della natura, della società, del pensiero ecc. come un processo storico unitario, di cui si propane di scoprire le leggi sia generali che particolari (cioè concernenti singoli periodi). Ciò non implica però a nessun patto — e sempre in netto contrasto col pensiero borghese moderno — un relativismo storico. L'essenza del metodo dialettico consiste appunto nel fatto che in essa l'assoluto e il relativo formano una unità inscindibile: la verità assoluta presenta degli elementi rela~ tivi, legati al luogo, al tempo e alle circostanze; e inversamente la verità relativa, in quanto sia verità vera, cioè rispecchi la realtà con fedele approssimazione, ha una validità assoluta.
Necessaria conseguenza di tale punto di vista è il rifiuto, da parte della concezione marxista, di riconoscere la netta separazione e l'isolamento dei singoli rami della scienza che sono di moda nel mondo borghese. la scienza, % singoli suoi rami, l'arte hanno una storia autonoma, immanente, che promani esclusivamente dalla loro dialettica interna. L'evoluzione di tutti questi campi è determinata dal corso della storia della produzione sociale nel suo insieme, e solo su questa 'base possono essere spie gati in modo veramente scientifico i mutamenti e gli sviluppi che si manifestano in ognuno di essi. Certo questa concezione di Marx ed Engels, che duramente contraddice tanti moderni pregiudizi scientifici, non vuol essere interpretata in maniera meccanicistica, come usano fare parecchi pseudomarxisti o marxisti volgari. Ritorneremo su questo problema nel corso di analisi più particolareggiate che faremo più tardi.
Qui vogliamo limitarci a rilevare che Marx ed Engels non hanno mai negato o misconosciuto la relativa autonomia di sviluppo dei singoli campi d'attività della vita umana (diritto, scien
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za, arte, ecc.), per cui, ad esempio, il singolo pensiero filosofico si riallaccia a uno precedente, sviluppandolo, combattendolo, correggendolo ecc. Marx ed Engels negano soltanto che sia possibile spiegare l'evoluzione della scienza o dell'arte esclusivamente, o anche solo principalmente, a partire dai loro rapporti immanenti. I quali esistono certamente nella realtà oggettiva, ma solo come momenti del rapporta storico, dell'insieme dell'evoluzione storica, mentre all'interno di questa il ruolo principale, nel complesso viluppo delle azioni e reazioni, spetta al fattore economico, allo sviluppo delle forze produttive.
L'esistenza e l'essenza, la formazione e l'azione della letteratura possono dunque essere intese e spiegate soltanto nel quadro di tutte le connessioni storiche dell'intera sistema. La formazione e lo sviluppo della letteratura sono una parte del processo storico totale della società. L'essenza e il valore estetico delle opere letterarie, e quindi della loro azione, é una parte di quel processo generale e unitario per cui l'uomo si appropria del mondo mediante la sua coscienza. Dal primo punto di vista l'estetica marxista e la storia marxista della letteratura e dell'arte sono una parte del materialismo storico, mentre dal seconda punto di vista sono una applicazione del materialismo dialettico: in entrambi i casi però una parte speciale, peculiare, di questo tutto, con definite leggi specifiche, con definiti principi estetici specifici.
I principi più generali dell'estetica e della storia letteraria del marxismo li troviamo dunque nella dottrina del materialismo storico. Solo con l'aiuto del materialismo storico si possono comprendere il sorgere dell'arte e della letteratura, le loro leggi di sviluppo, i diversi indirizzi, l'ascesa e il declino entro il processo d'insieme ecc. Perciò dobbiamo subito cominciare col porre alcune questioni generali e fondamentali del materialismo storico. Ciò non solo ai fini della necessaria fondazione scientifica, ma anche perché proprio in questo campo dobbiamo distinguere con particolare nettezza il vero marxismo, la vera concezione dialettica del mondo, dalla sua volgarizzazione a buon mercato, la quale pro prio in questo campo ha forse discreditato nel modo più spiacevole la dottrina marxista agli occhi di una vasta cerchia di persone.
G. LUKÁCS INTRODUZIONE AGLI SCRITTI DI MARX ED ENGELS
E noto che il materialismo storico scorge nella base economica il principio direttivo, la legge determinante dello sviluppo storico. Dal punto di vista di questa connessione con il processo di sviluppo le ideologie — tra cui l'arte e la letteratura — figu
rano soltanto come superstrutture che lo determinano in via se
condaria.
Da questa fondamentale constatazione il materialismo volgare trae una conseguenza meccanica ed erronea, e cioéche intercorra tra struttura e superstruttura un semplice rapporto causale, in cui la prima fa soltanto da causa e la seconda soltanto da effetto. Agli occhi del marxismo volgare la superstruttura è un effetto causale, meccanico, dello sviluppo delle forze produttive. Invece il metodo dialettico ignora completamente siffatti rapporti. La dialettica con testa che esistano in qualche parte del mondo dei rapporti da causa ad effetto puramente univoci; anzi riconosce nei fatti più semplici la presenza di una complessa azione e reazione di cause ed effetti. E il materialismo storico afferm[...]

[...] struttura e superstruttura un semplice rapporto causale, in cui la prima fa soltanto da causa e la seconda soltanto da effetto. Agli occhi del marxismo volgare la superstruttura è un effetto causale, meccanico, dello sviluppo delle forze produttive. Invece il metodo dialettico ignora completamente siffatti rapporti. La dialettica con testa che esistano in qualche parte del mondo dei rapporti da causa ad effetto puramente univoci; anzi riconosce nei fatti più semplici la presenza di una complessa azione e reazione di cause ed effetti. E il materialismo storico afferma con particolare insistenza che, in un processo così multiforme e stratificato qual é l'evoluzione della società, il processo totale dello sviluppo storicosociale ha luogo dappertutto sotto forma di un complesso intrico di azioni e reazioni scambievoli. Solo con un metodo di questo genere è possibile anche soltanto affrontare il problema delle ideologie. Chi veda in esse i pro otto meccanico e passivo del processo economico che ne costituisce la base, colui non capirà nulla della loro essenza e del loro sviluppo e non rappresenterà il marxismo, bensì la caricatura del marxismo.
Così si esprime Engels riguardo a questa questione in una sua lettera: <c Lo sviluppo politico, giuridico, religioso, letterario, artistico ecc. deriva da quello economico. Ma tutti reagiscono l'uno sull'altro e anche sulla base economica. Non é che la situazione economica sia la sola causa attiva e tutto U resto solo effetto passivo. Vi é invece un'azione reciproca sulla base della necessità economica che sempre si afferma in ultima istanza». /
Questo orientamento metodologico del marxismo ha l'effetto di attribuire all'enerz„ia creatrice, a11'attiviitì„ del: saggezo, una parte straordinariamente grande nello sviluppo storico. Il peñsiero cen
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traie della teoria marxista dell'evoluzione storica afferma che l'uomo é divenuto uomo, distinguendosi dalla bestia, mediante il suo lavoro. La funzione creatrice del soggetto si manifesta dunque nel fatto che l'uomo mediante' .i1 suo lavoro, il cui carattere, possibiLlità di sviluppo ecc. sono pelò certamente determinati da circostanze oggettive, sia naturali che sociali — crea se stesso, trasforma se stesso in uomo. Tale concezione dell'evoluzione storica é mantenuta in tutta la filosofia marxista della società, quindi anche nell'estetica. Marx parla in un certo passo del fatto che la musica crea nell'uomo il senso musicale, e questa concezione fa anch'essa parte della concezione generale dello sviluppo sociale propria del marxismo. La questione qui accennata é così concretata da Marx:
Soltanto l'aggettivo dispiegarsi della ricchezza dell'essenza umana pile> in parte elaborare per la prima volta, in parte per la prima volta creare la ricchezza della sensibilità soggettiva umana: un orecchio musicale, un occhio atto a cogliere la bellezza della forma: insomma, dei sensi per la prima volta capaci di godimenti umani, dei sensi che si affermano come forze costitutive dell'uomo ». Tale concezione ha grande importanza non solo ai fini della comprensione del ruolo storicamente e socialmente attivo ciel soggetto, ma altresì per intendere co[...]

[...] accennata é così concretata da Marx:
Soltanto l'aggettivo dispiegarsi della ricchezza dell'essenza umana pile> in parte elaborare per la prima volta, in parte per la prima volta creare la ricchezza della sensibilità soggettiva umana: un orecchio musicale, un occhio atto a cogliere la bellezza della forma: insomma, dei sensi per la prima volta capaci di godimenti umani, dei sensi che si affermano come forze costitutive dell'uomo ». Tale concezione ha grande importanza non solo ai fini della comprensione del ruolo storicamente e socialmente attivo ciel soggetto, ma altresì per intendere come il marxismo veda i singoli periodi della storia, lo sviluppo della civiltà e i limiti, la problematica e le prospettive di tale sviluppo. Marx suggella l'argomentazione citata qui sopra con la conclusione seguente: «L'educazione dei cinque sensi é opera di tutta la storia universale fino ad oggi. Il senso imprigionato nel grezzo bisogno pratico ha anche soltanto un senso limitato. Per l'uomo affamato non esiste la forma umana del cibo, ma solo la sua astratta esistenza come cibo: questo potrebbe presentarsi altrettanto bene nella forma più grezza e non si può dire in che cosa tale attività nutritiva differisca da quella animale. L'uomo bisognoso o preoccupato non ha alcun senso per lo spettacolo più bello; il rivendugliolo di minerali vede soltanto il valore commerciale, ma non la bellezza e la natura peculiare del minerale, cioè non possiede il senso mineralogica; dunque l'oggettivazione dell'essenza umana, sia dal punto di vista teorico che da quello pratico, è necessaria tanto per ren
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dere umano il senso dell'uomo, quanto per creare un senso umano c[...]



da Franco Fortini, Che cosa è stato il Politecnico in KBD-Periodici: Nuovi Argomenti 1953 - 3 - 1 - numero 1

Brano: CHE COSA E' STATO «IL POLITECNICO»
(194519471
Erano i primi d'agosto del '45, stava per sparire Hiroshima, e, da noi, il governo Parri resisteva ancora. Lavoravo ad un nuovo « indipendente di sinistra », che Vittorini diresse per due o tre giorni. I linotipisti del Corriere guardavano con simpatia e commiserazione quei giornalisti improvvisati, che eravamo noi, prendersi confidenza con piombi e banconi. Allora Vinorini era ardente e alato, parlava per ellissi; leggevamo « Uomini e No », stam
pato su una grigia carta di guerra; e quella Nota scomparsa dalle più
recenti edizioni ch'era tanto chiara, per chi avesse saputo leggervi: « Cer
care in arte il progresso dell'umanità è tutt'altro che lottare per tale progresso sul terreno politico e sociale. In arte non conta la volontà, non conta la coscienza astratta, non contano le persuasioni razionali... La mia appartenenza al Partito Comunista indica dun[...]

[...]rdente e alato, parlava per ellissi; leggevamo « Uomini e No », stam
pato su una grigia carta di guerra; e quella Nota scomparsa dalle più
recenti edizioni ch'era tanto chiara, per chi avesse saputo leggervi: « Cer
care in arte il progresso dell'umanità è tutt'altro che lottare per tale progresso sul terreno politico e sociale. In arte non conta la volontà, non conta la coscienza astratta, non contano le persuasioni razionali... La mia appartenenza al Partito Comunista indica dunque quello che voglio essere mentre il mio libro pub indicare soltanto quello che in effetti io sono ». Era già una difesa, una recinzione di territori. Restava la parola « progresso ». Di qui, in realtà, Vittorini non s'è mosso: troppo forte in lui il sentimento del «progresso» tecnico nella letteratura, della avanguardia degli scrittori e delle sue proprie invenzioni e ricerche; e, a un tempo, troppo forte l'antipatia per le intenzioni e la volontà. Voler essere un comunista significa: « non lo sono». La « debolezza d'uomo », cui la Nota attribuiva tutti i demeriti del libro, doveva ben presto diventare la cittadella da difendere contro la coscienza astratta, le persuasioni razionali. Ma, per me, allora, quelle distinzioni parevano molto più ovvie di quanto non siano oggi. Non sapevo quasi nulla del mondo milanese, dei rapporti esistenti fra la gente che volteggiava intorno a[...]

[...] ricerche; e, a un tempo, troppo forte l'antipatia per le intenzioni e la volontà. Voler essere un comunista significa: « non lo sono». La « debolezza d'uomo », cui la Nota attribuiva tutti i demeriti del libro, doveva ben presto diventare la cittadella da difendere contro la coscienza astratta, le persuasioni razionali. Ma, per me, allora, quelle distinzioni parevano molto più ovvie di quanto non siano oggi. Non sapevo quasi nulla del mondo milanese, dei rapporti esistenti fra la gente che volteggiava intorno alla stampa e alle riviste di allora. Cercavo avidamente di sapere e di capire più che potevo di quel ch'era stata, a Milano, la Resistenza; e intanto facevo fatica a distinguere facce e idee. In quell'estate andavo ricopiando certe mie poesie. Le detti a Vittorini e lui in cambia mi fece leggere dei fogli dattiloscritti: il programma di una rivista. Partecipai ad alcune riunioni. Si cominciò a preparare il primo numero del Politecnico. Perché credo opportuno ricor
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darlo, oggi? Perché fu l'occasionale teatro di alçune delle contraddizioni mag giori che ci hanno condotti fin qui.
Nel programma, il « settimanale dei lavoratori » prevedeva per ogni numero un articolo di « agitazione culturale »: «La cultura deve partecipare alla rigenerazione della società italiana. Come? »; «Che cosa ha inteso dire Ehrenburg quando ha scritto: «Anche l'ortolano uscirà dai suoi stessi sistemi tradizionali di cultura'e apprezzerà la cultura di Picasso? ».; scritti propriamente politici e riferiti ad avvenimenti del giorno e ai problemi della ricostruzione: «L'alluminio deve tornare nelle case di tutti»; «Quali possibilità di evoluzione porta la legge Gallo nello stato attuale della agricoltura loinbarda»; scritti di storia politicoeconomica estera e italiana, quelli che dettero poi il tono ad ogni singolo numero del settimanale, destinati a coprire tutto un vastissimo settore di informazione e di critica. Articoli di « storia della cultura o di agitazione culturale », come, ad esempio, «La cultura per fl New Deal e contro il New Deal », «Il cracianesimo nella scuola italiana attraverso la Riforma Gentile »; studi di analisi criticostorica del pensiero scientificofilosofico (« Tono divulgativo », annotava il programma): « A che punto è il pensiero di Dewey? E possibile una evoluzione dell'esistenzialismo in senso progressivo?»; articoli «ideologici »: «Che cosa significa dittatura del proletariato? »; narrazioni; problemi letterari: « Che cosa è utile, che cosa è dannoso per la coscienza civile degli uomini nell'opera di André Gide »; «Non tutti i cosidetti ermetici sono ermetici »; «Giornalismo e realizzazione artistica nella letteratura sovietica »; « biografie di giornali e periodici, inchiesta su quel che si legge, su quel che si potrebbe e vorrebbe leggere, condotte per provincie e categorie sociali»; problemi relativi alla musica, allo sport, alle feste popolari, alle biblioteche. Seguivano alcune altre proposte di argomenti, fra le più aguzze: « Ritratti di categorie morali. Gli obiettivi. Quelli che dicono di essere comunisti e non si sono iscritti perché non vogliono la dittatura del proletariato, ecc. E dove sono finiti? Non nel (e qui una lacuna dattilografica; propongo: «P.d.A. ») nei socialisti nemmeno, ma nei democratici cristiani o nei liberali... Inchieste sui cattivi pittori... Radiografie e biografie sulle case editrici». « Pericolo di `operazione culturale' ovvero menscevismo della situazione d'oggi» «Responsabilità dell'antifascismo militan
te... Incapacità di riconoscere i suoi uomini di cultura ».
Appena cominciò il lavoro redazionale (e poi, durante tutto il primo periodo di vita del Politecnico, che va dalla fine di settembre del 1945 al
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6 aprile 47, vigilia delle elezioni municipali di Milano) si fecero sentire le voci contraddittorie dei diversi redattori. Era un lavoro appassionante e lo
ricordo con piacere. « Per fare il Politecnico — diceva Vittorini ci vogliono
le fiamme al didietro, come i carabinieri ». Non era l'ardore a mancarci. Ma ci si avvide subito che la vita del settimanale subiva influenze difficili a decifrare, contraccolpi dei rapporti personali del direttore e dell'editore col Partito Comunista. Credo, anzi che questa, a me ignota, stor[...]

[...]i redattori. Era un lavoro appassionante e lo
ricordo con piacere. « Per fare il Politecnico — diceva Vittorini ci vogliono
le fiamme al didietro, come i carabinieri ». Non era l'ardore a mancarci. Ma ci si avvide subito che la vita del settimanale subiva influenze difficili a decifrare, contraccolpi dei rapporti personali del direttore e dell'editore col Partito Comunista. Credo, anzi che questa, a me ignota, storia dei rapporti fra la direzione culturale del P. C. e il «settimanale di cultura» sia un'altra storia del periodico. Non ero iscritto al Partito e molto, quindi, mi restava celato.
Il Politecnico, almeno in un primo momento, si propose di rivolgere agli intellettuali dell'antifascismo, alla frazione (( radicale » della borghesia e a quei lavoratori che la Resistenza aveva presentati alla responsabilità politica, un discorso complesso dove l'informazione (e la divulgazione) di tutti i resultati di quella cultura contemporanea «progressista» che il fascismo aveva cetata o stravoltat fosse, per metodo, linguaggio e correlazione di soluzioni e problemi, una proposta o fondazione di « cultura nuova ». L'ambizione del progetto era di interpretare uno stato d'animo allora assai diffuso nell'Italia settentrionale: che esistesse al di sopra delle singole denominazioni politiche una tradizione riw. luzkauadaa e progressista del pensiero filosofico e scientifico, storico, letterario e artistico da proporre alle nuove leve culturali; così come esisteva un programma politico comune alle sinistre dell'antifascismo. Si è parlato con ironia di una « cultura da C.L.N. »; e non é esatto, se si considera che l'accento fu posto prevalentemente su formule marxiste. Certo é invece che ii Politecnico non si sottrasse in parte e in quella sua prima fase alla pretesa di presentare come obbligato passaggio alla cultura dei suoi lettori, quelle che erano state le letture, le simpatie, gli itinerari biografici del direttore e dei redattori: di non aver saputo distinguere fra necessario e accessorio.
E che cos'era questa cultura rivoluzionaria? L'articolo di Vittorini sul primo numero della rivista (che per molti, frettolosi e interessati, bastò a qualificare per sempre, o a squalificare, il settimanale) augurava un pensiero che governasse e non solo consolasse la società civile. Ossia un pensiero, una
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cultura che fossero identici per la classe politica e per quella tradizionalmente «intellettuale ». (L'assenza di precisione su questo punto di partenza è all'origine di tutte le seguenti incertezze). Si chiedeva una cultura che «prendesse il pote[...]

[...] che cos'era questa cultura rivoluzionaria? L'articolo di Vittorini sul primo numero della rivista (che per molti, frettolosi e interessati, bastò a qualificare per sempre, o a squalificare, il settimanale) augurava un pensiero che governasse e non solo consolasse la società civile. Ossia un pensiero, una
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cultura che fossero identici per la classe politica e per quella tradizionalmente «intellettuale ». (L'assenza di precisione su questo punto di partenza è all'origine di tutte le seguenti incertezze). Si chiedeva una cultura che «prendesse il potere ». E in forma volutamente ingenua si esprimeva così quella certa unione di pragmatismo e marxismo che sarebbe stato i? tratto più appariscente del secondo Politecnico, quello in forma di rivista. Ma, al tempo stesso, c'era, dichiarata subito, l'assunzione d'una «cultura» genericamente antifascista come possibile punto di partenza: di qui il richiamo, fin dal primo numero, della guerra di Spagna, per il suo grande patetico di rivoluzione tradita dov'era confluito tutto l'antifascismo mondiale. Il romanza di Hemingway sulla guerra di Spagna cominciava ad esser pubblicato a puntate fra le sbarre rosse e nere, come una bandiera di anarchici, del settimanale; però i tagli operati allora nel testo del romanzo, se non valsero a scagionare Vittorini di fronte ai suoi dirigenti di partito dall'accusa di eccessiva amore per quel « decadente » scrittore americano, stanno a dimostrare come non si volesse guardar troppo da vicino a quella guerra di Spagna, che, pur era stata la drammatica prova dell'Intelligenza di sinistra.
Ma subito, al secondo numero, una citazione di Lenin sconsigliava i politici dal distrarre uno specialista culturale con immediati compiti politici; come se il giornale avvertisse subito il pericolo di essere impiegato come bruto strumento di propaganda. La si vide, in redazione, alle proteste violente suscitate da una assai infelice interpretazione classista dell'opera del Manzoni, pubblicata anonima, (e dovuta, si disse, a E. Sereni). Si discuteva molto, in redazione; Vittorini, poco amante delle dispute e temperamento insofferente di critiche, ne evitava le sedute. Si dovette ottenere che le discussioni fossero stenografate per costringerlo a intendere, almeno per iscritto, le nostre critiche.
Al terzo numero si iniziava la conversazione con i cattolici; ma, almeno apparentemente, la correzione di Balbo alla formula dell'editoriale di apertura, non veniva ripresa o rilevata, dal settimanale da Bo (« Cristo non è cultura») che, poco dopo, si apprestava a replicare a Vittorini. Si può cogliere intanto la nascita di quella polemica sulle arti figurative che si tra scina tuttora: Guttuso parla d'una nuova epoca «eroica» che si apre per la pittura, ma già una didascalia posta sotto un manifesto di guerra giapponese afferma in modo perentorio quella che sarà uno dei punti centrali (mai però affrontato e risolto criticamente) del periodico: l'identità fra «arte
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vera » e « arte rivoluzionaria ». Vedi (n. 4) il frammento di Malraux (di prima della guerra, naturalmente): «Non sono Claudel Proust che significano la borghesia, è Henri Bordeaux ». (Segue questa nota redazionale: ((Non sono Montale Svevo che significano la borghesia italiana, è Lucio d'Ambra »). In questo quarto numero, dedicato alla Francia contemporanea, dove ad una poesia di Eluard fa contrappeso una di Spender, c'è già una pagina di Sartre; nel numero seguente, accanto ad un affresco di Diego Rivera c'è la copertina d'uno dei quaderni della Bauhaus; quello dedicato alla Rivoluzione di Ottobre si apre con una poesia di Montale e si chiude con le foto di un balletto psicanalitico. Accanto a questi esempi solo apparentemente contraddittori, si moltiplicano le dichiarazioni e i programmi di una
umile e orgogliosa novità: « Politecnico si legge nel n. 4 non è
l'organo di diffusione d'una cultura già formata ma uno strumento di lavoro per una cultura in formazione... Compito speciale che il POLITECNICO Si è scelto per contribuire alla formazione in Italia di questa cultura è di fare da legame tra le masse lavoratrici e i lavoratori stessi della cultura ». E, nel n. 5: «Il POLITECNICO... non presume affatto rinnovare la cultura italiana, ma vuole soltanto mostrare che sarebbe una buona cosa rinnovarla ». « Ogni rivoluzione è stata un tentativo più a meno riuscito della cultura viva di strappare il potere a Cesare e alla cultura morta che sempre è serva di Cesare e di instaurar, il «regno dei cieli», cioè il suo regno, sulla terra... Lenin era tipicamente uomo di cultura...» (n. 6). Sono appena passati due mesi dall'uscita del settimanale, e Vittorini, rispondendo a Bo, e ad altri critici del suo primo editoriale, accetta la traduzione del conflitto nella semplicistica contrapposizione di «via di fuori» e «via di dentro », di salvezza di tutti e di salvezza individuale, di storia e antistoria; un conflitto che ai giorni nostri continua ad essere volgarizzato a favore di scelte sentimentali e, in verità, ipocritamente interessate 1:
Tu parli di due vie, Carlo Bo, una che è dentro a noi e una che è fuori di noi. Io non voglio neanche dire che la via è una sola. Ma tu dici che
1 Nei numeri della rivista [e precisamente negli scritti « Leggere i classici? a (n. 3132), Capoversi su Kafka (n. 37), Azione e espressione (n. 35), Diario di un giovane borghese (n. 39), Rivoluzione e conversione (n. 39)1 ci fu, da parte mia, un tentativo di riprendere, con accento diversa, quei motivi.
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la più lunga è la via fuori di noi e la più breve quella dentro di noi. Io invece dico che é il contrario: che più breve é la via di fuori. È la via più umile, Carlo Bo, la più umana e terrena: per questo più breve. E quando tu indichi l'altra, da seguire, sei anche tu uno orgoglioso com'è Mila ed ogni idealista: mostri lo stesso orgoglio loro. Che cosa credi? Di potere mai compiere dentro a te solo quella «più grande e più vera rivoluzione »
cui pur aspiri?
Vittorini non vi sos[...]

[...]ORTINI
la più lunga è la via fuori di noi e la più breve quella dentro di noi. Io invece dico che é il contrario: che più breve é la via di fuori. È la via più umile, Carlo Bo, la più umana e terrena: per questo più breve. E quando tu indichi l'altra, da seguire, sei anche tu uno orgoglioso com'è Mila ed ogni idealista: mostri lo stesso orgoglio loro. Che cosa credi? Di potere mai compiere dentro a te solo quella «più grande e più vera rivoluzione »
cui pur aspiri?
Vittorini non vi sostiene (e non potrebbe, tanto vive in lui sono le vene nietzschiane e roussoiane di adorazione della vita e del presente, immuni da contaminazioni di pessimismo esistenziale, di angoscia storica) le tesi d'uno storicismo integrale; ma gli altri polemizzano con lui come se quelle tesi fossero le sue. Sopra la sua testa, si discute coi comunisti, anzi con la
Iunga bestemmia» del pensiero moderno, dalla Riforma ai giorni nostri. sono sufficienti gli esempi di indipendenza di fronte all'ortodossia cul turale sovietica, che il settimanale continua a moltiplicare, pubblicando Olescia o Babel, parlando di uno Chagall o di un Pasternak come di artisti rivoluzionari, ponendo sullo stesso piano le vittorie del progresso democratico americano e quelle del progresso socialista.
Certo, in quel primo tempo almeno, la redazione non vede chiaro in quale direzione si debba andare, anche se avverte quanto importi l'esistenza di un foglio come il Politecnico nella situazione di allora. Era l'inverno 194546, uno dei più tetri inverni di quegli anni. Milano pareva risentire di tutta la tensione e la stanchezza del tempo di guerra. Chi veniva da Roma, già avvezzo ad un diverso dopoguerra, faceva fatica a capire come si potesse vivere in quella città di macerie e fango dove, sul far della sera, le strade si spopolavano, dove si leggeva e si scriveva a lume di candela con guanti, cappotto e passamontagna, dove la gente faceva ancora la coda per il pane e il riso, e tutte le notti suonavano i colpi di mitra e di rivoltella degli « spiombatori » e dei banditi, da scali merci, depositi ,ferroviari, fabbriche. All'alba i giornali erano neri di titoli e di grida. L'inverno pareva una unica lunga notte; e la città sentiva intorno a sé il vuoto della campagna, si ripiegava su se stessa per non perdere il poco tepore del suo alito. La redazione del Politecnico era allora non lontana dalla cappella dell'antico lezzaretto manzoniano, in un quartiere ch'era diventato il porto di mare dei camionisti, allora re delle strade, e dei borsari neri; fitto di donne, di osterie, di sale da ballo. Dagli alberghi di piazza d'Annunzio, dove, con i
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loro carri armati al parcheggio, stavano acquartierati, vi calavano, al crepuscolo, i militari occupanti. Delitti straordinari, seguiti da imponenti funerali, dividevano l'attenzione della folla con i cortei di disoccupati, e i comizi. Qualche volta il Politecnico veniva incollato ai muri cittadini; e ci dava un brivido d'orgoglio veder i nomi e i pensieri della poesia e dell'arte, di un amore che si era sempre creduto votato all'ombra e al riserbo, tremare all'aria e alla nebbia, lettura dei passanti, dei reduci dagli occhi smorti, dei vagabondi 2. Talvolta si andava nei circoli operai, nelle fabbriche, a parlare del Politecnico. Ricardo una sera, verso Piazzale Corvetto, una specie di hangar mal illuminato, pieno di operai, di donne con i bambini sulle ginocchia; e ascoltavano parlare del Politecnico come di una cosa loro, come si trattasse del loro lavoro e della loro salute, e interrogavano, volevano sapere. (Si arrivò perfino a proporre una toure di tutta la redazione attraverso l'Italia meridionale e la Sicilia). Capitavano in redazione i personaggi di quegli anni: operai affamati, giornalisti, avventurieri, ex partigiani, ragazze scappate di casa, mentecatti. Arrivavano montagne di manoscritti, la più parte diari di guerra, di prigionia, di vita operaia, poesie esemplate sulle traduzioni degli americani, racconti di vita clandestina. Si aveva l'impressione che, dovunque il settimanale giungesse — e ce lo confermava l'enorme corrispondenza dei lettori — molti animi che erano stati scossi dalla recente esperienza rispondessero alle nostre incerte, astruse parole. Era, per noi, la conferma della scoperta che avevamo fatta durante la guerra: quella delle incredibili possiWHO. della nostra provincia, delle energie latenti nelle classi mute. Con quella conferma, o scoperta, che ci stordivano, non era facile mantener la testa fredda. Era l'indistinto caos delle culture italiane, quello che vedevamo attraverso quelle lettere; e per la prima volta ci venne per la mente che l'opera alla quale era degno consacrarci fosse di conoscere davvero che cosa significassero quelle culture e misurarle col mondo grande dei paesi lontani; perché « dappertutto è terreno di scontro... e la rivoluzione è una sola », come allora scriveva Pavese. Eppure, a nostro onore, devo dire che nessuno si illudeva di risolvere i problemi andando verso il popolo. Tanto
2 In sei mesi il settimanale, oltre a poesie di Saba, Montale, Solmi, Sinisgalli e di molti giovani, pubblicò traduzioni di testi poetici di Rimbaud, Larbaud, Éluard, Jacob, Aragon; Lorca, Alberti, Altolaguirre; Leonhardt, Brecht, Toller; Pasternak, Majakowskj, Bloch; Auden, Spender, Mac Neice, Eliot; Whitman, Mac Leish, Sandburg, Gold, Prokosch, Rolfe, Lindsay, ecc,
ii i
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che, quando al n. 8, fu annunciata la costituzione dei «Gruppi di Amici del Politecnico», si avverti che l'iniziativa coincideva con uno dei tentativi accennati dalla direzione culturale del Partita Comunista per controllare maggiormente il settimanale e insieme per potenziarlo; e ci fu una notevole resistenza a quei «gruppi» che sarebbero facilmente diventati, come tutte le analoghe formazioni di quel tempo, portavoce di comodo del Partita Comunista e firmatari di manifesti. Il Partita Comunista stava passando ad una fase di consolidamento delle proprie attività, assumendo gran parte dei compiti che nell'Italia prefascista erano stati del Partita Socialista; e, fra questi, compiti di vera e propria divulgazione culturale. Pensarono, quei dirigenti, di poter impiegare a questi fini la popolarità del settimanale di Vittorini? Vi fu un momento nel quale lo pensarono; ma la composizione politicamente eterogenea della redazione e la stessa personalità del direttore dovettore presto dissuaderli. Il Politecnico non poteva diventare quello che, proprio in quel tempo, cominciava ad essere il Calendario del Popolo.
Si moltiplicano d'altra parte i punti di frizione fra le posizioni del settimanale e quelle del Partita Comunista; come i ripetuti atteggiamenti anticlericali di Vittarini (vedi posizione in favore del divorzio, in nota ad un
articolo di A. C. Jemolo, nel n. 9); come la pubblicazione (n. 16) di un passo di Sartre e di uno di MerleauPonty « un marxismo vivente dovrebbe
salvare la ricerca esistenzialista invece di sofocarla»; con questo commento redazionale:
È questa — crediamo 'noi — una esigenza più o meno chiaramente sentita da quanti son persuasi che il posto proprio dell'uomo d'oggi e di domani sia in una sempre più risoluta coscienza di come siano irriducibili tanto la necessità quanto la libertà
o, nel n. 23, una critica piuttosto dura ad una iniziativa culturale dei comunisti francese (« Per una enciclopedia»). La stessa polemica iniziale — che è il motivo centrale della rivista continua a trascinarsi di numero in numero, con scritti di Balbo, Giolitti, Fortini, Ferrata, .finché comincia a farsi chiaro che essa non è altro che il problema della posizione del marxismo nel mondo moderno. Contro le interpretazioni socialdemocratiche di Karl Renner e contro la tentazione idealistica (e di Vittorini) dei «furori
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culturali » c'è (n. 26) una messa a punto di Balbo, (love è contenuto un accenno importante, che è già una critica al linguaggio del settimanale:
Questo successivo e strenuo «riemergere» della purezza, della tensione umana dalla formula che non serve più, che è insufficiente per costruire le nuove formule, la più larga e più comprensiva cultura tecnicamente sempre più articolata, . non si può certo definire con la parola "amministrazione", ma non si può nemmeno definire con la parola « furore culturale ». Tale parola non comprende abbastanza il senso del dato, della condizione obbiettiva e quindi la necessità dell'inserzione funzionale, del mordente preciso.
E non combatte il grave male dell'« eterna illusione »: credere che senza illusione l'uomo non si muova più.
Contro le tendenze e le pressioni rivolte a far del Politecnico uno stru mento di ordinaria amministrazione politica, Vittorini, nel n. 27, scriveva parole che ancora echeggiavano i ricordi mitici della Cultura Popular della repubblica spagnuola e che sarebbero suonate in contraddizione con quelle sue di pochi mesi dopo:
Le grandi affermazioni della cultura, i suoi rivolgimenti, le sue svolte, si hanno proprio nei momenti in cui sembrerebbe più saggio (agli stolti) lasciarli da parte. Quando, per esempio, un nemico sovrasta con le armi; quando manca il pane: quando occorre ricostruire tutto in un paese. È allora, é nell'emergenza, che può formarsi una nuova cultura.
Ma questo appello all'entusiasmo suonava come i proclami supremi delle
città assediate. Con un articolo di autocritica, il settimanale si trasforma in rivista.
Chiariti i motivi economici che impongono la cessazione del settimanale, si legge:
Noi non abbiamo avuto, col settimanale, una funzione propriamente creativa, o, comunque, formativa. L'altra funzione, la divulgativa, ci ha preso, a poco a poco, e sempre di più la mano, abbiamo anche polemizzato, ma abbiamo detta ben poco di nuovo. In quasi tutte le posizioni che abbiamo prese, pur senza mai sbagliare indirizzo, ci siamo limitati a gridare mentre avremmo dovuto dimostrare. E troppo spesso abbiamo dato sotto
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forma di manifesto quello che avremmo dovuto dare sotto forma di studio. Troppo spesso abbiamo affidato alla grezza testimonianza dei lettori quello che avrebbe avuto bisogno della rielaborazione di scrittori. Ci siamo trovati così a divulgare delle verità già conqu[...]

[...]o anche polemizzato, ma abbiamo detta ben poco di nuovo. In quasi tutte le posizioni che abbiamo prese, pur senza mai sbagliare indirizzo, ci siamo limitati a gridare mentre avremmo dovuto dimostrare. E troppo spesso abbiamo dato sotto
190 FRANCO FORTINI
forma di manifesto quello che avremmo dovuto dare sotto forma di studio. Troppo spesso abbiamo affidato alla grezza testimonianza dei lettori quello che avrebbe avuto bisogno della rielaborazione di scrittori. Ci siamo trovati così a divulgare delle verità già conquistate mentre avremmo dovuto cooperare alla ricerca della verità. Il nostro intento era e rimane anche divulgativo. Ma era, e non è stato, di conquistare e creare su piano divulgativa. La necessità della trasformazione in rivista mensile ci offre il modo, per la più larga misura di tempo e di spazio che ci concede, di approfondire il nostro lavoro. Ora noi potremo vigilare su noi stessi. Liberi come saremo dalla pressione degli avvenimenti non si tratterà più, per noi, di collaborare all'azione politica. Si tratterà di svolgere un'attività che sia azione di per se stessa, com'è, quando crea, l'azione culturale.
La rivista pubblicherà quasi cinquecento delle sue fittissime pagine, riprendendo in parte temi già accennati dal settimanale, in parte sviluppando temi nuovi. Vi si nota, oltre alla collaborazione abituale del settimanale (Cantoni, Ferrata, Giuliano, Rodano, Rognoni, Terra, Trevisani, Preti, Serra, Pandolfi, Rago, Del Bo, ecc.) e ad una più estesa presenza di giovani (Risi, Del Boca, Del Buono, Giglio, Porzio, Tadini, Calvino, ecc.) anche quella di scrittori e di studiosi che il carattere del settimanale aveva tenuti discosti: Bo, Brancati, Pea, Sereni, Gatto, Argan... E i motivi principali ne sono: l'esplorazione dei rapporti fra marxismo e scienza economica, psicanalisi, pragmatismo, esistenzialismo; delle possibilità di nuove vie della critica letteraria e della critica del teatro, del cinema, delle arti figurative; dei problemi sociali del nostro paese veduti nel loro aspetto politico. E tutto ció sullo sfondo dell'unico problema: quello dei rapporti fra azione culturale e partiti politici, fra cultura «di sinistra» e Partito Comunista.
Non v'è dubbio che il passaggio del Politecnico da settimanale a mensile coincide con la fine dell'idillio fra gli intellettuali che avevano aderito al comunismo nello spirito dei C.L.N. e i dirigenti politici del Partito che si apprestava ad affrontare le difficili prove degli anni seguenti. De Gasperi è da alcuni mesi capo del governo, e si capisce che vi resterà a lungo. Matura la svolta della politica americana. S'era fatto un gran discorrere di «partito nuovo », in quel tempo. Il V Congresso del P. C. affermava, nel nuovo statuto, la possibilità di appartenere al partito indipendentemente dalle proprie convinzioni filosofiche e religiose. Vedremo come il Politecnico, per bocca di Vittorini, interpreterà questa affermazione come la possibilità
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di rimettere in discussione gli stessi principi del marxismoleninismo; quando (e bastava aver letto, a questo proposito, gli scritti di Lenin sulla religione) l'unità nei fini politici più immediati era considerata solo propedeutica a quella ideologica. Tuttavia, quella « apertura » del Partito Comunista pareva fin da allora contraddetta dalla progressiva « chiusura » della situazione politica. Si doveva provvedere ad organizzare la difesa. Ecco perché l'affermazione contenuta nell'ultimo numero del settimanale, di voler «approfondire la ricerca » voleva anche dire che era divenuto impossibile, ormai, intrattenere un dialogo immediato con un pubblico di lettori appartenente a cate gorie che l'attività del Partito prevedeva oggetto di una scrupolosa disciplina ideologica. Il pensiero e l'arte della tradizione rivoluzionaria non possono più esser presentati per una mozione degli affetti, ma debbono esser ripensati criticamente; è necessario vedere che cosa, in realtà, consegua alle generiche istanze di rinnovamento. Ma questa ricerca, (faranno capire i dirigenti culturali del P. C. a Vittorini), non pub esser compiuta portando lo smarrimento e l'incertezza fra i « compagni di base ». Ecco perché la rivista si preoccupa subito di definirsi « indipendente di sinistra », e di riaffermare che non è una rivista comunista.
Precauzioni insufficienti. Il nome di Vittorini, in qualche modo, impe gna il Partito. A nessun livello si possono ammettere « deviazioni a. Di qui il conflitto; che si è creduto evitare ritirandosi in una pubblicazione per specialisti ma che si conduderà solo con la fine della rivista.
A leggere ora tutta l'intricata rete di lettere, risposte, repliche si ha, come spesso avviene in questi casi, l'impressione che la parte più importante della discussione non si sia svolta per iscritto, ma nelle conversazioni e nei rapporti personali. Il linguaggio della polemica è in genere, molto cortese, con qualche occasionale e intenzionale durezza. Ma, ripeto, si ha l'impressione che, almeno in principio, non si vogliano scrivere i termini autentici della questione. Infatti, quali sono le critiche? Luporini considera (cito dalla replica di Ferrata nel n. 30, II della rivista, che è del giugno 1946) la « nuova cultura » pretesa dal Politecnico «una velleitá romantica, un'illusione moralistica, e un abbraccio di generosi malintesi » 3; Alicata e per
3 Quasi con le medesime parole, anni più tardi, G. Pampaloni, giudicherà il Politecnico (in Belfagor) «una generosa illusione n. Con la differenza che, per Luporini, l'illusione moralistica è nell'intento predicatoria, parenetico, del foglio; per Pampaloni è illusorio, probabilmente, nel senso che « Cristo » non è cultura, ad ogni tentativo di sto
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lui Togliatti, che su «Rinascita» (ottobre 1946) dichiara esplicitamente di averne ispirata la nota, rimproverano una « ricerca astratta del nuovo, del diverso, del sorprendente ». Ora é , davvero sorprendente che queste critiche paiono riferirsi al settimanale, ai più scoperti difetti del settimanale, fingendo di ignorare le ragioni del passaggio a rivista e l'autocritica compiuta. Vittorini lo farà ben notare in una prima nota alla lettera di Togliatti (n. 3334). Gli scritti di Luporini, Alicata, Togliatti, hanno insomma un falso scopo — la critica al confusionarismo del Politecnico settimanale — ed uno scopo reale: mettere in guardia i lettori comunisti contro i pericoli[...]

[...]erti difetti del settimanale, fingendo di ignorare le ragioni del passaggio a rivista e l'autocritica compiuta. Vittorini lo farà ben notare in una prima nota alla lettera di Togliatti (n. 3334). Gli scritti di Luporini, Alicata, Togliatti, hanno insomma un falso scopo — la critica al confusionarismo del Politecnico settimanale — ed uno scopo reale: mettere in guardia i lettori comunisti contro i pericoli deviazionistici dell'« approfondimento » nella rivista mensile; e, al tempo stesso, provocare una decisiva autocritica del direttore della rivista. Il risultato sarà, naturalmente, che le critiche alla rivista come tale passeranno in second'ordine e il centro della discussione diventerà quello dei rapporti fra attività (o autorità) culturale e attività (o autorità) politica.
Non c'è dubbio che, da un punto di vista tanto politico quanto filosofico, le repliche di Ferrata e di Vittorini agli scritti di Luporini, Alicata e Togliatti sono evasive e manifestamente insufficienti. Finché si tratta di pubblicare Hemingway o Sartre o Reed, di mostrare simpatie per la narrativa sovietica, di difendere Gide`contro i «codini» o di parlar di «psicanalisi progressiva », tutto questo, almeno nel 1946, e in Italia, non sarebbe sufficiente a mettere in difficoltà disciplinari Vit[...]

[...]ale e attività (o autorità) politica.
Non c'è dubbio che, da un punto di vista tanto politico quanto filosofico, le repliche di Ferrata e di Vittorini agli scritti di Luporini, Alicata e Togliatti sono evasive e manifestamente insufficienti. Finché si tratta di pubblicare Hemingway o Sartre o Reed, di mostrare simpatie per la narrativa sovietica, di difendere Gide`contro i «codini» o di parlar di «psicanalisi progressiva », tutto questo, almeno nel 1946, e in Italia, non sarebbe sufficiente a mettere in difficoltà disciplinari Vittorini e la sua rivista. Piuttosto, dietro gli scritti di Cantoni su Burnham, di Preti su Dewey e sull'Antiduering, di Leontiev sul pensiero economico sovietico; dietro le citazioni di Gramsci (che appunto in quei mesi cominciava ad esser pubblicato 4), si delinea la possibilità di un dibattito di fondo sui motivi essenziali del marxismo, e attraverso quello, della costituziond di un gruppo, di un nucleo di studio 5. O, in altri termini si forma la possibilità di un luogo di incon
ricizzare l'eterno gioco dell'anima non può concludersi che in una capitolazione di fronte al « Principe di questo mondo».
4 Ma si aspetta ancora oggi la ristampa degli scritti dell' Ordine Nuovo.
5 Cito per tutti gli altri numerosissimi esempi un passo redáziöñáte che é nel primo numero della rivista: vi si parla di una dichiarazione della segreteria del P.C.I. (relativa ad un comunicato del P.C. francese sulla questione di Trieste) nella quale si invitano i comunisti francesi ad un contatto diretto col movimento democratico e operaio italiano prima di giudicare sulla questione di Trieste. E si aggiunge: «Queste parole significano che esiste una situazione nuova per i comunisti nel mondo e che i comunisti italiani sono maturi per comprenderla e darle sviluppo di vita. E finito il tempo nel quale era sufficiente, da parte dei comunisti, `risolvere' ogni questione sul piano dottri
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tro e di discussione per quegli intellettuali che opportunismo o sincera evoluzione politica avrebbero portato, negli anni, seguenti, fuori del Partito Comunista. Una parte di costoro, evidentemente non vorrà che «tornare all'ovile », ma un'altra parte avrebbe potuto costituire una linea ideologica e politica su posizioni non comuniste senza avventurarsi sul piano inclinato della collaborazione _ con la restaurazione idealistica e cattolica. Taluno, per questa supposizione, mi chiamerà ingenuo; non nego che, per uno spregiudicato giudizio politico, il Partito Comunista abbia guadagnato a perderli piuttosto che a trovarli, molti degli intellettuali che in questi anni hanno abbandonato le sue file o le sue vicinanze; ma essi erano, come d'altronde una buona parte di quelli che sono tuttavia nel Partito, solo la prima fila, la più visibile, di tutta una categoria di intellettuali che furono dell'anti fascismo e della Resistenza e che, negli anni di cui stiamo facendo discorso, scomparivano dalla vita politica e si ritiravano negli studi privati, con resultad forse ricchi di futuro ma, al presente, ben gravi. E poi uno degli aspetti più singolari di tutta la polemica è che vi si discutono i rapporti fra gli intellettuali e il Partito Comunista fing ndo di dimenticare che quel problema aveva dei precedenti storici e che quei precedenti si chiamavano non solo teoria del partito secondo Lenin ma storia del pensiero rivoluzionario marxista e non marxista fino a Lenin, e non leninista fino al 1924, e non stalinista dopo il 1924, storia insomma dei rapporti fra gli intellettuali e i partiti operai, in tutto il mondo, nell'[...]

[...]he vi si discutono i rapporti fra gli intellettuali e il Partito Comunista fing ndo di dimenticare che quel problema aveva dei precedenti storici e che quei precedenti si chiamavano non solo teoria del partito secondo Lenin ma storia del pensiero rivoluzionario marxista e non marxista fino a Lenin, e non leninista fino al 1924, e non stalinista dopo il 1924, storia insomma dei rapporti fra gli intellettuali e i partiti operai, in tutto il mondo, nell'ultimo mezzo secolo; che la guerra di Spagna aveva pur avuto, in questo senso, una sua storia; che la storia degli intellettuali comunisti e non comunisti in Unione sovietica, in Germania, in Cina, aveva pur qualcosa da insegnare. Gli uni e gli altri paiono invece preoccupatissimi di non estendere la discussione là dove solo avrebbe un senso, cioè sul terreno storicopolitico. E poi sembra impossibile che Vittorini, nelle righe più appassionate della sua Lettera a Togliatti ((pando discorre della rivoluzione che ha come fine l'individuo, quando dice di sperare in una rivoluzione straordinaria, o parla dell'occhio vitreo del Partito, o rifiuta di suonare il piffero per la rivoluzione o definisce i compiti dello scrittore rivoluzionario) non si rendesse conto che, pur nella
nano o su quello deliberativo della Terza Internazionale... è necessario che pongano una dialettica concreta delle varie situazioni nazionali... lo spirito del marxismo è nel superamento effettivo del contrasto non nella rinuncia a porlo fino alle sue estreme conseguenze v.
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apparente confusione del suo dettato, egli chiedeva non solo un mutamento della politica culturale del P. C., ma una nuova teoria politica, una nuova filosofia. E, prima cosa, non tanto si trattava di rivendicare una autonomia teorica ma proprio l'autonomia pratica di poter continuare la rivista senza quegli ostacoli (ben «pratici ») che una sconfessione avrebbe portato con sé.
Le obiezioni di Onofri — che replica a Vittorini nel n. 36 della rivi
sta tutte in sé validissime (egli ricorda, fra l'altro, che l'attività politica è, non diversamente da quella « culturale », una attività superstrutturale) e di più evidente vicinanza al pensiero di Gramsci, spingono il problema al loro punto cruciale. Dice Onofri a Vittorini:
Forse che, quando tu hai scritto quelle tue lettere, non ;,svolgevi un lavoro culturale in connessione con la politica, non volevi appunto una politica in un certo modo per avere una cultura in un certo modo?
Nella sua breve risposta, Vittorini non raccoglie quella decisiva obiezione per limitarsi a' ribattere il suo rifiuto di una politica che ricorra alla forza contro la cultura, e di una alienazione «par la politique ». Infatti la rivendicazione di autonomia culturale, la richiesta di poter continuare senza scomuniche un certo lavoro di indagine culturale, era una richiesta politica; equivaleva a chiedere che il Partita Comunista cominciasse a considerare parte necessaria, elemento indispensabile al progresso della causa del socialismo, il lavoro critico dei « compagni di strada» e di tutti coloro che condividendo le finalità rinnovatrici del socialismo pretendevano, negli specifici campi della propria attività culturale, quali che ne fossero i riflessi politici, ad una integra autonomia critica. Era — o meglio avrebbe dovuto essere e non fu — la rivendicazione della pluralità necessaria contro la teoria della pluralitàminor male, destinata a naufragare nella unitàunanimità.
Nella primavera del 1947, dopo la pubblicazione della Lettera a Togliatti (la rivista era uscita, sino allora, in cinque fascicoli), non poche persone e motivi volevano indurre Vittorini ad interrompere subito il periodico. Nella sede di via Filodrammatici, lugubre come un circolo filologico, non esisteva più una vera e propria redazione. Fra i collaboratori ci furono discussioni a tempesta. Chi voleva la fine immediata della rivista, con o senza un manifesto conclusivo, chi ne voleva la continuazione, con o senza il medesimo editore, accettando eventualmente di diminuire il numero delle pagine
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e la periodicità; chi ancora avrebbe voluto tornare al settimanale. In una lettera, cercai di chiarire la mia opinione. E, rileggendomi, credo di non aver avuto torto:
... mi rifiuto, proprio perché non credo ad una politica avvilita a mero fatto, violenza o negatività, mi rifiuto, dico, ad ammettere questo ridicolo contrasto fra verità assolute dell'indagine culturale e quelle provvisorie, mezze verità e mezze menzogne, o insomma tutte menzogne, che sarebbero della pratica politica. Le due figurazioni insomma, del chierico assorto negli eterni veri e quella del pratico dalle mani impastate e grossolane sono ambedue volgari figurazioni, figure d'uomini volgari, di cattivi chierici e di pessimi pratici; e come tali dovremo sempre combatterli, con le loro medesime armi. Ma il solo modo di combatterli è quello di prenderli in parola. Cioè: discuterli. Quando i piccoli politici (di oggi o di ieri) proclamano la necessità della dissimulazione, della tattica e della ragion di stato o di partito, supponiamoli veri politici; diamo subito importanza a quelle loro idee; aiutiamoli anzi a tradurre in idee la loro balbuzie; ed ecco che avremo innanzi non più una volgare figurazione, ma una teoria, un fatto di cultura... L'errore di tutti i cattivi amici di Politecnico e di Rinascita, l'errore nel quale tu stesso sembri talvolta cadere, è quello di credere che l'unità fra cultura
e politica sia una trovata provvisoria, un matrimonio di ragione, qualcosa che va bene per il tempo di pace... Per me invece è evidente che cultura
e politica sono la medesima cosa, espressa con. mezzi diversi; che, insomma, cóntrasto si può avere soltanto fra due teorie e due pratiche; che ogni volta che un pensiero non ha mano o le ha deboli o che le mani non han pensiero
e lo han fiacco, saranno un astratto « pensiero » ed una volgare « politica ». Insomma non esiste un momento nel quale per ordine di chiunque sia sospeso il dovere di dire la verità... Io credo che, senza orgoglio umiltà eccessive si debba dichiarare la propria condizione di uomini di cultura
e seguirla fino in fondo dicendo le proprie verità, anche a costo dello scandalo...
Intanto, in Francia e in Italia, i comunisti venivano estromessi dai governi. Della rivista, uscirono ancora quattro numeri di trentadue pagine ciascuno. L'ultimo (dicembre 1947) chiedeva: « Aiutate il Politecnico con un nuovo abbonamento ». Un numero di commiato — che avrebbe dovuto spiegare le ragioni dell'interruzione — non venne mai 6. Vittorini ci disse
e Ho copia d'una lettera che mandai, il 22 gennaio del '48, a Vittorini. Vi é detto,
fra l'altro:
« A poco a poco abbiamo capita che non potevamo pretendere di insegnare quel
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d'aver avuto contatti con altri editori, desiderosi di assumere la rivista, ma di avervi rinunciato perché sarebbero stati inevitabili controlli e limitazioni, politici, di natura opposta a quelli che rendevano ormai impossibile la continuazione della rivista. Lo credo senz'altro; ma, a questo scrupolo politico, si aggiungeva un motivo personale, l'esaurimento dei motivi di interesse e di avventura, la stanchezza di un lavoro dispersivo, i dubbi medesimi nati da nuove letture e nuovi contatti (Vittorini era tornato a Parigi alla fine del giugno 1947, dove i suoi libri e la sua persona avevano avuto un grande successo, dopo essere stato, l'autunno precedente, ospite del Comité des Ecrivains); e soprattutto il desiderio di tornare al proprio lavoro di narratore, interrotto, meno la parentesi del Sempione, dal 1945. Con la primavera del 1948 finiva il dopoguerra; molti andavano sempre piú rapidamente perdendo le consuetudini, le amicizie e i ricordi che erano stati della dandestinità e delle speranze; per quanto apparisse precaria la pace, subentrava un naturale desiderio di sistemazione e di raccoglimento; per qualche anno tutti avevano fatto tutti i mestieri eccetto il proprio ed era parso possibile risolvere i massimi problemi in un articolo di giornale. Ci si avvedeva allora che, proprio come le città bombardate, molti istituti della vecchia Italia monarchica e fascista — come quelli giornalistici, editoriali, universitari —
che non sapevamo ed abbiamo cercato di dire via via che imparavamo... abbiamo rappresentato... l'unico tentativo coerente di critica culturale, letteraria, di costume che sia stata tentata dalla liberazione in poi. I difetti son stati l'imprecisione [...]

[...]so possibile risolvere i massimi problemi in un articolo di giornale. Ci si avvedeva allora che, proprio come le città bombardate, molti istituti della vecchia Italia monarchica e fascista — come quelli giornalistici, editoriali, universitari —
che non sapevamo ed abbiamo cercato di dire via via che imparavamo... abbiamo rappresentato... l'unico tentativo coerente di critica culturale, letteraria, di costume che sia stata tentata dalla liberazione in poi. I difetti son stati l'imprecisione filosofica, il gusto di certe trovate sonore, l'impossibilità di spingere a fondo certe premesse e di concretare
un gruppo di buoni libri; e — questo un po' per colpa o per virtù tua, un po' per
viltà altrui non aver saputo legare cinque o dieci persone, strettamente, alle sorti della rivista ed al suo significato. Se questo fosse stato, oggi tu potresti affidare ad altri, almeno temporaneamente, la conduzione della rivista. E invece... oggi, se il Poli deve scomparire, sembra scomparire come l'organo personale di Vittorini e per i casi polrtici e ideologici personali di Vittorini.
...mi chiedo se è bene o male che il Poli muoia; male è certo... soprattutto perché il discorso del Poli è a metà, a metà il suo tentativo di accordare marxismo politico e 'altro', critica alla religione e fede religiosa, cultura e politica, il suo tentativo di parlare politica, senza essere 'politica'. E finalmente perché rappresenta una esigenza di comunisti o diciamo di rivoluzionari che non ha nulla a che fare con la terza forza o altre scempiaggini, ma che non deve accontentarsi della politica culturale del P. C. e nemmeno delle sue semplificazioni propagandistiche su gli U.S.A., l'U.R.S.S., Sartre, il cattolicesimo, Gesù e il Piano Marshall. Io non ti incito alla eresia per l'eresia, come avrei fatto forse un anno fa. Mi domando se siamo più utili .tacendo o parlando, testimoniando e agendo perché le scelte non totnino ad essere sublimi e grottesche come in tempo di guerra; perché sono persuaso che non siamo in fase 'qualitativa' ma assai piattamente 'quantitativa'. Insomma, mi sembra venuto il momento davvero di attenuare la propria flessibilità e di stabilire quale sia il limite di rottura, il limite al[...]

[...]i rottura, il limite al quale devi dire che il Partito ha torto oppure non devi dir nulla e tacere... ».
CHE COSA É STATO « Ir, POLITECTTICO » 197
riprendevano a vivere o a vegetare, grazie alla «libera iniziativa privata », senza dar retta ai piani regolatori. E non mancavano, anzi crescevano ogni giorno coloro che in tutto questo vedevano solo una conferma del loro cattolico pessimismo, coltivando amorevolmente quella cattiva coscienza che, negli ultimi anni, par diventata per molti un titolo d'onore.
Così dunque finiva il Politecnico. Pochi mesi più tardi, spento l'ottimismo elettorale del convegno fiorentino promosso dall'Alleanza della Cultura, dopo il 18 aprile e l'attentato a Togliatti, Vittorini, di ritorno dal congresso di Wroclaw, leggeva a Ginevra, alle Rencontres Internationales, una memoria sulla letteratura engagée 7 dov'era riaffermato l'equivoco del quale era morto il Politecnico; e ne forniva così la conclusione. Invece di andare innanzi, riprendere l'osservazione di Onofri ed affermare che, sì, la richiesta di indipendenza della ricerca letteraria é una richiesta politica, la richiesta di una certa politica culturale da imporre ai dirigenti politici, il contenuto della Lettera a Togliatti viene ridotto, dalla distinzione di cultura e politica qual era, alla distinzione di letteratura e politica e finalmente di poesia e letteratura, per non dire all'opposizione fra poesia e cultura. Invece di difendere dalla riduzione all'immediato propagandistico e insomma dalla critica delle armi, dalle soluzioni di forza dei comitati centrali, tutta la cultura, tutta la ricerca, anche quella di più immediate risultanze politiche (come quella storica, filosofica, economica) e quindi implicitamente proporre al suo partito, restandovi o uscendone, e più in genere agli organismi della «sinistra» italiana, con le armi della critica, nuove soluzioni teoriche e pratiche, Vittorini finiva col formulare la richiesta «corporativa» della libertà della letteratura. Il periodico, che s'era aperto chiedendo una « cultura che prendesse il potere» si chiudeva con una istanza assai meno preoccupante per i nostri uomini di governo. Sarebbe invece stato possibile dar battaglia sulla breccia aperta dalla Lettera a Togliatti, assumere intero il compito di ripensamento delle ideologie rivoluzionarie che, proprio in quei mesi, gli scritti di Gramsci stavano riproponend[...]

[...]hiesta «corporativa» della libertà della letteratura. Il periodico, che s'era aperto chiedendo una « cultura che prendesse il potere» si chiudeva con una istanza assai meno preoccupante per i nostri uomini di governo. Sarebbe invece stato possibile dar battaglia sulla breccia aperta dalla Lettera a Togliatti, assumere intero il compito di ripensamento delle ideologie rivoluzionarie che, proprio in quei mesi, gli scritti di Gramsci stavano riproponendo agli intellettuali italiani? Ma, per far questo, sarebbe stato necessario ottenere dai collaboratori della rivista una disciplina, un lavoro di comune
7 « Poiché l'artista é naturalmente engagé in quanto é artista. Engagé alla propria spontaneità, engagé dalla esperienza collettiva di cui è spontaneo portatore... engagé
a sealth» (Rassegna d'Italia, marzo 1949). Doveva bastare, e bastò infatti, a rassicurar
t sulla strada che avrebbe presa l'exdirettore del Politecnico,
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ricerca, un coordinamento degli sforzi; sarebbe stato necessario costituirsi in gruppo, bruciare rapidamente le incertezze pratiche, pianificare la rivista, farne uno strumento di lotta teorica a lunga scadenza. è detto che la forma della rivista sarebbe stata la più adatta, quel lavoro si sarebbe forse espresso meglio in libri comuni 8. Si sarebbe 'avuto comunque un evento, per il nostro paese, straordinario: la costituzione di un gruppo di intellettuali che si scambiano i resultati delle loro ricerche e procedono insieme. Volle invece ognuno aver ragione per proprio conto, finendo, qual più qual meno, con aver torto di fronte alla propria responsabilità sociale. Può esser facile risposta quella che vede in tutto ciò i limiti della personalità del direttore del Politecnico. Portato (e questa è responsabilità dei dirigenti del P. C.) dall'onda di marea della Resistenza ad un compito, che, per esser menato a buon fine, voleva una pazienza ed una preparazione grandi, egli non ebbe l'una l'altra, seppe rinunciare ad esser sempre il primo, la vedetta... È evidente che, malgrado i lunghi scritti storici e filosofici, il secondo Politecnico é una .rivista per immagini liriche, una rivista letteraria nel senso migliore (o peggiore) di questa parola. Questo avvertivano bene i collaboratori: i Balbo, i Cantoni, i Preti e molti altri (Giulio Preti vi era certo l'uomo dalle idee più chiare e più ricche, dal polso capace di condurre avanti l'impresa) non parteciparono mai o quasi mai alla vita della redazione, Vittorini non sapeva celare la sua insofferenza nei confronti di uomini avvezzi al rigore logico e metodico; , d'altra parte, le critiche filistee dei professori arrivavano a capire come, sotto apparenze discutibili e personaggi e forme improprie, imposte dalle circostanze, si andassero dibattendo questioni che andavano ben oltre l'episodio e l'importanza della rivista. Non solo: ma era proprio alla schiera degli uomini di lettere tradizionali, i quali avevano lungamente ignorata e disprezzata la rivista (e aspettavano a braccia aperte il ritorno del figliuol prodigo) che, fra '46 e '47, essa andava sempre più, e naturalmente, rivolgendosi.
Bisogna tuttavia aggiungere che probabilmente era impossibi[...]

[...]ircostanze, si andassero dibattendo questioni che andavano ben oltre l'episodio e l'importanza della rivista. Non solo: ma era proprio alla schiera degli uomini di lettere tradizionali, i quali avevano lungamente ignorata e disprezzata la rivista (e aspettavano a braccia aperte il ritorno del figliuol prodigo) che, fra '46 e '47, essa andava sempre più, e naturalmente, rivolgendosi.
Bisogna tuttavia aggiungere che probabilmente era impossibile, nell'aria del 1948, tentar su di una nuova disciplina e rigore una ripresa della rivista; essa avrebbe richiesto inevitabilmente una immediata rottura con il Partito Comunista e un lungo, forse definitivo, periodo di isolamento. Ora, il '48 fu anno di battaglie aperte, di situazione ancora fluida. Forse nessuno di
8 Vittorini pensò ad una serie di volumidialogo. Ma non se ne fece poi nulla.
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coloro che più tardi sarebbero usciti dal P. C. o dai quali — come ebbe a dire, in un pauroso accesso d'orgoglio, un di costoro — il P. C. sarebbe uscito, era preparato alla serietà del compito. Così, quando, quattro anni più tardi, su La Stampa, Vittorini farà la sua prima dichiarazione pubblica dopo il suo allontanamento dal comunismo, gli antichi collaboratori saranno dispersi ai quattro venti, restituiti per la maggior parte a quella « spontaneità » culturale così cara ai politici delle restaurazioni, che è quasi esattamente l'inverso della libertà.
Nato da una forse ingenua e irresponsabile fiducia nel garibaldinismo culturale; cresciuto fino ad intravvedere quale avrebbe dovuto essere il lavoro di gruppo di intellettuali che intendessero operare al rinnovamento del proprio paese; finito quando, all'avvicinarsi di un lavoro difficile, oscuro e rischioso, si è rivelata la debolezza teoretica, l'incertezza, la mancanza di pazienza, di costanza, di tenacia e l'anarchico individualismo tradizionale ai nostri uomini di lettere, il Politecnico non avrebbe meritato, spento com'è ormai il timbro della sua voce, tanto lungo discorso, se la sua vicenda non
seguitasse ad essere piena di insegnamenti[...]

[...] all'avvicinarsi di un lavoro difficile, oscuro e rischioso, si è rivelata la debolezza teoretica, l'incertezza, la mancanza di pazienza, di costanza, di tenacia e l'anarchico individualismo tradizionale ai nostri uomini di lettere, il Politecnico non avrebbe meritato, spento com'è ormai il timbro della sua voce, tanto lungo discorso, se la sua vicenda non
seguitasse ad essere piena di insegnamenti. Se soprattutto e questo è
il suo merito, che nessuna critica può contestargli — i principali problemi d'oggi son quelli medesimi che esso ha posti e, per primo, descritti in forma generale: da quello, posto dalla sua stessa esistenza, d'un linguaggio non tecnico volgarmente divulgativo a quello dei rapporti fra dirigenti culturali e dirigenti politici, da quello delle relazioni fra il pensiero marxista e le altre correnti del pensiero contemporaneo a quello di nuove vie possibili dii metodologia critica.
Il socialismo italiano e i partiti che non sappiamo per quanta tempo ancora lo rappresentano, non ha fatto che rinviare questi problemi. Una nuova generazione di studiosi e di scrittori, assai diversa dalla nostra, lavora ormai intorno ad essi, quasi tutta avviata sulle tracce della problematica gramsciava. E forse manca a coloro solo una più stretta unione di esperienze e di ricerche, un maggior coraggio dei propri resultati e 'la capacità di resistere alle difficoltà pratiche e a quelle morali che nascono dall'abbandonare gli organismi politici costituiti, all'isolamento e alla disperazione per riuscire a fondare, in mezzo al caos e all'incertezza, in un duro rifiuto di molte lusinghe, qualche resultato. Altro discorso, ma meno diverso da quanto si possa credere, si dovrebbe fare per chi, fuor delle oscillazioni delle mode, lavora ad opere di narrativa e di poesia. Viene forse, in noi e, fuori di noi,
200 FRANCO FORTINI
nei più giovani, una maturità per la quale la speranza la disperazione siano degli alibi; dove la vita nella città e quella extra rzoenia non si neghino e si contraddicano ma l'una sia garante della libertà dell'altra. La posizione di svantaggio della cultura socialista in Italia, rispetto a quella francese (dovuta soprattutto al fatto di non aver vissuto direttamente in tutte le sue fasi la grande querelle moderna fra comunismo e pensiero rivoluzionario non stalinista) é forse paradossalmente compensata dall'assenza d'una forte tradizione di democrazia borghese e dalla obiettiva asprezza dei conflitti di classe. Con più urgenza che altrove si pone qui — al limite delle culture e delle propagande in latta e profittando della pausa concessa dalla situazione internazionale — la necessità della elaborazione, della «invenzione », di soluzioni diverse ai conflitti fra libertà e autorità, fra direzione culturale e direzione politica che il socialismo ha incontrati e suscitati sul suo cammino. Qui; vale a dire, non in una astratta geografia occidentale o orientale... La responsabilità internazionale degli intellettuali e politici italiani, la sfida posta loro dalla situazione, sono fre le più rischiose ed onorevoli, quale che sia per essere l'avvenire del nostro movimento operaio.
FRANCO FORTINI
Direttore responsabile: ALBERTO CAROCCI
Iscrizione n. 3045 del 301252 del Tribunale di Roma
ISTITUTO GRAFICO TIBERINO Roma Via Gaeta, 14



da Giovanni Testo, Ritratti critici di contemporanei. Lalla Romano in KBD-Periodici: Belfagor 1980 - novembre - 30 - numero 6

Brano: RITRATTI CRITICI DI CONTEMPORANEI
LALLA ROMANO
1. Ad un tema di argomento dantesco svolto dal figlio, al solito, in modo non ordinario e giudicato dall'insegnante che glielo aveva dato « fuori del consueto » — l'episodio è raccontato ne Le parole tra noi leggère —, Lalla Romano ha apposto questa chiosa: « Comunque sono certa che non solo per furore logico per desiderio di singolarità interpretò a quel modo il tema, la ragione prima — della quale non poteva essere consapevole allora — era che la sola lettura interessante per lui era quella dal punto di vista dell'autore: il fatto creativo insomma » (Torino 1969, p. 156). La postilla (postilla verba auctoris, ne è il caso) contiene un pensiero altrimenti espresso, in modo ancora piú esplicito e in una sede propriamente critica, nella Presentazione della ristampa di Maria fatta per le scuole (Torino 1973). « Cosa c'è da dire sullo stile, sul linguaggio del libro Maria? » è la domanda. E la risposta: « L'incontro, la simpatia che si verificò nella realtà si è attuata anche nel libro attraverso lo stile ». « E come altrimenti? » si stupisce la scrittrice, che torna a domandarsi in un contraddittorio pensato a scopo didattico: « Dunque lo scrittore dovrebbe modellare il suo stile a imitazione del suo personaggio? ». Ma la risposta è perentoria: « Non si tratta di compiere un tale sforzo assurdo e, come ogni sforzo, inutile, peggio, dannoso » poiché — questo è il centro del ragionamento — « lo scrittore opera una scelta, nel mondo o nella sua fantasia, che è lo stesso » e « in questa scelta è compreso il modo » (pp. 67): con tanto di corsivo.
Un corsivo non inopinato che ci indirizza, senza volere forse, a un preciso creditore: a Lionello Venturi, e al suo libro piú noto Il gusto dei primitivi. Troviamo qui, infatti, nel libro di Venturi, la seguente affermazione: « Se l'opera critica deve avere un senso, esso sarà quello di ragionare sul modo con cui l'artista è giunto all'opera sua. Poiché il modo è l'opera d'arte, il modo, e non il risultato, deve interessare il critico » (Il gusto dei primitivi, Torino, Einaudi, 1972, p. 174). Questo, per una scrittrice come Lalla Romano sempre cosí attenta ai risvolti di poetica, cosí sorvegliata e consapevole, è di un'importanza nient'affatto secondaria, ha il valore anzi di un punto di forza mai smentito.
« La fantasia (come la memoria) astrae dalla realtà quello che le serve »,
672 GIOVANNI TESIO
dirà nell'[...]

[...]pera d'arte, il modo, e non il risultato, deve interessare il critico » (Il gusto dei primitivi, Torino, Einaudi, 1972, p. 174). Questo, per una scrittrice come Lalla Romano sempre cosí attenta ai risvolti di poetica, cosí sorvegliata e consapevole, è di un'importanza nient'affatto secondaria, ha il valore anzi di un punto di forza mai smentito.
« La fantasia (come la memoria) astrae dalla realtà quello che le serve »,
672 GIOVANNI TESIO
dirà nell'Avvertenza alla ristampa delle Metamorfosi (Torino 1967, p. 11). È un pensiero che ha poco o nulla da spartire con ogni forma di « realismo », previa intesa che non usiamo la parola, secondo invece la proposta del Venturi, come sinonimo di « non imitazione », perché allora finiremmo per cadere in una specie di gioco nominale (ad esempio, per Pavese, si è dovuta inventare la formula, che sta come un ossimoro, di « realismo simbolico ») e dovremmo riprendere da capo ogni concetto: cosa, è ovvio, che quand'anche ne fossimo capaci, sarebbe fuori luogo. Qui piuttosto ci interessa dire che la poetica di Lalla Romano non va ascritta, se non in modi estremamente indiretti e condizionali, al grande (ottocentesco) alveo realista e meno ancora può patire l'etichetta, ancor piú angusta, di neorealista. Ne fa fede non tanto l'esordio poetico, che avvenne nel 1941 con la raccolta Fiore pubblicata dall'editore Frassinelli di Torino e che si collocava in un ambito di risonanze elette e preziose — condotte con modulazioni di personale ermetismo —, ma il vero e proprio esordio narrativo che avvenne di contromano con Le metamorfosi (1951), un'antologia di sogni secchi e concreti, che passò, pour cause, sotto silenzio. Né bastano a smentita, tacendo d'altri pochi minimi, l'appetito curioso e non sorprendente di Sereni o l'« interessata » attenzione di Bo, che proprio allora veniva investigando, con prudenza, sul neorealismo all'apice.
Abbiamo detto[...]



da Necessità di fare da sé in KBD-Periodici: Rinascita - Mensile ('44/'62) 1944 - numero 3 - agosto

Brano: 6 LA RINASCITA
Dal 1921 al 1923, i colpi principali dei criminali armati del fascismo furono concentrati contro i « rossi ». Per battere più tranquillamente questo settore delle forze del lavoro — e rendere impossibile l'unione dei due settori contro di esso — il fascismo non si accontentò del tentativo di rassicurare i « bianchi » con la sua propaganda. Volle assicurarsi la partecipazione del Partito popolare al primo governo di Mussolini. Poi, una volta battuti i « rossi », il fascismo non ebbe più bisogno della collaborazione governativa dei cattolici e si gettò con tutte le sue forze contro le loro organizzazioni sindacali, cooperative e politiche, battendole alla loro volta. Le conseguenze di quella duplice sconfitta, che fu sconfitta unica di tutti i lavoratori e dell'intiero popolo italiano, le stiamo purtroppo scontando amaramente ancora oggi, perchè sia necessario insistervi.
L'unità sindacale realizzata col Patto di Roma fra le correnti sindacali fondamentali del nostro paese, è innanzi tutto il risultato della terribile esperienza del ventennio fascista; è l'espressione della volontà unanime degli operai, dei contadini, dei tecnici, degli impiegati, dei lavoratori tutti, di non prestarsi mai più — con le loro divisioni — al giuoco infernale dei loro peggiori nemici; è la realizzazione concreta della loro volontà di lottare uniti per difendere i propri interessi, per conquistare nuovi diritti, per concorrere con la loro unione a mantenere unite tutte le forze democratiche e progressive del paese, e contribuire con esse a formare "un nuovo Stato democratico e popolare, una nuova Italia più giusta, più libera, più umana, basata principalmente sulle forze del lavoro unito. rappresentato dalla Confederazione Generale Italiana del Lavoro. Questa unità è un fatto positivo di grande portata; è, per tutti i lavoratori, una conquista ch'essi non si lasceranno sfuggire.
E' per questo che l'unità sindacale ha trionfato di tutti gli ostacoli, ha liquidato tutti i tentativi scissionisti, è diventata una realtà viva
tutte le province liberate, da Messina ad Ancona, da Lecce a Firenze. E lo sarà maggior
mente domani, nei grandi centri industriali del Nord, dove il fiore della classe operaia italiana lotta con le armi in pugno contro l'invasore tedesco, per affrettare quella liberazione nazionale che condiziona la rinascita del paese.
II consolidamento dell'unità sindacale e lo sviluppo della C. G. I. L., pongono una serie di
problemi e aprono davanti al proletariato italiano ampie prospettive. Ma, di tutto questo, tratteremo in prossimi articoli.
GIUSEPPE Di VITTORIO
L'Amministrazione de " La Rinascita „ si è trasferita in Via IV Novembre, 149. La corrispondenza e i vaglia devono essere inviati a tale indirizzo.
Politica Italiana
Necessità di fare da sé
La visita all'Italia del Primo Ministro Churchill, il suo colloquio col Presidente Bonomi, il ricevimen
to degli altri ministri italiani e certe voci messe in circolazione in questa occasione, hanno contribuito a diffondere nei circoli politici un senso di euforia. Si parla di modificazioni dello statuto dell'Italia nei confronti con le grandi Potenze alleate, si parla della concessione all'Italia della legge « depositi e prestiti »,. si lascia prevedere una riduzione del famoso « controllo » alleato, cioè l'attribuzione al governo italiano, finalmente, del potere di governare l'Italia. Corrisponde questa euforia a qualcosa di reaLe; corrispondono a una prospettiva reale questi cambiamenti che si lasciano prevedere? A noi rincresce dover fare la parte del diavolo, ma ci sembra non esista motivo per esserne così sicuri. Come una doccia fredda è venuto del resto il messaggio dello stesso signor Churchill, nel quale si ricorda che il popolo italiano deve essere « punito » per il fatto di essersi lasciato per tanto tempo governare dai fascisti, e intanto le settimane passano, gli avvenimenti militari precipitano, e la posizione dell'Italia resta quella che era. Il brutto è che nel ftattempo, ipnotizzati dal miraggio di non si sa quali miglioramenti che dovrebbero arrivare dall'America, dall'Inghilterra, o da un altro paese qualunque, dirigenti politici e uomini di governo sono rimasti più o meno paralizzati, mentre avrebbero forse potuto fare parecchie cose utili se invece di guardar tanto lontano si fossero occupati concretamente ,delle cose che stanno loro tra i piedi.
La situazione internazionale del nostro paese è quella che è. E' la situazione di un paese che dopo aver minacciato e aggredito mezzo mondo è stato sconfitto; di un paese, quindi, contro ii quale giustamente si dirige la diffidenza generale delle nazioni aggredite. Abbiamo già dimostrato parecchie volte e continueremo fino alla sazietà a ripetere che non esiste manovra sapiente o intrigo tortuoso di politica in ternazionale il quale possa sanare questa situazione. 1 nostri diplomatici dilettanti, i quali sognano gli allori di Cavour dopo ,Novara e vorrebbero ricalcar quelle orme, dimenticano soltanto che il popolo italiano nel 184849 era stato battuto in una guerra giusta, che ad esso si rivolgevano le simpatie di tutti i popoli civili, e che anche la politica dinastica di Cavour non poîeva non trarre beneficio da questa circostanza. La prima cosa che si deve fare se si vuole che il nostro paese risorga, è di riconquistarsi almeno un minimo di simpatia delle libere nazioni d'Europa, il che non si ottiene nè lamentandosi nè tessendo manovre ed intrighi, ma combattendo per cacciare i tedeschi dal nostro paese, operando energicamente per distruggere ogni residuo del regime fascista e restando uniti per veder di risolvere a poco a poco, con le nostre stesse forze e con uno spirito di solidarietà nazionale, i nostri problemi più urgenti.
Né si deve dimenticare che le risorse economiche e finanziarie del mondo, immediatamente dopo questa guerra, saranno assai limitate, che saranno molti i pretendenti a un aiuto immediato e che tra questi vi saranno senza dubbio popoli aggrediti e calpestati dal fa[...]


precedenti successivi
Grazie ad un complesso algoritmo ideato in anni di riflessione epistemologica, scientifica e tecnica, dal termine , nel sottoinsieme prescelto del corpus autorizzato è possible visualizzare il seguente gramma di relazioni strutturali (ma in ciroscrivibili corpora storicamente determinati: non ce ne voglia l'autore dell'edizione critica del CLG di Saussure se azzardiamo per lo strumento un orizzonte ad uso semantico verso uno storicismo μετ´ἐπιστήμης...). I termini sono ordinati secondo somma della distanza con il termine prescelto e secondo peculiarità del termine, diagnosticando una basilare mappa delle associazioni di idee (associazione di ciò che l'algoritmo isola come segmenti - fissi se frequenti - di sintagmi stimabili come nomi) di una data cultura (in questa sede intesa riduttivamente come corpus di testi storicamente determinabili); nei prossimi mesi saranno sviluppati strumenti di comparazione booleana di insiemi di corpora circoscrivibili; applicazioni sul complessivo linguaggio storico naturale saranno altresì possibili.
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