Brano: [...]
Nel Mondo Magico (Einaudi, Torino 1958, T ed.) fu da parte nostra tentato di fermare il concetto di crisi della presenza come rìschio di non poterci essere nel mondo, o piò, esattamente in nessuna possibile storia umana. Nel corso delle nostre ricerche storicoreligiose sul pianto rituale antico, e sul passaggio dal lamento pagano a quel modello culturale del cordoglio che è rappresentato dal « pianto di Maria » e dalla figura della cristiana « Mater Dolorosa », ci è stata offerta Vopportunità di approfondire il concetto di una presenza che rischia di smarrirsi nel mondo e che mediante le creazioni culturali si protegge da tale rischio: il che ci ha indotto ad alcune analisi e teorizzazioni di cui il presente scritto vuol essere un saggio, anticipando la trattazione storica dispiegata che vedrà la luce nel volume Dal lamento pagano al pianto di Maria, di prossima pubblicazione nella collana di studi etnologici e storicoreligiosi delle Edizioni Scientifiche Einaudi.
1. La presenza malata.
Per analizzare il rischio della presenza poss[...]
[...]iò equivale a dire che l’angoscia è il rischio di perdere la possibilità stessa di dispiegare l’energia formale dell’esserci. L’angoscia segnala l’attentato alle radici stesse della presenza, denunzia l’alienazione di sé a sé, il precipitare della vita culturale nella vitalità56
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senza orizzonte formale. L’angoscia sottolinea il rischio di perdere la distinzione fra soggetto e oggetto, fra pensiero ed azione, tra forma e materia: e poiché nella sua crisi radicale la presenza non riesce più a farsi presente al divenire storico, e sta perdendo la potestà di esserne il senso e la norma, l’angoscia può essere interpretata come angoscia della storia, o meglio come angoscia di non poter esserci in una storia umana. Pertanto quando si afferma che l’angoscia non è mai di qualche cosa, ma di nulla, la proposizione è accettabile, ma soltanto nel senso che qui non è in gioco la perdita di questo o di quello, ma della stessa possibilità del quale come energia formale determinatrice di ogni questo o quello: e tale perdita non è[...]
[...]sono conati individuali del tutto vuoti di prospettiva culturale, e perciò sterili anche sul piano tecnico sul quale si muovono.
(11) Arieti, op. cit., p. 121 sg.60
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Analoghe considerazioni valgono per le difese improprie orientate verso il «fare». Qui i conati di recuperare la presenza riescono solo ad una caricatura ed una contraffazione della esigenza del trascendimento, in quanto ciò che dovrebbe stare sempre come materia, la vitalità, pretende di assolvere compiti formali. Così il « far passare nel valore », che comporta ima appropriazione interiore a un far morire ideale, cede il luogo, in questa forma della crisi, alla appropriazione materiale di oggetti privi di significato attuale, alla mania del raccogliere e del conservare, alla incorporazione nelle cavità naturali del corpo, alla fame insaziabile di cibo e alla ingestione di oggetti anche non commestibili, allo sfrenato erotismo, al furore distruttivo e omicida. I momenti delFinnalzamento alla forma, cioè l’appropriazione, la conservazione ed il superamento formali, sono qui contraffatti sull’improprio piano materiale della vitalità in atto, chiusa in sé stessa e adialettica rispetto al destino formale dell’uomo: diabolus simia Dei. La egemonia del vitale che pretende di surrogare la risoluzione formale si manifesta nel modo più netto nella cosiddetta eccitazione maniaca. Qui la presenza in crisi si limita a prestare alla accelerazione vitale l’inerte contenuto di rappresentazioni e di sentimenti che simulano, ma non sono, valori reali. Lo psichiatra Giorgio Dumas riferisce di un tal Victor, capitano dell’esercito francese e appartenente a una famiglia tradizionalmente legata al culto della gioire e de[...]
[...]a irrazionalistica di una autonomia formale della vita religiosa. La religione, ove sia intesa correttamente come nesso miticorituale, non è un apriorv. il tentativo di R. Otto di completare le tre critiche kantiane con una quarta attinente al ' sacro ' deve considerarsi fallito. Apriori però è certamente la potenza tecnica dell’uomo, sia che si volga al dominio della natura con la produzione dei beni economici, con la fabbricazione di strumenti materiali e mentali del pratico agire, sia che invece si volga ad impedire alla presenza di naufragare in ciò che passa senza e contro l’uomo. Sulla linea di questo secondo impiego della potenza tecnica si trova la religione, che resta definita dal carattere particolare del suo tecnicismo, cioè dalla ripresa e dalla reintegrazione umanistica dei rischi di alienazione, mediante la destorificazione miticorituale. La risoluzione tecnica della vita religiosa non è certamente nuova, se già Platone in un passo famoso del Fedone non esitava a considerare il mito delle anime dopo morte come un incantesimo [...]
[...]alla risoluzione poetica di Omero, la crisi di Achille per la morte di Patroclo si manifesta
(12) Sul concetto di sacro, vita religiosa, destorificazione miticorituale, e sui rapporti fra religione e magia, e fra religione e storiografia religiosa ci permettiamo rinviare alle nostre due monografie Crisi della presenza e reintegrazione religiosa, in « AutAut », 1955, n. 31 e Irrazionalismo e storicismo nella storia delle religioni in « Studi e Materiali di Storia delle Religioni», XXVIII, 1957, fase. I, pp. 89 sgg.PERDITA DELLA PRESENZA E CRISI DEL CORDOGLIO
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in modi « eccessivi » che noi oggi non saremmo disposti a concedere a un uomo « normale », e che possiamo al più tollerare con varia disposizione d’animo nelle contadine dell’Italia meridionale o della penisola balcanica. Tuttavia noi qui dobbiamo analizzare proprio i modi « eccessivi » della crisi del cordoglio, cioè il rischio che essa comporta quando tocca per così dire il fondo.
Quando la caduta della potenza oltrepassante consuma sino in fondo il suo rischio, la con[...]
[...]di una instabile smemoratezza, che da un momento all’altro può dirompersi in un planctus irrelativo, cioè in un comportamento orientato ad arrecare offese anche mortali alla propria integrità fisica. Questa polarità di ebetudine e di planctus denunzia una crisi profonda nella quale in luogo della decisione formale si instaura la paradossia estremamente contradditoria di un « non fare per farsi vuoti di contenuto» ovvero di un furore che annienta materialmente quella presenza che dovrebbe invece oltrepassare formalmente la situazione. In particolare nel planctus il furore autodistruttivo si accompagna al sentimento patologico di una miseria
o anche di una colpa smisurate che può ricevere nella coscienza varie motivazioni fittizie, ma che in realtà nasce dalla esperienza critica di non potersi dare nessuna motivazione reale secondo valore, e di chiudersi nella situazione invece di oltrepassarla. Appena un po’ al di qua di questa irrisolvente polarità di ebetudine e di planctus sta la sgomenta coscienza di essere immerso in tale polarità e[...]
[...] il «far morire i morti in noi», che è un faticoso processo interiore e ideale, si può manifestare nella modalità più impropria, cioè nella aggressività contro il cadavere, o nel bisogno di vendicare il morto con una nuova uccisione operata su altri, o con l’insorgenza di un indiscriminato furore distruttivo; l’interiorizzazione del morto mercè dell’appropriarsi della sua opera per continuarla ed accrescerla si può degradare nella incorporazione materiale della necrofagia o della fame insaziabile; il compito di instaurare con colui che non è più un nuovo rapporto affettivo alimentato da una benefica memoria può cedere il luogo all’erotismo della necrofilia; e infine la esigenza di una ripresa formale in genere può dar luogo soltanto a modi meramente vitali di recuperare, con l’esaltazione di impulsi aggressivi, o alimentari o erotici. In tutti questi casi lo scacco del trascendimento è palese: si cerca la scelta oltrepassante secondo valore e si trova invece la contraffazione del compito formale sul piano improprio della vitalità, si tenta[...]
[...]are» il pensiero racchiuso nel passo del Croce. La nostra lontananza ideale dalle civiltà primitive, la mancanza di una documentazione diretta relativa al loro passato, il carattere equivoco dello stesso termine « primitivo » e infine i limiti inerenti alle monografie etnografiche di cui dobbiamo avvalerci quando manchi la opportunità di una ricerca personale in loco, costituiscono altrettanti ostacoli per chi volesse direttamente appoggiarsi al materiale etnologico al fine di approfondire la formulazione del Croce oltre la cerchia della civiltà cristiana e della sensibilità moderna per entro la quale essa è nata e maturata. D’altra parte approfondimenti di questo genere male cominciano col più arcaico e con l’idealmente più remoto da noi, per giungere poi sino a noi in un vano conato di storia universale, ma — al contrario — debbono partire dal certo e dal vero della nostra attuale consapevolezza storiografica per allargarsi nella direzione di quel passato culturale più prossimo dal quale la civiltà alla quale apparteniamo è nata per fili[...]
[...]te in atto di stare davanti alla croce, chiuse in un patire interiore e raccolto, che guadagna in singolare efficacia etica proprio per il fatto che non appena scorgiamo nello scenario della Passione il disegnarsi di queste tre ombre silenziose e immobili. Tutta una tradizione si ricollega a questo interiore patire, cui Ambrogio contendeva anche lo sfogo delle lacrime (stantem illam lego, flentem non lego) (35), e che nella sequenza dello Stabat Mater si ravviva e umanizza in un contemplare velato di lacrime: Stabat Mater dolorosa / iuxta crucem lacrymosa / dum pendebat filius: / cuius animam gementem, / contristatam et dolentem / pertransivit gladius (36).
Sulla linea di questa tradizione non troverebbe posto, a stretto rigore, la rappresentazione drammatica del dolore di Maria secondo una mimica definita e un discorso contesto di moduli, ma soltanto il lirismo religiosamente impegnato del credente che alla Mater Dolorosa chiede la mediazione per aprirsi alla passione di Cristo e per morire con Cristo al peccato: fac me tecum piangere, fac ut portem Christi mortem, come si legge nella sequenza dello Stabat. Ma questo altissimo modello del dolore cristiano non poteva operare realmente nella storia e svolgervi la sua effettiva pedagogia dell’umano cordoglio se non avesse saputo rag
(35) Ambbr., De obìtu Valent., 39 CSEL 73, p. 348 Faller.
(36) Sullo Stabat resta fondamentale il lavoro di C. Ermini, Lo Stabat Mater e il pianto della Vergine nella lirica del Media Evo, 1916.88
ERNESTO DE MARTINO
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[...]i Cristo e per morire con Cristo al peccato: fac me tecum piangere, fac ut portem Christi mortem, come si legge nella sequenza dello Stabat. Ma questo altissimo modello del dolore cristiano non poteva operare realmente nella storia e svolgervi la sua effettiva pedagogia dell’umano cordoglio se non avesse saputo rag
(35) Ambbr., De obìtu Valent., 39 CSEL 73, p. 348 Faller.
(36) Sullo Stabat resta fondamentale il lavoro di C. Ermini, Lo Stabat Mater e il pianto della Vergine nella lirica del Media Evo, 1916.88
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giungere sul piano terreno la crisi che nel cordoglio sta come rischio, e se non avesse assorbito e trasfigurato le tecniche pagane di controllo e di reintegrazione. Solo raggiungendo questo piano il modello mariano del dolore poteva trascinare i dolenti verso la nuova meta religiosa e culturale, e non importa se esso doveva affrontare tutti i rischi del compromesso, del sincretismo e del ritorno al passato. Qui sta il germe della profonda necessità storica degli sviluppi drammatici del planctus Mariae. Ne[...]
[...]no, ai tempi di Jacopone, a Todi ed in tutta l’Umbria» (43).
Tuttavia quale che siano i compromessi ed i sincretismi a cui dette luogo il culto di Maria nella sua espansione, resta il fatto che dal punto di vista storicoreligioso la figura di Maria non appare ricalcata su quella della lamentatrice o della prefica del mondo antico, ancorché ne potè assumere occasionalmente alcuni tratti. Anzi proprio per assolvere la sua funzione pedagogica di Mater Dolorosa e di modello del nuovo ethos cristiano di fronte al
(42) Young, op. cit., II, p. 518 sgg.
(43) P. Toschi, Le origini del Teatro italiano, 1955, p. 685. Per il planctus Mariae è da vedere (oltre il Chambers, l’Ermini e Io Young già citati), E. Wechssler, Die romanische Marienklage, Halle. 1893, A. Schònbach, Ueber die Marien\lagen, Graz 1874, pp. 10 sgg., H. Thien, Ueber die englischen Marien\lagen, Kiel 1906, pp. 3 sgg. Si veda anche A. Lingfors, Contribution à la bibliographie des plaintes de la Vierge in « Revue des langues romanes », IIII, 1910, pp. 5860, e il lavoro mariologi[...]
[...] planctus Mariae è da vedere (oltre il Chambers, l’Ermini e Io Young già citati), E. Wechssler, Die romanische Marienklage, Halle. 1893, A. Schònbach, Ueber die Marien\lagen, Graz 1874, pp. 10 sgg., H. Thien, Ueber die englischen Marien\lagen, Kiel 1906, pp. 3 sgg. Si veda anche A. Lingfors, Contribution à la bibliographie des plaintes de la Vierge in « Revue des langues romanes », IIII, 1910, pp. 5860, e il lavoro mariologico di A. M. Lepicier, Mater dolorosa. Notes d’histoire, de liturgie et d’iconographie sur le culte de Notre Dame des Doleurs, 1948. A parte i planctus Mariae sarebbero da considerare nel quadro della trasposizione cristiana dell’antico lamento funebre rituale i planctus medievali destinati a pubblici personaggi, e talora composti da chierici. Almeno alcuni di essi erano destinati ad essere cantati in pubbliche manifestazioni di lutto, come si desume dalle melodie che li accompagnano e da alcuni luoghi dei testi: p. es. in un planctus per l’arcivescovo Fulco di Reims composto dal canonico Sigloardo (sec. X) segue all’int[...]
[...] petto e il graffiarsi le guance ed il lamentarsi, secondo che narrano gli Acta Pilati: ma la sua figura di madre in lutto resta sostanzialmente legata ad un’altra immagine pedagogicamente egemonica, al suo stare raccolto, immobile e muto del Vangelo giovanneo, o al contemplare velato di lacrime della sequenza dello Stabat. Ed il centro della cristiana religione non è nel cordoglio di Maria come tale, ma in quel « portare Christi mortem » che la Mater dolorosa aiuta a vivere come esperienza (fac ut portem mortem Christi). Questo mutamento di prospettiva può essere esemplato con la vita di Santa Emiliana de’ Cerchi, che rimasta vedova in giovanissima età si chiuse nella torre del palazzo avito, ricusando ormai di lamentare la morte per lutti terreni, e decisa a versare le sue lacrime soltanto per i suoi peccati e per la passione di Cristo, a lungo resistendo alle tentazioni del diavolo, che le adduceva davanti agli occhi cadaveri di persone a lei care, come per risvegliarla al mondano patire: finché la santa vinse la lotta, e si votò intera[...]