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Il segmento testuale Lascia è stato riconosciuto sulle nostre fonti cartacee. Questo tipo di spoglio lessicografico, registrazione dell'uso storicamente determinatosi a prescindere dall'eventuale successivo commento di indirizzo normatore, esegue il riconoscimento di ciò che stimiamo come significativo, sulla sola analisi dei segmenti testuali tra loro, senza obbligatoriamente avvalersi di vocabolarii precedentemente costituiti.
Nell'intera base dati, stimato come nome o segmento proprio è riscontrabile in 72Analitici , di cui in selezione 1 (Corpus autorizzato per utente: Spider generico. Modalità in atto filtro S.M.O.G.: CORPUS OGGETTO). Di seguito saranno mostrati i brani trascritti: da ciascun brano è possibile accedere all'oggetto integrale corrispondente. (provare ricerca full-text - campo «cerca» oppure campo «trascrizione» in ricerca avanzata - per eventuali ulteriori Analitici)


da Dacia Maraini, La mia storia tornava sotto l'albero carrubo in KBD-Periodici: Nuovi Argomenti 1958 - 7 - 1 - numero 33

Brano: [...]tra; ma ho avuto modo di notare che Ulisse mi considerava piuttosto lenta di riflessi, per non dir imbecille. E vero che gli ho chiesto più volte di ripetere quando ha detto « calmati » perché non afferravo il senso; ma non é come lui pensava, che io non capissi il significato materiale delle parole, quello non mi preoccupava, solo il significato particolare che ogni persona dà alle parole che pronuncia, questo mi appassionava e perciò più volte lasciavo passare degli interi minuti prima di rispondere ad una domanda; soprattutto se posta da Ulisse, perché io vivevo con lui ed ho avuto agio di notare quanto egli mutasse il significato originale delle parole. Così quando mi disse t calmati », la prima volta, credo di essermi concentrata molto sulla parola, sia per ché era rivolta direttamente a me, sia perché cercavo d'indovinare cosa esattamente intendesse Ulisse con quella parola, anzi con quel verbo.
Forse, se avessi fatto attenzione in quel momento alla mia faccia mentre mi concentravo per meditare, ecco forse avrei saputo perché Ulisse [...]

[...]da quelle che dovevano essere le sue ossa,
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ammesso che la mamma avesse delle ossa. Ë lei che me l'ha detto, anzi ricordo che lo ripeteva sempre. Fra gli altri lamenti accennava al fatto dell'insegnamento, come se smaniasse per la voglia di tornare a fare la maestra. Lei non permetteva che io toccassi i suoi libri, questo no; disse che prima di morire li avrebbe gettati tutti nel fuoco pur di non lasciarli a me, ma poi non ne fece nulla perché le sarebbe costata troppa fatica, ed io non l'avrei aiutata, no di certo, a bruciare i suoi libri.
Sapevo di potere contare sulla generosità di Ulisse: infatti lasciò che io prendessi i libri appena mori la mamma, perché, disse, non sapeva che farsene. Io li contai, prima di tutto, e constatai che erano dodici, non uno di più non uno di meno, di cui cinque neri e gli altri a colori: devo ammettere che fin dall'inizio preferii quelli a colori.
La mamma diceva che non valeva la pena, e così non mi aveva mai insegnato a leggere, ma scoprii che non era m[...]

[...]ro sono fra loro incollate in maniera che si possano sfogliare senza perderle; questa è la verità
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e chiunque voglia negarla o é pazzo o lo fa perché ciò torna a suo vantaggio.
Ma io non volevo negare la verità, volevo soltanto che il mio tredicesimo libro assomigliasse il più possibile agli altri dodici. E questo non
secondo la mia sola opinione, ma secondo la verità conosciuta da tutti, senza lasciarmi influenzare dal fatto che un tredicesimo libro era assolutamente necessario alla mia biblioteca, e quindi farmi travisare la veriti per il mio tornaconto personale.
Era una cosa necessaria come la storia delle scarpe; dico così per dire che è assolutamente necessario che le due scarpe siano una destra e una sinistra, anche se non dovessimo fare lunghe camminate; io per esempio non ne facevo mai, perché qualunque calzolaio si metterebbe a ridere se gli chiedeste di vendere due scarpe sinistre anziché una destra e una sinistra, non perché ognuno non sia libero di comprare le scarpe che vuol[...]

[...]iocoforza» perché lui mi faceva pensare all'esatto significato della parola, anzi credo senz'altro che « giocoforza » significasse questo, e Trento non si arrabbiava quando glielo dicevo; credo che non gliene importasse un gran ché, era appena un ragazzo e portava il latte a tutti gli inquilini del palazzo.
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Trento mi fece dimenticare il pianoforte e anche un poco i libri, che adesso cominciavo a lasciare in giro nelle stanze per giorni e giorni senza cambiargli il nascondiglio. Per fortuna Ulisse si disenteressava di questo genere di cose, non credo che avrebbe raccattato un libro neanche se l'avesse pestato con un piede, voglio dire che se ne infischiava anche se lui sapeva leggere ed era perfino andato a scuola.
Non tentavo più di risolvere il problema del tredicesimo libro, non che me ne fossi dimenticata, ma mi premeva di meno, ecco tutto. Probabilmente perché avevo cominciato a pensare a tutt'altre cose, a cui prima non avevo dato alcuna importanza; per esempio a me stessa come person[...]

[...]el latte come una fetta di pane. Per fortuna non durava molto perché Trento si metteva a fumare e l'odore del tabacco assorbiva un poco quello acido del latte.
Mi piaceva vedere il fumo viola che scappava fuori dalle sue narici,
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dagli angoli della bocca semichiusa. Aspettavo che aspirasse di nuovo dal suo cartoccio bianco per vedere il fumo dondolare nell'aria e poi rotolare verso il soffitto.
Lasciavo che chiudesse le imposte anche se ciò non mi permetteva più di vederlo; forse non amava guardarmi, io pensavo, seppure non glielo abbia mai chiesto. Lo pensavo perché chiudeva le imposte con un colpo, piegando insieme i polsi verso il petto e poi si coricava sopra di me; per quanto aprissi gli occhi non riuscivo a vedere che viso avesse. Quello che mi dava noia era il non poter sapere di quale colore fossero i suoi occhi; perché un momento prima che chiudesse le imposte erano grigi, li avevo notati; ma ora potevano essere gialli come viola, e questa incertezza mi faceva stare inquieta. A vo[...]

[...] Ricordo le dita gialle e rosa che s'intrecciavano e si snodavano moltiplicandosi all'infinito. Questa immagine mi turbava, ricordo, perché tutte le mie forze cercavano di fermare il movimento delle dita; volevo che per azione della mia volontà cessassero di moltiplicarsi, ma quelle sfuggivano al mio controllo e s'intrecciavano sempre più velocemente, finché non mi veniva da urlare, e allora mi mordevo un labbro e le dita svanivano del tutto per lasciare posto ad altri disegni e ombre lucide nel buio.
Trento si addormentava su di un fianco, potevo vedere la sua bocca aperta e la saliva che colava lungo il mento. Era il momento in cui la sveglia cominciava a farsi sentire; voglio dire che il suo ticchettio, che di solito non udivo, cresceva di volume, fino a riempire tutta la stanza, che pulsava con essa, dilatandosi e restringendosi, aspirando e soffiando come un largo corpo malato seduto sulle nostre persone distese.
Non tentavo di allontanare quel rumore, lo accettavo così com'era, cercando di nascondere la testa sotto il braccio di Tre[...]

[...]n
prodotto della mia immaginazione. Ma io andavo lo stesso ad aprire perché sapevo che Trento era dietro la porta e aspettava che gli aprissi. Non venne quel giorno né mai piú.
Il latte lo portava su un altro; mi pare che si chiamasse Trento. Ulisse cominciò a parlarmi, ma non diceva niente di nuovo, erano due parole che già conoscevo, .e non mi facevano più né caldo né freddo, ma solo noia: diceva a calmati cara » o « cara calmati », non so.
Lasciai che parlasse a vuoto, tutt'al più ridevo piano fra me perché mi divertiva il modo con cui Ulisse allungava i denti fuori della bocca per dirmi « cara calmati ». Ma Ulisse non sopportava assolutamente che io ridessi di lui; me lo fece capire, a modo suo, urlando come faceva di solito, ed io lo lasciavo urlare, al massimo ridevo piano fra me.
Lui allora faceva il gesto di tirarmi qualche oggetto ma anche questa era una cosa vecchia e continuavo a ridere fra me, perché tanto sapevo che non avrebbe tirato un bel niente.
Se mi fermavo a guardare la sua gamba, soprattutto quando vestiva quel suo abito a righe bianche distanti l'una dall'altra, mi ricordavo della mamma. Ormai lo sapevo ed evitavo di fissare la sua gamba a righe, ma quelle righe mi attraevano e finivo per guardarle perché era proprio il fatto di non volere guardare che mi invogliava a farlo; avevo notato che questo mi succedev[...]

[...] pensiero nuovo e lo analizzai volentieri: ecco perché la mamma si guardava sempre le mani con tenerezza, adesso lo sapevo, naturalmente poteva anche non essere vero affatto, la mamma poteva guardarsi le mani per altri motivi, ma era un pensiero nuovo e feci finta che fosse vero, anche se non potevo provare che lo fosse.
Mio fratello tornò dal viaggio; si perché era andato in viaggio con la sirena, non so dove. Tornò totalmente mutato: mi aveva lasciato chiu. sa in casa e quando aprì la porta con la chiave che teneva solo lui, sapevo già che non era più Ulisse, come quando era partito, ma un altro, Gio
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varani o Amedeo, faceva lo stesso. Aveva perso l'impiego, questo lo so, non perché me l'abbia detto, ma perché non usciva più la mattina né dopo colazione. Con questo non voglio dire che stesse sempre in casa, ma Usciva irregolarmente, con la barba lunga e senza cappello, per cui potevo dedurre senz'altro che la sua mèta non era l'ufficio.
La sirena non venne piú, anche lei come Trento.
Ul[...]

[...]
non era Ulisse ma Amedeo o Giovanni; per cui smisi di piangere e lo guardai da sotto, per indovinare se avrebbe continuato a lungo.
Non riuscii ad indovinare perché i suoi occhi non erano più due occhi come tutti gli altri, ma due pozzetti senz'acqua, viscidi e privi di espressione, avrei potuto chiamarli scatole o boccette, senza modificarne in nulla la qualità. La barba gli puzzava di alcol, insomma, tutto dimostrava che Ulisse era ben morto lasciando al suo posto un sacco pieno di vino, che io chiamavo Amedeo, ma dargli un nome era già troppo, era come renderlo vivo.
In seguito imparai a difendermi, cioé mi raggomitolavo su me stessa in modo che Amedeo non potesse farmi troppo male; ma all'inizio non conoscevo ancora questi trucchi. Infatti Amedeo mi ruppe un braccio e poi mi fece sbattere la testa contro lo spigolo del tavolo della cucina. Dopo quella volta non ci vidi più tanto bene, come se una rete avesse avvolto il mio occhio; le immagini urtavano fra loro e si fondevano tutte in un solo cerchio, così che perdevo continuamente l'[...]

[...]o ad Ulisse come uomo. Era più forte di Trento, questo si, e sorrisi ricordando che questo lo sapevo giá da prima, da quando mi aveva picchiata per la prima volta ed avevo scoperto che si chiamava Amedeo o Giovanni, fa lo stesso.
Il braccio mi faceva male, molto; come se qualcuno me lo stesse torcendo e piegando fino a fare un nodo più su del gomito. Il treno nel braccio, ecco, c'era un treno che faceva manovre sui binari vivi delle mie vene. « Lascia stare la corda », gridavo. Capii che gridavo perché mio fratello mi tappava la bocca con la sua e mi cacciava le mani nel collo.
Quella notte venne nel mio letto; poi, il giorno dopo, avevo la febbre, questo lo so perché la mamma diceva che si hanno i brividi quando viene la febbre ed io sentivo brividi per tutta la schiena. Il mio braccio gonfiò in quei giorni, fino a tendere al massimo la pelle, poi cominciò a diminuire e un giorno cessò anche di farmi male; credo che fosse guarito. E mio fratello non mi _picchiava piú; di questo gli ero grata e aspettavo che tornasse a casa col pacco di v[...]

[...] diversi autori non parevano d'accordo sul colore, uno diceva che é azzurro, un altro parlava del viola intenso, oppure del verde; io non so tuttora cosa pensare, ma ciò non mi impediva di sognare sempre il mare, come un misto di colori.
In fondo la qualità dei colori non mi interessava, perché il mare era II a farsi bere da me, e amavo il suo sapore, un sapore che non assomigliava a nessun altro.
Infine Ulisse riportava il vassaio in cucina e lasciava che mi addormentassi, con la coperta fin sopra la testa perché la luce mi dava noia. Non speravo di chiudere le persiane fino a che non fossi guarita al braccio e ormai mi ero abituata alla luce. La sola difesa che avessi escogitato era di nascondermi gli occhi sotto le coperte e allora potevo anche avere la sensazione che nella stanza ci fosse buio; cosi mi addomentavo. Era sempre Ulisse che mi svegliava; lo sapevo appena sentivo il contatto freddo della sua gamba che scivolava accanto alla mia. Non piangevo perché Ulisse non voleva. Cercavo di tenere il mio braccio lontano dal suo corpo, [...]

[...]chiesi tante volte,
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ma non trovavo una risposta che potesse soddisfarmi. Infine rinunziai a capire perché mi fossero usciti di mente; la cosa più urgente a questa punto era di scoprire il mezzo di riaverli presso di me.
Per non abbandonare questo pensiero che mi appassionava, non tentai neppure di dormire quella notte. La mattina dopo avevo preso la decisione di tornare a casa subito, per prendere i libri. Se non mi avessero lasciato andare, sarei scappata, ancora non sapevo come, ma ero certa di trovare il modo: mi ero accorta che si occupavano poco di me. Ma era urgente che mi sciogliessero quelle bende, e mi togliessero la camicia. di forza, perché costretta a quel modo non c'era nemmeno da pensare ad una fuga, lo capivo bene.
Venne una donna bianca a parlarmi; come fossi una bambina di pochi anni, ripeteva le parole avvicinando il suo viso al mio e facendo schioccare la lingua contro il palato. La guardai attratta da quei rumori e forse mi misi a ridere perché lei alzò la voce e minacciò di lasciarmi in quella stan[...]

[...]e. Ma era urgente che mi sciogliessero quelle bende, e mi togliessero la camicia. di forza, perché costretta a quel modo non c'era nemmeno da pensare ad una fuga, lo capivo bene.
Venne una donna bianca a parlarmi; come fossi una bambina di pochi anni, ripeteva le parole avvicinando il suo viso al mio e facendo schioccare la lingua contro il palato. La guardai attratta da quei rumori e forse mi misi a ridere perché lei alzò la voce e minacciò di lasciarmi in quella stanza ancora per molti giorni. Questo mi fece ricordare la. fuga che avevo progettato e allora presi a farle domande molto accurate sulle persone che abitavano nei paraggi e come potessi raggiungere la uscita senza essere notata. Ma evidentemente non fui abbastanza prudente perché la donna bianca capì ciò che avevo intenzione di fare e disse con chiarezza che da li non sarei uscita mai, certamente non per mia volontà_ Questo concetto lo ripeté varie volte come per imprimerlo bene nella mia mente. Le risposi che non ero scema; mi guardò con tenerezza ma nello stesso tempo si tene[...]

[...]ntivo crescere in me una gioia profonda, e se da principio non avrei saputo dire da che cosa derivasse, poi scoprii che ero felice proprio per via di quelle quattro ragazze, tanto da dimenticare improvvisamente i miei libri per i quali prima avevo desiderato di fuggire.
Allora la mia più grande paura fu che mi togliessero di li. Guardai la mia accompagnatrice cercando di indovinare i suoi progetti nei miei riguardi, avrei voluto pregarla che mi lasciasse in quella stanza con le quattro ragazze, ma poi decisi di stare zitta, perché avevo già imparato che nella mia situazione era più saggio tacere: qualunque cosa io dicessi mi guardavano allarmati e i loro visi non promettevano niente di buono. Strinsi con le dita la spalliera di ferro del letto che mi stava di fronte e attesi che qualcuno parlasse; strinsi tanto forte il ferro da sentirmi dolere fino alla cima delle palpebre, ma non dissi una parola, sebbene lo desiderassi. La donna bianca non mi parlò, ma dai suoi gesti compresi che quel letto mi era destinato e che quindi io sarei rimasta[...]

[...]rmi dolere fino alla cima delle palpebre, ma non dissi una parola, sebbene lo desiderassi. La donna bianca non mi parlò, ma dai suoi gesti compresi che quel letto mi era destinato e che quindi io sarei rimasta in quella stanza con le quattro ragazze vestite di grigio.
Quando ebbe finito di preparare il letto, prima di andarsene, mi prese le mani e mi disse un'infinità di cose, non importa quali; ciò che volevo sapere l'avevo capito da me quindi lasciai che parlasse, annuendo
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con la testa quando lo ritenevo opportuno. Lei parve contenta di me e si avvicinò alla porta senza però lasciare le mie mani che continuava a stringere fra le sue. Disse ancora qualcosa a proposito della bontà; parlava proprio come un angelo e le sue mani erano calde e morbide. Credo che finii per sorridere anch'io.
Imparai subito che le campane erano molto importanti in quell'istituto e che se non si ubbidiva al loro segnale c'era da rimanere senza cena o addirittura di buscare la frusta sulle gambe. Io dovevo fare uno sforzo per ricordare cosa volesse dire quel suono; mi prendeva sempre alla sprovvista, perciò i primi giorni non sapevo mai cosa fare. Ma bastava che seguissi le altre giù per il corr[...]

[...]papaveri nel giardino. Lode diceva che al suo paese c'erano dei campi addirittura rossi, come macchie di sangue, per la grande quantità di papaveri di quel colore. Io non sapevo se crederle o meno perche cono,scevo la sua capacità di inventare storie che non avevano niente di vero; ma per giocare a quel gioco sarebbe stato molto comodo un intero cam
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po di papaveri e, pur rimanendo diffidente, mi lasciavo sedurre da quell'immagine.
Il gioco della biscia era molto più complicato e non saprei mai ripeterne il meccanismo, sebbene Lode me l'abbia ripetuto tante volte; forse perché non avevo mai visto una biscia in vita mia e poi Lode conosceva la campagna per averci passato la vita, mentre io non sapevo neanche cosa immaginare quando lei parlava di campi, pecore, bisce, e altre cose del genere. Mi veniva in mente il quadro del pastore,
o il mercato vicino a casa; ma erano tutte cose ferme e prive di colori. Del resto non importava perché il gioco della biscia non si poteva fare
e quindi era u[...]

[...] della direttrice e dell'avvocato; avrebbero smesso di ridere e forse mi avrebbero anche sgridata; mi venne voglia di farlo; allungai un poco la gamba. Ma perché mi perdevo in simili pensieri quando avevo tanti problemi da considerare?
Improvvisamente l'avvocato spostò una sedia, vi si sedette in modo che i nostri ginocchi quasi si toccassero e prese a farmi domande su domande. Credo che facesse apposta per confondermi le idee, si perché non mi lasciava il tempo di pensare e mi colpiva con le sue interrogazioni, quasi fossi una macchina che scatta appena si pigia un bottone.
Io guardavo le sue labbra per non perdere le parole che scappavano fuori come gatti infuriati, ma per quanti sforzi facessi rimanevo indietro rispetto alle sue domande e finivo per non capire più niente.
Vidi che la direttrice prendeva appunti su di un foglio che teneva aperto davanti a sé. Una goccia di sudore era sospesa poco sopra le mie orecchie, all'attaccatura dei capelli; aspettavo che scivolasse giù per la guancia, ma pareva che si fosse cristallizzata fra i [...]

[...]ece di salire al primo piano, capii dal freddo che eravamo giunti in giardino. Lode insisteva a dire che quello era un cortile, ma adesso più che mai avrei giurato che era un giardino per via del profumo; perché solo i giardini hanno profumo di foglie e di terra bagnata; ero contenta che mi portassero in giardino.
Uno degli infermieri mi legò all'albero di carrubo, pensai che era matto ma infine bisogna sempre ubbidire agli infermieri, ed io lo lasciai fare.
L'altro tirò fuori un fucile da dietro le spalle e prese la mira, da poco più di dieci passi di distanza.
Indovinai subito che era un fucile per averne sentito parlare da Lode, ed in quel momento pensai che le descrizioni della mia compagna erano molto precise.
Vidi i due buchi della canna che puntavano esattamente contro il mio viso.
Ebbi la coscienza per un attimo che tutta quella scena non fosse vera, fui sul punto di liberarmi di me stessa, ma ripiombai subito dopo nella realtà e recitai la mia parte sino all'ultimo.
Potei appena respirare ancora una volta, poi qualcuno bussò [...]

[...]i un fiume.
Pensai che da diversi giorni Ulisse si rivolgeva a me con la stessa frase, « cara calmati » o « calmati cara », « cara malati calmati calanti », non so più; potevo prevedere già quando lo vedevo che avrebbe fatto saltare quella corda e non un'altra. La sirena muggiva sotto il braccio di lui, nella notte, ed io portavo il mio libro colorato dentro il letto perché non potevo dormire per via di quelle bestiole nella stanza accanto.
Lo lasciai parlare.
Era la mia storia che tornava e colava giù dai buchi del cervello perdendosi in mezzo all'erba e ai sassi; e la terra la succhiava con la stessa avidità con cui assorbiva la resina dell'albero.
DACIA MARAINI


Grazie ad un complesso algoritmo ideato in anni di riflessione epistemologica, scientifica e tecnica, dal termine Lascia, nel sottoinsieme prescelto del corpus autorizzato è possible visualizzare il seguente gramma di relazioni strutturali (ma in ciroscrivibili corpora storicamente determinati: non ce ne voglia l'autore dell'edizione critica del CLG di Saussure se azzardiamo per lo strumento un orizzonte ad uso semantico verso uno storicismo μετ´ἐπιστήμης...). I termini sono ordinati secondo somma della distanza con il termine prescelto e secondo peculiarità del termine, diagnosticando una basilare mappa delle associazioni di idee (associazione di ciò che l'algoritmo isola come segmenti - fissi se frequenti - di sintagmi stimabili come nomi) di una data cultura (in questa sede intesa riduttivamente come corpus di testi storicamente determinabili); nei prossimi mesi saranno sviluppati strumenti di comparazione booleana di insiemi di corpora circoscrivibili; applicazioni sul complessivo linguaggio storico naturale saranno altresì possibili.
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