Brano: [...]edo, tocco, ma non sento come un tempo, gli oggetti non si identificano col mio essere, un velo spesso, una nuvola cambia il colore e l’aspetto dei corpi » (4). E un altro malato: « Voi non siete che un fantasma, come ce ne sono tanti: e non potete pretendere che si abbia obbedienza ed affetto per qualcuno di cui non si avverte la realtà » (5). Ancora un altro malato: « Le cose non sono più nel loro quadro e non indicano più la loro utilità (6). Infine ecco come una schizofrenica sottoposta a trattamento psicoanalitico da A. Sechehaye descrive nel suo diario la perdita del mondo: « Per me la follia era come un paese opposto alla realtà, un paese nel quale regnava una luce implacabile, che non lasciava posto per l’ombra, e che accecava. Era una immensità senza confini, illimitata, piatta, piatta, — un paese minerale, lunare, freddo... In questa estensione tutto era immutabile, immobile, fisso, cristallizzato. Gli oggetti sembravano figure di uno scenario. Le persone si muovevano bizzarramente, compiendo gesti e movimenti privi di valore. Era[...]
[...]alla interpretazione che altri li manovrino, li influenzino, li rubino, o ne siano padroni: a un grado più profondo di alienazióne si avvertono i propri pensieri in atto di staccarsi dal flusso interno del pensare, per ripetersi per loro conto, a guisa di eco psichica, sino a risuonare pubblicamente anche se non comunicati con la parola. L’alienarsi della presenza e l’esperienza immediata della impotenza di qualsiasi scelta formale si rispecchia infine subiettivamente come colpa altrettanto mostruosa quanto immotivata: si tratta infatti della colpa di non potersi motivare, che è — per essenza — radicale e senza motivo. La depressione melancolica è pertanto da interpretare, considerata in questa prospettiva, come l’esperienza di abiezione estrema e di incomparabile miseria che accompagna il senso di sé nel recedere della energia di oggettivazione su tutto il possibile orizzonte formale.
Il rischio radicale della perdita della presenza è segnalato — almeno sin quando la presenza resiste — a una reazione totale che è l’angoscia. Se depuriam[...]
[...]na storia umana. Pertanto quando si afferma che l’angoscia non è mai di qualche cosa, ma di nulla, la proposizione è accettabile, ma soltanto nel senso che qui non è in gioco la perdita di questo o di quello, ma della stessa possibilità del quale come energia formale determinatrice di ogni questo o quello: e tale perdita non è il nonessere, ma il nonesserci, l’annientarsi della presenza, la catastrofe della vita culturale e della storia umana. E infine: l’angoscia è esperienza della colpa, perché la caduta della energia di oggettivazione è, come si è detto, la colpa per eccellenza, che chiude il malato in una disperata melancolia.
Nelle stesse trattazioni della psicopatologia questo carattere dell’angoscia si fa luce talora vincendo le empirie e le superficialità della ordinaria esperienza clinica. « Il malato non ha angoscia di qualche cosa, egli è l’angoscia, senza aver coscienza né di un oggetto, né di un soggetto». «L’oggetto è l’utilizzazione ordinata dell’eccitazione, e la coscienza dell’io è il completamento necessario della cosci[...]
[...]iente per avvertire il profilarsi della crisi. Uno schizofrenico di Arieti si rendeva conto, con crescente ansietà, che insormontabili difficoltà si opponevano alla sua azione: ogni movimento che si apprestava a compiere gli si confi58
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gurava come rischiosa possibilità di compiere un atto nocivo o inefficace, e pertanto questo malato, dominato dall’angoscia, preferiva non mangiare, non vestirsi, non lavarsi, per ridursi infine alla immobilità assoluta dello stupore catatonico (10). Il carattere estremamente contradditorio e irrisolvente di tale reazione è che l’assenza delle esperienze estatiche connesse alla vita magicoreligiosa della storia culturale umana: l’assenza dello stupore è infatti sulla linea di quella stessa perdita della presenza che costituisce il rischio della malattia, e la clamorosa contradizione del «farsi assente per terrore dell’azione» può metter capo soltanto al nuovo e più grave sintomo morboso del blocco spasmodico della volontà. Il secondo modo della destorificazione irrelativa della crisi[...]
[...]uova uccisione operata su altri, o con l’insorgenza di un indiscriminato furore distruttivo; l’interiorizzazione del morto mercè dell’appropriarsi della sua opera per continuarla ed accrescerla si può degradare nella incorporazione materiale della necrofagia o della fame insaziabile; il compito di instaurare con colui che non è più un nuovo rapporto affettivo alimentato da una benefica memoria può cedere il luogo all’erotismo della necrofilia; e infine la esigenza di una ripresa formale in genere può dar luogo soltanto a modi meramente vitali di recuperare, con l’esaltazione di impulsi aggressivi, o alimentari o erotici. In tutti questi casi lo scacco del trascendimento è palese: si cerca la scelta oltrepassante secondo valore e si trova invece la contraffazione del compito formale sul piano improprio della vitalità, si tenta di svolgere l’ethos del trascendimento ed invece si mette in moto il furore, la fame e la libidine.
Un’altra serie di sintomi di crisi si riferisce più particolarmente al centro della situazione luttuosa, cioè al ca[...]
[...]asta impigliata e prigioniera, onde torna a riproporsi in modo inautentico nella estraneità e nella indominabilità della rappresentazione ossessiva o della allucinazione. Il cadavere è « ambivalente », si dibatte per i sopravvissuti nella infeconda polarità di repulsione e attrazione: infatti il suo scandalo respinge in quanto centro di crisi e di dispersione, ma al tempo stesso comanda perentoriamente il rapporto, in una vicenda irrisolvente. E infine la stessa attrazione, nella carenza della decisione formale, finisce col convertirsi nella esperienza del cadavere che malignamente « attira a sè i vivi » : infatti il cadavere, come oggetto in crisi, non soltanto non mantiene le distanze rispetto agli altri oggetti, ma non rispetta neanche la distanza rispetto alla presenza, e incombe su di essa catturandola e trascinandola via con sè, come Glauca morta il padre Cleonte, allorché esso volle sollevarsi dalla cara spoglia:PERDITA DELLA PRESENZA E CRISI DEL CORDOGLIO
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...Quando ebbe finito di piangere e di singhiozzare, volle risolleva[...]
[...] con sè, come Glauca morta il padre Cleonte, allorché esso volle sollevarsi dalla cara spoglia:PERDITA DELLA PRESENZA E CRISI DEL CORDOGLIO
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...Quando ebbe finito di piangere e di singhiozzare, volle risollevare il suo vecchio capo. Ma come l’edera ai rami d’alloro, restò preso nel peplo leggero: cercava di rimettersi in piedi, ed essa, in senso inverso, lo tratteneva. Tirava con violenza? Le sue vecchie carni si strappavano dalle ossa. Infine vi rinunciò e rese l’anima, impotente ad aver ragione della sciagura. Giacquero morti la figlia e il vecchio padre, lato a lato — catastrofe fatta per alimentare il pianto (16).
Infine la crisi della presenza in occasione del cordoglio può assumere i modi di un delirio di negazione dell’evento luttuoso: senza compiere il necessario lavoro di interiorizzazione del morto e di trascendimento delPevento luttuoso la presenza malata cerca di instaurare un comportamento come se il morto fosse ancora in vita, concentrando magari su un qualsiasi surrogato l’organizzazione del proprio delirio. In una certa misura ciò può accadere anche nel normale lavoro del cordoglio, come provano gli infiniti espedienti cui talora si ricorre per cancellare o attenuare l’asprezza dell’inaccettabile [...]
[...]i in cui il far morire ideale e interiore può scadere nell’impulso ma
(28) M. Klein, Mouming and its relations to maniedepressive states, in Contributions to Mychoanalyses 19211945, London 1948, pp. 311 sgg.80
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terialmente distruttivo, l’interiorizzazione del morto smarrirsi nel mangiare il morto, la necessità della ripresa e della liberazione degradarsi nello scoppio irrefrenabile di riso, nell’erotismo e nella fame, e infine il complesso degli scacchi del trascendimento essere avvertito come estrema abiezione e come colpa radicale. Questa critica di principio alle teorie psicoanalitiche del cordoglio ci dispensa, almeno in questa sede, dairesaminarne le singole parti e dal discutere il romanzo etnologico di Géza Roheim: a noi basti aver spinto la polemica quanto occorre per ribadire quella tradizione culturale che assegna al cordoglio il compito di trascendere nel valore la situazione luttuosa, e che interpreta la crisi come impotenza a compiere questo trascendimento.
5. Intorno a un pensiero del Croce sul cor[...]
[...]roposito: viene tessuto un cordone con i capelli del morto, e il fratello minore nel corso del rituale funerario pone uno dei capi di questo cordone in bocca ad un uomo, premendo l’altro capo sul proprio addome, dove cioè avverte l’angoscia. Quindi l’uomo morde il cordone, a significare la cessazione dell’angoscia: la stessa procedura è successivamente ripetuta per tutti i membri della comunità in lutto, prima con gli uomini, poi con la vedova e infine con le altre donne (32). Nelle lamentazioni rituali eseguite dai Paiute si ritrovano espressioni di questo tipo: « Questo era l’ultimo nostro parente. Era un uomo buono. Sia possibile per noi dimenticarlo... Addio, va alla terra dei morti, e non tornare... Abbiamo fatto del nostro meglio per curarti: non tornare a disturbarci... ». In particolare in un rito di liquidazione del periodo di lutto viene versata dell’acqua sul capo di colui che è in cordoglio, accompagnando l’atto con le seguenti parole: « Questo è l’inizio di una nuova vita per te. Acqua, lava via
i dolori e le pene di quest’u[...]
[...] Ethnography of thè Owens Volley Paiute, in « University of84
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Eppure questi dati etnologici (che potrebbero essere moltiplicati a piacere) non agevolano gran che nel compito di « continuare a pensare» il pensiero racchiuso nel passo del Croce. La nostra lontananza ideale dalle civiltà primitive, la mancanza di una documentazione diretta relativa al loro passato, il carattere equivoco dello stesso termine « primitivo » e infine i limiti inerenti alle monografie etnografiche di cui dobbiamo avvalerci quando manchi la opportunità di una ricerca personale in loco, costituiscono altrettanti ostacoli per chi volesse direttamente appoggiarsi al materiale etnologico al fine di approfondire la formulazione del Croce oltre la cerchia della civiltà cristiana e della sensibilità moderna per entro la quale essa è nata e maturata. D’altra parte approfondimenti di questo genere male cominciano col più arcaico e con l’idealmente più remoto da noi, per giungere poi sino a noi in un vano conato di storia universale, ma — al contrari[...]
[...], una lotta fra Cristianesimo e eredità del mondo antico, una lotta storica, avvenuta una sola volta, ed esattamente individuabile in senso storiografico, col risultato che il lamento cessò, per entro la civiltà cristiana, di far parte organica del rapporto fra morti e sopravvissuti, e di partecipare a un vario e importante processo di plasmazione, per scadere — anche se lentamente — a episodi relativamente secondari di circolazione culturale, e infine a relitti folklorici più o meno inerti e disgregati. D’altra parte vi è una seconda più particolare ragione che ci orienta verso il lamento funebre rituale del mondo antico, ed è il fatto che questo istituto si presenta nel quadro delle antiche civiltà mediterranee come il più adatto a consentire l’esplorazione di tutto l’arco che va dallo « strazio ■» alla oggettivazione del dolore, dalla crisi davanti al cadavere sino al riscatto culturale. Con una singolare ampiezza dinamica che ritrova continua eco nella nostra anima di uomini moderni il lamento antico ci permette di sorprendere il modo c[...]