Brano: [...]rgine formale di trascendimento: ciò significa che una presenza caduta in crisi di oggettivazione o di trascendimento passa essa stessa in luogo di far passare, perdendo se stessa nel contenuto e il contenuto in se stessa, ed entrando pertanto in una contradizione esistenziale che manifesta vari modi di profonda inautenticità. Il modo estremo è la assenza totale o la degradazione dell’ethos della presenza nella scarica meramente meccanica di energia psichica: ma vi è tutta una gamma di inautenticità esistenziali in cui si manifesta la crisi patita e non risolta. Dalla esperienza critica non decisa la presenza può riemergere vulnerata. L’ombra del passato che non è stato fatto passare si distende sul progresso del fare, spia la occasione per riproporsi: ma a cagione della interruzione che vulnera la durata della presenza non torna nella dinamica unitaria della memoria attiva e risolvente, sì bene nella estraneità irrelativa del sintomo morboso. La presenza malata si manifesta allora come presenza apparente, che sta nel presente in modo in[...]
[...]arlo: una estraneità irraggiungibile, perduta in lontananze astrali, separata da un muro di bronzo.
La crisi di oggettivazione non si riflette soltanto nelle esperienze di spersonalizzazione e di incompletezza di sé, e di fissità inconsistenza e artificialità del mondo, ma anche nella esperienza di una forza o tensione cieca in sé e nel mondo. Gli oggetti che non stanno in limiti oggettivi (riflettendo in tal modo l’alienarsi della stessa energia oggettivante della presenza) sono avvertiti qui come54
ERNESTO DE MARTINO
forze in atto di scaricarsi, come oscure tensioni spianti la più piccola occasione per frantumare le barriere che li trattengono, e per fondersi e confondersi in caotiche coinonie. Gli oggetti che « non sono più nel loro quadro » non si presentano più in questo caso con la valenza della artificialità e della lontananza, e come vulnerati da una perdita di prospettiva e di rapporto, ma si configurano piuttosto in atto di agire come potenze cieche ed estranee, che si scaricano disarticolando il reale, e incombendo m[...]
[...]Il rischio di alienazione del dominio oggettivo com
(8) Sechehaye, op. cit., p. 21.PERDITA DELLA PRESENZA E CRISI DEL CORDOGLIO
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porta l’esperienza di una disposizione maligna delle cose e degli eventi, di un « esseragitoda » che si sostituisce « all’agire su » della oggettivazione. Si apre così una vicenda di oscuri disegni e di subdole macchinazioni, di rimproveri e di accuse, di insidie e di influenze: e le cose diventano cause, non già nel senso fisico del termine, ma propri in quello giuridico di cause intentate ai danni del malato. L’alienarsi di singoli pensieri o affetti dà luogo alla interpretazione che altri li manovrino, li influenzino, li rubino, o ne siano padroni: a un grado più profondo di alienazióne si avvertono i propri pensieri in atto di staccarsi dal flusso interno del pensare, per ripetersi per loro conto, a guisa di eco psichica, sino a risuonare pubblicamente anche se non comunicati con la parola. L’alienarsi della presenza e l’esperienza immediata della impotenza di qualsiasi scelta formale si rispecchi[...]
[...]diata della impotenza di qualsiasi scelta formale si rispecchia infine subiettivamente come colpa altrettanto mostruosa quanto immotivata: si tratta infatti della colpa di non potersi motivare, che è — per essenza — radicale e senza motivo. La depressione melancolica è pertanto da interpretare, considerata in questa prospettiva, come l’esperienza di abiezione estrema e di incomparabile miseria che accompagna il senso di sé nel recedere della energia di oggettivazione su tutto il possibile orizzonte formale.
Il rischio radicale della perdita della presenza è segnalato — almeno sin quando la presenza resiste — a una reazione totale che è l’angoscia. Se depuriamo questo concetto da tutte le interpretazioni non pertinenti alimentate da determinate suggestioni metafisiche, o dalla crittogamia con la esperienza religiosa o dai vari idoleggiamenti alimentati da una inerzia morale in atto, e se al tempo stesso ci tratteniamo dal cadere nella empirica della psicopatologia corrente, troviamo come risultato che l’angoscia si determina come reazione davanti al rischio di non poter oltrepassare i suoi contenuti critici, e di sentirsi inattuale e inautentica nel presente. Ciò equivale a dire che l’angoscia è il rischio di perdere la possibilità stessa di dispiegare l’energia formale dell’esserci. L’angoscia segnala l’attentato alle radici stesse della presenza, denunzia l’alienazione di sé a sé, il precipitare della vita culturale nella vitalità56
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senza orizzonte formale. L’angoscia sottolinea il rischio di perdere la distinzione fra soggetto e oggetto, fra pensiero ed azione, tra forma e materia: e poiché nella sua crisi radicale la presenza non riesce più a farsi presente al divenire storico, e sta perdendo la potestà di esserne il senso e la norma, l’angoscia può essere interpretata come angoscia della storia, o meglio come angoscia d[...]
[...]nte al divenire storico, e sta perdendo la potestà di esserne il senso e la norma, l’angoscia può essere interpretata come angoscia della storia, o meglio come angoscia di non poter esserci in una storia umana. Pertanto quando si afferma che l’angoscia non è mai di qualche cosa, ma di nulla, la proposizione è accettabile, ma soltanto nel senso che qui non è in gioco la perdita di questo o di quello, ma della stessa possibilità del quale come energia formale determinatrice di ogni questo o quello: e tale perdita non è il nonessere, ma il nonesserci, l’annientarsi della presenza, la catastrofe della vita culturale e della storia umana. E infine: l’angoscia è esperienza della colpa, perché la caduta della energia di oggettivazione è, come si è detto, la colpa per eccellenza, che chiude il malato in una disperata melancolia.
Nelle stesse trattazioni della psicopatologia questo carattere dell’angoscia si fa luce talora vincendo le empirie e le superficialità della ordinaria esperienza clinica. « Il malato non ha angoscia di qualche cosa, egli è l’angoscia, senza aver coscienza né di un oggetto, né di un soggetto». «L’oggetto è l’utilizzazione ordinata dell’eccitazione, e la coscienza dell’io è il completamento necessario della coscienza dell’oggetto. Ma nella dilazione catastrofica dell’angoscia non vi è oggetto — e per questo l’angoscia è senza contenuto — e neanche coscienza precisa dell’io ». Ciò che il malato vive è la dilacerazione della struttura della [...]
[...] gravi la presenza ha ancora un margine sufficiente per avvertire il profilarsi della crisi. Uno schizofrenico di Arieti si rendeva conto, con crescente ansietà, che insormontabili difficoltà si opponevano alla sua azione: ogni movimento che si apprestava a compiere gli si confi58
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gurava come rischiosa possibilità di compiere un atto nocivo o inefficace, e pertanto questo malato, dominato dall’angoscia, preferiva non mangiare, non vestirsi, non lavarsi, per ridursi infine alla immobilità assoluta dello stupore catatonico (10). Il carattere estremamente contradditorio e irrisolvente di tale reazione è che l’assenza delle esperienze estatiche connesse alla vita magicoreligiosa della storia culturale umana: l’assenza dello stupore è infatti sulla linea di quella stessa perdita della presenza che costituisce il rischio della malattia, e la clamorosa contradizione del «farsi assente per terrore dell’azione» può metter capo soltanto al nuovo e più grave sintomo morboso del blocco spasmodico della volontà. Il secondo m[...]
[...]i rispondere ad esso con iniziative formalmente determinate. Nei manierismi e nelle stereotipie dell’agire la presenza in crisi si chiude in un miserabile regime di risparmio vuoto di valore: chiusa nelle rigide barriere protettive del ritualismo in quanto tale, essa « sta nell’esistenza senza starci», poiché qualunque cosa accade essa contrappone all’accadere lo stare immobile nelle proprie iterazioni.
Il rapporto col momento rituale della magia e della religione è soltanto apparente, perché nella magia e nella religione la ritualità dell’agire media, attraverso l’orizzonte mitico, una piena reintegrazione culturale, mentre le stereotipie e i cerimoniali della presenza malata, sostanzialmente chiusi nella loro vicenda privata, si esauriscono in un vuoto tecnicismo dell’assenza, e perciò non si sollevano dalla crisi di oggettivazione, ma la ribadiscono e la aggravano. Il terzo modo della destorificazione irrelativa della crisi consiste nella destorificazione per simboli protettivi, a cui affida il compito di ridischiudere l’azione. I simboli protettivi o allusivi, ansio
(10) Arieti, Interpre[...]
[...] simboli protettivi, a cui affida il compito di ridischiudere l’azione. I simboli protettivi o allusivi, ansio
(10) Arieti, Interpretation of schizophrenia, New Jork 1955, p. 126.PERDITA DELLA PRESENZA E CRISI DEL CORDOGLIO
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samente cercati o costruiti, rappresentano il conato di occultare a sè la storicità del reale, e quindi la responsabilità personale delle iniziative, in modo che il fare effettivo sia nient’altro che iterazione del già deciso e fatto su un piano metastorico. Anche i simboli protettivi, in quanto dovrebbero proteggere l’azione anticipandone il corso in un mondo a sè, non vulnerato dalla decisione personale, rappresentano, al pari del ritualismo dell’agire, un modo di « stare nella storia senza starci», e un disperato tentativo di rischiudersi
— attraverso questa miserabile frode — all’azione. Un altro malato di Arieti quando usciva di casa era indotto a dare interpretazioni di qualsiasi cosa scorgesse per via, al fine di trarne indicazioni rassicuranti sulla non rischiosità della direzione da seguire. Se [...]
[...]i che ne abbiamo acquistato, ci fanno molto più preparati a superare i momenti critici dell’esistenza, patendo senza dubbio il rischio, ma non più nei modi così estremi che nelle civiltà primitive e nel mondo antico minacciano di continuo la vita dei singoli e quella della comunità. Infatti nelle civiltà primitive e nel mondo antico il rischio della presenza assume una gravità, una frequenza e una diffusione tali da obbligare la civiltà a fronteggiarlo per salvare se stessa. Nelle civiltà primitive e nel mondo antico una parte considerevole della coerenza tecnica dell’uomo non è impiegata nel dominio tecnico della natura (dove del resto trova applicazioni limitate), ma nella creazione di forme istituzionali atte a proteggere la presenza dal rischio di non esserci nel mondo. Ora la esigenza di questa protezione tecnica costituisce la origine della vita religiosa come ordine miticorituale.
Già vedemmo come il rischio della presenza sia essenzialmente costituito da una destorificazione irrelativa che si manifesta in vari modi di inautent[...]
[...]lo per salvare se stessa. Nelle civiltà primitive e nel mondo antico una parte considerevole della coerenza tecnica dell’uomo non è impiegata nel dominio tecnico della natura (dove del resto trova applicazioni limitate), ma nella creazione di forme istituzionali atte a proteggere la presenza dal rischio di non esserci nel mondo. Ora la esigenza di questa protezione tecnica costituisce la origine della vita religiosa come ordine miticorituale.
Già vedemmo come il rischio della presenza sia essenzialmente costituito da una destorificazione irrelativa che si manifesta in vari modi di inautenticità esistenziale. Il carattere fondamentale della tecnica religiosa sta nel contrapporre a questa destorificazione irrelativa una destorificazione istituzionale del divenire, cioè una destorificazione fermata in un ordine metastorico (mito) col quale si entra in rapporto mediante un ordine metastorico di comportamenti (rito). Con ciò è offerto un orizzonte per entro il quale siPERDITA DELLA. PRESENZA E CRISI DEL CORDOGLIO
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compie la ripres[...]
[...]resenza non è più capace di mantenerla come altra, e di conservare il proprio margine rispetto ad essa, allora comincia ad apparire quel carattere «radicale» dell’alterità che è da interpretare come segnale della crisi della presenza. Anche il blinde Entsetzen è eloquente: entsetzen ha il duplice significato di « spossessare » e di « inorridire » o « essere pieno di raccapriccio », il che significa che qui si sta a consumare la perdita della energia formale, e appunto da tale spossessamento radicale nasce l’orrore caratteristico che individua la crisi. Ma il carattere dialettico del rapporto crisiripresa della esperienza del sacro è illustrata altresì dalla espressione dàmonische Scheu: infatti se l’accento batte su Scheu si ha qualche cosa di praticamente identico a un puro stato ansioso, al blinde Entsetzen patologico, mentre se l’accento batte su dàmonische allora già la ripresa comincia a fare le sue prove, sia pure in modo elementare, e l’orrore non sarà più «cieco» se almeno riesce a scorgere un’immagine organicamente inserita nel mondo storico nel quale si vive, e aperta al valore.64
ERNESTO DE MARTINO
Considerazioni analoghe possono farsi a proposito dell’altro momento polare del numinoso, il fascinans. La paradossia di questa polarità non costituisce affatto un nesso misterioso, da rivivere nella sua immediatezza, ma racchiude una trasparente dialettica: ciò che nella crisi repelle e soggioga, il tremendum dell’alienarsi e del perdersi della p[...]
[...]sciuti; l’ambivalenza religiosa invece è inserita in un movimento di ripresa e di reintegrazione, che dalla crisi si solleva al valore, e che perciò va mediamente ristabilendo col mondo storico i rapporti in pericolo. O anche: nella malattia l’ambivalenza prospetta una destorificazione irrelativa in atto, un compito di decisione e di scelta al quale si abdica, un non esserci in nessuna possibile storia umana; nella vita religiosa l’ambivalenza è già il numinoso, immagine mitica aperta al valore, rapportabile all’umano mediante il rito, inserita nella tradizione culturale: in ultima istanza è un ambivalente che va decidendo il suo valere. In un modo o nell’altro l’ambivalente religioso è incluso in un processo che ferma nella metastoria mitica l’alienazione irrelativa della crisi e che realizza la reintegrazione del divino nell’umano.
Ma il sacro manifesta la sua coerenza tecnica anche in altro modo: in quanto nesso miticorituale esso maschera il divenire storico nella iterazione rituale di modelli mitici in cui su un pianoPERDITA DEL[...]
[...]corituale che si fa mediatrice del ridischiudersi delle altre forme di coerenza culturale, dalla economia aH’ordinamento sociale, giuridico e politico, al costume, all’arte e alla scienza.
Il concetto di sacro come tecnica miticorituale che protegge la presenza dal rischio di non esserci nella storia e media il ridischiudersi di determinati orizzonti umanistici consente di considerare sotto una nuova luce la vexata quaestio del rapporto fra magia e religione. Senza dubbio ogni forma di vita religiosa, in quanto fondata sulla destorificazione miticorituale, comporta un momento tecnico insopprimibile, che ne costituisce la sfera più propriamente magica; d’altra parte la tecnica magica più rudimentale, quando sia dotata di vitalità storica e organicità culturale, non si esaurisce mai nel semplice tecnicismo, ma media e dischiude un determinato orizzonte umanistico, più o meno angusto. In tal guisa l’opportunità di considerare come magica o come religiosa una particolare forma storica del sacro dipende soltanto dal grado relativo di svilu[...]
[...]anistico, più o meno angusto. In tal guisa l’opportunità di considerare come magica o come religiosa una particolare forma storica del sacro dipende soltanto dal grado relativo di sviluppo e di complessità del processo di mediazione dei valori che in quella forma ha luogo: quando prevale il momento tecnico della destorificazione miticorituale e l’orizzonte umanistico che ne risulta è particolarmente angusto (ma non mai inesistente!) il termine magia può sembrare più appropriato, quando invece rito e mito sono profondamente permeati di valenze morali, speculative, estetiche etc. allora la designazione di religione è certamente più opportuna. In sostanza il concetto di magia ha origine nella polemica culturale, allorché si tende a negare che una certa religione enuclei valori, e se ne avverte soltanto il momento meramente tecnico: nel discorso storiografico la qualifica di magia ritiene un66
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significato legittimo solo in senso comparativo, cioè per indicare una forma di vita religiosa in cui lo sviluppo del momento tecnico è relativamente grande e l’orizzonte umanistico dischiuso relativamente angusto: il che del resto è ampiamente confermato dall’uso linguistico corrente, malgrado gli elementi di confusione che vi hanno introdotto alcuni falsi teorizzamenti della scienza e della storia delle religioni. Piuttosto è da mettere in guardia gli storici delle religioni da un altro uso linguistico, che poi racchiude a vari livelli di coscienza e d[...]
[...]e, sia che invece si volga ad impedire alla presenza di naufragare in ciò che passa senza e contro l’uomo. Sulla linea di questo secondo impiego della potenza tecnica si trova la religione, che resta definita dal carattere particolare del suo tecnicismo, cioè dalla ripresa e dalla reintegrazione umanistica dei rischi di alienazione, mediante la destorificazione miticorituale. La risoluzione tecnica della vita religiosa non è certamente nuova, se già Platone in un passo famoso del Fedone non esitava a considerare il mito delle anime dopo morte come un incantesimo per rassicurare il fanciullino che in ciascuno di noi si angoscia davanti alla morte. Tale risoluzione tecnica presenta il vantaggio di orientare lo storico verso ciò che di specificamente mitico è nel mito e di specificamente rituale è nel rito, senza cedere alla tentazione religiosa, e senza d’altra parte postulare nel sacro una irrazionalità destinata a sfuggire al pensiero storiografico come tale. Il sacro, in quanto tecnica, è coerenza umana, che il peiv siero storiografico [...]
[...]dischiude alla vita e al valore. Tuttavia questa aspra fatica può fallire: il cordoglio si manifesta allora come crisi irrisolvente, nella quale si patisce il rischio del progressivo restringersi di tutti i possibili orizzonti formali della presenza.
La crisi del cordoglio, come si è detto, appartiene alla condizione umana: tuttavia la civiltà moderna l’ha di molto ridotta di intensità e di pericolosità, fornendole il soccorso di tutta la energia morale maturata nel vario operare civile, e — per i credenti — contenendola e lenendola mercè la prospettiva delle consolanti persuasioni della religione cristiana. Nel mondo antico (per tacere naturalmente delle civiltà primitive) la crisi del cordoglio assume invece ordinariamente, sia nell’individuo che nella collettività, modi estremi che hanno riscontro nella nostra civiltà solo in casi individuali eccezionali e palesemente morbosi, e più diffusamente appena in quelle poche aree folkloriche che per certi aspetti riproducono ancora condizioni di esistenza in qualche modo simili a quelle d[...]
[...]i individuali eccezionali e palesemente morbosi, e più diffusamente appena in quelle poche aree folkloriche che per certi aspetti riproducono ancora condizioni di esistenza in qualche modo simili a quelle del mondo antico. Così ove prescindano dalla risoluzione poetica di Omero, la crisi di Achille per la morte di Patroclo si manifesta
(12) Sul concetto di sacro, vita religiosa, destorificazione miticorituale, e sui rapporti fra religione e magia, e fra religione e storiografia religiosa ci permettiamo rinviare alle nostre due monografie Crisi della presenza e reintegrazione religiosa, in « AutAut », 1955, n. 31 e Irrazionalismo e storicismo nella storia delle religioni in « Studi e Materiali di Storia delle Religioni», XXVIII, 1957, fase. I, pp. 89 sgg.PERDITA DELLA PRESENZA E CRISI DEL CORDOGLIO
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in modi « eccessivi » che noi oggi non saremmo disposti a concedere a un uomo « normale », e che possiamo al più tollerare con varia disposizione d’animo nelle contadine dell’Italia meridionale o della penisola balcanica. Tuttavia [...]
[...]nica. Tuttavia noi qui dobbiamo analizzare proprio i modi « eccessivi » della crisi del cordoglio, cioè il rischio che essa comporta quando tocca per così dire il fondo.
Quando la caduta della potenza oltrepassante consuma sino in fondo il suo rischio, la contradizione esistenziale in cui la presenza si irretisce assume il modo estremo della assenza totale e della degradazione dell’ethos della presenza nella scarica meramente meccanica di energia psichica. In generale la situazione luttuosa è tale solo nell’atto o nel tentativo del trascendimento formale, e d’altra parte la presenza si distacca da questa situazione, e si costituisce come presenza, nella misura in cui va dispiegando lo sforzo del trascendimento. Ciò significa che nel crollo completo della potenza oltrepassante la situazione luttuosa si rescinde e scompare per la presenza, la presenza dilegua nel contenuto critico che non riesce a gettare davanti a sè come « oggetto » qualificato, e lo ethos del trascendimento si va annientando nel meccanismo convulsivo. Di tale assenza[...]
[...]ico di una miseria
o anche di una colpa smisurate che può ricevere nella coscienza varie motivazioni fittizie, ma che in realtà nasce dalla esperienza critica di non potersi dare nessuna motivazione reale secondo valore, e di chiudersi nella situazione invece di oltrepassarla. Appena un po’ al di qua di questa irrisolvente polarità di ebetudine e di planctus sta la sgomenta coscienza di essere immerso in tale polarità e di non poterla padroneggiare. Al senso angoscioso del duplice rischio di cadere nell’ àfZYjxavta o nel caotico jcotcstóc, si ispirano le parole di Admeto al ritorno dei funerali di Alcesti: « Ahimè, ahi ahi, / Dove andare? Dove stare? / Che dire? Che tacere? / Come morire?...» (14). Del pari nelle Troiane Ecuba che giace a terra an
(14) Eur., Ale., vv. 861864.PERDITA DELLA PRESENZA E CRISI DEL CORDOGLIO
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nientata, prima di inaugurare la lamentazione pronunzia analoghe parole di smarrimento: «Che debbo tacere? / Che cosa non tacere? / Su che lamentarmi...» (15).
Nella carenza della energia formale della presenza i tentativi di ripresa si risolvono in vani conati, in trascendimenti impropri, in cui la vitalità prevarica la funzione formale che non le può mai spettare: così il «far morire i morti in noi», che è un faticoso processo interiore e ideale, si può manifestare nella modalità più impropria, cioè nella aggressività contro il cadavere, o nel bisogno di vendicare il morto con una nuova uccisione operata su altri, o con l’insorgenza di un indiscriminato furore distruttivo; l’interiorizzazione del morto mercè dell’appropriarsi della sua opera per continuarla ed accrescerla si[...]
[...] in noi», che è un faticoso processo interiore e ideale, si può manifestare nella modalità più impropria, cioè nella aggressività contro il cadavere, o nel bisogno di vendicare il morto con una nuova uccisione operata su altri, o con l’insorgenza di un indiscriminato furore distruttivo; l’interiorizzazione del morto mercè dell’appropriarsi della sua opera per continuarla ed accrescerla si può degradare nella incorporazione materiale della necrofagia o della fame insaziabile; il compito di instaurare con colui che non è più un nuovo rapporto affettivo alimentato da una benefica memoria può cedere il luogo all’erotismo della necrofilia; e infine la esigenza di una ripresa formale in genere può dar luogo soltanto a modi meramente vitali di recuperare, con l’esaltazione di impulsi aggressivi, o alimentari o erotici. In tutti questi casi lo scacco del trascendimento è palese: si cerca la scelta oltrepassante secondo valore e si trova invece la contraffazione del compito formale sul piano improprio della vitalità, si tenta di svolgere l’ethos [...]
[...]straneità radicale » : infatti esso tende a sottrarsi alla potenza formale, e il suo « oltre » —> che solo per entro il rapporto formale si determina — sta diventando « vuoto ». Il cadavere appare una « forza » : infatti, per mancanza di determinazione, i suoi limiti sono entrati in travaglio, e vanno forzandoci rapporto senza trovarlo. Il cadavere è una forza «ostile»: infatti esso, come oggetto in crisi, rispecchia l’alienarsi della stessa energia oggettivante, il che è l’ostile ed il funesto per eccellenza. Il cadavere «contagia»: infatti, nel suo andar oltre irrelativo e senza soluzione, comunica caoticamente il proprio vuoto ad altri ambiti del reale, e al tempo stesso i più disparati ambiti del reale, con progressione minacciosa, spiano l’occasione più accidentale per farsi simbolici rispetto al cadavere, e per ripeterlo in una eco multipla senza fine. Il cadavere « torna come spettro » : infatti esso sta nella crisi dei sopravvissuti come contenuto in cui la presenza è rimasta impigliata e prigioniera, onde torna a riproporsi in modo inautentico nella estraneità e nella indominabilità della rappresentazione osses[...]
[...]alla cara spoglia:PERDITA DELLA PRESENZA E CRISI DEL CORDOGLIO
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...Quando ebbe finito di piangere e di singhiozzare, volle risollevare il suo vecchio capo. Ma come l’edera ai rami d’alloro, restò preso nel peplo leggero: cercava di rimettersi in piedi, ed essa, in senso inverso, lo tratteneva. Tirava con violenza? Le sue vecchie carni si strappavano dalle ossa. Infine vi rinunciò e rese l’anima, impotente ad aver ragione della sciagura. Giacquero morti la figlia e il vecchio padre, lato a lato — catastrofe fatta per alimentare il pianto (16).
Infine la crisi della presenza in occasione del cordoglio può assumere i modi di un delirio di negazione dell’evento luttuoso: senza compiere il necessario lavoro di interiorizzazione del morto e di trascendimento delPevento luttuoso la presenza malata cerca di instaurare un comportamento come se il morto fosse ancora in vita, concentrando magari su un qualsiasi surrogato l’organizzazione del proprio delirio. In una certa misura ciò può accadere anche nel normale lavoro del cordoglio, co[...]
[...]nto come strumenti di distacco e di risoluzione, e quindi come tecniche di riadattamento alla realtà storica, che alla fine sarà accettata e riconosciuta con la rinuncia ad altro che non sia un dolce e benefico ricordo velato di mestizia. Al contrario nei patologici deliri di negazione ciò che dovrebbe funzionare come strumento tecnico di riadattamento diventa centro di organizzazione di tutta la vita psichica, inerzia e pigrizia in cui ci si adagia, argomento di progressivo distacco dalla realtà; e ancorché può sembrare che talora si tratti degli stessi espedienti adoperati nel lavoro efficace, la considerazione della dinamica in cui sono inseriti ci rende avvertiti che il segno nei due casi è opposto, e che i valori della vita umana nel primo caso si stanno drammaticamente ridischiudendo, e nel secondo si stanno dileguando. In un’ultima istanza in questi deliri di negazione si avverte che la presenza non ri
(16) Bue., Medea, 12051220.74
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solve la situazione luttuosa, ma semplicemente l’ha perduta, e non vi spe[...]
[...]nto luttuoso rescisso tornava, con le memorie relative, nel corso di crisi periodiche in cui la malata minava le scene obliate come se ancora si trovasse a viverle, cioè come se appartenessero al presente e non al passato: poi, conclusa la crisi che aveva bruscamente interrotto la vita psichica, le scene e la situazione luttuosa erano di nuovo dimenticate (17).
4. Di alcune teorie psicologiche sul cordoglio.
Nel complesso la moderna psicologia non ha dedicato alla crisi del cordoglio tutta l’attenzione che sarebbe stata desiderabile, in parte perché nel mondo moderno la crisi del cordoglio non presenta aspetti così pericolosi come nel mondo antico (per tacere delle civiltà primitive), ed in parte perché è sembrato che l’evento luttuoso come tale non giustifichi una considerazione psicologicamente unitaria, potendo occasionare a seconda delle disposizioni individuali le più diverse nevrosi o psicosi. Tuttavia la moderna psicocologia ha talora toccato il problema del cordoglio e delle reazioni anormali alla morte della persona cara. [...]
[...]ta l’attenzione che sarebbe stata desiderabile, in parte perché nel mondo moderno la crisi del cordoglio non presenta aspetti così pericolosi come nel mondo antico (per tacere delle civiltà primitive), ed in parte perché è sembrato che l’evento luttuoso come tale non giustifichi una considerazione psicologicamente unitaria, potendo occasionare a seconda delle disposizioni individuali le più diverse nevrosi o psicosi. Tuttavia la moderna psicocologia ha talora toccato il problema del cordoglio e delle reazioni anormali alla morte della persona cara. Pierre Janet interpreta
(17) La descrizione del caso si trova in P. Janet, L’état meritai des hystérìques, 19233, pp. 55 sg.PERDITA DELLA PRESENZA E CRISI DEL CORDOGLIO
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la crisi del cordoglio come il prodotto della necessità di sopprimere un certo numero di condotte ormai non più impiegabili verso la persona morta, e di instaurare nuovi comportamenti che tengano conto del fatto della morte: ora questa soppressione e questa instaurazione comporterebbero un lavoro, che può non riusc[...]
[...]quantitativo, ma qualitativo, cioè concerne l’effettivo « passare nel valore » che si compie attraverso il cordoglio come lavoro: e qualsiasi ritardo non sarà mai eccessivo né qualsiasi anticipo prematuro (cioè non si tratterà né di ritardo né di anticipo, ma semplicemente del tempo giusto) se l’uno o l’altro ridischiuderanno gradualmente il vario operare culturale compromesso dalla crisi. D’altra parte proprio il Janet, a proposito della malata già precedentemente ricordata, e nel tentativo di spiegarne il comportamento patologico che abbiamo sommariamente descritto, mette in rilievo come il tratto morboso più saliente fosse l’arresto della personalità alla situazione luttuosa, e la successiva incapacità di « accrescersi per raggiunzione e assimilazione di elementi nuovi » (19): il che significa che la crisi del cor
(18) P. Janet, De Vangoisse à Vextase, II, 1928, p. 350, 367; cfr. p. 281.
(19) P. Janet, L'état mentale des hystériques, 1931, p. 82.76
ERNESTO DE MARTINO
doglio è tale nella misura in cui spezza la « durata » de[...]
[...]ra il cordoglio e la melancolia per il fatto che « mentre nel cordoglio è il mondo ad essere povero e vuoto, nella melancolia lo è l’io stesso» (20). Una seconda differenza starebbe nel fatto che mentre il cordoglio si riferisce « alla perdita cosciente di un oggetto amato » la melancolia è in rapporto con una perdita «che si sottrae in qualche modo alla coscienza» (21). Ciò posto il lavoro compiuto dal lutto consisterebbe nel distacco della energia libidica dall’oggetto perduto, e nel reimpiego di tale energia per nuovi investimenti: ora il distacco e il reimpiego possono non riuscire, e la libido può restar legata al vecchio oggetto, che più non esiste, determinando una separazione della realtà e una psicosi allucinatoria del desiderio (22). Nella melancolia invece la perdita dell’oggetto amato (che non è necessariamente una morte fisica, ma in generale una impossibilità di fatto di continuare il rapporto con l’oggetto amato) costringe la libido ad abbandonare l’oggetto, e a ritirarsi nell’io: qui però, in mancanza di impiego, la libido toglie a suo oggetto l’io stesso, con la conseguenza che la p[...]
[...] cit., p. 537.
(23) Freud, Op. cit., p. 542.PERDITA DELLA PRESENZA E CRISI DEL CORDOGLIO
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e di svalutazione si svolge nell’inconscio, finché le cariche libidiche, al termine rei processo, ridiventano libere dando luogo all’accesso di mania (24). Questa prima interpretazione del Freud subì successivamente alcune modificazioni, nel senso che le differenze fra cordoglio e malincolia furono in parte attenuate e in parte diversamente atteggiate. Fu osservato che anche nel cordoglio, al pari che nella melancolia, aveva luogo la identificazione con l’oggetto amato e perduto, come quando i sopravvissuti riproducono — nel gesto, nella inflessione della voce, nell’uso di determinate frasi e simili — particolarità anche minime del comportamento che già appartennero al defunto: tali identificazioni sono da interpretarsi come forme di consolazione della perdita patita, o anche come utilizzazione narcisistica della libido oggettuale rimasta libera da impiego (25). Tuttavia nella melancolia la persona appare integralmente padroneggiata dalla identificazione dell’io con l’oggetto amato e perduto, senza che alla coscienza emerga che cosa propriamente fu perduto nel mondo oggettivo, mentre nel cordoglio
— a meno di ima sua degenerazione melancolica — non è mai del tutto smarrito il rapporto cosciente con l’oggetto, e l’identificazione immediata col morto ritiene una importanza relativamente limitata (26). Un ulteriore sviluppo della teoria psicoanalitica del cordoglio fu determinata dalla considerazione dei rituali funerari delle cosiddette civiltà primitive, e anche di quelli del mondo antico (per tacere dei relitti folk[...]
[...]ioni che hanno luogo durante la crisi del cordoglio, e che si manifestano con particolare evidenza nei rituali del mondo primitivo e di quello antico, dovevano essere con tutta probabilità ricondotte allo stesso processo di identificazione (o di «introiezione »). A questo punto venne in soccorso del Roheim la famosa teoria freudiana dell’Urvater ucciso e divorato dai figli gelosi, misfatto che avrebbe inaugurato la storia dell’umanità. Avendo mangiato il padre, il conflitto esterno fu «interiorizzato» nei parricidi: « qualcosa in loro era divenuto padre », dando luogo a un conflitto endopsichico fra «io ideale» e «io attuale», e quindi a una fase di depressione melancolica, con relative autoaccuse e autoflagellazioni. Il conflitto fu sciolto mercé la sua proiezione all’esterno, cioè dando sfogo alle tendenze parricide che continuavano ad operare, ma volgendole a un oggetto surrogato, cioè al nemico, che era mangiato e divorato in una spedizione guerresca. La fase maniacale chiudeva così la fase melancolica, proprio come nella psicosi man[...]
[...]itto esterno fu «interiorizzato» nei parricidi: « qualcosa in loro era divenuto padre », dando luogo a un conflitto endopsichico fra «io ideale» e «io attuale», e quindi a una fase di depressione melancolica, con relative autoaccuse e autoflagellazioni. Il conflitto fu sciolto mercé la sua proiezione all’esterno, cioè dando sfogo alle tendenze parricide che continuavano ad operare, ma volgendole a un oggetto surrogato, cioè al nemico, che era mangiato e divorato in una spedizione guerresca. La fase maniacale chiudeva così la fase melancolica, proprio come nella psicosi maniacodepressiva: e i rituali funerari primitivi sembravano ad ogni morte ripetere questa vicenda, sia pure in forma abbreviata, poiché il periodo di lutto si chiudeva in essi molto spesso con una spedizione di « vendetta », o con un’orgia sessuale o alimentare. Allo stesso modo la zoofobia e il totemismo sarebbero stati un altro modo di proiettare all’esterno, in questo caso sull’animale, il conflitto interno (27).
Più recentemente Melarne Klein ha ripreso il problema del cordoglio al di fuori delle istanze prevalentemente etnologiche che
(27) Geza Roheim, Nach dem Tode des Urvarter, in « Imago », IX (1923), pp. 83 sgg.PERDITA DELLA PRESENZA E CRISI DEL CORDOGLIO
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avevano indotto il Roheim a formulare la sua interpretazione. Per la Klein ogni lutto rinnova in generale il bisogno di restaurare dentro di sé la per[...]
[...]centemente Melarne Klein ha ripreso il problema del cordoglio al di fuori delle istanze prevalentemente etnologiche che
(27) Geza Roheim, Nach dem Tode des Urvarter, in « Imago », IX (1923), pp. 83 sgg.PERDITA DELLA PRESENZA E CRISI DEL CORDOGLIO
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avevano indotto il Roheim a formulare la sua interpretazione. Per la Klein ogni lutto rinnova in generale il bisogno di restaurare dentro di sé la persona amata e perduta, così come avevano già detto il Freud e l’Abraham: ma al tempo stesso ogni lutto mette in pericolo gli oggetti amati per primi — in ultima analisi i « buoni genitori » — e pertanto obbliga a restaurare in sé anche il mondo interno, che sta perdendo il suo equilibrio e sta andando in rovina. Il cordoglio è un lavoro che provvede a questa duplice restaurazione: ma vi provvede riattivando e ripetendo — sebbene in diverse circostanze e con diverse manifestazioni — gli stessi processi maniacodepressivi che sono propri dell’epoca infantile. Il lavoro del cordoglio non riesce quando la persona non ha potuto stabilire nell[...]
[...]quilibrio e sta andando in rovina. Il cordoglio è un lavoro che provvede a questa duplice restaurazione: ma vi provvede riattivando e ripetendo — sebbene in diverse circostanze e con diverse manifestazioni — gli stessi processi maniacodepressivi che sono propri dell’epoca infantile. Il lavoro del cordoglio non riesce quando la persona non ha potuto stabilire nella sua infanzia i suoi interni « buoni oggetti », e affronta perciò l’evento luttuoso già in condizioni di insicurezza e di squilibrio interni (28).
Le teorie psicoanalitiche del cordoglio hanno in comune il limite fondamentale di restare essenzialmente al di fuori della grande tradizione culturale che riconduce il lavoro del cordoglio al « far morire i nostri morti in noi», cioè al far passare i morti nel valore, trascendendo con ciò la situazione luttuosa. La vicenda della «libido oggettuale» che nel cordoglio sarebbe impegnata a distaccarsi dalPoggetto perduto e ad impiegarsi in un nuovo oggetto parrebbe adombrare in qualche modo ciò che abbiamo chiamato « trascendimento del[...]
[...]ul piano meramente vitale e in una vicenda impropria e irrisolvente, i compiti ai quali l’ethos del trascendimento sta venendo meno: una crisi in cui il far morire ideale e interiore può scadere nell’impulso ma
(28) M. Klein, Mouming and its relations to maniedepressive states, in Contributions to Mychoanalyses 19211945, London 1948, pp. 311 sgg.80
ERNESTO DE MARTINO
terialmente distruttivo, l’interiorizzazione del morto smarrirsi nel mangiare il morto, la necessità della ripresa e della liberazione degradarsi nello scoppio irrefrenabile di riso, nell’erotismo e nella fame, e infine il complesso degli scacchi del trascendimento essere avvertito come estrema abiezione e come colpa radicale. Questa critica di principio alle teorie psicoanalitiche del cordoglio ci dispensa, almeno in questa sede, dairesaminarne le singole parti e dal discutere il romanzo etnologico di Géza Roheim: a noi basti aver spinto la polemica quanto occorre per ribadire quella tradizione culturale che assegna al cordoglio il compito di trascendere nel valore [...]
[...]he vogliamo dimenticare e dimentichiamo... Nel suo primo stadio, il dolore è follia o quasi: si è in preda a impeti che, se perdurassero, si conformerebbero in azioni come quelle di Giovanna la Pazza. Si vuol revocare l'irrevocabile, chiamare chi non può rispondere, sentire il tocco della mano che ci è sfuggita per sempre', vedere il lampo di quegli occhi che più non ci sorrideranno e dei quali la morte ha velato di tristezza tutti i sorrisi che già lampeggiarono. E noi abbiamo rimorso dì vivere, ci sembra di rubare qualcosa che è di proprietà altrui, vorremmo morire con i nostri morti: codesti sentimenti, chi non li ha, purtroppo, sofferti o amaramentePERDITA DELLA PRESENZA E CRISI DEL CORDOGLIO
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assaggiati? La diversità o la varia eccellenza del lavoro differenzia gli uomini: l’amore e il dolore li accomuna; e tutti piangono ad un modo. Ma con l’esprimere il dolore, nelle varie forme di celebrazione e culto dei morti, si supera lo strazio, rendendolo oggettivo. Così cercando che i morti non siano morti, cominciamo a farli effettivamente morire in noi. Né diversamente accade nell’altro modo col quale ci proponiamo di farli vivere ancora, che è il continuare l’opera a cui essi lavorarono, e che è rimasta interrotta... (29).
In effetti questo passo del Croce racchiude una esattissima e umanis[...]
[...]li « si supera lo strazio, rendendolo oggettivo», cioè si avvia l’aspra fatica di far morire i nostri morti in noi. Questo acuto — per quanto occasionale — pensiero del Croce merita di essere svolto e approfondito nella concretezza di una ricerca storicoreligiosa. Nel formulare tale pensiero il Croce aveva presente soprattutto la forma cristiana del culto dei morti, e in sostanza spingeva al suo compimento il motivo di vero racchiuso nella ideologia funeraria nata sotto la spinta del Cristianesimo come religione. Fu infatti la religione cristiana che inaugurò il grande tema culturale di Cristo vincitore della morte, e chiamò i morti dormienti in attesa di risveglio, e insegnò agli uomini a non temere il defunto come larva, potenziando al massimo Pethos della « cara memoria » : e per quanto questo ethos vivesse per entro il mito in un al di là metastorico, e non già ancora si fosse sollevato al pensiero dell’a/ di là dell’opera umana, da dispiegare senza sosta nella storia per vincere il nonessere perennemente risorgente, innegabilmente da quel mito si svolse questo pensiero, per filiazione diretta e secondo itinerari culturali dimostrabili. D’altra parte la interpretazione del Croce non vale soltanto per la civiltà cristiana, e per il cristiano culto dei morti, ma può essere estesa a tutte le possibili civiltà religiose. Anzi la più sicura conferma della sostanziale verità della formulazione del Croce sembra provenire addirittura dalle cosiddette civilt[...]
[...]are a pensare» il pensiero racchiuso nel passo del Croce. La nostra lontananza ideale dalle civiltà primitive, la mancanza di una documentazione diretta relativa al loro passato, il carattere equivoco dello stesso termine « primitivo » e infine i limiti inerenti alle monografie etnografiche di cui dobbiamo avvalerci quando manchi la opportunità di una ricerca personale in loco, costituiscono altrettanti ostacoli per chi volesse direttamente appoggiarsi al materiale etnologico al fine di approfondire la formulazione del Croce oltre la cerchia della civiltà cristiana e della sensibilità moderna per entro la quale essa è nata e maturata. D’altra parte approfondimenti di questo genere male cominciano col più arcaico e con l’idealmente più remoto da noi, per giungere poi sino a noi in un vano conato di storia universale, ma — al contrario — debbono partire dal certo e dal vero della nostra attuale consapevolezza storiografica per allargarsi nella direzione di quel passato culturale più prossimo dal quale la civiltà alla quale apparteniamo è n[...]
[...]ione polemica: in tale polemica noi siamo ancora in un certo senso impegnati, e ne portiamo il documento interno nelle nostre persuasioni e nei nostri comportamenti, nelle nostre avversioni e nelle nostre preferenze. Si tratta di un passaggio avvenuto una sola volta nella storia, e che vive nella nostra coscienza culturale come conflitto fra cristianesimo e paganesimo, e in particolare — per l’argomento che qui ci interessa — come urto fra ideologia cristiana e ideologia pagana della morte. Per questa polemica creatrice e per questo passaggio avvenuto una sola volta nella storia, le civiltà del mondo antico — per varie che siano — possono essere considerate come una unità storiografica vivente, come l’altro da cui noi siamo nati. Nel quadro di queste considerazioni si spiega perché la nostra scelta è caduta sui rituali funebri del mondo antico, e sulle figurazioni mitiche che vi si ricollegano. Tuttavia al fine di una maggiore individuazione storiografica ci è sembrata necessaria una ulteriore delimitazione dell’argomento. Fra i vari momenti degli antichi rit[...]
[...]nferma che il pianto rituale rappresenta nel mondo antico non soltanto un importante momento dei rituali funebri, ma proprio il tema centrale di quel particolare saper piangere davanti alla morte che fu proprio delle civiltà religiose mediterranee. La crisi decisiva di questo istituto culturale fu inaugurata col Cristianesimo: il quale su tutta l’area della sua diffusione si scontrò col lamento funebre e aspramente lo combatte, respingendolo non già nei suoi eccessi parossistici o per ragioni suntuarie — come era già avvenuto nel mondo antico —, ma proprio sul terreno religioso e in quanto costume pagano antitetico alla ideologia cristiana della morte. Si ingaggiò così, anche per tale ambito circoscritto, una lotta fra Cristianesimo e eredità del mondo antico, una lotta storica, avvenuta una sola volta, ed esattamente individuabile in senso storiografico, col risultato che il lamento cessò, per entro la civiltà cristiana, di far parte organica del rapporto fra morti e sopravvissuti, e di partecipare a un vario e importante processo di plasmazione, per scadere — anche se lentamente — a episodi relativamente secondari di circolazione culturale, e infine a relitti folklorici più o meno inerti e disgregati. D’altra parte [...]
[...]mentazione pagana, il Nuovo Testamento non conosce un pianto di Maria. In Giovanni 19. 2527 Maria appare alla croce come muta spettatrice, e l’evangelista non pone sulla sua bocca nessuna espressione di dolore: Maria madre di Gesù, Maria di Cleopha e Maria Maddalena vi sono rappresentate in atto di stare davanti alla croce, chiuse in un patire interiore e raccolto, che guadagna in singolare efficacia etica proprio per il fatto che non appena scorgiamo nello scenario della Passione il disegnarsi di queste tre ombre silenziose e immobili. Tutta una tradizione si ricollega a questo interiore patire, cui Ambrogio contendeva anche lo sfogo delle lacrime (stantem illam lego, flentem non lego) (35), e che nella sequenza dello Stabat Mater si ravviva e umanizza in un contemplare velato di lacrime: Stabat Mater dolorosa / iuxta crucem lacrymosa / dum pendebat filius: / cuius animam gementem, / contristatam et dolentem / pertransivit gladius (36).
Sulla linea di questa tradizione non troverebbe posto, a stretto rigore, la rappresentazione dramm[...]
[...]mimica definita e un discorso contesto di moduli, ma soltanto il lirismo religiosamente impegnato del credente che alla Mater Dolorosa chiede la mediazione per aprirsi alla passione di Cristo e per morire con Cristo al peccato: fac me tecum piangere, fac ut portem Christi mortem, come si legge nella sequenza dello Stabat. Ma questo altissimo modello del dolore cristiano non poteva operare realmente nella storia e svolgervi la sua effettiva pedagogia dell’umano cordoglio se non avesse saputo rag
(35) Ambbr., De obìtu Valent., 39 CSEL 73, p. 348 Faller.
(36) Sullo Stabat resta fondamentale il lavoro di C. Ermini, Lo Stabat Mater e il pianto della Vergine nella lirica del Media Evo, 1916.88
ERNESTO DE MARTINO
giungere sul piano terreno la crisi che nel cordoglio sta come rischio, e se non avesse assorbito e trasfigurato le tecniche pagane di controllo e di reintegrazione. Solo raggiungendo questo piano il modello mariano del dolore poteva trascinare i dolenti verso la nuova meta religiosa e culturale, e non importa se esso doveva[...]
[...]egrazione. Solo raggiungendo questo piano il modello mariano del dolore poteva trascinare i dolenti verso la nuova meta religiosa e culturale, e non importa se esso doveva affrontare tutti i rischi del compromesso, del sincretismo e del ritorno al passato. Qui sta il germe della profonda necessità storica degli sviluppi drammatici del planctus Mariae. Negli apocrifi Acta Pilati (che risalgono alla prima metà del quinto secolo) il pianto di Maria già tende a riassorbire e a trasfigurare sul pianto cristiano le forme esterne dell’antico lamento funebre rituale, con i suoi momenti dell’assenza, del planctus risolto in una mimica tradizionale e del discorso della lamentazione. Alla vista del figlio coronato di spine e con le mani legate, Maria perde coscienza e giace esamine a terra per lungo tempo, quindi tornata in sé entra nella vicenda della lamentazione, percuotendosi il petto e graffiandosi le guance con le unghie e innalzando un lamento che in più punti ricorda, per il suo contenuto, una comune lamentazione pagana resa da madre a figlio (37). Nella tragedia cristiana Christòs pàschon, attribuita a Gregorio di Nazianzo ma in realtà molto più tarda, Maria alterna lamenti di pagana ribellione con la coscienza di piangere non già il Cristo, ma il peccato di coloro che
lo conducono alla croce. Altrove essa proclama di star salda nella fede della ri[...]
[...]ungo tempo, quindi tornata in sé entra nella vicenda della lamentazione, percuotendosi il petto e graffiandosi le guance con le unghie e innalzando un lamento che in più punti ricorda, per il suo contenuto, una comune lamentazione pagana resa da madre a figlio (37). Nella tragedia cristiana Christòs pàschon, attribuita a Gregorio di Nazianzo ma in realtà molto più tarda, Maria alterna lamenti di pagana ribellione con la coscienza di piangere non già il Cristo, ma il peccato di coloro che
lo conducono alla croce. Altrove essa proclama di star salda nella fede della risurrezione, e annunzia che i suoi lamenti avranno termine quando vedrà risorto colui che ora è in preda alla morte. Davanti al sepolcro del figlio, pur continuando il lamento Maria esorta le donne di Galilea a non lamentare la morte di Cristo, poiché nella prospettiva delle risurrezione è ormai compiuta l’epoca degli antichi lamenti funebri:
Come piangerò, come esprimerò il mio dolore per la tua morte? O voi che lasciaste la terra di Galilea, o mie compagne cui, ignare [...]
[...]do vedrà risorto colui che ora è in preda alla morte. Davanti al sepolcro del figlio, pur continuando il lamento Maria esorta le donne di Galilea a non lamentare la morte di Cristo, poiché nella prospettiva delle risurrezione è ormai compiuta l’epoca degli antichi lamenti funebri:
Come piangerò, come esprimerò il mio dolore per la tua morte? O voi che lasciaste la terra di Galilea, o mie compagne cui, ignare dei misteri, attrasse Gesù che ora giace nella tomba, non intonate i soliti lamenti, ma pian
(37) Si vedano gli Acta Pilati nella edizione del Vannutelli, Roma 1938. Le lamentazioni sono più brevi in Acta Pilati A e B, più lunghe in C. Per alcune lamentazioni tralasciate dal Vannutelli, cfr. la edizione del Tischendorf, p. 306.PERDITA DELLA PRESENZA E CRISI DEL CORDOGLIO
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getelo con un sommesso pianto: con lieti canti lo celebrerete quando tornerà, re della vita, affinchè si avveri la mia sicura speranza (38).
Come noto il Christòs pàschon è in parte un centone di versi di Eschilo, di Licofrone e di Euripide, ed ha un[...]
[...] incline a ricadere nei modi della lamentazione pagana. In questo quadro noi ora comprendiamo meglio come le Passioni drammatiche medievali sembrino talora accogliere la stessa mimica della disperazione pagana, come nel planctus della Cattedrale di Cividale del Friuli:
(38) Per il Chnstos Paschon è da vedere l’edizione critica di J. G. Brahms 1896 e la traduz. it. di Ottavio Prosciutti in Teatro religioso del Medioevo fuori d'Italia a cura di Gianfranco Contini, 1949, pp. '2566. Frammenti tradotti del Christos Paschon anche in Canterella, Poeti Bizantini, II, p. 191201. Per la discussione delle quistioni relative e per la bibliografia sull’argomento cfr. C. Del Grande, Tragoidia, 1952, pp. 225 sgg., p. 322 sg.
(39) Sul rapporto, fra planctus e passione drammatica cfr. E. K. Chambers, The medieval Stage, 1903, II, p. 39 sg. e p. Young, The drama of thè medieval Church, Oxford 1933, I, p. 493.90
ERNESTO DE MARTINO
Magdalena:
(hic vertat se ad homines cum brachi) s extensis)
O fratres!
(hic ad mulieres)
Et sorores!
[...]
[...]iat suum) manes ante secula?
.........(40)
Il rapporto è ancora più evidente nei compianti in volgare. In un testo cassinese della passione che risale alla metà del secolo decimosecondo (e che quindi è il più antico fra quelli conosciuti) la vicenda drammatica in latino si chiude con un frammento di planctus in volgare, corredato di note musicali, che sarà stato cantato in coro dai fedeli, specialmente dalle donne del popolo, e che riecheggia un tema del lamento funebre di madre a figlio, il ricordo dei nove mesi di gestazione:
.... te portai nillu meu ventre
.... quando te bejo... (lo) co presente
.... nillu teu regnu agirne ammette (a mmenteP) (41)
(40) Young, op. cit.t n, p. 506 sg.
(41) D. M. Inguanez, Un dramma della passione del secolo XII, Badia di Montecassino 1936, p. 38.PERDITA DELLA PRESENZA E CRISI DEL CORDOGLIO
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Analogo rapporto può intravedersi nella più ampia ed elaborata drammatizzazione della passione inclusa nei Carmina Burana, dove alla remissione dei peccati fatta da Gesù segue — con poc[...]
[...]» il Toschi ha osservato come determinate espressioni del corrotto («Figlio, amoroso giglio», «Figlio, occhi giocondi», «Figlio di mamma scura», «Figlio de la sparita, figlio attossicato», «Figlio, a chi m’appiglio? Figlio pur m’hai lassato », « Figlio, perché t’ascondi — dal petto o’ se’ lattato ») non hanno riscontro « nelle trenodie ecclesiastiche, ma nello stile aedico e nel costume del répito o corrotto popolare», cioè «ricalcano la fraseologia dei pianti funebri che le donne del popolo cantavano, ai tempi di Jacopone, a Todi ed in tutta l’Umbria» (43).
Tuttavia quale che siano i compromessi ed i sincretismi a cui dette luogo il culto di Maria nella sua espansione, resta il fatto che dal punto di vista storicoreligioso la figura di Maria non appare ricalcata su quella della lamentatrice o della prefica del mondo antico, ancorché ne potè assumere occasionalmente alcuni tratti. Anzi proprio per assolvere la sua funzione pedagogica di Mater Dolorosa e di modello del nuovo ethos cristiano di fronte al
(42) Young, op. cit., II, p. 51[...]
[...]Maria non appare ricalcata su quella della lamentatrice o della prefica del mondo antico, ancorché ne potè assumere occasionalmente alcuni tratti. Anzi proprio per assolvere la sua funzione pedagogica di Mater Dolorosa e di modello del nuovo ethos cristiano di fronte al
(42) Young, op. cit., II, p. 518 sgg.
(43) P. Toschi, Le origini del Teatro italiano, 1955, p. 685. Per il planctus Mariae è da vedere (oltre il Chambers, l’Ermini e Io Young già citati), E. Wechssler, Die romanische Marienklage, Halle. 1893, A. Schònbach, Ueber die Marien\lagen, Graz 1874, pp. 10 sgg., H. Thien, Ueber die englischen Marien\lagen, Kiel 1906, pp. 3 sgg. Si veda anche A. Lingfors, Contribution à la bibliographie des plaintes de la Vierge in « Revue des langues romanes », IIII, 1910, pp. 5860, e il lavoro mariologico di A. M. Lepicier, Mater dolorosa. Notes d’histoire, de liturgie et d’iconographie sur le culte de Notre Dame des Doleurs, 1948. A parte i planctus Mariae sarebbero da considerare nel quadro della trasposizione cristiana dell’antico lamento [...]