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Il segmento testuale Dal è stato riconosciuto sulle nostre fonti cartacee. Questo tipo di spoglio lessicografico, registrazione dell'uso storicamente determinatosi a prescindere dall'eventuale successivo commento di indirizzo normatore, esegue il riconoscimento di ciò che stimiamo come significativo, sulla sola analisi dei segmenti testuali tra loro, senza obbligatoriamente avvalersi di vocabolarii precedentemente costituiti.
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da Paolo Alatri, Il Governo Nitti e la questione adriatica in KBD-Periodici: Nuovi Argomenti 1959 - 5 - 1 - numero 38

Brano: IL GOVERNO NITTI E LA QUESTIONE ADRIATICA (*)
Nelle sue Rivelazioni, Nitti scrisse molti anni piú tardi che quando il suo Ministero fu rovesciato, i delegati jugoslavi stavano per riprendere contatto con quelli italiani per riallacciare le trattative, interrotte esattamente un mese prima dalla crisi ministeriale italiana (1). Non pare che ciò sia de tutto esatto: il nuovo incontro non era stato ancora fissato; tuttavia é certo che se nel giugno 1920 Nitti avesse superato la crisi e fosse restato al goveron, i negoziati diretti per la soluzione della questione adriatica sarebbero stati ripresi entro breve tempo e, con ogni probabilità, portati a compimento. Giolitti, che gli succedette a capo del governo, lasciò invece passare qualche tempo prima di riprendere le trattative, che furono poi concluse il 12 novembre 1920 con la firma del Trattato di Rapallo.
L'accordo concluso da Gi[...]

[...]lia, di quello che Nitti e Scialoja stavano per raggiungere Pallanza e che avrebbero probabilmente realizzato dopo il giugno se fossero rimasti al potere: in modo particolare fu migliorata la linea di frontiera terrestre italojugoslava (2). Bisogna tener presente, da una parte che Nitti era convinto che fosse opportuno sacrificare eventualmente qualcosa alla celerità
(*) Il presente articolo riproduce alcune pagine conclusive di un ampio lavoro dallo stesso titolo di prossima pubblicazione presso l'editore Feltrinelli.
(1) FRANCESCO SAVERIO NITTI, Rivelazioni. Dramatis personae, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1948, pp. 34041.
(2) Non pare perciò fondata l'affermazione di F. S. NIrri (ibid., p. 343): « Al trattato di Rapallo segui l'accordo con la Jugoslavia: nulla era stato ottenuto che io non avessi ottenuto; anzi la situazione era stata di molto peggiorata D. Più aderente al vero RENÉ ALBRECHTCARRIÉ, Italy at Me Peace Conference, New York, Columbia University Press, 1938, p. 289, che scrive: « C'è ogni ragione di ritenere c[...]

[...]A 161
della conclusione dell'accordo con la Jugoslavia per essere in grado di dare rapida attuazione al programma di smobilitazione militare, politica e psicologica del Paese, in vista di una politica di riduzione delle spese, di concentrazione interna, di ricostruzione economica, mentre Giolitti, tornato al potere con l'appoggio di una maggioranza assai più vasta di quella che appoggiava il Governo Nitti, poteva permettersi di temporeggiare; e dall'altra parte che Giolitti poté trattare in condizioni più favorevoli, per alcune congiunture internazionali determinatesi nel frattempo: infatti la posizione della Jugoslavia fu gravemente indebolita, tra il giugno e il novembre 1920, sia dall'esito del plebiscito di Klagenfurt (3), sia dal definitivo tramonto di Wilson, che aveva costituito, per tutto il tempo in cui Nitti era rimasto al potere, il maggiore appoggio di Belgrado e il più forte ostacolo a una soluzione positiva del problema fiumano; inoltre le intensificate mène francesi nell'Europa balcanica e danubiana, preoccupando la Jugoslavia e facendole intravedere il pericolo di un isolamento, la indussero a maggiore arrendevolezza di fronte all'Italia per chiudere in qualche modo il grave contrasto sul problema adriatico.
Tuttavia, anche tenuto conto di questo mutamento della situazione generale in cui si trovò a tratt[...]

[...]nque, e salvo qualche aspetto di dettaglio, la questione adriatica fu risolta secondo le linee generali impostate e perseguite da Nitti in modo totalmente nuovo rispetto ai disordinati e impotenti tentativi del Governo precedente.
Di fronte all'agitazione prodottasi in Italia per Fiume, non vi erano che due strade: l'annessione o l'accordo attraverso le trat
(3) Cfr. ibid., p. 302.
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tative. La prima avrebbe isolato I'Italia . dalle potenze alleate e l'avrebbe posta in una situazione insostenibile sull'arengo interna
zionale, mentre avrebbe incoraggiato le correnti nazionaliste e, per converso, avrebbe esacerbato l'opposizione socialista; la seconda era la strada della pace, ma presentava un pericolo: quello di eccitare il militarismo a tentare di rovesciare il governo parlamentare. Nitti non ebbe esitazione nell'imboccare la seconda di queste due strade, ma dovette perciò guardarsi dalla minaccia dell'estremismo di destra.
Con le potenze alleate, i rapporti mutarono nel corso dei dodici mesi della permanenza di Nitt[...]

[...]leate e l'avrebbe posta in una situazione insostenibile sull'arengo interna
zionale, mentre avrebbe incoraggiato le correnti nazionaliste e, per converso, avrebbe esacerbato l'opposizione socialista; la seconda era la strada della pace, ma presentava un pericolo: quello di eccitare il militarismo a tentare di rovesciare il governo parlamentare. Nitti non ebbe esitazione nell'imboccare la seconda di queste due strade, ma dovette perciò guardarsi dalla minaccia dell'estremismo di destra.
Con le potenze alleate, i rapporti mutarono nel corso dei dodici mesi della permanenza di Nitti al Governo. Abbiamo documentato altrove con quanta diffidenza e fra quali pregiudizi il nuovo Ministero fu accolto in Francia e, quindici giorni dopo la sua formazione, scoppiavano i gravissimi incidenti fiumani, che. non potevano non rendere tese le reazioni francoitaliane. Di fronte a quegli incidenti, Nitti conservò i nervi a posto, e la nomina della commissione d'inchiesta che lavorò con serena obiettività, contribuì a riportare le cose alle loro giuste pr[...]

[...]mi ideologici e quanto a influenze finanziarie. Certo, i due elementi dovettero intrecciarsi, e il secondo non dovette mancare. Si disse insistentemente, allora, che gli americani avessero particolari mire sul porto di Fiume come elemento di una più vasta penetrazione nell'Europa centrale, che essi attendessero dagli jugoslavi un'arrendevolezza che non avrebbero trovato negli italiani (7); più tardi, nel periodo di vita dello Stato libero creato dal Trattato di Rapallo, gli americani progettarono l'acquisto di una parte importante del porto fiumano, su cui avrebbe dovuto esercitare la sua giurisdizione la « Standard Oil Company » (8), e in ciò si vide una specie di dimostrazione a posteriori dei motivi che avevano reso la diplomazia wilsoniana così dura, rigida, intransigente. Per contro, il banchiere americano Guggenheim, intervistato da un giornale italiano (9), dichiarò che gli Stati Uniti avrebbero dovuto preferire una soluzione italiana del problema di Fiume, perché gli jugoslavi ne avrebbero dato il,controllo agli inglesi (Wilson o[...]

[...]lomazia americana poté esercitare influenza la pressione di gruppi economici e finanziari, non si creda che in Italia la vasta agitazione nazionalistica per Fiume non avesse le sue radici in ben individuabili interessi costituiti. Vivo era in particolare l'interesse degli armatori triestini a monopolizzare il corn
(7) Cfr. per es. ALCESTE DE AMBRIS, La questione di Fiume, Roma, La Fionda. 1920, pp. 3536.
(8) GIULIO BENEDETTI, La pace di Fiume. Dalla Conferenza di Parigi al Trattato di Rapallo, Bologna, 1924, p. 113.
(9) II Messaggero, 24 febbraio 1920.
(10) L'Idea Nazionale, 7 novembre 1919.
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mercio dell'Alto Adriatico, controllando Fiume. Non a caso l'irredentismo fiumanodannunziano ebbe il suo quartier generale a Trieste, dove gli armatori, in mancanza di stipulazioni adeguate da parte del Governo italiano prima dell'intervento in guerra, puntavano sulla soluzione integrale del problema di Fiume — l'annessione — allo scopo di eliminare il pericolo di una concorrenza portuale (11). In t[...]

[...]a economica che mortificò il porto e la vita della città nei decenni successivi.
Nitti, per aver preso sul problema fiumano e adriatico in genere un atteggiamento che non coincideva con quello dei nazionalisti, divenne il bersaglio delle più feroci e ingiuste accuse: uno di essi, Armando Hodnig, il fondatore della Vedetta d'Italia, lo
(11) In proposito cfr. lo scritto di GAETANO SALVEMINI nella Quarterly Review del gennaio 1918, ora nel volume Dal Patto di Londra alla Pace di Roma. Documenti della politica che non fu fatta, Torino, Gobetti, 1925, p. 97; ed anche il suo articolo su Il problema di Fiume nell'Unità del 23 novembre 1918, ora nel volume L'Unità di Gaetano Salvemini a cura di Beniamino Finocchiaro, Venezia, Neri Pozza, 1958, p. 543.
(12) Cfr. Les délibérations du Conseil des Quatre (24 mars 28 juin). Notes de l'Officier Interpréte PAUL MANTOUX, Paris, Editions du Centre National de la Recherche Scientifique, 1955, vol. II, pp. 5455.
(13) Cfr. la recensione di ATTILIO DEPOLI al Mussolini diplomatico di G. Salvemini in Fium[...]

[...]s, Editions du Centre National de la Recherche Scientifique, 1955, vol. II, pp. 5455.
(13) Cfr. la recensione di ATTILIO DEPOLI al Mussolini diplomatico di G. Salvemini in Fiume, a. I, n. 2 (aprilegiugno 1952), p. 154.
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definì a il tristo agente bancario di Muro Lucano » e affermò che <c aveva venduto Fiume allo straniero » (14).
L'iniziativa di D'Annunzio creò una situazione che condizionò le trattative diplomatiche condotte dal Governo Nitti. Un quesito che è giusto porsi, ma al quale non é possibile dare una risposta netta e univoca, é il seguente: l'impresa dannunziana costituì un elemento positivo o negativo per la soluzione del problema adriatico? Se ci limitiamo all'aspetto strettamente fiumano di quel problema, possiamo affermare che D'Annunzio, inserendo nella situazione un fatto compiuto sul quale si articolò la vasta mobilitazione psicologica organizzata dai nazionalisti, impedì ai negoziatori una soluzione che non implicasse il rispetto e la difesa dell'italianità di Fiume. E lecito tuttavia presumere che [...]

[...] nel corso del nostro lavoro dimostra che questi dissidi erano nei desideri delle destre, ma non furono mai una realtà; se Nitti ebbe screzi con Badoglio e con Caviglia, non ne ebbe mai con Tittoni né con Scialoja. Anche le dimissioni di Tittoni non furono deter
(16) Cfr. per esempio l'articolo L'ostaggio bolscevico nell'Idea Nazionale del 22 ottobre 1919.
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minate da un contrasto o da una differenza di vedute con Nitti,. bensì dalla coscienza, che si forme) nell'uomo politico di Manziana, che la propria sostituzione alla Consulta avrebbe reso possibile una ripresa delle trattative su basi nuove, poiché i negoziati che egli aveva condotto erano giunti a un punto morto; ed anche dalla sua volontà di non « bruciarsi » in accordi diplomatici che era facile prevedere non avrebbero trovato lieta accoglienza presso le destre. A nostro giudizio, Tittoni ebbe il torto di non rendersi conto, tra ottobre e novembre, anche in riferimento al passo di Hardinge presso Imperiali, che le cose si mettevano tutt'altro che bene, contribuendo così a istillare in Nitti un ottimismo sulla possibile conclusione delle trattative che il loro successivo sviluppo doveva smentire. Scialoja, a sua volta, era in sostanza uno scettico, che con lo stesso spirito collaborò nel 1920 con Nitti come più t[...]

[...] Sono qui — dichiarò una volta quando era ministro degli Esteri — per vedere che, almeno in politica estera, non facciamo troppe fesserie » (DANIELE VARL IZ diplomatico sorridente, ediz. inglese, citato da GORDON A. CRAIG and FELIX GORDON, The Diplomats. 19191939, Princeton University Press, 1953, p. 212). Cfr. anche ARTURO CARLO JEMOLO, Chiesa e Stato in Italia negli ultimi cento anni, Torino, Einaudi, 1948, p. 653.
(18) CARLO SFORZA, L'Italia dal 1914 al 1944 quale io la vidi, Milano, Mondadori, 1946, p. 89.`
(19) F. S. NITTI, Rivelazioni cit., pp. 5, 53 e 340.
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a Salata (20) — tanto che più tardi molti di essi dovevano passare armi e bagagli alla collaborazione col fascismo. Bisogna pur sottolineare il fatto che a contatto con la situazione qual era, specialmente quando si trattava di misurarsi con gli Alleati nelle trattative diplomatiche, quegli uomini erano costretti ad acquistare un realismo che era il naturale nemico di ogni atteggiamento nazionalistico. Uno di essi, Salvatore Barz[...]

[...]io istallò a Villa Devachan un plastico delle Alpi Giulie; Foch, appena lo ebbe osservato, esclamò: « Non c'è da scegliere fra due o più confini. Qui il confine è uno ». Ora, questa osservazione del generale francese, che non poteva essere a conoscenza se non di Badoglio (tanto che VANNA VAILATI la riferisce nel Badoglio racconta, Torino, Ilte, 1955, scritto sulla base di colloqui avuti col vecchio maresciallo d'Italia), la troviamo già riferita dal giornale dei nazionalisti human La Vedetta d'Italia (12 maggio 1920) e da Robetro Forges Davanzati nell'idea Nazionale (16 maggio 1920).
Tuttavia, nei mesi durante i quali fu Commissario straordinario militare nella Venezia Giulia, Badoglio, se non rinnegò l'antica amicizia per D'Annunzio, nutri verso di lui sentimenti di diffidenza per il suo incoraggiamento al pronunciamento militare, dei quali vale come testimonianza tutta la sua corrispondenza con Nitti. In particolare, nel colloquio che ebbe il 5 dicembre 1919 a Udine con Preziosi e Sinigaglia, Badoglio disse: « Non parliamo nemmeno del[...]

[...] Il conflitto di Fiume (Milano, Garzanti, 1948) per rilevare la debolezza del suo pensiero politico, le contraddizioni fra le tendenze nazionaliste e l'avversione contro ogni atto disgregatore della compagine dell'esercito e dello Stato costituzionale.
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sicché il nazionalista Barzilai finiva per adoperare a proposito di D'Annunzio parole che avrebbero potuto essere pronunciate da Nitti: « Non vi é nessuno, per quanto illustrato dalle gesta più nobili, che possa imporsi alla volontà della Nazione »; e ricordava la necessità del pane e della ricostruzione economica.
In Nitti, se tenace fu sempre il perseguimento di fini coerenti con le premesse della sua azione politica antinazionalista, non sempre vi furono, nell'attuazione quotidiana, quella fermezza e quella abilità che sarebbero state necessarie. Lo vediamo, di fronte alle prime notizie della spedizione dannunziana, telegrafare ai generali Pittaluga e Di Robilant: «Ella sa quale é il suo preciso dovere in quest'ora » che non era la formulazione giusta di un ordine, p[...]

[...]ndenti stati d'animo di incertezza nocivi all'efficacia dell'azione. Con espressioni certamente un po' drastiche ed eccessive, ma che pur contengono una parte di verità, Sforza scrisse che Nitti « non sapeva comandare, non dava ordini, impartiva lezioni » (21), e Giolitti che Nitti sermoneggiava, non agiva (22). Così — e pur con tutte le attenuanti che è giusto riconoscergli per le gravi conseguenze di un eventuale richiamo del Governatore della Dalmazia — Nitti fu debole nei confronti dell'amm. Millo, lasciato al suo posto fra duri rimbrotti dopo che si era compromesso con l'impegno preso di non consentire l'evacuazione della Dalmazia. Nitti scrisse piú tardi che se D'Annunzio aveva potuto preparare e compiere la sua impresa prendendo di sorpresa il Governo, si dové al fatto che Diaz e Aibricci, ai quali il presidente del Consiglio aveva affidato l'in
(21) C. SFORZA, op. cit., p. 87.
(22) GIOVANNI GIOLITTI, Memorie della mia vita, Milano, Garzanti, 1945, p. 554.
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carico di ispezionare la Venezia Giulia, erano stati a loro volta ingannati e riferirono tranquillizzandolo. Questo elemento, senza dubbio, entrò nella complessa situazione; ma non la esauriva. Nitti aveva a su[...]

[...]sulla preparazione di un'insurrezione nazionalista. Il fatto è che egli tendeva ad acquietarsi delle assicurazioni ricevute e a prospettare in termini ottimistici la situazione; e soprattutto riteneva che il suo compito fosse esaurito e ogni precauzione fosse presa col raccomandare ai comandanti prudenza e vigilanza (23).
Bisogna però aggiungere, per delineare un ritratto non deformato della personalità di Nitti, che questo ottimismo discendeva dall'incrollabile fiducia che egli aveva nella ragione, nell'evidenza dei fatti, nel razionale, da illuminista il cui stile si caratterizzava infatti per accenti quasi volteriani. Era insomma, il suo, un piú elevato livello eticopolitico, che lo poneva al di sopra della maggior parte degli uomini politici e dei militari del suo tempo e del suo ambiente, ma, con ciò stesso, gli faceva talvolta smarrire il senso delle necessarie cautele da prendere con essi.
Anche nella laboriosa ricerca di una soluzione del problema fiumano, nella scelta tra i vari progetti che furono avanzati durante quei mesi, [...]

[...]— che Nitti fu soprattutto attaccato per quanto fece di bene; e che non si comprese mai con abbastanza chiarezza che i suoi scacchi ed errori in politica interna (l'avventura di D'Annunzio a Fiume non fu che della politica interna) furono in massima parte l'effetto di alcune lacune della sua personalità ».
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dinando la conclusione dell'accordo, poiché gli sembrava che scarsa importanza avessero i dettagli che distinguevano l'una dall'altra le diverse soluzioni prospettate. E in ciò entrò anche, senza dubbio, la sopravalutazione del fattore economico rispetto a quello politico nella vita dello Stato e della società, che fu una delle sue caratteristiche salienti.
Anche se tardi epigoni delle infiammate passioni di quel tempo possono ancor oggi trovare motivo di scandalo nella sollecitudine di Nitti a concludere l'accordo adriatico e nella scarsa importanza ch'egli attribuiva ai dettagli territoriali, a noi sembra — in base a una concezione che siamo convinti essere al tempo stesso più idealistica e più realistica — che non solo lo sviluppo successivo degli avvenimenti internazionali che ha tanto superato i termini di quella contesa rendendoli obsoleti e mostrandone quindi al fondo il carattere artificioso e l'importanza secondaria, ma anche e soprattutto le vicende interne, con la dimostrazione del male recato all'Italia dalla insurrezione nazionalista, pro[...]

[...]ttagli territoriali, a noi sembra — in base a una concezione che siamo convinti essere al tempo stesso più idealistica e più realistica — che non solo lo sviluppo successivo degli avvenimenti internazionali che ha tanto superato i termini di quella contesa rendendoli obsoleti e mostrandone quindi al fondo il carattere artificioso e l'importanza secondaria, ma anche e soprattutto le vicende interne, con la dimostrazione del male recato all'Italia dalla insurrezione nazionalista, provino la sostanziale giustezza della visione nittiana. A Nitti stava soprattutto a cuore contrastare il passo a quella marea montante, e per far ciò bisognava chiudere la falla che si era aperta sul settore adriatico e che costituiva un serbatoio di ispirazioni e di energie a favore delle destre. Il mito della « vittoria mutilata » esercitava un'influenza deleteria sulla vita politica del Paese (24) e occor
(24) Cfr. G. SALVEMINS, Mussolini diplomatico, Bari, Laterza, 1952, p. 25: « Chi vuole capire la crisi del dopoguerra in Italia. deve tener presente non sol[...]

[...]e a favore delle destre. Il mito della « vittoria mutilata » esercitava un'influenza deleteria sulla vita politica del Paese (24) e occor
(24) Cfr. G. SALVEMINS, Mussolini diplomatico, Bari, Laterza, 1952, p. 25: « Chi vuole capire la crisi del dopoguerra in Italia. deve tener presente non solo l'esaurimento nervoso prodotto da tre anni e mezzo di sofferenze, ma anche e sopra tutto la velenosa propaganda a cui fu assoggettato il popolo italiano dal 1919 in poi. La storia d'Italia. delle sue agitazioni sociali e turbamenti politici in quel dopoguerra, appare nella sua vera luce soltanto quando sia proiettata sullo sfondo psicologico della `vittoria mutilata'. Con tutto questo, rimane il fatto che né gli errori dei negoziatori italiani, né la mala volontà di Lloyd George e di Clemenceau, né la ostilità di Wilson arrecarono alcun danno reale alla nazione italiana. La mancata annessione della Dalmazia all'Italia non era da deplorare. La Dalmazia non avrebbe accresciuto né le ricchezze né la sicurezza d'Italia. Era un paese povero e roccioso[...]

[...] 1919 in poi. La storia d'Italia. delle sue agitazioni sociali e turbamenti politici in quel dopoguerra, appare nella sua vera luce soltanto quando sia proiettata sullo sfondo psicologico della `vittoria mutilata'. Con tutto questo, rimane il fatto che né gli errori dei negoziatori italiani, né la mala volontà di Lloyd George e di Clemenceau, né la ostilità di Wilson arrecarono alcun danno reale alla nazione italiana. La mancata annessione della Dalmazia all'Italia non era da deplorare. La Dalmazia non avrebbe accresciuto né le ricchezze né la sicurezza d'Italia. Era un paese povero e roccioso, abitato da più di mezzo milione di slavi fieramente nazionalisti. C'era una maggioranza italiana solo nella città di Zara, e fuori di Zara non più di ventimila italiani dispersi in un mare slavo. Minoranze nazionali annesse contro voglia non costituiscono guadagno per nessun paese. Avesse occupato la Dalmazia, l'Italia avrebbe dovuto mantenervi una parte notevole del suo esercito in permanente attrezzatura di guerra per tenere soggiogata la popolazione slava ostile. Nel caso di altra guerra europea, in cui fosse implicata l'Italia, questa sarebbe stata obbligata ad
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reva raggiungere un accordo che sgombrasse il campo da una pericolosa tensione internazionale e al tempo stesso togliesse di mezzo il principale focolaio insurrezionale a Fiume.
Nitti, come Bissolati, vedeva il pericolo molto più a destra che a sinistra (25). La sua uscita dal Minist[...]

[...]popolazione slava ostile. Nel caso di altra guerra europea, in cui fosse implicata l'Italia, questa sarebbe stata obbligata ad
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reva raggiungere un accordo che sgombrasse il campo da una pericolosa tensione internazionale e al tempo stesso togliesse di mezzo il principale focolaio insurrezionale a Fiume.
Nitti, come Bissolati, vedeva il pericolo molto più a destra che a sinistra (25). La sua uscita dal Ministero Orlando dopo che la stessa decisione era stata presa da Bissolati aveva definitivamente chiarito la sua fisionomia di K rinunciatario » (26). Ciò servi di
immobilizzare importanti forze militari in quella provincia per proteggere le sue 350 miglia di frontiera contro un attacco proveniente dal retroterra slavo. Siffatto esercito di occupazione avrebbe dovuto essere usato con maggior vantaggio nella protezione di altri confini italiani ben più vitali, quelli verso la Francia, o verso l'Europa centrale, o nella difesa della penisola contro sbocchi al mare. La Dalmazia non avrebbe dato all'Italia il dominio dell'Adriatico. Il dominio del mare è assicurato dalle più potenti forze navali mobili, qualora esse possano fare assegnamento su una sola base navale bene organizzata, in un bacino circoscritto come l'Adriatico. Numerose basi navali non aggiungono niente. Esse non si muovono e non combattono. L'esperienza della guerra 19151918 dimostrò che le magnifiche basi navali dell'Adriatico orientale, benché possedute dalla marina austriaca, non permisero agli austriaci d'intraprendere nessuna importante azione navale, dato che le loro forze erano più deboli di quelle dell'Intesa. Anche se la Dalmazia fosse stata annessa all'Italia, la base navale di Cattaro sulle coste orientali dell'Adriatico sarebbe rimasta fuori del controllo italiano. In un mare così piccolo, una potente flotta, appoggiata a Cattaro, sarebbe bastata a tenere a bada la flotta italiana, salvo che l'Italia avesse occupato tutta la costa orientale fino al confine albanese. In questo caso l'esercito italiano avrebbe dovuto difendere una frontiera assai più estesa che 350 miglia. Inoltre, sarebbe stata necessaria una grande flotta mercantile per trasportare dall'Italia alla Dalmazia i rifornimenti indispensabili per l'[...]

[...]ll'Adriatico sarebbe rimasta fuori del controllo italiano. In un mare così piccolo, una potente flotta, appoggiata a Cattaro, sarebbe bastata a tenere a bada la flotta italiana, salvo che l'Italia avesse occupato tutta la costa orientale fino al confine albanese. In questo caso l'esercito italiano avrebbe dovuto difendere una frontiera assai più estesa che 350 miglia. Inoltre, sarebbe stata necessaria una grande flotta mercantile per trasportare dall'Italia alla Dalmazia i rifornimenti indispensabili per l'esercito stanziato in un paese sterile ed ostile, e una forte marina avrebbe dovuto proteggere le linee di comunicazione tra quell'esercito e le sue basi in Italia. Queste forze sarebbero state distolte verso l'Adriatico dalle linee vitali per l'Italia nel Tirreno e nello Jonio. In breve, anche dal punto di vista strategico, e si potrebbe dire, specialmente dal punto di vista strategico, la conquista della Dalmazia sarebbe stata un grosso errore ». Queste considerazioni valgono anche rispetto a quanto dicevamo più su della relativa indifferenza di Nitti verso questa o quella soluzione tecnica del problema adriatico, l'una differente dall'altra soltanto per pochi aspetti di dettaglio.
(25) Per Nitti, cfr. per esempio il rapporto di Buchanan a Curzon, 28 ottobre 1919. in Documents on British Foreign Policy cit., vol. IV, pp. 14142. Nitti temeva un attacco jugoslavo ai « legionari » a Fiume perché esso avrebbe determinato l'iniziativa del partito militarista e reazionario e quindi l'accavallarsi della guerra interna su quella esterna. Su Bissolati, cfr. RAFFAELE COLAPIETRA, Leonida Bissolati, Milano, Feltrinelli, 1958, pp. 27678: « Nella irrequieta atmosfera che aveva accompagnato la caduta del ministero Orlando ed il sorgere [...]

[...] irrequieta atmosfera che aveva accompagnato la caduta del ministero Orlando ed il sorgere di quello Nitti e nell'attesa delle elezioni generali, è gran merito di Bissolati, nei suoi ultimi mesi di vita, aver serbato fede fermissima negli ideali per cui si era così coraggiosamente battuto ed aver individuato nel nazionalismo esasperato, nel dannunzianesimo ritornante, il pericolo da isolare e colpire, quello che veramente avrebbe sviato l'Italia dalla cooperazione con le nazioni, ben più che non il rumoroso massimalismo o il cattolicesimo politico organizzato ».
(26) Quando nella prima meta di dicembre 1918 si era cominciato a parlare, in seno al Governo OrlandoSonnino di cui facevano parte sia Bissolati che Nitti, delle condizioni di pace, i criteri antinazionalisti esposti dal primo erano stati condivisi da
174 PAOLO ALATRI
pretesto ai nazionalisti, che in lui vedevano uno dei loro veri e maggiori avversari, per lanciare contra di lui una furiosa campagna denigratoria, senza esclusione di colpi. Tuttavia la tesi sostenuta dai nazionalisti e ribadita da Caviglia (27) che l'esercito si mise in stato di sedizione e di virtuale colpo di Stato per reagire alle provocazioni tollerate da Nitti non regge: la sedizione era già in atto prima ancora che Orlando cadesse, e semmai, durante i suoi dodici mesi di governo, Nitti riuscì a riportare un po' d'ordine, utilizzando uo[...]

[...]di tre giorni dopo; e bisogna riconoscere che la linea ben presto stabilita di fronte ai « legionari » fu il risultato più delle osservazioni fatte sul luogo e delle indicazioni mandate da Badoglio che delle inclinazioni di Nitti. Comunque, il presidente del Consiglio ebbe l'avvedutezza di non pretendere di sovrapporre quelle inclinazioni ai suggerimenti che gli venivano da chi era stato mandato proprio per studiare direttamente la situazione; e dalla collaborazione tra Nitti e Badoglio nacque e si sviluppò la linea di condotta intesa a svuotare e isolare il movimento dannunziano. Questa linea produsse i suoi effetti, dapprima sdrammatizzando tutta la situazione e riportando alle sue proporzioni il movimento dannunziano che in un primo momento sembrò diffondersi come un'epidemia, poi rendendo possibile la stipulazione di un accordo con la Jugoslavia e la conseguente forzata uscita dei « legionari » da Fiume; giacché non vi é dubbio che su questo terreno Giolitti poté valersi dell'eredità lasciatagli da Nitti.
La linea di condotta stabil[...]

[...]a, poi rendendo possibile la stipulazione di un accordo con la Jugoslavia e la conseguente forzata uscita dei « legionari » da Fiume; giacché non vi é dubbio che su questo terreno Giolitti poté valersi dell'eredità lasciatagli da Nitti.
La linea di condotta stabilita per Fiume da Nitti in collaborazione con Badoglio ebbe anche un altro effetto importante: quello
di mostrare, attraverso le vicende fiumane del dicembre 1919, che
a soli tre mesi dalla « marcia di Ronchi » D'Annunzio aveva perduto il controllo della cittadinanza, di cui non poteva più essere considerato l'esponente rappresentativo. Almeno a partire dallo sconfes
sato plebiscito del 18 dicembre, il gruppo che gravitava attorno al
comando dannunziano fu una minoranza che dominava con la forza, isolata nell'ambiente cittadino fiumano. Ciò chiari che la
soluzione annessionistica non era quella perseguita dai piú; dal che
si ebbero conferme sempre più chiare nei tempi successivi. Le elezioni fiumane per la Costituente del 24 aprile 1921, tenute in con
dizioni di maggiore libertà rispetto al periodo della dominazione dannunziana, diedero una schiacciante vittoria agli autonomisti, nonostante il tentativo di incendiare le schede fatto dal sindaco Riccardo Gigante « a capo d'un manipolo di fascisti e legiona
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ri » (30). Pochi giorni dopo quegli stessi fascisti, guidati da Francesco Giunta, occupavano a mano armata il Municipio (31); « non riuscirono però, di fronte alla sfiducia della cittadinanza e del governo, a mantenere il potere per più di due giorni e lo cedettero quindi ad un Alto Commissario italiano (avv. Bellasich) che avrebbe dovuto instaurare una normalità accettabile dalle due parti in conflitto » (32;. Dopo nuovi conflitti (2627 giugno 1921), il 5 ottobre si riunì[...]

[...] fascisti e legiona
IL GOVERNO NITTI E LA QUESTIONE ADRIATICA 177

ri » (30). Pochi giorni dopo quegli stessi fascisti, guidati da Francesco Giunta, occupavano a mano armata il Municipio (31); « non riuscirono però, di fronte alla sfiducia della cittadinanza e del governo, a mantenere il potere per più di due giorni e lo cedettero quindi ad un Alto Commissario italiano (avv. Bellasich) che avrebbe dovuto instaurare una normalità accettabile dalle due parti in conflitto » (32;. Dopo nuovi conflitti (2627 giugno 1921), il 5 ottobre si riunì la Costituente eletta il 24 aprile, nella quale gli autonomisti di Zanellà erano in grande maggioranza, sicché il 3 marzo 1922 gli estremisti ricorsero a un nuovo colpo di forza, alla rivolta armata: il palazzo del Governatore, ove risiedeva Zanella, fu preso d'assalto mentre un mas comandato da Giunta sparava su di esso 31 colpi di cannone. Zanella dovette capitolare nelle mani di Attilio Prodam e abbandonare Fiume; ma, se da quel giorno lo Stato libero fu virtualmente soppresso, la città continuò[...]

[...]itoriale » di JAMES T. SHOTWELL).
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per le questoni di maggior rilievo che esso implicava, il problema di Fiume avrebbe potuto essere messo da parte dagli storici come relativamente insignificante, ma il suo peso sulla sistemazione della pace nel suo insieme, come sulla successiva storia d'Italia, fu di durevole importanza ».
Per la mobilitazione dei nazionalisti e dei fascisti di tutta Italia che si realizzò attorno ad essa, « dall'ottobre del 1918 al settembre del 1919 Fiume si comporta veramente — come scrive un dannunziano (35) — da legionario e da fascista verso Croati e Alleati, contro Clemenceau e contro Wilson, nei confronti del sempre titubante e sempre commosso Orlando, e contro le preoccupazioni, le insidie e il cinismo rinunziatario di Nitti ».
In Fiume — prendendo il nome della città come simbolo di quella mobilitazione — si incontrano i rappresentanti delle varie frazioni del nazionalismo e del sovversivismo di destra: accanto al figlio di Vittorio Emanuele Orlando il figlio di Giuseppe Toeplitz,. consigl[...]

[...]ione i due discorsi parlamentari del 13 e del 16 settembre 1919, l'appello ai lavoratori e quello agli uomini d'ordine, ai gene rali, alle autorità costituite. La sua sconfitta é la sconfitta di una visione moderna, radicale, dei compiti della borghesia: la borghesia già mira a una soluzione tutta diversa, che le assicuri il riacquisto dei margini politici ed economici perduti con le trasformazioni strutturali portate nel corpo sociale del Paese dalla guerra mondiale, anche a costo di sovvertire le tradizionali istituzioni parlamentari.
Obiettivamente, la confluenza tra il radicalismo nittiano e il socialismo é fatale: tanto più nella necessità della comune difesa contro le minacce e gli attentati provenienti dal sovversivismo di destra. Naturalmente sono i socialisti riformisti che si mostrano più sensibili alle ragioni di una collaborazione con l'esperimento di governo democratico instaurato da Nitti. Vi abbiamo indicato la via da seguire nella politica estera, con la ripresa delle relazioni con la Russia, dice Treves nel discorso parlamentare del 30 marzo 1920 rivolto al presidente del Consiglio; e riconosce: « Voi avete fatto quanto meglio e più nobilmente potevate fare a Parigi e a Londra
(37) « Non posso parlare senza imbarazzo — disse Nitti alla Camera il 21 dicembre 1919 — della questione adr[...]

[...]che regnava tra i massimalisti, ricorderemo il modo in cui l'Avanti! reagì alla spedizione dannunziana (ediz. piemontese, 28 settembre 1919): titolo su tutta la pagina: « La rivoluzione nazionalista prodromo di quella proletaria »; articolo di fondo: contro chi sostiene che la rivoluzione non si può fare perché c'è l'esercito, « Fiume ci ha dato la prova che l'esercito non è inespugnabile, che l'esercito può passare ai ribelli, che tutto dipende dal saperlo conquistare (...). La lotta di classe è penetrata per opera dei borghesi, apertamente, nell'esercito. Noi ne siamo lietissimi. Mai era avvenuto nulla di più sovversivo fin qui nella storia politica del nostro paese a. È difficile immaginare più colossale e grossolana topica politica che questa di considerare interscambiabili il sovversivismo socialista e il sovversivismo nazionalista.
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votavano contro di lui; e nutriva la fiducia che questi non si sarebbero uniti ai primi nel tentativo di rovesciarlo (40). Quando ciò avvenne, fu la fine d[...]

[...]tanzialmente una vittoria dei Perrone, che vennero cooptati nel consiglio d'amministrazione della Commerciale dopo che ebbero rivelato di non possedere le 90 mila azioni con le quali erano entrati nel sindacato bancario costituito da Nitti allora ministro del Tesoro, nel marzo 1918, ma 240 mila azioni sul totale di 520.000. I Perrone basavano la loro potenza principalmente sull'Ansaldo, di cui erano proprietari e che aveva tratto larghi profitti dalle forniture di guerra, ma possedevano anche, oltre a poco meno della metà delle azioni della Commerciale, la totalità delle azioni della Banca di Sconto e avevano una larga partecipazione al Banco di Roma; inoltre fondavano proprio allora la Società Nazionale di Navigazione e stavano impadronendosi della Transatlantica. La tregua stipulata il 12 marzo fu però rotta e la lotta riprese due mesi dopo: il 13 maggio i Perrone pubblicavano sul Giornale d'Italia una lettera aperta che era una dichiarazione di guerra contro il gruppo avverso; ad essa ne fecero seguire altre due, pubblicate sempre nel[...]

[...]ronendosi della Transatlantica. La tregua stipulata il 12 marzo fu però rotta e la lotta riprese due mesi dopo: il 13 maggio i Perrone pubblicavano sul Giornale d'Italia una lettera aperta che era una dichiarazione di guerra contro il gruppo avverso; ad essa ne fecero seguire altre due, pubblicate sempre nel Giornale d'Italia, il 22 e 23 maggio. Il 28 maggio si riunì allora il consiglio d'amministrazione della Commerciale; la relazione fu tenuta dal presidente Silvio Crespi (vice presidenti erano Cesare Saladini, Ettore
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situazione — spiega Nitti più avanti (43) — che gli elementi più avanzati che mi votavano contro e a cui la mia politica doveva sembrare pericolosa, avevano fiducia in me. Sapevano che comunque non avrei mai fatto opera di reazione. Sapevano che lavoravo per una monarchia democratica, non a parole ma nella essenza. Sapevano soprattutto che io volevo la ricostruzione economica. Tranne pochi scalmanati, io avevo avversari non già nemici se non in gruppi reazionari o affaristici di destre pronti a passare [...]

[...]hia democratica, non a parole ma nella essenza. Sapevano soprattutto che io volevo la ricostruzione economica. Tranne pochi scalmanati, io avevo avversari non già nemici se non in gruppi reazionari o affaristici di destre pronti a passare da parte mia se cedevo alle loro richieste e ai loro interessi ». Nitti attribuì la propria caduta ad un vero e proprio tranello tesogli sul prezzo politico del pane da questi gruppi reazionari e affaristici: « Dal momento che nessun sistema per farmi dimettere riusciva e le masse popolari erano fiduciose in me non ostante l'apparenza di lotta per istinto, mi si trasse in inganno. Due banchieri vennero da me. Erano e si dicevano miei amici. Vennero per parlarmi dei provvedimenti necessari per avere l'equilibrio al Bilancio e di ciò che io volevo fare. Si mostrarono entusiasti dei miei provvedimenti, ma mi dissero che nel mondo degli affari anche un piccolo aumento del prezzo del pane avrebbe giustificato e reso tollerabili anche i pesi più duri per le classi ricche e che aveva valore simbolico. Così non[...]

[...]olitica giolittiana, ma di portarla su un terreno nuovo, più ampio: quello della democrazia. Il vero problema era la riforma agraria, l'esproprio della grande proprietà assenteista, l'avvento delle classi lavoratrici al governo, la Costituente. Tutto ciò era, apertis verbis o larvatamente, nel programma di Nitti. In realtà, quindi, il vero continuatore del giolittismo fu Nitti, che afferrò lui solo la sostanza del problema dell'ora: il passaggio dal liberalismo alla democrazia. Il suo tentativo falli, e quella fu veramente l'ora tragica per l'Italia. Quando Giolitti tornò al governo era ormai un revenant: il tentativo suo, inattuale, era destinato a fallire. Le masse popolari premevano alle porte dello stato .e solo un programma spregiudicatamente democratico aveva qualche speranza di recuperarle. Ma Giolitti questo non lo poteva e non lo voleva offrire: era contro i suoi principi, contro il suo metodo, contro la sua sostanziale sfiducia nelle masse, che egli stimava meritevoli di essere governate umanamente, ma non capaci di esercitare [...]



da (Mito e civiltà moderna) Remo Cantoni, Mito e valori in KBD-Periodici: Nuovi Argomenti 1959 - 3 - 1 - numero 37

Brano: [...] materiale empirico a nostra disposizione. Il problema é stato affrontato da ogni punto di vista. Sono stati studiati con cura i fondamenti psicologici del pensiero mitico e il suo sviluppo storico. Filosofi, etnologi, antropologi, psicologi, sociologi, tutti hanno avuto la loro parte in questi studi. Sembra che ormai si sia in possesso di tutti i fatti: abbiamo una mitologia comparata che si riferisce a tutte le parti del mondo e che ci conduce dalle forme più elementari a concezioni altamente sviluppate ed elaborate. Per ciò che riguarda i nostri dati si direbbe che la catena sia ormai chiusa, non manca nessun anello essenziale. Ma la teoria del mito è ancora estremamente controversa. Ogni scuola ci dà una risposta diversa; e alcune di queste risposte sono in flagrante contraddizione fra loro. Una teoria filosofica del mito deve cominciare da questo punto ». (E. CASSIRER, Il mito dello Stato, tr. it. 1950, p. 20, 21).
Potremmo dire, in generale, che la controversia riguardante il mito si accende soprattutto su di un punto: quale sia i[...]

[...]a. Ogni scuola ci dà una risposta diversa; e alcune di queste risposte sono in flagrante contraddizione fra loro. Una teoria filosofica del mito deve cominciare da questo punto ». (E. CASSIRER, Il mito dello Stato, tr. it. 1950, p. 20, 21).
Potremmo dire, in generale, che la controversia riguardante il mito si accende soprattutto su di un punto: quale sia il valore e il significato che assume il mito per l'umanesimo moderno, nato in larga parte dallo sviluppo ammirevole delle tecniche scientifiche e razionali e affermatosi con l'acquisizione e l'uso sempre più frequenti di comportamenti volti a dominare con le arti dell'homo sapiens il mondo della natura. Il mito preesiste, nelle sue forme arcaiche, all'affermarsi vittorioso di quelle tecniche e di quei comportamenti, ma, come ci mostrano gli studi più recenti, il mito sopravvive, sia pure in forme trasfigurate e non sempre chiaramente riconoscibili, all'avvento dell'età della scienza e della tecnica. Esiste cioè un dilemma per l'uomo contemporaneo: squalificare la forma culturale del m[...]

[...]ione divenuta adulta e consapevole, legata indissolubilmente agli sviluppi e alle sorti dello spirito scientifico. Esso andrebbe quindi relegato, per i suoi avversari, in una età dell'intelligenza umana che, non senza una punta d'ironia, é stata collocata a livello « etnografico », quasi ad indicare il carattere di relitto, di cosa esotica e inattuale che il mito riveste in una civiltà che lo ha definitivamente superato. Il tipo umano che emerge dallo studio delle culture arcaiche é quello di un uomo che può essere definito « precategoriale », simile ad un bestione vichiano tutto stupore, fantasia ed emozione, non ancora in possesso delle nostre precise distinzioni e delle nostre raffinate articolazioni razionali. Il « primitivo », l'uomo che pensa miticamente e vive in un mondo logicamente indifferenziato, é, da questo punto di vista, un oggetto da museo, un vero e proprio « selvaggio ». Il mito ci starebbe dunque alle spalle definitivamente come una nebbia ormai dissolta e vinta dalla limpida e algida chiarità del pensiero razionale e [...]

[...] », simile ad un bestione vichiano tutto stupore, fantasia ed emozione, non ancora in possesso delle nostre precise distinzioni e delle nostre raffinate articolazioni razionali. Il « primitivo », l'uomo che pensa miticamente e vive in un mondo logicamente indifferenziato, é, da questo punto di vista, un oggetto da museo, un vero e proprio « selvaggio ». Il mito ci starebbe dunque alle spalle definitivamente come una nebbia ormai dissolta e vinta dalla limpida e algida chiarità del pensiero razionale e scientifico. I suoi deprecati ed eventuali ritorni — ammesso che fossero possibili — non sarebbero che ritorni di barbarie intellettuale o attardamenti nelle forme inferiori della spiegazione. Così hanno ragionato Frazer, Tylor, Durkheim, Brunschvicg, Kelsen e tutti coloro che istituiscono un confronto critico tra la difettosa ed ingenua filosofia della natura implicita nella magia e nel mito, e la ben diversamente raffinata e complessa filosofia che si desume dalla scienza naturale moderna. Sappiamo bene che non vi può essere oggi concorre[...]

[...]suoi deprecati ed eventuali ritorni — ammesso che fossero possibili — non sarebbero che ritorni di barbarie intellettuale o attardamenti nelle forme inferiori della spiegazione. Così hanno ragionato Frazer, Tylor, Durkheim, Brunschvicg, Kelsen e tutti coloro che istituiscono un confronto critico tra la difettosa ed ingenua filosofia della natura implicita nella magia e nel mito, e la ben diversamente raffinata e complessa filosofia che si desume dalla scienza naturale moderna. Sappiamo bene che non vi può essere oggi concorrenza, in sede scientifica, tra magia e scienza, tra mito e ragione. Nella fenomenologia storica in cui si originano e prendono il sopravvento le tecniche scientifiche e i comportamenti razionali, i rudimentali e superstiziosi comportamenti magici, con le loro arcaiche tecniche miticorituali, non possono che apparire comportamenti arretrati, sprovvisti di autentico valore culturale, connessi a tecniche storicamente inadeguate e divenute quindi retrive.
MITO E VALORI 95
Vi é per) da chiedersi se in questi studi la pro[...]

[...] se in questi studi la prospettiva metodologica e storica non potrebbe essere diversa, meno dogmatica e chiusa, e se la conquista di una nuova prospettiva, più dialettica, più aperta, meno viziata di ideologismo, non consentirebbe di scorgere anche nel mito la presenza di valori culturali che non vengono in luce fino a quando l'universitas dei valori culturali viene fatta coincidere unicamente con la struttura, le categorie e le tecniche desunte dal comportamento che chiamiamo scientifico e logico. In una visione più sensibile alla pluridimensionalità delle forme culturali si può affacciare l'ipotesi che vi sia stata, ancora vi sia, e vi possa in futuro essere, nella ricca fenomenologia del mito, una forza luminosa e chiarificatrice di cui l'uomo si giova nell'intendere e fondare i momenti più critici e significativi della propria esistenza. Si tratta cioè, in sede storica, di rintracciare il senso e il valore che il mito ha avuto per il cosiddetto uomo « precategoriale ». E tale senso e tale valore si dischiudono solo attraverso un'anal[...]

[...]econda ipotesi, quella cioè di chiedersi se il mito non costituisca forse anche per l'uomo moderno una avventura ripetibile, o una esperienza, in certo modo, necessaria e feconda, quando le situazioni della sua esistenza, per il loro carattere particolare e drammatico, si presentino a noi in cifra di destino e impegnino l'uomo a non evitare il problema del loro significato conclusivo. Dobbiamo cioè chiederci se la forma culturale del mito, lungi dall'essere l'ibrido prodotto di un uomo posto a « livello etnografico », non sia una realtà spirituale sempre viva e operante, in una sfera sua propria, a ogni livello culturale. Si tratta in conclusione di recuperare il significato della funzione mitica distinguendo la patologia del mito, che indubbiamente esiste e ci minaccia, dalla sua fisiologia, che potrebbe risultare una f un zione non distruggibile senza compromettere l'economia della vita culturale dell'uomo. Se il mito, come l'arte, come la religione, come il linguaggio, come la metafisica, è una forma simbolica che obiettiva e conserva alcuni valori fondamentali, il problema della sua distruzione globale è un proposito assurdo.
96 REMO CANTONI
Perché l'esperienza mitica si rinnovi fecondamente, essa non deve esser vissuta come una irreale fictio, come una favola in cui non si crede
e che si escogita per gioco. E occorre altresì che la funzione mitica non ven[...]

[...]ivi del sangue
e della terra. Sappiamo che esiste una tecnica molto abile e raffinata per mettere in crisi e narcotizzare i comportamenti razionali sostituendoli con comportamenti emotivi e irrazionali. In un mio precedente saggio sul mito affermavo a tale proposito: « Occorre distinguere fra i prodotti spontanei e naturali della coscienza mitica e le manipolazioni artificiose volte a provocare, con il sussidio di tutti gli strumenti escogitati dall'homo faber e dall'homo sapiens, la narcosi della ragione. In quest'ultimo caso il mito é un triste espediente politico che ha una funzione paragonabile a quella di una droga o di uno stupefacente adoperati per distruggere sistematicamente l'esercizio libero e critico della ragione. Annebbiata e stordita la ragione, il mito rimane un ultimo espediente, una invocazione di potenze miracolose e misteriose, dispensatrici di salvezza, insindacabili nel loro operare. Dalla fisiologia del mito entriamo nella patologia del mito quando la coscienza mitica invece di essere genuinamente creatrice, in una spontanea Sinngebung che conferisce significati e valori all'esistenza, é una coscienza alienata e artefatta, schiava di idolaa inventati per mortificare la ragione e servire da instrumentum regni. Se il mito é una forma di alienazione della coscienza esso va combattuto e distrutto, ed é l'illuminazione razionale che ha il compito di annientare la sua falsa autorità e il suo indebito prestigio. Ma é pregiudizio intellettualistico interpretare unilateralmente tutt[...]

[...]ealmente
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accadute, storie che appartengono a un piano di verità. Ma la loro verità non è quella degli avvenimenti quotidiani. Noi chiamiamo vera la storia di Napoleone e di Cesare, e non vera quella di Pantagruel o di Don Chisciotte. Non è di questa verità appartenente alla storia o alla cronaca che parlano i primitivi. I loro miti sono storie effettivamente accadute, ma accadute in uno spazio, in un tempo, in un mondo distinti dallo spazio, dal tempo e dal mondo di oggi. I miti sono cioè la storia sacra delle società « primitive ». « Se così è, per essi non si pone il problema di sapere se siano o no storie `vere'. L'aspetto per cui suscitano un appassionato interesse sta nel loro carattere sacro (simile a quello della storia sacra). Codesta, traendo dalla rivelazione la sua origine, trova in quella la garanzia della sua veridicità, qualora ve ne fosse bisogno: forse che potrebbe aversi un modo più perfetto, più saldo di quello contenuto nella parola di Dio? Mutatis mutandis, per i miti sarà la stessa cosa. Anche qui il carattere sacro, `soprannaturale' dei miti porta con sé come conseguenza immediata l'assoluta mancanza di dubbi circa quello che viene raccontato : non si ha neanche l'idea di un dubbio del genere. Si tratta dunque di storie vere, rivelazioni relative ad un periodo extratemporale, pieno di esseri ed avvenimenti che appartengon[...]

[...]io? Mutatis mutandis, per i miti sarà la stessa cosa. Anche qui il carattere sacro, `soprannaturale' dei miti porta con sé come conseguenza immediata l'assoluta mancanza di dubbi circa quello che viene raccontato : non si ha neanche l'idea di un dubbio del genere. Si tratta dunque di storie vere, rivelazioni relative ad un periodo extratemporale, pieno di esseri ed avvenimenti che appartengono alla sopranatura, ma la natura attuale è ad essi solidale e ne è inseparabile. E precisamente questi rapporti che essi contengono ne attestano il carattere sacro e garantiscono loro un'autorità incomparabile: la qual cosa può parimenti dirsi dei libri sacri ». (LévyBrühl, Carnets, tr. it. 1952, p. 114, 115).
Ci potremmo chiedere — in via preliminare se è legittimo parlare di mito come di un mondo unitario, se cioè esiste una realtà storicoculturale cui si possa, senza essere tacciati di arbitrio o di genericità, dare il name di mito. L'esistenza di questa realtà ci è comprovata dalle mitologie presenti in tutte le culture e in tutte le epoche, ai[...]

[...]stano il carattere sacro e garantiscono loro un'autorità incomparabile: la qual cosa può parimenti dirsi dei libri sacri ». (LévyBrühl, Carnets, tr. it. 1952, p. 114, 115).
Ci potremmo chiedere — in via preliminare se è legittimo parlare di mito come di un mondo unitario, se cioè esiste una realtà storicoculturale cui si possa, senza essere tacciati di arbitrio o di genericità, dare il name di mito. L'esistenza di questa realtà ci è comprovata dalle mitologie presenti in tutte le culture e in tutte le epoche, ai livelli più diversi di civiltà. Gli studi di Cassirer, Lévy Brühi, Kerény, Eliade, Jung, Gusdorf — per non citare che alcuni studiosi recenti — ci autorizzano a parlare di un « pensiero mitico » o di una « coscienza mitica », come ha fatto, ad esempio, Ernst Cassirer nel secondo volume della sua Filosofia delle forme simboliche. L'esistenza di una forma simbolica, chiamata mito e caratterizzata da una sua particolare struttura, che è possibile descrivere come un mondo unitario, non significa che i contenuti della coscienza miti[...]

[...]i una « coscienza mitica », come ha fatto, ad esempio, Ernst Cassirer nel secondo volume della sua Filosofia delle forme simboliche. L'esistenza di una forma simbolica, chiamata mito e caratterizzata da una sua particolare struttura, che è possibile descrivere come un mondo unitario, non significa che i contenuti della coscienza mitica siano sempre i medesimi, né che sia possibile cristallizzare il significato e la funzione del mito prescindendo dalle condizioni storiche particolari in cui sorgono i mitologemi. In altre pa
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role, come esiste una fenomenologia e una storia dell'arte, del linguaggio, della religione, così, allo stesso titolo, esiste una storia e una fenomenologia del mito. Questa storia e questa fenomenologia sono capitoli della cultura umana perché i mitologemi non sono pure e semplici emozioni in cui si scarica l'ansia, la paura, l'angoscia dell'uomo immerso nelle situazioni esistenziali o da esse travolto, bensì costituiscono forme, simboli, immagini in cui le emozioni sono espresse, obiettivate
e ris[...]

[...]o immagini che appagano la coscienza, immagini che si coordinano fra loro fino a diventare eventi
e significati. Noi sappiamo bene che i miti australiani sono diversi dai miti greci, dai miti medioevali, dai miti moderni. Ma è pur sempre possibile riconoscere a tutti i livelli culturali la presenza di una funzione miticofabulatrice che di continuo genera prodotti diversi per contenuto, pur conservando costante l'universalità della sua funzione. Dalle ricerche di Lucien LévyBrühl sulla mentalità primitiva, che rimangono fino ad oggi le più importanti in argomento, nasce un problema analogo. Ciò che lo studioso francese ha chiamato partecipazione, ossia i1 complesso dei rapporti magicomitici, o « mistici » come li definisce il LévyBrühl, che collegano individuo e gruppo, gruppo e totem, gruppo
e antenati, gruppo e suolo, non sono una prerogativa esclusiva dei popoli primitivi. Il mondo della partecipazione che il primo LévyBrühl, ad esempio quello delle Fonctions mentales dans les sociétés inférieures del 1910, qualificava come un mondo [...]

[...] partecipazione, ossia i1 complesso dei rapporti magicomitici, o « mistici » come li definisce il LévyBrühl, che collegano individuo e gruppo, gruppo e totem, gruppo
e antenati, gruppo e suolo, non sono una prerogativa esclusiva dei popoli primitivi. Il mondo della partecipazione che il primo LévyBrühl, ad esempio quello delle Fonctions mentales dans les sociétés inférieures del 1910, qualificava come un mondo « prelogico », nettamente distinto dal nostro universo dominato dalla logica e dall'uso dei concetti, ci appare negli interessanti Carnets, scritti nel 19389, e pubblicati postumi, come una esperienza universale e non certo limitata alle sole società inferiori. Ciò non significa che le credenze magiche, le rappresentazioni
ioo REMO CANTONI
mitiche, le varie pratiche rituali in uso presso i primitivi continuino ad avere valore per noi. Noi non crediamo che le cosiddette e appartenenze » (capelli, avanzi di cibo, tracce di passi, unghie, vesti impregnate di sudore, ecc.) siano identificabili con l'individuo, né crediamo, ad esempio, che piantare una lancia nella traccia del[...]

[...]cce di passi, unghie, vesti impregnate di sudore, ecc.) siano identificabili con l'individuo, né crediamo, ad esempio, che piantare una lancia nella traccia del piede di un nemico o di un animale equivalga a ferire o ad uccidere l'uomo o l'animale che ha depositato la traccia. Non pensiamo che l'immagine sia misticamente consustanziale all'originale o che siano reali i fenomeni di bipresenza o di multipresenza che ci vengono attestati dai miti e dalle credenze dei primitivi. Neppure crediamo che il sentimento individuale della nostra esistenza, ciò che comunemente chiamiamo a coscienza », coinvolga ea ipso in una specie di simbiosi mistica, l'esistenza del gruppo sociale al quale apparteniamo, quella degli antenati che sono passati in un altro mondo, quella degli antenati mitici che vivono in un tempo sacrale e numinoso. Variano cioè i contenuti della partecipazione. Ma il sentimento della partecipazione, l'esperienza emozionale sui generis per cui essere e vivere significa a partecipare », ossia non stare chiusi in un recinto che chiami[...]

[...] in un altro mondo, quella degli antenati mitici che vivono in un tempo sacrale e numinoso. Variano cioè i contenuti della partecipazione. Ma il sentimento della partecipazione, l'esperienza emozionale sui generis per cui essere e vivere significa a partecipare », ossia non stare chiusi in un recinto che chiamiamo Io, coscienza, spirito, bensì comunicare con piani di realtà che ci trascendono, siano essi la natura, la società, o un mondo diverso dall'esperienza attuale hic et nunc, sopravvivono in noi. Variano, cioè, i contenuti, i modi concreti e storici della partecipazione, ma sopravvive il fenomeno esistenziale della partecipazione, la sua funzione antropologica di creare fondamenti e radici, significati e valori. La partecipazione espressa e obiettivata mette in essere una specie di statuto metafisico, più o meno esplicito, più o meno consapevole, ma pur sempre esistente e necessario per vivere e orientarsi in una realtà che ci rifiutiamo di riconoscere come un regno assurdo e angoscioso nel quale saremmo scagliati per i decreti di [...]

[...]tecipazione espressa e obiettivata mette in essere una specie di statuto metafisico, più o meno esplicito, più o meno consapevole, ma pur sempre esistente e necessario per vivere e orientarsi in una realtà che ci rifiutiamo di riconoscere come un regno assurdo e angoscioso nel quale saremmo scagliati per i decreti di un dio ostile e straniero.
Il LévyBrühi non ha voluto, se non con timidi cenni, sviluppare il problema della partecipazione fuori dall'ambito della mentalità primitiva. Questa scrupolo fa onore alla sua probità scientifica. Negli stessi Carnets il LévyBrühl si avventura molto raramente e con estrema cautela nella fenomenologia moderna della partecipazione. Egli afferma soltanto che l'esperienza della partecipazione esercita un suo compito nella religione, nella metafisica, nell'arte e anche nella concezione complessiva della natura (cfr. op. cit., p. 260), ma lascia intravedere che la partecipazione, da lui studiata nel mondo delle culture primitive, costituisce il nucleo emozionale di un'esperienza sui generis e index sui [...]

[...]ema cautela nella fenomenologia moderna della partecipazione. Egli afferma soltanto che l'esperienza della partecipazione esercita un suo compito nella religione, nella metafisica, nell'arte e anche nella concezione complessiva della natura (cfr. op. cit., p. 260), ma lascia intravedere che la partecipazione, da lui studiata nel mondo delle culture primitive, costituisce il nucleo emozionale di un'esperienza sui generis e index sui assai diversa dall'esperienza fondata sull'uso dei concetti, sulla regolarità del
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le sequenze fenomeniche e sulla fissità delle forme. Questa esperienza LévyBrühl l'ha chiamata « mistica », sebbene la parola « mistico » non andasse troppo a genio nemmeno a lui. Ma a chi gli suggeriva di sopprimere la s di mistico egli, come ci informa Maurice Leenhardt nella sua Prefazione ai Carnets, «opponeva il suo fine sorriso». Con quel termine LévyBrühl alludeva, secondo il Leenhardt, a « forze impercettibili ma reali, e non si rendeva conto che il vocabolo forza già di per sé é una parola che circosc[...]

[...]gide. Lo stesso LévyBrühl, dopo una lunga vita tutta dedicata allo studio di tali problemi, confessava di trovarsi di fronte a una serie di difficoltà non risolte. Egli accusava la nostra terminologia filosofica e psicologica di essere crudamente inadeguata ad esprimere i rapporti complessi che esistono tra
mito », « partecipazione », « categoria affettiva del soprannaturale », « esperienza mistica ». L'esperienza mistica é infatti inseparabile dalle credenze e dai miti, ed anche il sentimento e la rappresentazione del soprannaturale si configura ed esprime nei miti. L'ultimo LévyBrühl si proponeva dunque uno studio psicologico e sociologico della partecipazione, e questo studio si sarebbe trasformato in una nuova ricerca approfondita intorno al significato e al valore del mito.
Potremmo dire che la ragione distingue e articola, laddove il mito, le cui categorie sono fortemente impregnate di emozionalità, unifica e
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fonde in una partecipazione che rende l'uomo solidale al destino della natura e della società. Le categ[...]

[...]gura ed esprime nei miti. L'ultimo LévyBrühl si proponeva dunque uno studio psicologico e sociologico della partecipazione, e questo studio si sarebbe trasformato in una nuova ricerca approfondita intorno al significato e al valore del mito.
Potremmo dire che la ragione distingue e articola, laddove il mito, le cui categorie sono fortemente impregnate di emozionalità, unifica e
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fonde in una partecipazione che rende l'uomo solidale al destino della natura e della società. Le categorie razionali distinguono, o tendono almeno a distinguere, l'io dal mondo, l'individuo dalla società il mondo vegetale dal mondo animale, il mondo animale dal mondo umano, i vari regni e le varie classi della natura, le varie sfere dell'esistenza. I piani, le dimensioni, le strutture, le regioni, i generi e le sped sano il frutto di un lavoro di analisi e distinzione compiuto da una ragione che ha, certo, poteri sintetici e unificanti, ma non sacrifica all'esigenza dell'unità la sua capacità di articolare e distinguere. Il pensiero mitico, come hanno veduto bene Durkheim e Cassirer, non é assenza totale di razionalità, ma razionalità fusa in un crogiuolo affettivo, sentimento di una Gemeinschaft alles Lebendigen per cui le varie distinzioni categor[...]

[...]ssificazioni ancora non sono emerse storicamente e giacciono latenti o debolmente operanti nel grembo indifferenziato, nella comune matrice di una mente « precategoriale ». La tentazione di considerare il mito come un prodotto della sancta simplicitas o della stupidità originaria generatrice di assurdità e contraddizioni è stata sempre forte tra gli avversari del mito, ed essa sembra rinnovarsi periodicamente, anche oggi, come vediamo ad esempio dallo studio di Kelsen intitolato Società e natura. Eppure noi sappiamo che in tutte le grandi culture del passato — la babilonese, la cinese, l'indiana, la greca — l'elemento mitico è predominante e non può essere giudicato soltanto un elemento patologico o degenerativo. Sappiamo inoltre che grandi filosofi come lo Schelling, o grandi poeti come il Novalis, videro nel mito una mirabile fusione di poesia e verità, ideale e reale, mondo soggettivo e mondo oggettivo.
Ci si consenta di ricordare ancora una volta una felice osservazione di Ernst Cassirer: « Dal punto di vista dello scienziato — egli[...]

[...]ato — la babilonese, la cinese, l'indiana, la greca — l'elemento mitico è predominante e non può essere giudicato soltanto un elemento patologico o degenerativo. Sappiamo inoltre che grandi filosofi come lo Schelling, o grandi poeti come il Novalis, videro nel mito una mirabile fusione di poesia e verità, ideale e reale, mondo soggettivo e mondo oggettivo.
Ci si consenta di ricordare ancora una volta una felice osservazione di Ernst Cassirer: « Dal punto di vista dello scienziato — egli nota — vi erano due modi diversi di formulare la questione. Il mondo mitico poteva essere spiegato secondo gli stessi principii del mondo teoretico, cioè del mondo dello scienziato. Oppure si poteva mettere l'accento sulla faccia opposta. Invece di cercare una qualunque similarità fra i due mondi, si poteva insistere sulla loro reciproca incommensurabilità, sulla loro differenza radicale e inconciliabile. Era quasi impossibile decidere questo conflitto tra le diverse scuole mediante criteri puramente logici. In un capitolo importante della sua Critica de[...]

[...]ionale e scientifico. Essi insistono sulla « omogeneità » della mente umana pur nella varietà delle forme fenomenologiche in cui la mente storicamente si obiettiva. Il LévyBrühl, Mircea Eliade, Rudolf Otto, Walter Otto, Carlo Kerény e molti altri, sono sensibili soprattutto all'elemento di eterogeneità e discontinuità esistente tra esperienza « primitiva », « sacrale », « mistica », da un lato, ed esperienza razionale, profana, logicoconcettuale dall'altro. Il problema di una fenomenologia della ragione si allarga qui nel problema più vasto, e in certo senso più drammatico, di una fenomenologia dell'esperienza. Esisterebbero cioè non solo vari tipi di ragionamento, ma addirittura vari modi di essere nel mondo. Da quest'ultimo punto di vista la ragione stessa e le sue varie tecniche logiche e scientifiche potrebbe essere considerata uno dei modi di essere nel mondo, una delle forme
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fondamentali di comportamento storico per fronteggiare la crisi esistenziale dell'uomo. I due metodi della omogeneità e della eterogeneità, [...]

[...]o di costruire un falso dilemma per cui dovremmo oggi compiere una ridicola scelta storica tra pensiero mitico e pensiero razionale, come pur continuano a proporre i troppo accesi avversari fautori del mito. Quella scelta sappiamo bene che la cultura moderna l'ha già compiuta da tempo, e in senso ben preciso. Già nella cultura greca la ragione era impegnata in una lotta tenace e coraggiosa contro le remore e l'oscurità di una tradizione dominata dal mito. I Sofisti, Socrate, Tucidide, Euripide vollero liberare il pensiero dall'abbraccio troppo soffocante del mito. La stessa filosofia di Platone può anche — sotto un certo profilo — essere considerata come un tentativo di salvaguardare i diritti della ragione e della scienza, della dialettica intesa come diàiresis e come episteme, contra gli attardamenti nel mondo della doxa e del mythos. In realtà filosofia e scienza si sono costituite nella loro autonomia rompendo le partecipazioni dell'universo mitico e precategoriale. Sotto questo profilo il mito é il nonessere, la nonlibertà, l'opinione, la tradizione chiusa nelle sue presunte verità. Il mondo della cultura uma[...]

[...]rrazioni nelle quali appare un modo di essere dell'uomo nel mondo, una situazione del suo esistere altamente significativa e chiarificatrice. Secondo Carl Gustav Jung, le cui ricerche stanno a fondamento dei lavori di Eliade e di Kerény, i miti sono archetipi che rappresentano una « esperienza primaria » dell'uomo in una forma simbolicoimmaginativa. Questi archetipi, limitati di numero, costituirebbero esperienze umane tipiche e fondamentali fin dall'origine dei tempi. In tutte le culture umane é possibile, secondo Jung, ritrovare i medesimi motivi fissati in immagini archetipiche costitutive dell'esperienza umana. In tutte le mitologie, nei racconti di fiabe, nelle tradizioni, nei misteri religiosi, nella letteratura, nella stessa vita quotidiana, in forme più o meno pure, incontriamo, ad esempio, i motivi del viaggio notturno per mare, dell'eroe peregrinatore, del mostro marino, del rapitore di fuoco, dell'uccisore di draghi, della caduta dal paradiso, dell'eroe vittima del tradimento, ecc. Gli archetipi sarebbero pertanto « autoritrat[...]

[...]sibile, secondo Jung, ritrovare i medesimi motivi fissati in immagini archetipiche costitutive dell'esperienza umana. In tutte le mitologie, nei racconti di fiabe, nelle tradizioni, nei misteri religiosi, nella letteratura, nella stessa vita quotidiana, in forme più o meno pure, incontriamo, ad esempio, i motivi del viaggio notturno per mare, dell'eroe peregrinatore, del mostro marino, del rapitore di fuoco, dell'uccisore di draghi, della caduta dal paradiso, dell'eroe vittima del tradimento, ecc. Gli archetipi sarebbero pertanto « autoritratti degli istinti », trascorsi psichici esemplari e significativi divenuti immagini. Jolan Jacobi, nel suo libro intitolato La psicologia di Carl G. Jung (tr. it. 1949), dà questi chiarimenti circa i rapporti tra archetipi e metafisica classica: « L'uomo aristotelico direbbe : gli archetipi sono idee nate dall'esperienza dei progenitori reali. L'uomo platonico direbbe: i progenitori sono nati dagli archetipi, perché questi sono le immagini prime, i modelli dei fenomeni. Gli archetipi esistono a priori per l'individuo, ineriscono all'inconscio collettivo e sono perciò sottratti al divenire e passare individuale ». Gli archetipi sarebbero, dunque, nel linguaggio metafisico e teologico di cui troppo spesso si compiace la psicologia del profondo, « presenze eterne » che la coscienza a volte percepisce e a volte no. Essi emergono in molti stadi e piani psichici nelle forme più varie, negli adattamenti [...]

[...]smo del mondo contemporaneo. Non seguiremo certo Eliade lungo questa strada che porta a contrapporre artificiosamente i valori religiosi del mito alle insidie presunte o reali dell'umanismo e dello storicismo moderni. Ma occorre riconoscere che alla comprensione del mito hanno recato un forte contributo proprio quegli studiosi moderni come LévyBrühl, Walter Otto, Eliade, Kerény, che hanno cercato di avvicinarsi alle creazioni culturali del mito dall'interno, simpaticamente invece che polemicamente. Comprendere il mito é problema analogo a quello di capire che cosa sia la musica, la poesia. Kerény ha ragione quando afferma che le grandi creazioni mitologiche costituiscono un fenomeno paragonabile, per profondità, durata, e universalità, soltanto alla natura stessa. Allo stesso modo che poco o nulla comprende della musica o dell'arte chi non si pone in un contatto vivo e diretto con l'opera, così poco o nulla intende della mitologia chi si avvicina ad essa già convinto che non vi sia niente da apprendere e che il pensiero mitico, in gener[...]

[...]ico e scientifico. Ma il modo per neutralizzare tale pericolo consiste nell'evitare tali assurdi confronti nell'aprirsi liberamente alla pluridimensionalità e alla fenomenologia della vita culturale. Come non é possibile trascrivere il linguaggio dell'arte in linguaggio matematico, così non è possibile, se vogliamo continuare a intendere, trascrivere il linguaggio della mitologia, intessuto di immagini e simboli, in un altro linguaggio che parta dalla premessa di rinunciare alle immagini e ai simboli, e di volerli sostituire, ad esempio, con i concetti. In questo senso scrive giustamente Kerény: « La mitologia non è soltanto una maniera d'espressione al cui posto si potrebbe sceglierne un'altra, più semplice e più comprensibile che tutt'al più non si sarebbe potuta adottare in quella
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MITO E VALORI
data epoca perché in quella la mitologia sarebbe stata l'unica maniera d'espressione conforme ai tempi. Conforme o meno conforme ai tempi può essere la mitologia, esattamente come la musica. Vi sono forse epoche che solo in musica poss[...]

[...]évyBrühl ha dato a quest'ultima parola. La coscienza mitica vuole anche darsi ragione del mondo, capire i suoi fenomeni, ma più che spiegare concettualmente gli eventi della natura e della società, essa cerca di giustificare il significato metafisico del mondo, il suo esser così (Sosein), la presenza attuale dell'esistere ricollegando la struttura storica del reale e dell'uomo stesso a un suo dover essere, a strutture paradigmatiche e originarie dalle quali si sprigiona senso e luce. La mitologia, ogni mitologia, anche nelle sue metamorfosi più recenti e non chiaramente individuate e consapevoli, chiarisce e giustifica la condizione umana, la trascrive in immagini ricche di significato. La crisi sempre risorgente dell'esistere viene risolta mediante un ricorso a ciò che Bergson avrebbe chiamato a funzione fabulatrice u, introducendo negli aspetti più ingenui della coscienza mitica potenze ausiliatrici e soteriologiche, eroi civilizzatori, forze sopranna turali, se avesse senso parlare di soprannaturale per un tipo d'uomo che ancora non o[...]

[...]ste ultime teologie non legittima, nell'ambito della filosofia, né un ritorno a una teologia raddrizzata né una rinuncia definitiva alla vocazione miticometafisica. Nasceranno forse metafisiche del probabile, del verosimile, del come se, ma non appare possibile mutilare il pensiero di una dimensione per così dire escatologica e soteriologica, riguardante cioè il significato globale e conclusivo dell'avventura umana.
I valori li vediamo emergere dalla storia, costituirsi e fondarsi storicamente, anche se sembrano sovrastare al piano della storicità e librarsi. in una loro trascendenza, indenne dalle peripezie e dalle brusche tra
MITO E VALORI ill
smutazioni della moda, del gusto, della cronaca e, in genere, dalle variazioni più superficiali dello spirito obiettivo. Invano cercheremmo per i valori una garanzia della loro validità für ewig. Essi non sono essenze metafisiche collocate in un regno ideale immune alla processualità e al divenire, ma sappiamo che non sono neppure il prodotto di scelte gratuite, capricciose, meramente emozionali. I valori, cioè, non li riconosciamo come tali se ci risultano effimeri, transitori, arbitrari. Non avranno quell'universalità assoluta ed eterna che chiamiamo tradizionalmente universalità metafisica, ma all'interno di un orizzonte storicoculturale spetta ad essi q[...]

[...]te gratuite, capricciose, meramente emozionali. I valori, cioè, non li riconosciamo come tali se ci risultano effimeri, transitori, arbitrari. Non avranno quell'universalità assoluta ed eterna che chiamiamo tradizionalmente universalità metafisica, ma all'interno di un orizzonte storicoculturale spetta ad essi quell'universalità sui generis che possiamo chiamare universalità storica. Questa universalità sui generis protegge i valori, li preserva dal cadere nell'effimero, nel caduco, nel provvisorio. I valori autentici possiedono durata, continuità, fecondità, profondità, rilievo. Senza questa loro consistenza obiettiva che li solleva in un'atmosfera di apparente trascendenza, come se la storia superasse la propria immediatezza e labilità in un processo di autotrascendimento in cui illumina e intende se stessa, non potremmo, a rigore, chiamarli valori, perché vi sarebbe per essi una caduta di rango e di livello, un loro decadere nell'inautentico, nella banalità. Sappiamo che alcuni valori — la bellezza, il coraggio, la tenacia, il vigore,[...]

[...]di un vero e proprio paradosso che presiede alla costituzione del valore. Il valore si genera storicamente, come abbiamo veduto, ma afferma il proprio diritto alla vita in un atto di ribellione contro la storia che l'ha generato. Traspare qui il rapporta di parentela tra valore e mito. I valori non potrebbero essere tali se il pensiero mitico non intraprendesse in modo sempre ricorrente il tentativo di universalizzarli, quasi proiettandoli fuori dalla storia, fuori cioè
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dalla loro stessa matrice. La storia dei valori P, insieme, in termini contraddittori e paradossali, storicismo e destorificazione. Questa aporia per cui il valore, come il mitico Crono distruttore del regno di suo padre Urano, instaura il proprio dominio tentando di annullare la potenza che lo ha generato, la storia, ricorre oltre che nella fenomenologia del valore anche nella fenomenologia del mito.
Occorre chiarire un possibile equivoco. Tra mito e valore vi è parentela ma non equivalenza o identificazione. Non si può sostenere né che la coscienza mitica sia eternamente generatrice di valori,[...]



da Romano Ledda (a cura di), Dossier NATO in KBD-Periodici: Rinascita 1969 - 5 - 9 - numero 19

Brano: Dossier NATO 9 maggio 1969 ' n. 19 Rinascita p. 11
Corne e perché è sorta l'Alleanza at antica
Q— 1 a [7Art !lem w !I s'11 +l~ rhl1A l'Europa e per l'Italia
Iltit jr,G:
71,9
Per quali ragioni è necessario liquidarla

ossier
La NATO compie venti anni. Li compie con ce
lebrazioni in tono mino
re, quasi con un impaccio appena velato dalla re
torica. E che cosa, del re
sto, potrebbe vantare? Solo il quotidiano dell'ono
revole La Malfa, in comu
ne con i viscerali oltranzisti, ha potuto scrivere che la NATO ha rappresentato il recupero dei
« valori della cultura e della civiltà occidentali »,
la « restaurazione del
l'unità dello spirito occidentale, che della nostra civiltà è la sostanza » e la non « dispersione nella contaminazione con nuovi fenomeni barbarici di quel che di valido il mondo occidentale aveva costruito nel corso di secoli ». Merce avariata. In realtà, a scorrere gli articoli celebrativi, i bilanci anche [...]

[...]ondamentali e la storia della NATO, descriverne i meccanismi, mettere in luce i suoi più autentici significati, rivelarne la poliedrica funzione. Ed è cosa agevole. Perchè la NATO si è presentata sulla scena politica mondiale
Patto atlantico. Basi NATO
con alcuni precisi e irrefutabili connotati. E' stata strumento, da un lato, di una lotta aperta al mondo socialista, e di una repressione crescente verso le aree del « terzo mondo ». E' stata, dall'altro lato, la struttura portante della difesa e del consolidamento dei regimi capitalistici dell'occidente europeo. Elemento unificatore di questi due aspet ti sono state la politica dei blocchi voluta dall'imperialismo e la supremazia americana sull'Europa.
La NATO ha simboleggiato per l'Europa e per il mondo tutto ciò. Per cui volere un mutamento, oggi, della realtà degli ultimi venti anni è incompatibile, per usare le parole di un cattolico, « con l'idealizzazione e la sopravvivenza della NATO ». Al contrario, richiede la rimessa in discussione della NATO e dell'Alleanza atlantica, per rovesciare e battere la logica che ne presiedette la nascita e ne determina i destini. ciò che vogliamo dimostrare ai lettori di Rinascita con questa ricerca.
Inserto a cura
di Romano Ledda
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« Gli Stati Uniti sono troppo ricchi per accettare uno scacco politico senza cercare un altro modo per imporre la loro volontà. Essi possono, se vogliono, trasformare il problema politico in un problema economico o, come ultima risorsa, in un problema militare » : è su questa base che nasce l'impegno mondiale degli USA
Il primo atto che sancisce formalmente la nascita della Alleanza atlantica è la risoluzione Vandenberg votata dal Senato degli Stati Uniti d'America l'11 giugno 1948. Con essa si auspica « il progressivo sviluppo di accordi regionali » .e si autorizza il Presidente ad « associare l'America all'Europa occidentale in accordi di mutua difesa che contribuiscano alla sicurezza nazionale ». Ma è noto che la sua radice politica è da ricercarsi un po' più indietro nel tempo, in quella inversione di tendenza della politica estera americana che iniziò sul finire stesso della seconda guerra mondiale, e su cui influirono fattori di varia natura, tra cui il monopolio dell'arma atomica. La percezione delle profonde tr[...]

[...]l'America all'Europa occidentale in accordi di mutua difesa che contribuiscano alla sicurezza nazionale ». Ma è noto che la sua radice politica è da ricercarsi un po' più indietro nel tempo, in quella inversione di tendenza della politica estera americana che iniziò sul finire stesso della seconda guerra mondiale, e su cui influirono fattori di varia natura, tra cui il monopolio dell'arma atomica. La percezione delle profonde trasformazioni nate dallo sconvolgimento bellico, e la volontà di congelarle, il senso di una profonda crisi che sconvolgeva l'ordinamento capitalistico e la decisione di bloccarla con ogni mezzo: queste le radici politiche della guerra fredda.
Nota lo storico americano Theodore Draper che « gli Stati Uniti sono troppo ricchi per accettare uno scacco politico senza cercare un altro modo per imporre la loro volontà. Essi possono, se vogliono, trasformare il problema politico in un problema economico o, come ultima risorsa, in un problema militare ».
Nell'immediato dopoguerra gli Stati Unit. si presentavano, in un m[...]

[...]atti. Nel suo Pax americana lo studioso americano Ronald Steel osserva giustamente che « la NATO è stata la prima delle nostre alleanze coinvolgenti ed è ancora la più importante. Attorno alla NATO costruimmo la nostra diplomazia postbellica di contenimento e di intervento ». Di lì, con una logica obbligata, sarebbero discesi poi i patti militari e le alleanze regionali del CENTO, SEATO, ANZUS, la Dottrina Eisenhower per « proteggere » gli arabi dal comunismo, e, infine, la risoluzione del Golfo del Tonchino, che autorizzò il presidente a intervenire nel Sudest asiatico: in breve, più di un milione di soldati americani all'estero, più di 3.000 basi militari sparse in tutto il mondo (sulla base di un rapporto del Pentagono il New York Times dell'li aprile 1969 afferma che le basi sono 3.491), quattro alleanze di « difesa », 42 trattati di mutua assistenza militare, aiuti militari a oltre settanta paesi. « Impegni i cui eguali — ha scritto James Reston — nessuna nazione sovrana ha mai preso nella storia del mondo ». L'Alleanza atlantica fu[...]

[...]a oltre settanta paesi. « Impegni i cui eguali — ha scritto James Reston — nessuna nazione sovrana ha mai preso nella storia del mondo ». L'Alleanza atlantica fu il primo anello della catena perche l'Europa era l'epicentro dello scontro.
Si è parlato molto, con l'assunzione da parte degli USA di responsabilità mondiali, di fine completa dell'isolazionismo tradizionale, grazie a uno slancio morale immune da vecchi egoismi, al risveglio provocato dal dramma della seconda guerra mondiale e dagli sviluppi della guerra fredda. Più realisticamente De Gaulle osserva nelle sue Memorie che la «volontà di potenza degli americani » è sempre « propensa ad ammantarsi di realismo ». Tre ragioni di fondo, assai poco idealistiche, spingevano gli USA a rompere definitivamente con l'isolazionismo: una militare, l'altra economica, l'altra ancora politica, tutte strettamente intrecciate.
Vediamo prima quella militare. Nonostante il monopolio della bomba atomica, essa poteva essere il vero « asso nella manica » se gli americani, in mancanza (allora) di bom[...]

[...] Nonostante il monopolio della bomba atomica, essa poteva essere il vero « asso nella manica » se gli americani, in mancanza (allora) di bombardieri intercontinentali e di sommergibili atomici, avessero potuto disporre di basi oltreoceano che avessero avuto a loro tiro il campo socialista. « Il sistema di basi riflette essenzialmente la nostra decisione di assicurare l'efficacia del deterrente
La struttura " organizzativa
della NATO, a partire dal suo organo politico principale (il Consiglio atlantico di Bruxelles) fino ai comandi militari periferici nei vari settori. Di particolare interesse per l'Italia è il comando alleato del Mediterraneo (sigla: Cincafmed) con sede a Malta la cui costituzione è strategico — scrive Twonsend Hoopes su Foreign Affairs —e anche le nostre decisioni di organizzare e sostenere la NATO e di mantenere potenti forze navali nel Mediterraneo ». Ovviamente si otteneva anche lo scopo politico di « rafforzare la decisione di molte nazioni di resistere alla pressione comunista esterna e reagire con fermezza contr[...]

[...]otteneva anche lo scopo politico di « rafforzare la decisione di molte nazioni di resistere alla pressione comunista esterna e reagire con fermezza contro la sovversione interna ». La necessità e l'utilità delle basi in Europa e nel mondo, non verrà meno, anche sotto il profilo militare, neanche quando il monopolio atomico sarà finito, e entreranno in funzione i missili intercontinentali e i sommergibili atomici.
Economicamente gli USA uscivano dalla guerra con un colossale apparato economico, e con tutti i pericoli di crisi o di recessione che la caduta della domanda bellica avrebbe potuto provocare. Impedire quella caduta e nel contempo garantire degli sbocchi a tutta la produzione americana, assicurarsi nuove sedi di investimento, si poneva come una necessità inderogabile.
Le motivazioni politiche sono di due ordini. La prima, scarsamente esplorata, e su cui oggi si inizia una ricerca, riguarda lo stato della società americana di allora. Dietro un'apparente e gagliarda compattezza vi era in realtà il primo germe della crisi sociale [...]

[...]icurarsi nuove sedi di investimento, si poneva come una necessità inderogabile.
Le motivazioni politiche sono di due ordini. La prima, scarsamente esplorata, e su cui oggi si inizia una ricerca, riguarda lo stato della società americana di allora. Dietro un'apparente e gagliarda compattezza vi era in realtà il primo germe della crisi sociale e politica che sarebbe esplosa in questi anni.
« A coloro il cui senso di sicurezza era stato distrutto dall'estrema mobilità della vita americana — scrive lo Steel — che si sentivano minacciati dalle richieste di
l'ultima iii' ordine di tempo presa dalla NATO, nella riunione tenuta nel novembre scorso a Reykjavik. Il nuovo comando di Malta è stato assunto dall'ammiraglio degli Stati Uniti, Edward C. Autlaw, nel quadro del comando delle Forze alleate della Europa meridionale .di cui è capo un ammiraglio italiano eguaglianza da parte delle minoranze razziali e che erano umiliati dalla mancanza di personalità di una società sempre più burocratizzata, lo anticomunismo ideologico serviva come punto focale di scontento. Esso non poteva sedare quelle ansie, ma poteva spiegarle in una forma accettabile a chi vedeva altrettanti nemici all'interno di quanti ne scorgeva all'estero. L'assunzione di una responsabilità mondiale fu un atto di autoesorcismo da parte di un popolo tormentato dai demoni ».
La seconda motivazione, più nota, è derivata da quella militare ed economica: supporto di quelle operazioni non potevano che essere regimi politici fedeli, omogenei, disponibili.
Nel[...]

[...]basilare », « un muro » dietro il quale sarebbero passate molte altre cose. E più chiaramente ancora Claude Julien, autorevole giornalista di Le Monde, nel suo L'empire americain: «L'impegno militare ed economico [degli USA] non è un accidente o un accessorio. Senza di esso la società americana sarebbe stata costretta a una revisione lacerante non solo dei suoi obiettivi e dei suoi mezzi di sussistenza. Fondata sull'impero economico e rafforzata dall'impero militare l'American Way of Life non sopravviverebbe a un ripiegamento nelle proprie frontiere.
Le classi dominanti europee subirono, ma anche accettarono e persino cercaro no tutto ciò. Uscivano scosse dalla guerra, sotto accusa, da un lato responsabili del fascismo, dall'altro di un'antica capitolazione di fronte alla tracotanza nazista. Il crollo degli imperi coloniali apriva nuovi e drammatici problemi. Le economie erano stremate. Negli USA trovarono ciò che serviva loro per ricostruire il loro potere. Vi fu come una partita doppia di ricatti: da un lato legavano gli USA a una responsabilità europea, dall'altro lato gli affidavano la loro sopravvivenza; da un lato gli garantivano una impostazione di politica sociale, economica, di esasperata difesa capitalistica dell'ordine costituito, dall'altro lato chiedevano una copertura per questa garanzia. A questa duplice operazione di reciproco sost4gno le classi dominanti europee sacrificarono l'Europa, la sua pace, la sua unità, e con esse l'autonomia, l'indipendenza e la sovranità nazionale. Queste ultime venivano a morire con la NATO, dietro la quale si profilavano i blocchi come « universi politici, economici, militari, culturali, religiosi completi e chiusi ».
aggg11.11Igl.
Segretanato Generale
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2
Corn. Alleato Sud Europa (Cancswth) Napoli
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Bruxelles
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Comdata Politico
Coniato
di
[...]

[...]fluenza di Washington sugli europei, quanto alla egemonia dei militari (americani ed europei) sui civili ». Anche se così fosse, non bisognerebbe chiedersi attraverso quale meccanismo si è potuto arrivare a ciò? Ma non è così. Lo Spettatore coglie una verità parzialissima. All'interno dell'Alleanza non si sono verificati alcuni accidenti ne una dolorosa ma necessaria separazione tra obiettivi politici e militari. L'impronta militare è stata data dalla sua stessa natura, perchè: 1) l'Alleanza voleva essere uno strumento di pressione della potenza americana nei confronti dei paesi socialisti, sulla base della politica äi contenimento; 2) la struttura militare era l'unica che garantisse, grazie al rapporto di forza, un naturale dominio statunitense; 3) la « paura » dell'aggressione e la protezione americana erano l'unico cemento unitario degli alleati europei.
Verificare nella storia dell'Alleanza tutto ciò, e ricostruire il processo che ne ha fatto un'appendice dell'imperialismo americano può essere perciò di qualche interesse_ Vediamo pr[...]

[...]degli alleati europei.
Verificare nella storia dell'Alleanza tutto ciò, e ricostruire il processo che ne ha fatto un'appendice dell'imperialismo americano può essere perciò di qualche interesse_ Vediamo prima di tutto gli aspetti specificamente militari e il modo con cui hanno inciso sugli indirizzi politici. Essi possono essere esaminati sotto diversi profili.
Il primo e più elementare è quello dell'organizzazione che si diede l'Alleanza. Fin dal primo Consiglio atlantico del 17 settembre 1949, venne messo a punto il meccanismo organizzativomilitare dell'Alleanza, ossia la NATO. (North Atlantic Treaty Organization). E tale sarebbe rimasto fino ai nostri giorni. Nel corso del 1950 (soprattutto alle sessioni di New York e di Bruxelles) esso venne puntualizzato con tre decisioni importanti che riguardarono: a) il potenziamento delle forze tradizionali degli alleati europei; il progetto, definito successivamente in un Consiglio atlantico a Lisbona, prevedeva l'allestimento di 100 divisioni e di 9.000 aerei; b) l'istituzione di un esercito[...]

[...]entemente come uno spostamento di forze americane sul continente, e soprattutto come utilizzazione del SAC (Strategic Air Command), ossia dell'enorme potenziale aereo statunitense, cui avevano già concesso basi e infrastrutture. Terza: chi ricorda le lotte sociali e politiche di quegli anni, comprende il ruolo decisivo che esse ebbero nell'impedire la piena attuazione del progetto. Ciò non significa, naturalmente, che l'Europa non fosse travolta dalla spirale del riarmo. Le spese militari della NATO nel 1949 erano di 18,7 miliardi di dollari, nel 1950 salirono a 20,4 miliardi, nei 1951 a 42,2 miliardi, nel 1952 a 59,9, nel 1953 a 64 miliardi. E un terzo di queste spese veniva sostenuto dagli alleati europei.
Tuttavia vi era un altro aspetto del problema che ten
(disegno di Gal) deva a emergere fino a divenire, negli anni immediata
mente successivi, dominante. Gli USA chiedevano un potenziamento delle forze tradizionali europee in virtù di una loro strategia (fondata sulla invulnerabilità, allora, del territorio americano) che faceva d[...]

[...]razione veniva automaticamente a ridursi ogni margine di sovranità nazionale dei paesi alleati.
La dottrina che la presiedeva era infatti la seguente: « Le forze nazionali sotto comando nazionale dovevano rispondere a comandanti alleati riuniti nello Stato Maggiore alleato ». Le forze « rimangono sotto comando nazionale fino allo scattare di determinati livelli di allarme, per poi passare sotto il comando alleato. La sola eccezione è costituita dalla rete integrata di difesa aerea che copre il comando alleato in Europa, dalla Norvegia alla Turchia orientale. Tale rete è posta in ogni momento sotto mio comando e deve assicurare in permanenza la polizia dello spazio aereo alleato» (generale Lemnitzer).
Si veniva così affermando un criterio di sovranazionalità — nel solo ambito militare — di tale portata che più di uno studioso del diritto si è chiesto fino a che punto fosse legittimo, oltre che politicamente accettabile. Il giurista Alberto Predieri nel suo studio su « Il Consiglio supremo di difesa » (organismo nazionale italiano) si chiede, ad esempio, fino a che punto « integrando la difesa italiana nella NATO[...]

[...]bile. Il giurista Alberto Predieri nel suo studio su « Il Consiglio supremo di difesa » (organismo nazionale italiano) si chiede, ad esempio, fino a che punto « integrando la difesa italiana nella NATO », con i suoi organi che « impartiscono direttive ai singoli governi degli Stati », si siano « limitati i poteri » di quel Consiglio, in netto contrasto con l'articolo 87 della Costituzione italiana.
Il meccanismo è stato reso ancora più evidente dal fatto — non tecnico, ma poli
tico che il comandante
americano della NATO (Saceur) è contemporaneamente comandante di tutte le forze americane in Europa non integrate nella NATO (EUCOM). Se si considera che nell'arsenale della NATO le forze più importanti sono i bombardieri del SAC e la VI flotta americana nel Mediterra neo, e che essi non sono integrati nella NATO, si capisce subito quale sia il reale rapporto di dipendenza dagli USA.
Dobbiamo insistere brevemente su questo punto. Si tratta infatti di un potenziale militare atomico e missilistico dipendente unicamente dal presidente degli [...]

[...]forze americane in Europa non integrate nella NATO (EUCOM). Se si considera che nell'arsenale della NATO le forze più importanti sono i bombardieri del SAC e la VI flotta americana nel Mediterra neo, e che essi non sono integrati nella NATO, si capisce subito quale sia il reale rapporto di dipendenza dagli USA.
Dobbiamo insistere brevemente su questo punto. Si tratta infatti di un potenziale militare atomico e missilistico dipendente unicamente dal presidente degli Stati Uniti. Esso viene utilizzato come mezzo di pressione sugli stessi alleati, ma soprattutto è la base di pronto intervento americano in ogni parte del. l'occidente e del Medio Oriente (nel 1958, ad esempio, in Libano). Ebbene, la questione è: fino a che punto questo intreccio di poteri coinvolge la NATO, e quindi la trascina automaticamente in conflitti esterni alla sua regione? Ancora. Giustamente Filippo Frassati osserva su Critica Marxista (n. 2, 1968): « Il co
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ONO a L0110 COMO LRMGM
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[...]i organismi « collettivi » inventati per íl « coordinamento tra alleati » dell'iniziativa militare (Standing Group, Comitato militare ecc.), siano a poco a poco scomparsi, o giacciono come strumento inutile. L'integrazione militare li ha messi fatalmente a tacere, essendo per sua natura « da una parte uno strumento di indirizzi strategici del tutto autonomi, quelli del Pentagono» scrive il generale Beaufre su Politique étrangère (n. 3, 1965) — « dall'altra lo strumento attraverso il quale si subordinano a quegli indirizzi gli obiettivi e le scelte militari dei governi europei». Appare quindi assai chiaro che l'integrazione militare è il perno su cui gli Stati Uniti hanno stabilito il loro dominio e il loro controllo sulla politica europea.
p. 14 Rinascita n. 19 9 maggio 1969 Dossier NATO


Due strategie
di sterminio
nucleare
Le gravissime implicazioni della teoria di Foster Dulles basata sul sostegno atomico della politica del « rischio calcolato ». Le forze di pace danno scacco alla NATO e la capacità militare del Patto [...]

[...]amara: nascono i piani dell'escalation
ti », essi « sarebbero stati, comunque schiacciati ».
L'equilibrio militare, in cui si era cercata la prima :giustificazione della NATO, ¡era quindi raggiunto. Nessuno credeva più in Europa alla favola dell'aggressione sovietica. I regimi capitalistici erano! restaurati.
Fu in questo clima che il 16 dicembre 1967 la Conferenza di Parigi dei capi di governo dei paesi appartenenti alla NATO venne investita dal problema della istallazione di missili a medio raggio in Europa. Si trattava degli IRBM (Intermedie Range Ballistic Missiles), che per le loro caratteristiche non erano da rappresaglia ma offensivi: « Il loro effetto è potente, — scrisse allora A. Wohlstetter sulla rivista Foreign Af fairs — solo in caso di attacco a sorpresa ». Il 10 dicembre, avendo già Dulles reso pubblica la proposta americana, il governo sovietico aveva proposto la denuclearizzazione della Polonia, della Cecoslovacchia e della Germania orientale, a condizione che i missili non venissero istallati nella Germania federale.[...]

[...]ni immediate relative al « grado di replica » all'avversario, e quindi esclude nel modo più tassativo consultazioni tra gli alleati e ogni divisione di comando. Per cui, come ha scritto in un acuto, per quanto filoatlantico saggio Luisa Calogero La Malfa (in La NATO nell'era
L'accelerazione di questo processo di integrazionedipendenza si è avuta anche sotto il profilo delle diverse strategie mondiali che gli USA venivano via via sperimentando e dalla collocazione che è stata data alla NATO.
Nell'ottobre del 1953 il National Security Council americano autorizzava i militari a « introdurre l'impiego di armi nucleari tattiche e strategiche nei piani di difesa contro attacchi convenzionali ». Veniva maturando la teoria della « rappresaglia massiccia » ossia la « massima dissuasione a un costo sopportabile fondandosi su una grande capacità» di risposta ato mica istantanea « nei luoghi da noi scelti » (Dulles). Nel 1954 il Consiglio della NATO faceva propria quella strate gia dichiarando che « gli eserciti atlantici opporranno i loro mezzi a[...]

[...]non atomico ».
Questo passo della NATO fu denso di gravi implicazioni.
Bisogna dire che i governi europei, o almeno una parte di essi, cominciarono a comprendere i pericoli di quelle implicazioni, e a vivere in una reale contraddizione. Cominciarono a comprendere, ad esempio, che gli USA non si limitavano più a una politica di contenimento, ma puntavano oramai a una politica di controllo e intervento mondiale (il 1953 e il 1954 furono dominati dalla tentazione di Dulles di usare l'atomica in Indocina), sulla base di quella che Federico Artusio nel 1965 chiamava « una prefigurazione ideologica omogenea del mondo », a tutela dei loro interessi. Per cui sentivano, quei governi, l'esigenza di un distacco, di una separazione,
o per lo meno di una manifestazione di automia, per la sproporzione che veniva a crearsi tra gli interessi europei e quelli americani. La contraddizione non fu sciolta per molti anni (e non lo è ancora oggi) perché tutto ruotava intorno all'accettazione dell'egemonia americana.
In realtà i processi che venivano alla [...]

[...]o meno di una manifestazione di automia, per la sproporzione che veniva a crearsi tra gli interessi europei e quelli americani. La contraddizione non fu sciolta per molti anni (e non lo è ancora oggi) perché tutto ruotava intorno all'accettazione dell'egemonia americana.
In realtà i processi che venivano alla luce erano profondi e drammatici. Nell'ottobre del 1951 la NATO si era estesa alla Grecia e alla Turchia, l'una fascista l'altra dominata dalla feroce dittatura di Menderes. Da un lato crollava definitivamente il mito delle « democrazie » atlantiche, già seriamente incrinato dalla presenza portoghese. Dall'altro dal NordAtlantico si arrivava a una dimensione territoriale della NATO che si spingeva fin sotto il Caucaso, attraverso una parte dell'Asia Minore. Le considerazioni militari avevano così pieno sopravvento sugli scrupoli di « civiltà ».
Già nel 1950, del resto, il Senato americano aveva chiesto che con la Turchia, la Grecia, la Germiania federale, anche la Spagna entrasse nella NATO. Fu soprattutto per la opposizione della Norvegia che ciò non avvenne. Ma proprio in quegli anni (1953) la Spagna firmava un accordo militare bilaterale con gli USA che le conferiva un posto di rilievo in tutto il si[...]

[...]d, nel rapporto presentato alla commissione difesa del Senato americano, aveva affermato che l'URSS era completamente e saldamente accerchiata e l'Occidente era in grado di lanciare contro di essa un attacco atomico dai cieli, da un perimetro di 360 gradi costellato di oltre 250 basi della NATO. Anche se i sovietici, aggiungeva Norstad, « disponessero del 200% delle capacità di fuoco degli allea
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APRE LE PORTE AL
FASCISMO
FUORI C ITALIA DALLA NATO
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Manifesto della sezione propaganda d el Pu
n. 19 Rinascita p. 15
Dossier NATO 9 maggio 1969


la sicurezza è nella neutralità
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Manifesto della sezione propaganda d el PCI
L'Europa
pill divisa
L'aggravamento della tensione favorisce il ricatto permanente che la Germania di Bonn, spalleggiata dagli USA, esercita sugli altri alleati: è la crisi di ogni reale prospettiva dello stesso « europeismo atlantico » e della capacità dell'Europa di stabilire nuovi rapporti con i paesi di nuova indipendenza
della distensione) « la natura e[...]

[...]gretario di Stato americano Dean Rusk affermava: « La Europa e la comunità nordatlantica non possono preservare la loro sicurezza semplicemente vigilando lungo una linea che passa soltanto per l'Europa. La loro sicurezza comune è coinvolta anche in ciò che accade in Africa, nel Medio Oriente, nell'Amertica latina, nell'Asia meridionale e nel Pacifico occidentale. L'Alleanza atlantica deve adeguarsi a nuove esigenze ». Gli impegni via via assunti dalla NATO nel Mediterraneo (v. Rinascita, nn. 41 e 50 del 1967, nn. 5,6,13,14 del 1968), la sua diretta partecipazione alla guerra coloniale portoghese, sono un segno della natura assunta dal suo meccanismo politicomilitare.
In terzo luogo e infine, la accettazione della strategia flessibile ripropone necessariamente una nuova corsa al riarmo degli eserciti convenzionali per la guerra limitata (la copertura atomica e il grilletto della escalation rimangono agli americani); anche degli eserciti europei, perchè si dovrebbe combattere in Europa, nel territorio degli « alleati », i quali però, come non hanno avuto nessuna parte nell'elaborazione della nuova strategia, non avrebbero nessun potere nel determinare il corso stesso, politico
e militare, dell'eventuale conflitto. Nonostan[...]

[...]ato del 1949. Non a caso essa coincide con una profonda crisi politica della NATO e delle relazioni tra gli alleati. Taluno ha voluto spiegare quella crisi come il risultato di una serie di errori deformanti interni a una struttura buona e positiva. E di qui vengono tutte le proposte « revisioniste » della Alleanza. Ma non si tratta, invece, della natura stessa degli attuali rapporti tra USA ed Europa? non si tratta della scelta storica compiuta dall'imperialismo americano di fronte ai processi del nostro tempo? Prima di analizzare, quindi, le caratteristiche di quelle crisi e la impossibilità o velleità del « revisionismo » atlantico, converrà vedere più da vicino il prezzo che l'Europa (e il mondo) hanno pagato alla politica atlantica degli Stati Uniti.
Nel 1949, al momento del voto sul Patto Atlantico l'onorevole Ugo La Malf a, con una divinazione di cui possiamo apprezzare tutto l'acume, ebbe a dire: « Oggi sta nascendo l'Europa e l'America non c'entra ». A distanza di vent'anni quale è il bilancio che l'Europa può trarre dalla nasc[...]

[...]ibilità o velleità del « revisionismo » atlantico, converrà vedere più da vicino il prezzo che l'Europa (e il mondo) hanno pagato alla politica atlantica degli Stati Uniti.
Nel 1949, al momento del voto sul Patto Atlantico l'onorevole Ugo La Malf a, con una divinazione di cui possiamo apprezzare tutto l'acume, ebbe a dire: « Oggi sta nascendo l'Europa e l'America non c'entra ». A distanza di vent'anni quale è il bilancio che l'Europa può trarre dalla nascita della NATO e dalla appartenenza a essa dei paesi occidentali? Il prezzo pagato, come si vedrà, è stato altissimo: attraverso la NATO l'Europa è stata l'epicentro della guerra fredda, ha subito una spaccatura profonda dettata dalla logica dei blocchi, ed è pervenuta a una condizione subalterna agli USA sul terreno politico ed economico. Vediamo come.
La questione tedesca è stata e continua a essere il perno di ogni problema concernente la vita dell'Europa. « Dal tipo di sistemazione che sarebbe stato dato al problema tedesco scriveva tempo fa il già citato settimanale delle ACLI — dipendeva in realtà o meno la sussistenza delle strutture » politiche e militari che « si erano andate consolidando in Europa nel dopoguerra ». E' persino superfluo richiamare l'importanza del problema. A essa infatti era, ed è ancora legato il riconoscimento della realtà emersa dalla seconda guerra mondiale (frontiere dell'Oder Neisse ecc.). In altri termini, era attraverso la questione tedesca che passavano tutti i problemi di un nuovo assetto dell'Europa e della speranza di nuovi rapporti internazionali tra le grandi potenze.
Già nella primavera del '47 una serie di accordi anglo
franco americani avevano
gettato le basi di uno Stato tedesco occidentale: la Repubblica federale tedesca, nata nel 1949 come una delle più tipi che creature della guerra fredda. Fu con la NATO, però, che la questione tedesca ven ne via via assumendo un peso determinante e decisivo per la [...]

[...], con gli interessi e le rivendicazioni della Repubblica federale tedesca. Ciò era voluto dagli Stati Uniti ed era nella logica naturale della politica di contenimento, costruita su quelle che George Kennan chiamava le « situazioni di forza » per imporre, « dispiegando tutta la potenza militare », all'URSS e ai paesi socialisti determinate soluzioni.
Non vi fu perciò rivendicazione revanchista della Germania federale che non fosse fatta propria dalla NATO, e posta alla base di tutta la sua strategia politica e militare verso i paesi socialisti. Questi avvertivano in profondità, e con fondati motivi, il nodo della questione tedesca, e su questa base avanzarono una serie di proposte assai significative.
Vale pena di ricordarne
due cha, se accolte, avrebbero improntato diversamente la vita europea. Nel 1952 l'URSS avanzò un progetto di riunificazione della Germania per mezzo « di elezioni sottoposte a controllo internazionale » e di ritiro di tutte le truppe (sovietiche, francesi, inglesi e americane) chiedendo in cambio la garanzia che [...]

[...]e di ritiro di tutte le truppe (sovietiche, francesi, inglesi e americane) chiedendo in cambio la garanzia che la Germania riunificata non sarebbe stata inserita in nessuna alleanza militare. James Warburg in un suo importante libro sulla Germania, ha osservato come la proposta sovietica fosse decisiva per tutta l'Europa e offrisse persino la prospettiva di « una Germania democratica e unita nel senso occidentale del termine ». La linea adottata dalla RFT, diretta allora da Adenauer, e fatta subito propria dalla NATO perchè coincidente con quella statunitense, fu quella di « evitare ogni negoziato in attesa che l'occidente potesse opporre a Mosca, come fait accompli, una Germania riarmata nel quadro di una Europa organizzata ». Il secondo momento cruciale fu dato quando nel 1954 il Consiglio atlantico di Parigi, fallita la CED, decise l'ingresso della Germania federale nella NATO. L'URSS avanzò allora una nuova proposta per la neutralizzazione e riunificazione della Germania, e per una conferenza sulla sicurezza europea. André Fontaine — in un recente articolo sulla rivista Affari Esteri — riconosc[...]

[...] accenni a una politica nuova della RFT passino oggi per una radicale liquidazione di quella eredità, investendo la stessa NATO e la logica dei blocchi.
Questo fu il primo prezzo: attraverso la questione tedesca, la divisione dell'Europa. Tutto ciò, ovviamente, sconvolse anche i più bei sogni europeistici che animavano alcune forze politiche intorno agli anni '50. Nell'ambito dell'Alleanza atlantica tutti i processi d'integrazione occidentale — dalla comunità carbosiderurgica al MEC — non potevano non portare il segno della politica DullesAdenauer, ossia il segno di una Europa angusta e soffocata: l'Europa carolingio cattolico autoritaria, cara ad Adenauer, De Gasperi, Schuman, recinto e baluardo di una « civiltà » conforme e subalterna all'ideologia della guerra fredda. Per cui non molto tempo fa un articolo del periodico democristiano Politica si chiedeva se non esiste « una inconciliabilità reale tra europeismo
e atlantismo ». E la rivista delle ACLI, Relazioni sociali (n. 10, 1968) si domandava a sua volta se la prospettiva europ[...]

[...] cara ad Adenauer, De Gasperi, Schuman, recinto e baluardo di una « civiltà » conforme e subalterna all'ideologia della guerra fredda. Per cui non molto tempo fa un articolo del periodico democristiano Politica si chiedeva se non esiste « una inconciliabilità reale tra europeismo
e atlantismo ». E la rivista delle ACLI, Relazioni sociali (n. 10, 1968) si domandava a sua volta se la prospettiva europeistica « non sia stata bloccata in gran parte dalla prospettiva atlantica » (oltre che dalla scelta capitalistica,
e su questo ritorneremo subito: ma le due scelte atlantica
e capitalistica erano nel 1949 intimamente fuse).
Gli Stati Uniti, del resto erano interessati a una solu zione effettivamente unitaria dell'Europa, sia pure della sola Europa occidentale? A seguire tutta la vicenda « europeistica » si possono cogliere con grande chiarezza due elementi chiave della posizione statunitense su questo problema: 1) in tutta una prima fase l'unità europea li interessa unicamente in funzione della integrazione tedesca; 2) sempre, fino a oggi, l'unità politica dell'Europa li intere[...]

[...]e l'Europa perde la sua possibilità d'iniziativa autonoma « soffocando tutti gli spunti che potevano manifestarsi in una simile direzione » (Collotti). Basta pensare al modo con cui l'aggressione americana al Vietnam e la solidarietà che ha richiesto
e ottenuto, in nome dell'Alleanza, abbiano congelato il dialogo con l'Est ed elevato continue muraglie sulla via di una reale distensione europea.
Basterà ancora pensare al peso determinante avuto dal la NATO nel provocare non solo rapporti mondiali, ma rapporti specifici tra Europa
e Africa all'ombra del colonialismo e del neocolonialismo. In realtà tutto il disegno europeistico perseguito dalle vecchie classi dominanti europee, e vantato come possibile anzi inevitabile all'interno delle strutture dell'Alleanza atlantica, si è rivelato marcio e suicida per l'Europa. « Sulla via dell'atlantismo e della integrazione monopolistica — si scriveva su Rinascita solo qualche anno fa — l'occidente europeo si trova oggi stretto dall'invadenza economica americana, paralizzata nel suo dialogo con i paesi socialisti e nei rapporti col terzo mondo, posto di fronte al riesplodere di focolai revancïtisti ».
Nè si pub dimenticare quello che provocarono il prezzo che esigettero la nascita della NATO e la logica dei blocchi nella stessa Europa orientale. Gli studi storici più seri hanno oramai liquidato la leggenda churchilliana della « cortina di ferro ». In realtà l'Unione Sovietica puntava, nell'immediato dopoguerra, su un lungo periodo di distensione e di accordo tra le grandi potenze. L'assetto dell'Europa orientale la int[...]

[...] la nascita della NATO e la logica dei blocchi nella stessa Europa orientale. Gli studi storici più seri hanno oramai liquidato la leggenda churchilliana della « cortina di ferro ». In realtà l'Unione Sovietica puntava, nell'immediato dopoguerra, su un lungo periodo di distensione e di accordo tra le grandi potenze. L'assetto dell'Europa orientale la interessava soltanto come eliminazione della tradizionale politica verso l'Est degli Stati sorti dal Trattato di Versailles,
e quindi come eliminazione delle vecchie aristocrazie feudali, matrici del fascismo balcanico. La formula della « de mocrazia popolare » non era in questo senso una invenzione propagandistica. Fu con la guerra fredda e col rapido mutamento della situazione internazionale che cominciò a mancare lo spazio per questa politica e lo spazio anche all'interno dei singoli paesi per quelle forze che avevano puntato su una politica di amicizia con l'URSS su una base di neutralità. Tuttavia è solo col 1948 — un anno dopo la dottrina Truman — che la via obbligata divenne da un lato quella di una serie di accordi bilaterali con l'URSS
e dall'altro quella dell'acce[...]

[...]ndistica. Fu con la guerra fredda e col rapido mutamento della situazione internazionale che cominciò a mancare lo spazio per questa politica e lo spazio anche all'interno dei singoli paesi per quelle forze che avevano puntato su una politica di amicizia con l'URSS su una base di neutralità. Tuttavia è solo col 1948 — un anno dopo la dottrina Truman — che la via obbligata divenne da un lato quella di una serie di accordi bilaterali con l'URSS
e dall'altro quella dell'accesso al potere in modo pieno delle forze rivoluzionarie, bruciando ogni transizione.
Ma neanche questi due passi prefiguravano ancora una politica di blocco. Fu solo con la spirale della guerra fredda
e al momento culminante dei riarmo tedesco (1955) che venne enucleandosi il blocco militare dei paesi socialisti. Ed è anche da questo insieme di processi, profondamente condizionati dalla reale situazione internazionale, che vennero una serie di difficoltà e di impacci, anche aspri, al rinnovamento e al pieno dispiegamento delle società socialiste. La vera cortina di ferro che fu calata sull'Europa si chiama guerra fredda, politica di blocco, NATO. A essa vanno collegati da un lato la spaccatura e la contrapposizione su tutti i terreni delle « due » Europe e dall'altro lo stesso fallimento dell'unità europea concepita sotto la specie della « piccola Europa ».
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Dossier NATO 9 maggio 1969 n. 19 Rinascita p, 17
Peretrazione
del capitale
no_
Le posizioni degli Stati Uniti nell'economia europea sono tali da condizionare la stessa competitività mondiale dell' industria del vecchio continente. Quale costo ha dovuto pagare l' Europa in conseguenza dell'asservimento alla politica USA
Gli organi civili NATO dipen di Bruxelles
denti dal Consiglio atlantico
Produzione
del missile
Sidewinder .
Oberúhldingen
Produzione
del missile
. Bullpup,,. Oslo
trifrastrilture
elettrOnica
della difesa aerea
(NAOGE). Parigi
Produzlone
dell'aered F 104 G
`âlarfighler .
Coblenza
OleodotIi
Centro Europa.
Versailles
Approvvigionamenl0
e manutenzione
I NAMSO.). Parigi
Produzione
del missile .Hawk,.
RueilMalmaison
/ ALTRI
ORGANI CIVILI DELLA NATO ISTITUITI DAL CONSIGLIO ATLANTICO
Conviene a questo punto chiedersi quale sia il reale rapporto, attraverso i mecca nismi politici e militari della NATO, che si è venuto stabilendo tra Europa e USA in questo ventennio, sia sul terreno economico sia su quello degli sviluppi interni a ogni singolo paese europeo.
All'inizio di queste note si osservava lo stretto intreccio che si stabiliva fin dal dopoguerra tra obiettivi militari, politici ed economici. E cib per diverse ragioni. Prima fra tutte, e la più contingente, quella del « mercato militare » europeo, che per il peso assunto dall'industria bellica nel meccanismo produttivo statunitense, diveniva uno dei pilastri degli orientamenti dell'economia americana dei dopoguerra. Nel n. 2/1968 di Critica marxista si possono leggere utilmente alcuni saggi su questo problema. La funzione della NATO fu inizialmente, ma questo aspetto perdura ancor oggi, quella « di perpetuare un alto livello di spese militari negli Stati Uniti, attraverso commesse per il riarmo degli eserciti europei e la istituzione di un sistema di basi militari, il cui costo divenne uno stimolo costante alla domanda interna USA, un incentivo alla ricerca scien[...]

[...]nale ».
Ma l'obiettivo era di più lungo respiro. Restaurare il capitalismo europeo non voleva infatti essere soltanto la ricostruzione di un mercato bellico e la garanzia politica di un sistema sociale omogeneo agli Stati Uniti, voleva dire — e questo è il fenomeno che è venuto delineandosi con grande chiarezza nel corso del ventennio — rimettere in piedi un capitalismo nettamente subordinato alla divisione internazionale del lavoro predisposta dall'imperialismo statunitense. Intorno al 1950 venne imposta, attraverso la NATO, una vera e propria rete di vincoli e di veti economici e commerciali all'intiera Europa occidentale (basti ricordare il commercio con l'Est) che assicurarono da un lato il pieno controllo americano sulla destinazione degli « aiuti » e quindi su tutte le tendenze e le scelte della restaurazione capitalistica, e dall'altro lato aprirono le porte della Europa all'invasione commerciale, di prodotti bellici e no, degli Stati Uniti E' su questa base che è venuta costruendosi l'espansione in Europa — una volta rimesso in piedi il sistema capitalistico — del capitale americano. Nel numero citato di Critica marxista si scrive che « le conquiste di posizioni di predominio da parte dei grandi gruppi monopolistici americani in setto ri economici fondamentali, la subordinazione tecnologica, la penetrazione americana nei mercati dei capitali europei sono tutti fatti che poterono realizzarsi e cominciare a imporsi gi[...]

[...] in piedi il sistema capitalistico — del capitale americano. Nel numero citato di Critica marxista si scrive che « le conquiste di posizioni di predominio da parte dei grandi gruppi monopolistici americani in setto ri economici fondamentali, la subordinazione tecnologica, la penetrazione americana nei mercati dei capitali europei sono tutti fatti che poterono realizzarsi e cominciare a imporsi già negli anni '50, proprio per le condizioni create dall'esistenza della NATO e dalla posizione che in essa occupano gli USA ».
Per attenerci a fonti sempre non sospette ricorderemo le due relazioni dell'allora ministro Fanfani in cui emergeva la consapevolezza di come gli USA fossero arrivati a una posizione egemonica così forte da compromettere l'autonomia dell'Europa e da condizionare alle loro esigenze e ai loro interessi la stessa competitività mondiale dell'economia europea. Fanfani coglieva — le due relazioni erano sul gap tecnologico e sull'Euratom — un aspetto decisivo del problema: quello del possesso americano di tutte le industrie tecnologicamente più avanzate ([...]

[...]l'economia americana di mettere insieme tre politiche, che senza l'aiuto europeo sarebbero state tra loro incompatibili: le guerre del Vietnam, un forte tasso di espansione interna, una crescita senza precedenti degli investimenti in Europa ».
Il problema che quindi si pone, in questo quadro, non è soltanto quello di una resistenza agli Stati Uniti d'America, ma ha dei contorni più profondi e precisi. E' possibile, in altri termini, proseguendo dalla via dell'attuale integrazione monopolistica che caratterizza lo sviluppo economico dell'Europa, ottenere una reale indipendenza dagli Stati Uniti? E' possibile costruire su questa Europa occidentale una scelta compiutamente autonoma? Oppure essa non deve passare attraverso profonde riforme del le strutture attuali a livello comunitario e a livello nazionale? Come atlantismo e restaurazione capitalistica hanno proceduto di pari passo, così oggi l'autonomia nazionale ed europea sono legate intimamente, intrecciate dialetticamente, a un processo di avanzata democratica e antimonopolistica in t[...]

[...] ogni paese e a livello europeo, appare evidente anche in virtù di alcune particolarità della struttura politica e militare della NATO.
Veicolo generale di questi processi, la NATO infatti ha avuto anche una sua più specifica funzione sia pure nel semplice ambito della produzione bellica. La NATO è infatti, per conto suo come istituzione, un committente economico di un certo rilievo. Tutta l'attività della NATO in questa direzione è circonda ta dal segreto. Ma sfogliando il suo bollettino mensile — Notizie NATO — non è raro imbattersi in notizie co
me questa: « il consiglio
atlantico ha approvato la decisione — presa dalla conferenza NATO dei direttori nazionali degli armamenti — di istituire un gruppo consultivo industriale NATO. Oltre a svolgere funzioni consultive nei riguardi della conferenza degli armamenti, il nuovo organismo costituirà la sede idonea per la presentazione di problemi importanti a elementi rappresentativi delle industrie della NATO, nonchè per l'esame delle politiche e dei metodi NATO in fatto di studio, di ricerca e di produzione, entro i limiti in cui tali aspetti interessano l'industria ». Ricucendo molte di queste notizie si può ricavare un quadro molto preciso in cui si vede emerger[...]

[...]di problemi importanti a elementi rappresentativi delle industrie della NATO, nonchè per l'esame delle politiche e dei metodi NATO in fatto di studio, di ricerca e di produzione, entro i limiti in cui tali aspetti interessano l'industria ». Ricucendo molte di queste notizie si può ricavare un quadro molto preciso in cui si vede emergere un fenomeno assai significativo: le commesse NATO all'industria europea non riguardano mai i prodotti completi dalla progettazione alla produzione finita. Tutto avviene sulla base della ricerca statunitense, lasciando agli europei il ruolo di « terminali » di un centro creativo e di direzione collocato oltre Atlantico.
Il condizionamento industriale e sulle prospettive di sviluppo economico di questa linea, è evidente. Da un lato si riducono i margini di scelta degli orientamenti produttivi e di ricerca dell'Europa, dall'altro lato se ne condiziona la vita, e quindi si determina un forte lobby industriale europeo legato visceralmente alla NATO.
Ma vi è un altro aspetto da vedere. Sempre dal bollettino della NATO risulta che vi è uno staff internazionale di pianificazione militare. Non è del tutto bizzarro che, con i grandi discorsi sulla sovranazionalità, l'unico terreno in cui essa operi effettivamente è quello militare. Il primo piano pluriennale di produzione bellica della NATO arriva al 1972, prescindendo già quindi da ogni possibile recessione di questo o quello alleato a partire dal 1969.
In altri termini la NATO è diventata un enorme apparato economico, militare, politico che invade la vita di ogni paese alleato fin nei suoi aspetti più interni.
Cade qui il discorso sugli « accordi segreti » e bilaterali che ogni paese alleato ha firmato con gli USA. La Francia, uscendo dal comando militare integrato, ha sollevato un velo — ancora modesto e incompleto — sulla natura di questi accordi e sullo stretto rapporto esistente tra lo atlantismo e la democrazia interna di ogni paese alleato. Il colpo di Stato in Grecia ha sollevato un velo più consistente e ci ha fatto comprendere da un lato, e ancora una volta, la netta subordinazione della NATO agli interessi statunitensi, e dall'altro la
to la sua presenza effettiva
e per molti versi ricattatoria
e condizionante su tutta la vita interna dei paesi della Europa occidentale. Su questo stesso settimanale si scriveva alcune settimane orsono: « Si tratta die vedere (per ogni paese alleato) quale potente gruppo di potere — forse dell'apparato militare, civile e poliziesco dello Stato — sia venuto consolidandosi intorno alla NATO con una sua autonomia di manovra e di iniziativa, e con una tensione di punta nel fare emergere, oramai periodicamente, pericoli autoritari »
Ma a questa domanda bisogna aggiungerne altre rigua[...]

[...]re — forse dell'apparato militare, civile e poliziesco dello Stato — sia venuto consolidandosi intorno alla NATO con una sua autonomia di manovra e di iniziativa, e con una tensione di punta nel fare emergere, oramai periodicamente, pericoli autoritari »
Ma a questa domanda bisogna aggiungerne altre riguardanti gli strumenti specifici di cui la NATO dispone per quegli interventi_ Da un lato il tipo di struttura dato agli eserciti degli alleati, dall'altro lato i servizi segreti, e dall'altro ancora i servizi di « difesa civile ». In un recente numero di Notizie NATO (febbraio 1969) vi è un articolo non firmato, dal titolo « L'importanza della difesa civile », in cui si accenna a una vera e propria struttura (« Comitato superiore dei piani di emergenza nel settore civile») messa in pied: fin dal 1955,
e dipendente direttamente dal Comando militare integrato. Il Comitato si articola in una serie di sezioni: controllo, servizio di capiisolati, salvataggio e pronto soccorso, telecomunicazioni, polizia (« Le forze di polizit del tempo di pace dovrebbero essere aumentate a mezzo di reclutamento di volontari »). Si viene a sapere che « nella maggior parte dei paesi europei della NATO » vi « sono scuole di difesa civile allo scopo di formare dei volontari » mediante « corsi teorici e lavori pratici ». Lo scopo della difesa civile è ambiguo, perchè abbiamo già visto, all'inizio, come nel concetto di aggressione esterna rientri[...]

[...]cani e di quelli delle classi dominanti europee. La pesantezza dei suo meccanismo, l'aumento e non la diminuzione dei rischi per i paesi alleati degli Stati Uniti nella tnrhinosa vipenria internazionale di questi ultimi anni. Ma la sua radice principale è nella subalternità
e diseguaglianza in cui si
è trovata l'Europa rispetto agli Stati Uniti. L'urto e il uu.seaiso sono divenuti nnevitabili nel momento in cui la politica di Washington, lungi dall'esercitare una mediazione in nome degli interessi di tutto l'occidente capitalistico, si è rivelata pienamente come corrispondente a specifiche scelte dell'imperialismo USA, cercando di coinvolgervi l'Europa. La crisi di Cuba nel 1962, e soprattutto l'aggressione al Vietnam, furono i campanelli d'allarme di una situazione che era venuta già incancrenendosi fin dai primi anni di vita dell'Alleanza.
Gli interessi degli Stati Uniti coincidono sempre con quelli dei loro alleati europei? questo l'interrogativo che ha cominciato a dilagare in Europa, anche in settori non trascurabili della borghe[...]

[...]inciato a dilagare in Europa, anche in settori non trascurabili della borghesia europea... Di qui una serie di spinte di varia natura e anche di segno opposto. Il ripiegamento nazionale gollista, espressione di un insorgente conflitto interirnperialista, oltre che di una diver nte veduta sui problemi mondiali, ha costituito la spinta principale. Ma a essa se ne sono aggiunte altre, per esempio nella destra della Germania occidentale, determinate dal risentimento e dalla paura che gli impegni globali degli USA comportino un « disimpegno » americano in Europa, che metterebbe in crisi il revanchismo.
Riflussi nazionalisti, esigenze di autonomia nazionale, spinte economiche oggettive, spunti revanchisti, preoccupazioni reazionarie si sono confusi insieme scuotendo le strutture politiche (me
no quelle militari) della NATO. Neanche gli avvenimen
ti cecoslovacchi — che pure
hanno avuto un peso nel « rilanciare » gli impegni milita
ri e far passare antiche ri
chieste degli Stati Uniti agli alleati europei — hanno potuto attenuare la portata di questa crisi n[...]

[...]petto non si è oggi attenuato, anzi in una certa misura appare rinvigorito. Quel che si delinea parallelamente
invece un nuovo discorso politico sulle funzioni della Alleanza.
I precedenti della storia non sono certo confortanti. Tutte le proposte e gli accorgimenti che gli europei hanno avanzato e adottato in questi venti anni, per avere un maggiore « peso » nell'Alleanza sono miseramente falliti. Dai « tre saggi » del 1956 al piano Duynster, dalla proposta del direttorio « a tre » avanzata da De Gaulle al piano Harmel, una per una le proposte sono cadute di fronte all'intoccabilità dei dominio statunitense. Nel già citato saggio di Luisa Calogero La Malfa si conviene, con una punta di amarezza, sulla « scarsa disposizione degli USA a cedere parte della loro leadership non solo strategica . ma anche politica in seno alla NATO e quindi a capire quale sia il ruolo dell'Europa nell'Alleanza atlantica ». Le stesse controproposte americane, di cui rimane emblematico il grande disegno kennediano di una
minimo », il quale sarebbe tuttavia l[...]

[...]attore pregiudiziale all'attuazione di quella politica. La « fedeltà attraverso le mutazioni », l'ordine statico fondato sulla egemonia americana, « distensiva » o no divenga l'azione della NATO, sono due connotati intrinseci alla sua natura, alle sue funzioni, alle sue origini. Perciò ogni riammodernamento o revisione che non metta in discussione la realtà dei rapporti USAEuropa, ogni atto politico che rimanga i
alla logica del blocchi imposta dall'imperialismo americano, è destinato a restare lettera morta, pura velleità, e a consacrare quello strapotere americano in Europa che nella NATO ha trovato la sua istituzionalizzazione e le vie del suo progressivo consolidamento.
Non esistono una Alleanza atlantica o una NATO pulite, fatte di eguali tra gli eguali. In quest'ambito e con quella politica non vi è spazio per la sovranità, l'autonomia nazionale; non vi è spazio per l'Europa; non vi è spazio per il pieno dispiegamento della libertà e della democrazia, fondate sulla libera dialettica delle classi e delle forze politiche, all'inter[...]



da g.c.[G. Castellani], scheda sintetica di «Rendiconti» in KBD-Periodici: Rinascita 1975 - 8 - 29 - numero 34

Brano: [...]Schulafrage del novecento » (L. Rosiello) e « Per un'estetica marxista d'opposizione » (G. Scalia), insieme ad altri in cui prevale l'impostazione strutturalistica e l'attenzione agli aspetti metodologici.
Il rigore ideologico della rivista, e la coerenza con la sua impostazione scientifica, si riscontrano sia nei numeri dedicati per intero all'esame dei problemi del marxismo (come il fascicolo n. 10, marzo 1965, di cui si ricorda A. Pirella, « Dal rifiuto all'alternativa » (« Prima scelta socialista con il Psiup »), sia in quelli che esaminano alcuni aspetti culturali specifici, come la comunicazione teatrale, e l'esame del linguaggio e dello spazio teatrali (n. 2627, gennaio 1974). (g. c.)



da [Le relazioni] C. Luporini, La metodologia del marxismo nel pensiero di Gramsci in Studi gramsciani

Brano: [...], filosoficamente, nel pensiero di Gramsci, quale uno sforzo di intendere e interpretare il marxismo alla stregua di una pura o mera metodologia (salvo, naturalmente, a vedere di che cosa esso sarebbe la metodologia).

Tentativi di questo genere, nei riguardi del marxismo, furono fatti, com’è noto, nel passato ed hanno tutta una storia che non sarebbe punto lecito giudicare e tanto meno liquidare in blocco e in astratto, cioè indipendentemente dal contesto di problemi e di indirizzi ideali, e dalle concrete situazioni culturali, in cui sorgevano. Si tratta, apparentemente, di una questione vecchia, ed a qualcuno verrà fatto di ricordare come il Croce, nei suoi scritti intorno al marxismo della fine del secolo, addirittura negasse che il marxismo, o più esattamente il « materialismo storico » (con la quale designazione si tendeva allora a comprendere tutta la dottrina) fosse da considerare un «metodo», nel mentre che gli toglieva anche il carattere di « teoria », riducendolo a empirico « canone d’interpretazione storica » 1. Ove, allo storico delle idee, soprattutto interessa

1 B. C[...]

[...]e tendenze filosofiche rimasero» in quelli che erano allora i loro inizi (e più esattamente dovremmo dire: in quella che fu la loro prima fase di svolgimento), ignote a Gramsci, sarebbe errato, credo, affermarle estranee in modo radicale alla sua mentalità. Effettivamente i Quaderni del carcere si presentano assai ricchi di osservazioni, spunti, suggerimenti critici particolari, di carattere « metodologico» relativi a settori o campi determinati dall’indagine scientifica (ancorché non riguardanti direttamente le scienze matematiche e fisiche, di cui Gramsci non aveva esperienza), ed è di lui l’affermazione che « ogni ricerca ha un suo determinato metodo e costruisce una sua determinata scienza » 2. Farli oggetto di studio e di svolgimento non vi è dubbio che sarebbe cosa da incoraggiarsi e, voglio aggiungere, quel clima filo
1 Op. cit., p. 90.

2 M. S., p. 136. Il passo è, caratteristicamente, citato da Ludovico Geymonat nel saggio « Caratteri e problemi della nuova metodologia » in Saggi di filosofia neorazionalista, Torino, 1953, pp[...]

[...]374.Cesare Luporini

447

sofico odierno in cui respirano, anche nel nostro paese, buona parte delle giovani generazioni degli specialisti di filosofia, dovrebbe essere a ciò particolarmente favorevole. Indubbiamente quegli spunti sono indicativi di alcuni fra gli interessi più odginali di Gramsci1. Essi tuttavia non sono isolabili, se li si vuole intendere e non fraintendere, se non si vuole commettere cioè una sopraffazione intellettuale, dalla metodologia del marxismo come vive ed opera in Gramsci: cioè del procedimento effettivo con cui egli elabora i concreti problemi di cui si occupa. Rilevare questa effettiva, esplicita, o implicita, metodologia, è il primo compito; ed è ciò a cui qui si cerca di recare un contributo.

Ora, proprio a questo punto potrebbe sorgere l’equivoco a cui mi riferivo in principio. Conviene perciò dichiarare subito che il marxismo non è per Gramsci soltanto un « metodo » ma è una filosofia, in quanto integrale e « generale » concezione della realtà, o, come egli suole dire,, sulle orme del Labriola, [...]

[...]alche modo, « concezione del mondo ». Ciò non era per Gramsci oggetto di discussione. Che si possa proporre l’idea di una filosofia quale « strenge Wissenschaft », scienza rigorosa, proprio in quanto contrapposta alla W eltanschauung, e in certo modo svuotata di essa, era tesi che ancora non aveva avuto, praticamente, risonanza in Italia, negli anni in cui scriveva Gramsci (e del resto, se non erro, neppure in Francia). Essa era stata affacciata dallo Husserl nel 1911, in uno scritto thè credo di grande interesse per la storia filosofico
1 Penso, in modo particolare, alle riflessioni e osservazioni di Gramsci intorno ai problemi del linguaggio e dei linguaggi (tecnici, specialistici ecc.).

2 Cfr. A. Labriola, Discorrendo di socialismo e di filosofia, Bari, 19444?

p. 10 e passim.448

Le relazioni

culturale europea di questo secolo1 (di queirideale lo Husserl veniva da tempo elaborando e applicando il metodo). Ricordo ciò perché quella tesi ci appare storicamente annunciatrice di tanti successivi indirizzi e procedimenti conce[...]

[...]a che la maggior parte degli altri uomini si occupino di trigonometria ecc. (si possono trovare scienze raffinatissime, specializzatissime, necessarie, ma non perciò “ comuni ”), ma non si può pensare nessun uomo che non sia anche filosofo, che non pensi, appunto perché il

pensare è proprio dell'uomo come tale».

Questo richiamo di Gramsci non ha nulla a che fare con una certa, nota, tesi idealistica. O, se voghiamo, è la traduzione di essa dal cielo speculativo ai suoi termini reali, che saranno sempre, per Gramsci, termini « storicistici ». «Non il “pensiero”, ma ciò che realmente si pensa unisce o differenzia gli uomini » 1, egli dice altrove.

Ora, « ciò che realmente si pensa » non è per Gramsci semplice
mente ciò che si crede di pensare, ma quanto si manifesta nella pratica,

nel pratico operare: tuttavia luno aspetto e l’altro, ciò che si crede di pensare e ciò che effettivamente si pensa operando, costituiscono, tutt’insieme, quella « concezione del mondo» per cui tutti gli uomini sono « filosofi ». La quale può essere [...]

[...] punto di leva e di riferimento (« una lotta di classe che già esiste », avevano detto di « esprimere » i fondatori del marxismo nel Manifesto) per la modificazione della « concezione del mondo » (della « coscienza teorica » ), onde portarla a coerenza con le esigenze e i presupposti di quell’operare, innalzandola a un livello superiore, quello appunto della

1 M. S., p. 11.Cesare Luporini

451

coerenza e consapevolezza critica, prodotte dall’analisi dei rapporti storici e sociali in cui si opera. È molto interessante il modo in cui Gramsci collega questi concetti con l’intento educativo che aveva presente. Quei rapporti « importa conoscerli geneticamente, nel loro modo di formazione, poiché ogni individuo non solo è la sintesi dei rapporti esistenti ma anche della storia di questi rapporti, cioè è il riassunto di tutto il passato. Si dirà che ciò che ogni singolo può cambiare è ben poco, in rapporto alle sue forze. Ciò che è vero fino a un certo punto. Poiché il singolo può associarsi con tutti quelli che vogliono lo stesso camb[...]

[...] più conseguente conclusione della XI tesi su Feuerbach: «I filosofi hanno solo interpretato il mondo in modi diversi; si tratta però di mutarlo ».

Gramsci poneva in relazione questa tesi col detto famoso del « prole
1 M. S., p. 29.452

Le relazioni

tariate tedesco erede della filosofia classica tedesca », detto che, natijfalmente, ha assunto un significato estensivo, generale, per il proletariato rivoluzionario. Gramsci si guarda bene dal prendere questo motto quasi un emblema, un blasone, come spesso superficialmente e retoricamente è stato fatto, ma cerca di comprenderne ed elaborarne il significato. Ed uno dei significati fondamentali è questo: che il marxismo, proprio in quanto è filosofia, ossia « concezione del mondo », quella concezione del mondo che tende ad unificare coerentemente innanzi tutto la coscienza della classe rivoluzionaria nella sua azione collettiva, è, per questa sua intrinseca natura, filosofia di massa ( « concezione di massa », « concezione unitaria di massa » ). Non in un senso, naturalmente, deterio[...]

[...]a sua intrinseca natura, filosofia di massa ( « concezione di massa », « concezione unitaria di massa » ). Non in un senso, naturalmente, deteriore e antiscientifico, o sottoscientifico, ma in un senso nuovo e rivoluzionatore del concetto tradizionale di « filosofia ». (E certo tale espressione potrà fare arricciare il naso a chi non sa staccarsi da quest’ultimo.) Ossia, è una filosofia che, nella storica concretezza del suo svolgimento, attinge dal movimento delle masse, dalle esperienze di esso e della sua direzione, la sua stessa ragione di essere e gli elementi del proprio sviluppo critico. Ma questo fatto, ossia questo legame fra la coscienza in trasformazione di grandi masse umane e la criticità filosofica (che naturalmente ha molte* plici gradi ed elementi di mediazione) è un fatto assolutamente nuovo' e rivoluzionario nella storia, il quale modifica le dimensioni stesse del filosofare (introducendo in esso quello che potremmo dire un nuovo parametro, un coefficiente ulteriore che muta i precedenti rapporti) e con ciò trasforma anche la figura tradizionale [...]

[...]assivamente alla rivoluzione politica e sociale, ma essa deve venire operata e perseguita attivamente e consapevolmente da chi dirige (e comprende tanto la fase prerivoluzionaria e prestatale, quanto quella postrivoluzionaria e statale, con le grandi differenze fra luna e l’altra). Gramsci ha sentito molto acutamente la complessità dei problemi che si propongono ad una classe subalterna quando essa si trasforma in classe autonoma e dirigente : « dal momento in cui un gruppo subalterno diventa realmente autonomo ed egemone... — egli dice — nasce concretamente l’esigenza di costruire un nuovo ordine intellettuale e morale » \ Nel quadro di tali questioni strettamente saldato all’interesse politico, emerge il costante interesse educativo di Gramsci, non più rivolto ora ai singoli, ma tale che investe tutto il contenuto democratico del comuniSmo come movimento reale: il nesso fra dirigenti e diretti, governanti e governati, educatori ed educati, su cui egli ripetutamente ritorna.

Quella nozione gramsciana del marxismo come « riforma intel[...]

[...]losofia marxista, che è, prima di ogni altra cosa, la teoria rivoluzionaria della classe operaia e si rivolge innanzi tutto ad essa (Marx, Engels, Lenin, si preoccuparono sempre molto dell’educazione « teorica » degli « operai coscienti » e ne curarono attentamente i progressi, anche di piccoli gruppi), ma che assegna nel medesimo tempo alla rivoluzione proletaria un significato universale di riscatto dell’integrale umanità dell’uomo, dilacerata dalla divisione della società in classi antagoniste, le quali fondano la loro esistenza su « sistemi di sfruttamento » del lavoro, succedentisi storicamente. Integrale umanità d'ell’uomo che non è intesa nel marxismo (a differenza dei precedenti umanesimi, religiosi o no) come un dato metafìsico od originario da ripristinarsi, ma come una esigenza posta in forma determinata dallo svolgimento storico, come un fine e un punto di arrivo (neppur esso, naturalmente, da intendersi in senso assoluto o metafisico). « L’44 umano ” è un punto di partenza o un punto di arrivo, come conceto e fatto unitario? », si chiede Gramsci. « In quanto posto come punto di partenza » la ricerca stessa di esso non è, egli risponde, che « un residuo 44 teologico ” e 46 metafisico ” » 2. Proprio per questo la concezione marxista « che 46 la natura umana ” sia il 44 complesso dei rapporti sociali” è la risposta più soddisfacente — prosegue Gramsci — perché include l’idea del divenire: l’uomo d[...]

[...]. S.f p. 31.

30.456 Le relazioni

c

continuamente col mutarsi dei rapporti sociali, e peirché nega l’« uomo in generale » : infatti i rapporti sociali sono espressi da diversi gruppi di uomini che si presuppongono, la cui unità è dialettica, non formale ». E ancora precisa : « Si può anche dire che la natura dell'uomo è la 64 storia ”... se appunto si dà a storia il significato di “ divenire ”, in una “ concordia discors ” che non parte dall’unità, ma ha in sé le ragioni di una unità possibile ». Perde allora senso, dal punto di vista marxista, — attraverso questa negazione dell’uomo in generale — la domanda « che cosa è l’uomo»? All’opposto, possiamo dire: essa acquista un significato concreto che è un significato di movimento, o svolgimento consapevole, e come tale essa, potremmo aggiungere, è indirizzante, pratica, regolativa. « Se ci pensiamo — scrive Gramsci — vediamo che ponendoci la domanda che cosa è l’uomo, vogliamo dire: che cosa l’uomo può diventare,, se cioè l’uomo può dominare il proprio destino, può “ farsi ”, può crearsi una vita ». Quella domanda « è nata da ciò che abbiamo riflettuto su noi [...]

[...]ir fragen jetzt, hier, fùr uns » dello Heidegger. Anche esigenze presentate in forma speculativa e unilaterale nell’esistenzialismo possono trovare il loro luogo concreto nell’umanismo marxista.Cesare Luporini

457

la parola 66 genere ”, di carattere naturalistico, ha il suo significato » 1. Che cosa intendeva qui dire Gramsci? Egli ha respinto risolutamente, nel medesimo contesto, l’idea che « l’unità del genere umano » possa esser « data dalla natura “ biologica ” dell’uomo ». Gramsci osserva che « le differenze dell’uomo che contano nella storia non sono quelle biologiche » e che « neppure 1’“ unità biologica ” ha mai contato gran che nella storia » 2. E tuttavia, ripetiamo, il « carattere naturalistico » dell’espressione genere umano ha per lui « il suo significato ». Il fatto è che Gramsci non pensa neppur lontanamente a negare l’esistenza di quella unità (o comunità) biologica dell’uomo, comunque prodottasi, bensì la sua incidenza rilevante nella storia umana. La naturalità dell’uomo, in senso puramente biologico, è per Grams[...]

[...]o significato ». Il fatto è che Gramsci non pensa neppur lontanamente a negare l’esistenza di quella unità (o comunità) biologica dell’uomo, comunque prodottasi, bensì la sua incidenza rilevante nella storia umana. La naturalità dell’uomo, in senso puramente biologico, è per Gramsci, come per tutto il marxismo, soltanto un presupposto della storia umana. Non può esser cercata li quellunità delXumcmo che sta dinanzi a noi come un obiettivo, posto dallo svolgimento storico. Ma, d’altronde, quel « presupposto » della storia (umana) non è, sotto un altro riguardo, inoperante in essa. Potremmo dire: non più in quanto oggetto della biologia (che appunto astrae, considerando l’uomo, dallo svolgimento della sua storica socialità), ma in quanto oggetto della economia politica, ossia di una scienza storicoumana, che il marxismo, in quanto ne ha fatto la « critica », ha integralmente storicizzato. Sotto tale aspetto l’uomo rimane pur sempre, insuperabilmente, natura, ma di una naturalità ormai inglobata nella storicitàsocialità umana e funzione di essa. E tuttavia (contro ogni idealismo), un momento irri^ ducibile di questa. Questa è la posizione integralmente marxista; e qui, ci sembra, è il più rigoroso fondamento materialistico del marxismo. Scrive Marx nel Capitale: « La tec[...]

[...] semplici ai più complessi. Cosi l’uomo non entra in rapporti con la natura semplicemente per il fatto di essere egli stesso natura, ma attivamente, per mezzo del lavoro e della tecnica » 1.

A chi ben guardi questa posizione (che abbiamo riscontrato in Marx e in Gramsci) comporta la centralità del materialismo storico nella filosofia marxista. Ossia, la centralità della considerazione dell’uomo nel suo nesso permanente e attivo con la natura (dal cui svolgersi e complicarsi storico si sviluppa tutta la storia sociale umana), come dell’unico punto di partenza concreto che possediamo per ogni altra considerazione sul reale. È il punto di partenza teorizzato riassuntivamente, ma incisivamente, da Marx nelle undici Tesi su Feuerbach (testo capitale per Gramsci) e il cui principio gnoseologico fu espresso da Lenin come « criterio della prassi». Ma qui conviene essere molto chiari, perché quanto stiamo dicendo contiene un preciso elemento polemico. Non sembrano conciliabili con questa posizione a cui Gramsci è fedele (e la riteniamo Tunica [...]

[...]o Tunica rigorosamente critica, oltreché corrispondente alla stessa genesi storica della dottrina) quelle forme di esposizione del marxismo, ancorché compiute a scopi didascalici, nelle quali il « materialismo storico » appare, secondo una implicita logica classificatoria e non dialettica, come caso particolare di applicazione (alla società) di un più generale « materialismo dialettico », la descrizione del cui contenuto sembri poter prescindere dalla presenza déll’uomo nel mondo. (Questa osservazione di per sé non implica la pretesa che sia la presenza dell’essere umano, e tanto meno

1 M. S., p. 28.Cesare Luporini

459

il suo pensiero, ad introdurre la dialetticità nel reale.) Eppure quelle forme di esposizione sono oggi le più diffuse e generalmente riconosciute.

Credo che si tratti di una questione non scolastica e formale, ma di sostanza. Solo queU’atteggiamento mentale, ci sembra, che serba come costante punto di riferimento la prassi umana sensibile, può garantire il marxismo dalle intrusioni di materialismo metafìsico [...]

[...] dell’essere umano, e tanto meno

1 M. S., p. 28.Cesare Luporini

459

il suo pensiero, ad introdurre la dialetticità nel reale.) Eppure quelle forme di esposizione sono oggi le più diffuse e generalmente riconosciute.

Credo che si tratti di una questione non scolastica e formale, ma di sostanza. Solo queU’atteggiamento mentale, ci sembra, che serba come costante punto di riferimento la prassi umana sensibile, può garantire il marxismo dalle intrusioni di materialismo metafìsico (che non basta respingere a parole). Siffatto atteggiamento mentale, che fu proprio dei fondatori della dottrina, ci sembra l’unico che consenta la possibilità di permanente ricostruzione e svolgimento del contenuto di ciò che si è venuti chiamando « materialismo dialettico » in forma tale che questo rimanga sempre aperto ai nuovi resultati e ai metodi in trasformazione delle scienze della natura, verificandoli e discutendoli in un’adeguata concezione filosofica. Esigenza, se non erriamo, che fu proprio posta dai classici, in particolare dallo Engels, i[...]

[...]ori della dottrina, ci sembra l’unico che consenta la possibilità di permanente ricostruzione e svolgimento del contenuto di ciò che si è venuti chiamando « materialismo dialettico » in forma tale che questo rimanga sempre aperto ai nuovi resultati e ai metodi in trasformazione delle scienze della natura, verificandoli e discutendoli in un’adeguata concezione filosofica. Esigenza, se non erriamo, che fu proprio posta dai classici, in particolare dallo Engels, il quale si occupò più da vicino di tali questioni. E ciò contro ogni contrazione scolasticodogmatica del marxismo stesso.

La metodologia marxista di Gramsci, che si affinò, sotto questo riguardo, nella discussione critica del manuale del Bukharin1, ed ha come filo conduttore la persuasione profonda della integrale autonomia filosofica del marxismo (senza perciò tagliare i fili che storicamente lo congiungono alla precedente tradizione di pensiero), ci tiene ben lontani dal rischio suddetto. Qui è necessario aggiungere che, se è vero che il marxismo come rivoluzione filosofica è [...]

[...]cino di tali questioni. E ciò contro ogni contrazione scolasticodogmatica del marxismo stesso.

La metodologia marxista di Gramsci, che si affinò, sotto questo riguardo, nella discussione critica del manuale del Bukharin1, ed ha come filo conduttore la persuasione profonda della integrale autonomia filosofica del marxismo (senza perciò tagliare i fili che storicamente lo congiungono alla precedente tradizione di pensiero), ci tiene ben lontani dal rischio suddetto. Qui è necessario aggiungere che, se è vero che il marxismo come rivoluzione filosofica è coincidenza di naturalismo e umanismo (i quali nella loro compiutezza si convertono l’uno nell’altro), può darsi che vi sia in Gramsci, di fatto, soprattutto per ragioni di interna polemica (contro le penetrazioni di materialismo metafisico nel marxismo), una certa attenuazione dell’istanza o componente naturalistica rispetto a quella umanistica, uno squilibrio in questo senso. Chi scrive lo ritiene. A Gramsci interessò soprattutto il lato umano (e quindi anche ideologico, super struttur[...]

[...]strutturale, storico) della questione dell 'oggettività, attorno a cui le sue riflessioni sono di grande importanza e originalità Ma per quanto concerne il grave problema del nesso fra questa oggettività e la naturalità si è ormai come al margine estremo del suo interesse; e della sua meditazione. E non è detto che qui non si verifichi qualche

1 M. S., pp. 117168.460

Le relazioni

oscillazione o incertezza. Gramsci è sempre lontanissimo dal contentarsi di ripetere formulazioni precostituite, per quanto esse possano apparire suggestive e pregnanti. Egli si sforza sempre di pensarle e vederle in tutte le loro connessioni, e appunto per questo è un maestro di metodo. La questione che abbiamo dinanzi è quella della difficile saldatura obiettiva (ossia non più soltanto nel soggetto umano, come prassi sensibilerazionale) fra naturalità e storicità, che è indubbiamente, credo, il punto teorico più delicato di tutta la filosofia marxista. Da quel margine estremo, che si è detto, Gramsci indicava, tuttavia, lo sviluppo ulteriore della ri[...]

[...]uesta è dimostrata da uno sviluppo lungo e laborioso della filosofia e delle scienze naturali ». Ove Gramsci commentava dicendo che questa formulazione « contiene il germe della concezione giusta, perché si ricorre alla storia e all’uomo per dimostrare la realtà oggettiva » \ Notazione storicistica squisitamente gramsciana. Eppure solo chi avesse gli occhi bendati di dogmatismo e di scolasticismo potrebbe vedere in essa un qualche allontanamento dalla posizione dei classici (che non fu mai né empiristica, né positivistica, né materialisticovolgare). Proprio lo Engels, nel 1885, concludendo la sua prefazione alla seconda edizione dell’Antiduhring, sottolineava tale complessa storicità della filosofia e insieme delle scienze (delle une in rapporto all’altra) come unico punto di riferimento possibile per liberarsi da qualsiasi visione « metafisica » della natura e « filosofia della natura » 2.

1 M. S., p. 142.

2 « ... Sono le opposizioni diametrali, rappresentate come irreconciliabili ed insolubili, le linee di demarcazione e le diffe[...]

[...]bili ed insolubili, le linee di demarcazione e le differenze fra le classi fissate violentemente quelle che hanno diito alla moderna scienza teorica della natura il suo ristretto carattere metafisico. 11 riconoscimento che queste opposizioni e queste differenze in verità sono presenti nella natura, ma con una validità solo relativa, e che invece quella rigidità e quella assoluta validità con cui sono presentate viene introdotta nella natura solo dalla nostra riflessione; questo riconoscimento costituisce il punto centrale della concezione dialettica della natura. È possibile arrivare a questa concezione perché vi si è costretti dall’accumularsi dei fatti della scienza della natura, ma vi si arriva più facilmente se si raccosta al carattere dialettico di questi fatti la coscienza delle leggi del pensiero dialettico. In ogni caso, la scienza della natura è oggi cosi avanzata che non sfugge più alla sintesi dialettica. Ma essa si renderà più agevole questo processo, se non dimenticherà che i risultati, in cui sono sintetizzate le sue esperienze, sono concetti; ma che l’arte di operare con dei concetti non è innata e neppure è acquisita con la coscienza comune di tutti i giorni, ma richiede invece un pensiero realeCesare L[...]

[...]lla natura è oggi cosi avanzata che non sfugge più alla sintesi dialettica. Ma essa si renderà più agevole questo processo, se non dimenticherà che i risultati, in cui sono sintetizzate le sue esperienze, sono concetti; ma che l’arte di operare con dei concetti non è innata e neppure è acquisita con la coscienza comune di tutti i giorni, ma richiede invece un pensiero realeCesare Luporini

461

Il giro del discorso sembra averci allontanato dal punto principale intorno a cui esso verteva, e cioè dall’interpretazione gramsciana del marxismo come « concezione unitaria di massa » e « riforma intellettuale e morale », « riforma popolare dei tempi moderni ». E tuttavia è un allontanamento solo apparente, perché il contenuto critico del marxismo non è concepito da Gramsci come indifferente o superiore e distaccato rispetto alla concretezza del movimento reale di cui esso è la teoria.

L esigenza di far convergere storicamente l’aspetto di « filosofia di massa » del marxismo con la soluzione dei compiti teorici e scientifici più alti e complessi, cioè l’esigenza di una « cultura integrale », [...]

[...]rio di interpretazione storiografica) 1 o proiettata verso il futuro — non è comprensibile senza

e questo pensiero ha una lunga storia sperimentale; né più e né meno dell’indagine naturalistica sperimentale. Appunto imparando a far propri i resultati dello sviluppo della filosofia durante venticinque secoli, essa si libererà da un lato da ogni filosofia della natura che stia a parte e al di fuori e al di sopra di essa, ma anche, d’altro lato, dal suo proprio metodo limitato di pensare, ereditato dall’empirismo inglese » (F. Engels, Antiduhring, trad. it., Roma, 1950,

pp. 1819).

1 Importante, ad esempio, a questo riguardo la nozione gramsciana di quella che è la filosofia di un’epoca : « Dal punto di vista che a noi interessa, lo studio della storia e della logica delle diverse filosofie dei filosofi non è sufficiente. Almeno come indirizzo metodico, occorre attirare l’attenzione sulle altre parti della storia della filosofia; cioè sulle concezioni del mondo delle grandi masse, su quelle dei più ristretti gruppi dirigenti (o intellettuali) e infine sui legami tra questi vari complessi culturali e la filosofia dei filosofi. La filosofia di un’epoca non è la filosofia di uno o altro filosofo, di uno o altro gruppo di intellettuali, di una o altra grande partizione delle masse popol[...]

[...]

Le relazioni

quella dimensione nuova del filosofare (non ha nulla a che vedere, ad esempio, con una identificazione verbale di tipo attualistico).

Anche la polemica contro l’idealismo, che si svolge in Gramsci attraverso una serie estremamente differenziata di motivi (legati in gran parte a circostanze della cultura italiana, e specialmente alla discussione col crocianesimo), e conduce altresì a una serie di « traduzioni » e di recuperi dal « linguaggio speculativo » della filosofia idealistica a quello concretamente storicistico del marxismo, è innanzi tutto argomentata e fondata sulla « impotenza della filosofia idealistica a diventare una integrale concezione del mondo» *, valida per tutti gli uomini, nella realtà di oggi; cioè fede e senso comune non di gruppi ristretti,, legati al privilegio sociale, ma dell’intiera umanità associata. Per converso, la polemica di Gramsci contro le penetrazioni nel marxismo di materialismo volgare o metafisico, benché si svolga su un piano strettamente teorico, comporta anche la relativa giu[...]

[...]ella teoria nuova, per fornire di nuove armi l’arsenale del gruppo sociale cui erano legati. D’altra parte la ten
1 M. S., p. 226.

2 Su questo concetto Gramsci torna frequentemente, studiando i diversi aspetti della questione. Cfr., in particolar modo, M. S., pp. 81, 84, 87* 151, 1623, 223.

3 Ciò vale soprattutto nei confronti deH’idealismo, o « neohegelianesimo », italiano del Croce e del Gentile, che prese l’avvio, alla fine del secolo, dalla discussione col marxismo ed a quella è sempre rimasto, in qualche modo, legato.denza ortodossa si trovava a lottare con l’ideologia più diffusa nelle masse popolari, il trascendentalismo religioso, e credeva di superarlo solo col più crudo e banale materialismo che era anche esso una stratificazione non indifferente del senso comune, mantenuta viva, più di quanto si credesse e si creda, dalla stessa religione che nel popolo ha una sua espressione triviale e bassa, superstiziosa e stregonesca, in cui la materia ha una funzione non piccola. Il Labriola si distingue dagli uni e dagli altri per la sua affermazione (non sempre sicura, a dire il vero) che. la filosofia della prassi è una filosofia indipendente e originale che ha in se stessa gli elementi di un ulteriore sviluppo per diventare da interpretazione della storia filosofia generale ».

In queste parole, a chi ben guardi, troviamo delineato, e nei suoi termini polemici e in quelli costruttivi, l’intiero ambito in cui si mu[...]

[...]e come un dato, come una cosa già fatta, ma come un elemento di sviluppo e di conquista continua delle sue più profonde implicazioni. E ciò nel quadro di una lotta ideale in cui sono presenti non solo e non tanto astratti termini ideologici (schematizzati ai loro estremi in idealismo e in un certo tipo di materialismo), ma i concreti portatori di essi, da un lato gli « intellettuali “ puri ”, elaboratori delle ideologie delle classi dominanti », dall’altro le masse popolari, in certo modo depositarie del « senso comune ». Quella lotta ideale in cui il marxismo esplica e sviluppa, di fatto, la sua autonomia filosofica, si presenta cosi immediatamente come momento necessario di una complessa lotta reale. In Gramsci questo nesso non va mai perduto, non è mai obliato.

Quel medesimo nesso determina, ci sembra, il suo modo di concepire

10 svolgimento e l’esposizione del marxismo come filosofia. Soprattutto neirepoca in cui lo sviluppo storico ha posto alla classe rivoluzionaria

11 problema dell 'egemonia (direzione politica e cultural[...]

[...]e lavoratrici, non sfugge ciò su cui Lenin aveva richiamato l’attenzione, scrivendo : « Sarebbe il pia

1 Gfr., per la discussione del senso comune, M. S., pp. 57, 9, 11, 2527, 4647, 119121, 123 e passim. Inoltre cfr. p. 148. Gramsci si rifà qualche volta alla distinzione di « senso comune » e « buon senso » e ricorda anche il noto passo del Manzoni (Pp. 216). Alcune riflessioni di Gramsci potrebbero essere confrontate con il capitolo dedicato dal Cattaneo al « senso comune » nella sua Logica, (v. C. CATTANEO, Scritti filosofici letterari e vari, Firenze, 1957, p. 186 sgg.).

2 «...per le grandi masse della popolazione governata e diretta la filosofia o religione del gruppo dirigente e dei suoi intellettuali si presenta sempre come fanatismo e superstizione, come motivo ideologico proprio di una massa servile ».Cesare Luporini

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grande errore e il peggiore che possa commettere un marxista, quello di credere che le masse popolari, costituite da milioni di esseri umani (e soprattutto dalla massa dei contadini e degli artigiani[...]

[...]ze, 1957, p. 186 sgg.).

2 «...per le grandi masse della popolazione governata e diretta la filosofia o religione del gruppo dirigente e dei suoi intellettuali si presenta sempre come fanatismo e superstizione, come motivo ideologico proprio di una massa servile ».Cesare Luporini

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grande errore e il peggiore che possa commettere un marxista, quello di credere che le masse popolari, costituite da milioni di esseri umani (e soprattutto dalla massa dei contadini e degli artigiani) condannati alle tenebre, all’ignoranza e ai pregiudizi da tutta la società moderna, possano uscire da queste tenebre solo seguendo la retta via di un’istruzione puramente marxista » 1. È, anzi, proprio un problema di tale natura che guida la sua ricerca. La discussione col « senso comune », che egli prospetta come elemento essenziale dello sviluppo costruttivo e della diffusione del marxismo, accanto alla lotta politica e sociale (e a chiarimento di essa), non è mai concepita come frattura con quel medesimo « senso comune ». E ciò non solo per ragioni [...]

[...]avoro, e non si*presenti pertanto, entro certi 'limiti, come connessa 'necessariamente alla scienza. Essa concezione nuova magari assumerà inizial
1 Lenin, Il significato del materialismo militante (trad. it. in MarxEngelsmarxismo, Roma, 1952, p. 445).

2 M. S., p. 226.466

Le relazioni

mente forme superstiziose e primitive come quelle delk religione mitologica, ma troverà in se stessa e nelle forze intellettuali che il popolo esprimerà dal suo seno gli elementi per superare questa fase primitiva ».

Queste ultime parole di Gramsci, cosi strettamente connesse all’idea del marxismo come « concezione unitaria di massa » e « riforma popolare », ci conducono al problema della sua fase moderna di svolgimento : rispetto, intendo dire, all’intiera epoca storica in cui viviamo. La questione è sempre considerata da Gramsci in rapporto a quella del potere e dello Stato e della loro conquista da parte della classe operaia. Non è possibile qui entrare nei particolari (ed il tema è oggetto di un’altra relazione), ma è essenziale ricordare [...]

[...]eriori svolgimenti. « L’uomo conosce oggettivamente in quanto la conoscenza è reale per tutto il genere umano storicamente unificato in un sistema culturale unitario; ma questo processo di unificazione storica avviene con la sparizione delle contraddizioni interne che dilaniano la società umana, contraddizioni che sono la condizione della formazione dei gruppi e della nascita delle ideologie non universali concrete ma rese caduche immediatamente dall’origine pratica della loro sostanza. C’è quindi una lotta per l’oggettività (per liberarsi dalle ideologie parziali e fallaci) e questa lotta è la stessa lotta per l’unificazione culturale del genere umano. Ciò che gli idealisti chiamano 44 spirito ” non è un punto di partenza ma d’arrivo, l’insieme delle soprastrutture in divenire verso l’unificazione concreta e oggettivamente universale e non già un presupposto unitario ecc. La scienza sperimentale ha offerto finora il terreno in cui una tale unità culturale ha raggiunto il massimo di estensione... » 2.

È un modo di considerare le cose che pone immediatamente il problema del marxismo come soprastruttura. Ma vi è, dice Gramsci, « u[...]

[...] dei contrasti reali. All’opposto,, essa è «!la coscienza piena delle contraddizioni, in cui lo stesso filosofo, inteso individualmente o inteso come intiero gruppo sociale, non solo, comprende le contraddizioni ma pone se stesso come elemento della contraddizione, eleva questo elemento a principio di conoscenza e quindi azione» 3.

Qui è il nocciolo del modo in cui Gramsci intende la dialettica, secondo che egli aveva appreso, congiuntamente, dalia sua strenua esperienza di lotta e dalla lezione dei classici (si pensi, in particolare, al metodo con cui Marx svolse la polemica contro Proudhon nella Miseriadelia filosofia, considerata da Gramsci un momento essenziale della formazione della « filosofia della prassi » 4). Cosi, la stessa interpretazione del marxismo come soprastruttura ne accentua l’irriducibile autonomia filosofica e insieme la storicità (o « mondanità » o « terrestrità » ), risolutiva di ogni pretesa assolutezza posta al di là del processo dell'esperienza umana. Trovandosi ad annotare un’asserzione del Graziadei, che presentava Marx « come unità di una serie [...]

[...] ha prodotto una originale e integrale concezione del mondo. Marx inizia intellettualmente un’età storica, che durerà probabilmente dei secoli, cioè fino alla sparizione della Società politica e all’avvento della Società regolata. Solo allora la sua concezione del mondo sarà superata » 5.

1 M. S.y p. 237.

2 L’espressione « metter le brache al mondo » ripresa da Gramsci contro Croce per indicare il moderatismo della sua filosofia, era stata dal Croce stessa adoperata nella introduzione al primo fascicolo de La Critica.

3 M. S., pp. 9394.

4 Mach., p. 31 (in nota).

5 M. S., p. 75.


Grazie ad un complesso algoritmo ideato in anni di riflessione epistemologica, scientifica e tecnica, dal termine Dal, nel sottoinsieme prescelto del corpus autorizzato è possible visualizzare il seguente gramma di relazioni strutturali (ma in ciroscrivibili corpora storicamente determinati: non ce ne voglia l'autore dell'edizione critica del CLG di Saussure se azzardiamo per lo strumento un orizzonte ad uso semantico verso uno storicismo μετ´ἐπιστήμης...). I termini sono ordinati secondo somma della distanza con il termine prescelto e secondo peculiarità del termine, diagnosticando una basilare mappa delle associazioni di idee (associazione di ciò che l'algoritmo isola come segmenti - fissi se frequenti - di sintagmi stimabili come nomi) di una data cultura (in questa sede intesa riduttivamente come corpus di testi storicamente determinabili); nei prossimi mesi saranno sviluppati strumenti di comparazione booleana di insiemi di corpora circoscrivibili; applicazioni sul complessivo linguaggio storico naturale saranno altresì possibili.
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