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Il segmento testuale Ciò è stato riconosciuto sulle nostre fonti cartacee. Questo tipo di spoglio lessicografico, registrazione dell'uso storicamente determinatosi a prescindere dall'eventuale successivo commento di indirizzo normatore, esegue il riconoscimento di ciò che stimiamo come significativo, sulla sola analisi dei segmenti testuali tra loro, senza obbligatoriamente avvalersi di vocabolarii precedentemente costituiti.
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da Carlo Muscetta, [Saggio introduttivo a] Angelo Muscetta, Memorie di un commerciante in KBD-Periodici: Nuovi Argomenti 1964 - 7 - 1 - numero 69

Brano: MEMORIE DI UN COMMERCIANTE
Queste che leggerete sono le memorie di mio padre, il cav. Angelo Muscetta, morto ad Avellino a ottant'anni il 4 ottobre 1957. Le cominciò a scrivere sulla fine del 1943 e le interruppe qualche tempo dopo, forse nel '45.
Vorrei subito levarmi di mezzo, e dirvi solo che sono stato incoraggiato a stampare queste pagine dopo il collaudo di due lettori disinteressati, e di gusto e cultura diversissimi, come Eduardo De Filippo e Alberto Carocci. Ma è lecito fare appello al troppo comodo principio di autorità? Un critico, un professore deve pur spiegare per quale interesse oggettivo sia stato indotto a stampare queste cronache domestiche, riservate dall'autore alla ristretta cerchia dei suoi congiunti, «figlie, nuore, nipoti ecct. ».[...]

[...] vi renderete conto da voi che non hanno bisogno di nessuna introduzione, così vitale é la presenza del protagonista e tanta è l'immediatezza delle cose che racconta, offrendoci il felice ritratto di una famiglia di commercianti meridionali durante l'età giolittiana).
Prima di spiegare perché le pubblico (dando a questo eccetera un'interpretazione estensiva, che forse, non sarebbe dispiaciuta al genitore) già mi sento chiedere come le pubblico, cioè se ci ho messo le mani io. Eccomi dunque impegnato ad un esercizio professionale in corpore carissimo. Cercherò di espletarlo con minima pendanteria, cioè col massimo rispetto per i lettori, per mio padre e per me stesso.
Queste memorie (il cui autografo sarà depositato presso la pedanteria, cioè col massimo rispetto per i lettori, per mio padre e pagine bianche di un bollettario del CONACER (Consorzio Nazionale Cereagricole) occupano 67 fogli non numerati. Solo in due
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luoghi, tra le carte 2930 e 6465, v'è traccia di fogli strappati: strappati dall'autore, perché è evidente la continuità del dettato, l'assenza di ogni raccordo posteriore. Sono i soli segni notevoli di ripensamenti. Rarissime correzioni o aggiunte di qualche parola spiccano nella scrittura chiara, posata, sicura. Ma se sono di scarsa importanza dal punto di vista stilistico, interessano per lo scru[...]

[...] si dice da noi) dell'orecchio di chi ascolta.
Vi dirò, in un orecchio, che avrei dovuto intervenire in forme come incomingiammo e dimendicavo, perché nessuna oscillazione mi consentiva di uniformare correttamente. I difficillimi (per i quali decet philologum pedanticum non videri, sed esse) me ne biasimeranno. Peggio per loro.
Colui che scriveva era in ritardo di molti decenni per imporsi una disciplina ortografica. Mi sia risparmiato un bilancio della
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sua scrittura. A suo attivo è già tanto registrare che non «dimendica » mai le impeccabili uscite di certi plurali come « risparmii «principii » e simili. Se « terribile » per lui é terribbile, in compenso « visibile » è visibile. «Mensili » è sempre mensili; le cambiali sono qualche volta le cambiale. Se una volta gli scappa anal f abeto, poi sempre analfabeta. E non é detto che i vocaboli meno comuni siano scritti più scorrettamente. Dice i «paesi viciniori » e ironizza. su «i preliminari di pace» di un burbero benefico zio. Segni di buona volontà si no[...]

[...]uogo, sia in Provincia, è fu necessario, prendere un altro garzone, è comprare un carretto ed un asinello, l'unica difficoltà era l'organizzazione che mancava, perché mio padre era analfabeto, e la merce nei depositi era messa alla rinfusa, senza scaffali.
D'altra parte, il caffè gestito da mia madre (donna astuta) lavoratrice, è piena di volontà, non era meno remunerativo dell'altro negozio, perché Lei preparava i liquori correnti dell'epoca e cioè Rosolo, Anice, e Rhum, ed aveva sviluppato una clientela invidiabile, io avevo 5 anni (incredibile ma vero) di Natale, con l'aiuto della serva è di qualche garzone, confezionavo applicando le etichette è le capsule scri
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vendo su ogni uno di esse (perché erano anonime) il contenuto del liquore, l'alcol ricordo benissimo costava lire 1,15 il litro, sentivo in me, già l'orgoglio di essere un grande fabricante di liquori, e papà un grande grossista di Terraglie e cristalli, l'incassi giornalieri erano favolosi pur non superando mai le cento lire, è quasi tutto bro[...]

[...]ei, riferiti alla madre o al « primo amore », e per i vari Zii, che vegliarono sul destino dell'autore e gli combinarono due matrimoni, come usava anni fa, con costume da vecchia Cina. Altre volte son segni di riguardo per i notabili, dal Caporeparto al Console Generale, dal Canonico al Notaio, ai Dottori (più o mena abusivi). Ne ho tenuto conto, perché il protagonista li colloca al loro posto sulla scala sociale che fu ben deciso ad ascendere e ciò valeva anche e innanzi tutto per il Capo Treno delle FF. SS., Carlo Recine, cognato e poi suocero, col quale egli fu orgoglioso di « apparentare » due volte (era una famiglia di piccoli proprietari terrieri, più indigenti che agiati, ma « apparentati » a loro volta a « veri signori », cioè a gente avvezza a vivere di rendita o sul lavoro dei contadini).
Spesso queste maiuscole brillano come l'equivalente grafico di una impostazione enfatica della voce. Io la risento, mi risuonano profondamente care. Credo di intenderne quasi sempre il motivo. Ma non posso pretendere che il lettore le apprezzi e se ne giovi per seguire l'« odissea» dell'autore, varcando il tempo e lo spazio sulla cresta della sua ondosa calligrafia, dalla « BronchitePolmonitePleurite » di mio nonno Amato, sino alla costruzione del nuovo «fabricato », dove mio padre nei primi anni dell'altro dopoguerra investi [...]

[...]di cui mio padre era orgoglioso quanta una «Laurea Universitaria »; e i segni di sbeffeggiamento per l'avarizia dell'« Ebreo padrone di casa ». o d'un sentimento di rivalsa, di tipo nazionalproletario, nel ricordo delle povere « famiglie Algerine » e delle « famiglie Italiane » che a Marsiglia abitavano accanto alle «famiglie francesi ». Non mi pareva giusto soffocare il brivido estetico dell'« esagerata Bellezza » ammirata al San Carlo, o rimpicciolire il narcisismo del giovane mercante (« ero diventato l'Idolo di tutta la clientela eletta»), o contenere un moto di storica indignazione per la «Barbaria Tedesca» ai tempi della prima Guerra Mondiale. Con lo stesso criterio di rispetto per i sentimenti religiosi dell'autore, ho restituito a qualche buon «dio» fraseologico e a qualche trascurata «provvidenza» la maiuscola che di solito non manca e che é caduta in. mezzo a tanto spreco di iniziali, e a tanta ottimistica fiducia nei poteri magnificanti di questo simbolo grafico.
Per finire, un cenno sulle cifre dei numeri, che abbondano e no[...]

[...]e si sposta verso il Nord, riesce ad avere di nuovo un'abitazione, ospite del suo primo figliolo, ma non più in quella via Littorio, dall'infausto e disastroso nome, e non più in quella casa che in parte aveva costruito lui e che dopo
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il suicidio di mia madre, nel 1941, era stata disertata da tutti. Ma i depositi e gli scaffali son vuoti. Gli scarsissimi capitali sono inviliti dall'inflazione. La ripresa del commercio è lenta e caotica. I borsari neri spuntano da ogni parte, la concorrenza di nuove ditte ben presto incalzerà. In questa situazione difficile gli acquisti, appena saranno possibili, diventeranno oggetto di ricerche avventurose. Angelo Muscetta non è un uomo da perdersi d'animo, riprenderà i suoi traffici, riuscirà a dare un impulso decisivo alla ricostruzione dell'azienda: «ho sessantasette anni e ancora vivo e ancora lavora» (scrive nel corso della autobiografia).
Ma nei primi tempi di questa ripresa le ore di inattività sono lunghe e malinconiche per un vecchio rimasto vedovo per la seconda[...]

[...]to. E ci si aggiunga l'assillo di altri due figli: il mio fratello minore, ufficiale a Rodi e prigioniero, se vivo, chissà dove; io a Roma, di là dal fronte che ha spezzato l'Italia in due, mentre i Tedeschi e i fascisti contendono il passo agli Alleati e alla Liberazione. Nelle noiose sere di guerra ben poco gli offre da leggere la sola carta stampata a cui era avvezzo e che predilegeva. Dinnanzi a un futuro incerto, in un presente vuoto e angoscioso, le sue superstiti energie non tardano a trovare come applicarsi. Ha sempre un'immensa fiducia in se stesso. Ma che cos'è il se stesso di un vecchio ? E' innanzi tutto la sua vita, il suo passato. E cosí egli scopre che la sua più grande ricchezza è ora nella memoria: nella capacità di ricordare e nel cumulo dei ricordi. Potrà ricostruirsi coi suoi figli un'altra azienda, ma sarà più loro che sua, per forza di cose. E' il suo passato che è ancora tutto suo, e nessuno potrà portarglielo via. Sue sono le sventure che ha saputo superare, Sue le fortune che ha saputo cogliere con prontezza, la [...]

[...]chezza é tanto più intenso perché tra il presente ed il passato si stabiliscono dei rapporti tanto più romanzeschi, perché veri: « 17 settembre 1884, ore undici: distruzione del patrimonio di mio padre col terremoto. 17 Settembre 1943, ore undici distruzione della nostra casa in via Littorio, con i bombardamenti ». Il seguito é quello che vi ho detto io (saccheggio, distruzione dell'azienda) ma nelle memorie non c'è scritto, non se ne parla mai. Ciò che più lo tormenta gli si sprofonda dentro, ci allude di passata ma rimanda il racconto a suo tempo. E invece, una volta indicato l'aspetto meraviglioso di questa coincidenza (« la data fatidica »), la memoria vuol godere a raccontare tutto ciò che é «incredibile ma vero» (come lui dice e non si stanca di ripetere più volte). E così questo lettore immalinconito dagli squallidi giornali di guerra, per appendice quotidiana si mette a narrare a se stesso il suo romanzo di intrattenimento. E dove avrebbe potuto trovare una più bella materia?
«L'alcool, ricordo benissimo, costava L. 1.15 ». Sembra una favola rispetto ai vertiginosi prezzi raggiunti da questo «articolo » con l'arrivo degli Alleati. Civili e militari avevano rubato migliaia di bottiglie idi liquori dai suoi depositi e magazzini. Che sarebbe stasta una ricchezza enorme, ra[...]

[...] proposito di spettacoliammirati al San Carlo, son da mettere accanto ad altri riecheggiamenti antonomastici e fraseologici. Coi libri non dovette mai avere molta familiarità. Ricordo che quando ero ragazzo a casa mia c'erano I Miserabili in edizione illustrata, La Madre di Gorki, che ancora conservo (Era un libro carissimo a mia madre. Lo leggeva con tanta passione, struggendosi al pensiero del fratello socialista, cacciato dalle ferrovie come sciope rante protervo e riparato a Bengasi, dove faceva il macchinista). Di mio padre erano sicuramente una voluminosa pubblicazione popolare sul processo Cuocolo (ricca di incisioni, dai colori simili alle pellicole del tempo, in seppia, in rosa, in verde), e la traduzione di un manuale americano di ipnotismo, inviatogli da un suo amico di Broccolino. Una volta gli sentii dire che aveva letto le Ultime lettere di Jacopo Ortis, e non era stato il dramma patriottico ad impressionarlo, ma quello sociale, perché anche lui, «nullatenendo» era stato tentato dal suicidio per non poter realizzare il suo [...]

[...]manzi d'appendice e letteratura a dispense, di questo certamente si nutri. E i suoi
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classici li lesse sul popolare giornale napoletano che ai suoi inizi recava le lezioni del De Sanctis, il « Roma ».
Ma la materia del suo piccolo romanzo autobiografico era originale e tutta vera, anche se forse da bambino potè aver letto la celeberrima, esemplare pagina di Jacques Laffitte, il giovane che fu visto raccogliere uno spillo e perciò divenne impiegato e poi erede universale di un banchiere, e banchiere lui stesso. Se mai lesse tra i libri dei figli il Cuore deamicisiano, avrebbe potuto ritrovarsi in questo o in quel personaggio, volitivo e generoso, capace di dedicarsi con « una passione violenta» (come lui scrive) allo studio e al lavoro, alla famiglia e al commercio. Che a tredici anni facesse il fattorino (o come dice lui il «commissionario ») di un negoziante di scarpe, e a quaranta il mediatore, questo era per lui sempre un « lavoro ».
E' uno schietto borghese senza spocchia ma anche senza servilismo, che si sente sempre popolo, senza distinzioni di classe. Egli ha perfettamente assimilato la mitologia radicale del lavoro che «nobilita l'uomo », nonostante le differenze e magari gli abissi che separano chi vive di salario e chi vive di traffici. Una volta gli scappa una parola sintomatica: « avrei potuto sfruttare il vicinato per la riparazione delle[...]

[...]no immediati di quanto caratterizza il volto di quegli anni. S'intravvede l'atmosfera storica della crisi fin di secolo, e poi quella operosa, calda, ottimistica dei primi del Novecento, l'Italia della « buona vita » che raggiungeva il pareggio grazie all'emigrazione, si espandeva a Tripoli bel suol d'amore e sembrava uscir trionfante dopo la guerra vittoriosa. Era il mondo del quale il ballo Excelsior apparve come l'epifania sublime, il preannuncio.
Ma per il nostro autobiografo, che si dimostra uomo di viva immaginazione e pronta sensibilità, l'espressione coreografica e musicale più popolare del liberty era «una esagerata Bellezza », qualcosa di ineffabile che trascende il gusto del reale a cui l'educò la sua esperienza letteraria più continuativa e più intensa: quella (come si è già detto) dei romanzi d'appendice, col loro verismo di epigoni rozzi e retorici, col loro misto di situazioni melodrammatiche e coincidenze mirabolanti, col loro linguaggio fattizio, atteggiato e stereotipato.
cc Quando fu udito lo scoppio della pistola, l[...]

[...]tesca statura e aspetto feroce: due lunghi baffi gli scendevano sul mento »...), nulla è risparmiato per farci assistere ad un autentico duello tra il « barbaro » e il o demonietto »:
— Che vuoi tu, monello? chiese a Giovanni con modo irascibile.
— Debbo parlare alla vostra padrona, rispose il fanciullo con
risolutezza.
— Tu! Oh! Oh! com'è curioso!
Il portinaio si pose a ridere sgangheratamente torcendosi le acu
minate punte dei baffi.
Lascio a voi il confronto con la brevissima scena di mio padre tredicenne alle prese con l'Usciere Capo del Console di Marsiglia (« un tipo nervoso ») e son sicuro che parteggerete senza sforzo per il ragazzo, stupefatto di non essere riuscito a conquistarsi la simpatia del bisbetico personaggio (« di questo non mi potevo rendere ragione: mentre tutti mi volevano bene, costui mi odiava »). E vi lascio il confronto con le macchinose agnizioni dei romanzi d'appen
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dice, quando leggerete i graziosissimi episodi della promessa sposa riconosciuta fra le clienti di una fiera, e quello di Amelia, la bambina «che cresceva bellissima» e che egli tenne tra le braccia ragazzo, divorandola «con baci innocenti », ben lontano dal presupporre che l'avrebbe sposata giovanissima, dopo che mori la prima moglie.
Il ritmo ottimista di « ascesa a gradazione» che dà impulso a questa autobiografia si porta con sé allegramente anche i relitti letterari, che affiorano nelle consider[...]

[...]mo ottimista di « ascesa a gradazione» che dà impulso a questa autobiografia si porta con sé allegramente anche i relitti letterari, che affiorano nelle considerazioni con le quali l'autore si compiace di gustare l'andante mosso della sua felicità, o si ferma a metà salita, per guardare soddisfatto al cammino percorso.
La linea di sviluppo progressivo della sua vita il narratore ce la fa osservare nelle stesse repliche di certi episodi. E anche ciò fa parte del meraviglioso popolareborghese che si accumula nel racconto. Durante il primo matrimonio la sua condizione economica di subalterno ed erede putativo, anche se probabile e poi effettivo, del terribile zio dal cuore d'oro, gli fa passare ore drammatiche e umilianti, anche per il lavoro a cui è costretta la sua delicata e gentile Vincenzina. Il secondo matrimonio con una ragazza senza dote, ma (requisito importante come egli ammonisce nel corso del racconto), con molte doti di laboriosità, a cominciare dal viaggio di nozze è vissuto « con più agiatezza ». E poi zia Angela Rosa (l'aff[...]

[...]l'iterazione di frasi epiche (« eravamo tanto felici da invidiarci vicendevolmente », dice della prima moglie) opportunamente variate (« eravamo tanto felici, che abbracciavamo il lavoro a pieni mani », dice di mia madre). Lo stesso si può osservare per le due traversate NapoliMarsiglia e viceversa, entro le quali son comprese le pagine più riuscite di questo racconto, dove l'autore si oblia con maggior piacere al suo narcisismo autobiografico.
Ciò che é essenziale di una «odissea» mio padre mostrava di saperlo, non tanto per quella « fortuna nella sfortuna » che torna a
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rifulgere nel suo cielo, quanto perla posizione centrale dell'« uomo» che irraggia simpatia intorno a sé, oggetto onnipresente d'ispirazione per la Musa, a cominciare dal principio. Chi è questo ragazzo che crediamo di aver già conosciuto nel Cuore e che invece è senza infanzia e senza compagni di scuola? E' forse un misto del Garoffi
e del Garrone di De Amicis, del commerciante nato e del ragazzo più adulto dei suoi anni, prudente e mite, ma genero[...]

[...]Musa, a cominciare dal principio. Chi è questo ragazzo che crediamo di aver già conosciuto nel Cuore e che invece è senza infanzia e senza compagni di scuola? E' forse un misto del Garoffi
e del Garrone di De Amicis, del commerciante nato e del ragazzo più adulto dei suoi anni, prudente e mite, ma generoso negli affetti e nell'adempimento dei suoi doveri ? Non direi. Se la sua vita fosse solo e sempre tesa nel realizzare « l'idea predominante » cioè « diventare grossista », neppure le qualità positive di Garrone sarebbero valse a cancellare certe odiosità caratteristiche nella tensione mistica dei volitivi. «Procace in esperienza» (come dice buffamente di sé : precoce e un po' sfrontato), questo ragazzo nei suoi slanci virili e nei suoi accorgimenti conserverà sempre una civetteria infantile, un desiderio di piacere a tutti, che si fa valere anche nel racconto, con una carica di vitalità degna di un personaggio poetico. E tale sarebbe riuscito, se l'autobiografo avesse potuto conquistarsi la pienezza dei suoi mezzi espressivi, e non si [...]

[...] questo ed ora quel testimone, con nome cognome e indirizzo. Tuttavia queste ingenuità non cancellano la vivacità dell'idoleggiamento artistica che egli pone nel dipingersi e che gli viene dalla consapevolezza di un suo primitivo dono estetico, un lieto incanto di fronte a se stesso e agli altri, la gioia di mirarsi
e di farsi ammirare. Come potrete vedere, in questa autobiogra
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fia, dalle prime pagine all'ultima, ciò che mio padre più mostra di pregiare in se stesso e di amare di più nella vita è la sua forza espansiva di « simpatia » premessa sicura di « fiducia ». Il danaro viene dopo, anche se non è poco importante per chi vuol cogliere il frutto del suo lavoro (come salariato o commerciante) e si applica senza soste nella sua « ascesa a gradazione » .
Ciò che rende sugoso e non banale il racconto delle vicende sono le molte « trovate » che egli escogita con infallibile successo e che sono sempre « gioviali » sempre circonfuse di questo candore di buona stella che riluce in ogni circostanza. Sia quella di un tragico natale di fame, risolto con un furto di verdure; sia la recita delle canzonette improvvisate agli emigranti, nel buffet di zio Sabino, quando con la complicità di allegri amici ferrovieri spilla ancora un po' di quattrini agli avventori, « ricchi (ma sempre cafoni però) » .
Quest'uomo che non ha conosciuto i giochi dell'infanzia (n[...]

[...]on credo che l'affetto mi faccia velo, se affermo che anche in questa autobiografia egli riesca ad accentrare su di sé l'attenzione del lettore più remoto da lui, a disporlo benevolmente in un musicale circolo di paesana bonomia: « Tutti cercavano Angelino (dice con un'eco sommessamente compiaciuta d'opera buffa), tutti volevano Angelina».
I ferrovieri del buffet lo canzonavano ammirati:
ma non songo li bellizzi
songh'e tratti ca tu tieni...
Ciò vale anche per il narratore. Non sono le bellezze da ricercare in questa prosa. Ma i tratti, i modi avvincenti di questo documentario racconto popolare ci compensano dalla povera forma che non «sufraga ». L'autore stesso l'avverte confusamente: si è visto come s'attacca alle maiuscole, ai procedimenti del romanzo d'appendice a locuzioni o a vocaboli che gli sembrano più elevati. I relitti del parlato affiorano in alcuni dialettismi e nella sintassi approssimativa e frettolosa di qualche periodo. Ma se ignora ogni nozione di purità (e ricorre al relazionare, e a calchi più o meno pesanti come [...]

[...]ti come commissionario e gattò di mariaggio) il suo « simpatico » maestro francese gli ha insegnato che cos'è il patois e che cos'è la lingua letteraria. Sicché quando cita parole o detti dialettali li sottolinea per distinguerli dalla sua prosa che non diversamente dagli scrittori più popolari (incluso Mastriani, incluso lo stesso De Amicis), ha sempre un po' il debole di indomenicarsi, di mettersi addosso il vestito migliore a disposizione. Perciò sulla semplicità estrema della forma narrativa risalta un linguaggio pieno di echi non diciamo libreschi, ma cartacei, proprio di chi ci tiene a distinguersi e ad evitare i pericoli dialettali del parlato. Non gli basta dire: « a prenderci », gli sembra meglio « a rilevarci ». E « sedermi a mensa » gli par necessario, per un banchetto imbandito da « veri signori ». L'aspirazione a un più borghese scrivere civile
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lo sollecita verso una continua disposizione a forme di ipercorrettezza. Non meravigliatevi quindi se cercate la penna di un (( nullatenendo» e vi trov[...]

[...] non ignora cosa sia la proprietà. Un rimorso lo turba alla fine del racconto del «prima episodio» della sua vita, ma aggiunge: « se rimorso si può chiamare ». E in effetti la parola non è quella giusta. Quando accenna alle manie della sua « astuta » e sempre « giuliva » madre, le chiede di perdonarlo dall'aldilà per le cc accuse necessarie per la narrazione esatta ». Accuse ? Allora perdonami anche tu, padre mio. In verità, detto fra noi mi piacciono tanto anche i tuoi spropositi. Anche di un padre come te, come dicevi tu della nonna, ce n'è uno solo. Ma una critica esatta ha pure i suoi diritti. Non sei il solo a dire «tutti profani » per dire « incompetenti ». Ma ti sei fatta un'idea un po' personale di certe parole: « con l'attenuante di aver fatto un disastroso viaggio »... «feci in cinque minuti succintemente la mia toiletta »... « solo oggi concepisco »...). Si capisce benissimo quel che vuoi dire, ma è im po' buffo, tosi come quando dici: «educazione Benina », « primizia moda » e « primizie portate», che sono certo un po' troppo [...]

[...]provvisoria rovina che eccezionalmente si è messo a fare l'autobiografo dilettante, e alle sue tenerezze di figlio, di marito
e di padre concede qualche rapida postilla « in momento di narrazione ». Divagazioni vere e proprie non ce ne sono mai. E' troppo preso dalla foga degli eventi per abbandonarSi alle pSeudodescrizioni e alle pseudoanalisi psicologiche dei suai modelli romanzeschi, poveri narratori a cottimo, intereSsati alla prolissità Perciò nessun ritratto fisico dei personaggi, e solo qualche segno delle loro predominanti qualità morali, qualche epiteto (gli aggettivi sono rarissimi) accennato con mano leggera e affettuosa, perché suoni omaggio gentile o veridica precisione, e mostri che l'essenziale di un carattere non è sfuggito al Suo « occhio clinico ».
Tutto e tutti convergono sempre verso il protagonista e la costruzione della sua azienda. E le figure sono più o meno caratterizzate a seconda di ciò che prima d'ogni altra cosa interessa lo autobiografo. Il verismo cronistico dei particolari è compensato dall'intensità deg[...]

[...]o dei personaggi, e solo qualche segno delle loro predominanti qualità morali, qualche epiteto (gli aggettivi sono rarissimi) accennato con mano leggera e affettuosa, perché suoni omaggio gentile o veridica precisione, e mostri che l'essenziale di un carattere non è sfuggito al Suo « occhio clinico ».
Tutto e tutti convergono sempre verso il protagonista e la costruzione della sua azienda. E le figure sono più o meno caratterizzate a seconda di ciò che prima d'ogni altra cosa interessa lo autobiografo. Il verismo cronistico dei particolari è compensato dall'intensità degli episodi e dall'evidenza dell'azione, in cui le sagome dei personaggi sono chiaramente individuate. Meglio di ogni altro vien fuori il carattere dello zio Sabino, singolare tipo di borghese velleitario, che vorrebbe fare affari solo per far credito ai clienti ferrovieri della sua trattoria, ma che fallirebbe senza l'aiuto di Angelina, oggetto del suo amoreinvidia, delle sue gratuite sopraffazioni di autoritario inconcludente « con gli occhi fuori delle orbite » e perfi[...]

[...]ito ai clienti ferrovieri della sua trattoria, ma che fallirebbe senza l'aiuto di Angelina, oggetto del suo amoreinvidia, delle sue gratuite sopraffazioni di autoritario inconcludente « con gli occhi fuori delle orbite » e perfino « la pistola in pugno »; ma che infine si arrende alle intercessioni della moglie Angela Rosa e al nipote. Il quale diventa suo erede universale, anche perché non ha le sue vanità, non confonde la beneficenza col commercio, riesce a conciliare i suoi affari con i suoi affetti, conoscendo l'arte di tramutare in beni mobili ed immobili i beni che ha avuto in dono dalla sorte, o (se Si vuole) dal buon impasto che riuscirono a mettere insieme il padre e la madre. Forse le fate, come nel celebre poemetto in prosa di Baudelaire, a questi due bottegai chiesero quale dono preferissero quando gli nacque Angelino. Ma poiché erano borghesi veri (e non fantocci polemici di un populismo quarantottesco) si erano contentati che « il dono di piacere » arridesse al destino del « figlio d'oro » (come lo chiamava mia nonna) : « l[...]

[...]
Quando si giunge alle pagine finali, si resta col duplice rammarico che siano tirate via e che s'interrompano. Come mai nel racconto mio padre dimentica tante cose, e certo non trascurabili? Capoelettore del deputato liberale del luogo, (l'on. Alfonso Rubilli, rimasto poi sempre fedele al suo Giolitti), era divenuto consigliere comunale, nel 1921. E anche il nuovo regime lo corteggiava: il 21 dicembre 1922 il ministro per l'industria e il commercio gli mandava la nomina che avrebbe fregiato ormai la sua ditta: « cav. Angelo Muscetta e figli »...
Perché finiscono queste memorie ? Mi sorprendo a pensare come e se avrebbe raccontato questo o quell'epiSodio. Non potrò mai dimenticare le elezioni del '21, quando vidi mio padre schiaffeggiare un omone che era il doppio di lui, un contadino che, sottoposto come gli altri elettori a diligente perquisizione (nell'uffizio elettorale messo su in un (( basso» di casa nostra), era stato trovato in possesso della scheda di un altro partito. Benché si comportasse slealmente, voleva tentare di esercit[...]

[...]obiografia gli anni che arrivano sino alla virilità finiscono per attirare naturalmente di più ogni narratore. Ma nel caso di mio padre c'erano altri motivi, che avrebbero potuto turbare quel sentimento di u ascesa a gradazione» che gli faceva callacare le sue cronache domestiche in un contesto storico ottimistico. Credo che, come il suicidio di mia madre doveva essergli rimasto un fatto inspiegabile, che contraddiceva atrocemente al gioioso slancio vitale della sua natura, così la catastrofe a cui era stata portata l'Italia doveva sembrare un gesto suicida della borghesia alla consapevolezza approssimativa, rozza, ma vivace che mio padre aveva del suo tempo. Interrotte li quelle memorie serbavano le illusioni più felici dell'età giolittiana, quando tutto sembrava in succhio, e nessuna crisi irreparabile. Di troppe cose del prossimo passato avrebbe dovuto affliggersi continuando a scrivere. E poi, quando si ritirò definitivamente dagli affari, troppe cose lo angustiavano nel presente e nel futuro della sua famiglia,
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d[...]

[...]rrideva più «giuliva », ma era irrigidita da una piega amara, che mi fece ripensare all'impronta laida, vista per l'eternità da Stendhal sul vivo volto del banchiere Torlonia.
Ma mio padre non fu soltanto un uomo d'affari, fu un uomo. E anche a lui, modestamente, sarebbe convenuto, per la sua capacità di rivolgersi a tutti, l'epiteto che Omero attribuiva al suo « politropos » Ulisse. Una qualità che è fondamento umanistico di ogni umano « commercio ».
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C'è un a ricco vulgo » (come lo chiamava Foscolo), che ha sepoltura, prima di morire, nella sua stessa miserabile banalità. Angelo Muscetta nelle sue memorie vive ancora, ricco della sua raggiante felicità di vivere. E non so di quanti letterati o senza lettere, borghesi o proletari, un figlio possa scrivere quel che si legge sulla sua tomba, dove egli riposa accanto alle donne che amò, e ai suoi genitori, e allo zio Sabino e alla zia Angela Rosa, e al Capo Treno e a nonna Cristina. Tutta gente per la quale l'« onestà animosa» (qualità essenziale di mio padr[...]



da Alberto Moravia, Inchiesta sull'arte e il comunismo. Il comunismo al potere e i problemi dell'arte in KBD-Periodici: Nuovi Argomenti 1953 - 3 - 1 - numero 1

Brano: [...] a tanti altri determinismi che non funzionano se non nei casi minori: l'arte dei galeotti, l'arte dei pazzi, l'arte dei ciechi, l'arte dei bambini e via dicendo. Ma la grande arte non é sovrastruttura, essa rassomiglia alla struttura, non ne deriva.
***
Il valore educativo dell'arte é enorme ma esso diminuisce nella misura che l'arte si allontana dalla natura. Bandite dall'arte la natura con le sue contraddizioni, la sua varietà, il suo capriccio, la sua libertà
e avrete un'arte priva di potere educativo, qualunque sia la ideologia che l'inspira. Allo stesso modo un soggiorno in riva al mare fortifica; ma un soggiorno in una stanza in cui sia dipinta una marina non fa alcun effetto salutifero.
Il collasso presente universale dell'umanità non è che il risultato di due guerre spaventose. Non c'è bisogno di essere grandi profeti per prevedere che tra un secolo o due, l'umanità avrà ritrovato un'immagine decente di se stessa. Intanto, pero, essa é simile a un ubriaco lordo
e insanguinato che si guardi in uno specchio e si meravigli di [...]

[...]i sono due: o come vuole il marxismo l'arte é una sovrastruttura e allora poiché é giusto risalire dalla sovrastruttura alla struttura ossia dai frutti all'albero, bisognerà pensare che la struttura in certi paesi orientali, oggi, non é quale ce la descrivono; oppure il marxismo, almeno per quanto riguarda l'arte, erra e allora bisogna pensare che, semplicemente, gli artisti di quei paesi valgon poco. In tutti e due i casi il marxismo esce malconcio, il che pensiamo sempre gli avverrà quando vorrà esorbitare dal campo economico e sociale che gli é proprio.
La libertà politica per l'arte non é una condizione sine qua non: grande arte fiori anche in tempi di nessuna libertà. L'arte, per fiorire, ha bisogno assoluto di un'altra cosa: che il corpo sociale sia fatto della stessa materia di cui é fatta l'arte. Ora, materia dell'arte, è la varietà infinita della natura. Se il corpo sociale, per mezzo del fanatismo religioso o politico, ha ridotto o soppresso in se stesso la varietà della natura, l'arte potrà anche essere liberissima, ma non fi[...]

[...]e alla ideologia
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del momento. Il realismo è dunque inseparabile dall'arte, almeno da quella europea; l'ideologia anche. Che c'è dunque di strano che lo stato socialista chieda agli artisti il realismo socialista? Rispondiamo che la stranezza consiste nel fatto che, al contrario della Chiesa e d'ogni altro organismo totalitario del passato, lo stato socialista sappia tutte queste cose, cioè che abbia una coscienza critica e storica così sviluppata. In questo senso lo stato socialista, così intellettualistico e così pragmatistico, entra nella dialettica della decadenza alla quale pretenderebbe di sottrarsi.
Quando tutto é stato detto, bisognerà pur affermare che in realtà l'arte non interessa il comunismo. E che questo sia vero lo dimostra la semplicità della ideologia marxista per quanto riguarda l'arte. Tanto più notevole se paragonata, poi, alla complessità delle teorie marxiste sui problemi sociali ed economici. Il marxismo non si interessa all'arte come, poniamo, non si in[...]

[...]gione, esso non vuole che servirsi dell'arte. E infatti tutte le teorie del marxismo sull'arte non tanto riguardano l'arte nella sua intimità quanto l'arte nel suo rapporto con la società e con lo stato, ossia, in altri termini riguardano appunto l'utilità dell'arte.
Un romanzo descrive una battaglia. La descrizione della battaglia non garba ai dirigenti di un certo paese orientale. Il romanzo viene rifatto secondo le indicazioni dei dirigenti. Ciò che colpisce in questo rifacimento secondo autorità non è la docilità dello scrittore né l'imposizione dei dirigenti. Ciò che colpisce è invece il prevalere di una concezione di artificio, di razionalità, di tecnica, di fattura su quella di poesia, di ispirazione, di originalità, di creatività. Di una concezione, insomma, classica o per lo meno classicheggiante, su quella romantica. Si pensa, per analogia, ad estetiche che sembravano tramontate e che invece, a quanta pare, torneranno in auge. Tanto per fare un esempio Boileau non avrebbe trovato niente da ridire su una simile imposizione
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dell'autorità sull'artista. Che differenza c'é infatti tra il realismo socialista e « l'artifice agreable » del poeta di corte di Luigi decimoquarto?
*[...]

[...]ne all'ideologia, tanto peggio per la realtà. Né si potrebbe dar torto a quegli scrittori e critici comunisti, almeno da un punto di vista psicologico. Lo scambio di solito é avvenuto in loro in condizioni drammatiche che sono poi quelle di tutte le conversioni. In quei momenti, davvero, l'ideologia é la realtà; e se non lo é, la conversione non puó aver luogo. Più tardi, di fronte all'arte come a qualsiasi altra manifestazione o attività umana, ciò che avvenne con lacerazione e dolore al tempo della conversione, si ripete facilmente, in maniera quasi automatica.
* * *
Le idee dei comunisti sull'arte sono costantemente presentate in stretta correlazione con le loro teorie economiche e sociali e confuse con esse. Chi in parte o del tutto approva le teorie economiche e sociali del comunismo é portato così ad approvare anche le idee estetiche o per lo meno a considerarle con favore. Ma questa confusione non puó portare che ad accettare una concezione estetica rozza e semplicistica. L'arte, infatti, mentre puó benissimo avere un contenuto [...]

[...]ono. E così avviene in tutte le rivoluzioni. Persino la rivoluzione francese che portò al potere una classe già da lungo tempo preparata e raffinata come la borghesia, produsse all'inizio del secolo un'arte più grezza e più peritura, quella del primo romanticismo. In questa prospettiva, si deve giudicare il susseguente decadentismo come una sistemazione, in senso classico di quel primo romanticismo.
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* * a
Ciò che colpisce di piú così nelle opere d'arte dell'occidente come in quelle d'oriente è la povertà del temperamento individuale. Un pittore come Tiziano farebbe un sol fascio così degli astrattisti come dei realisti socialisti. Ai primi direbbe: «Dipingetemi una mano che è una mano »; ai secondi: « Infondete nei vostri ritratti di generali e uomini politici il senso di potenza, di gloria e di poesia che seppi mettere nei miei ». Abbiamo nominato Tiziano per indicare un certo livello di maestria tecnica e di altezza di ispirazione; non per additare un modello irripetibile così in occidente come in oriente.
I comunisti non riconosceranno mai che le opere d'arte dei paesi orientali sono di scarso valore artistico. E come potrebbero? Essi non credono al vero bensì al[...]

[...]». Abbiamo nominato Tiziano per indicare un certo livello di maestria tecnica e di altezza di ispirazione; non per additare un modello irripetibile così in occidente come in oriente.
I comunisti non riconosceranno mai che le opere d'arte dei paesi orientali sono di scarso valore artistico. E come potrebbero? Essi non credono al vero bensì al verosimile, alla natura bensì alla ragione, alla realtà bensì all'ideologia, alla poesia bensì all'artificio, alla spontaneità creativa bensì alla volontà costruttiva. Essi faranno dell'arte certamente, un giorno o l'altro, ma loro malgrado e senza rendersene conto.
I comunisti sembrano propugnare un'arte classica. Diciamo « sembrano» perché nulla é sicuro in un regime così sicuro come la dittatura, sia pure del proletariato. Dunque, partendo dal presupposto marxista che ogni società nel momento della sua massima funzionalità e necessità storica esprime un'arte perfettamente oggettiva e completamente realistica, senza reticenze né compromessi, né evasioni, né parzialità, insomma classica, i comunis[...]

[...]ità, insomma classica, i comunisti contrappongono questo momento solare a quello del tramonto ossia della decadenza di ogni società, decadenza che si esprimerebbe invece in un'arte malsanamente soggettiva, incompleta, astratta, evasiva, reticente e insomma, appunto, decadente. E evidente che in questo caso la distinzione tra poesia e non poesia salta e viene sostituita da quella di classicità e di decadenza, ossia di completezza e incompletezza, cioè, in altri termini, di maggiore o minore coraggio, capacità e volontà della società di rappresentarsi qual é, in tutti i suoi aspetti, anche in quelli negativi e di riconoscersi in questa rappresentazione e di servirsene e di farne strumento di mi
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glioramento e di progresso. Dunque, una volta di più, niente poesia o non poesia, ma, ad un livello eguale di poesia, rappresentazione totale o parziale, classica o decadente. Ma la società comunista in quanto si vanta di essere l'erede di tutte le società della storia e il loro coroname[...]

[...]hecché se ne dica. La Chiesa è ferma a Raffaello che fu il grande mediatore tra il mondo dell'Antico Testamento e l'Ellenismo. Gli stati conoscono la storia, non l'estetica.
***
Tra l'alienazione dell'operaio e l'alienazione dell'artista non c'è alcun rapporto. L'operaio é alienato in quanto, nell'economia di mercato, egli é una merce come tutte le altre, ed essendo tale viene defraudato, in base al prezzo di mercato, del plus valore, ossia di ciò
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che rappresenta appunto il suo valore di uomo. Ma l'artista, invece, crea un oggetto per il quale non c'è mercato (o, se c'è, non é quello degli oggetti di necessità che hanno costantemente un mercato) e il cui prezzo non esiste, in realtà, in denaro o in specie. Il prezzo del l'opera d'arte l'artista l'ha già ricevuto con la gioia provata creandola. In altri termini, al momento della consegna del libro all'editore, della musica al direttore d'orchestra, del quadro al mercante, l'artista è già stato pagato e quanto riceve in seguito é un regalo o comunq[...]

[...] questo plus valore e ridotto a merce né più né meno simile a quella che egli fabbrica. Dunque, riassumendo: l'alienazione dell'operaio è di specie economica, quella dell'artista di specie espressiva. E di conseguenza si impedisce all'operaio di essere uomo riducendolo a merce e pagandolo per tale; all'artista di essere uomo riducendolo a operaio e pagandolo per tale. E ancora: l'operaio che viene colpito nella mercede non potrà essere uomo e perciò neppure artista, ma l'artista colpito nell'espressione nonché uomo non potrà neppure essere operaio perché egli era già uomo in partenza ossia dotato originariamente di quelle facoltà espressive che nell'operaio si liberano soltanto .nel momento in cui egli comincia ad essere uomo. Finalmente, colpendo l'artista, si colpisce anche, indirettamente, l'operaio che nell'artista vede il suo supremo ideale umano di libera e completa espressività.
Il comunismo tenta di assorbire la cultura e l'arte dell'occidente nei. suoi uomini e prodotti migliori, in modo da lasciare alla borghesia soltanto gli [...]

[...]nsare: «Ecco la concezione borghese dell'arte che vuole che si rappresenti la felicità di un pastore nonostante gli stracci e i piedi nudi ». Ma che dobbiamo pensare dell'equivalente del pastorello che troviamo in infiniti quadri di artisti comunisti? Lo stato comunista ci risponde: « I miei pastori non hanno i piedi nudi e non indossano stracci. Essi sono davvero felici così nei quadri come nella realtà ». A questo si potrebbe obbiettare che se ciò fosse vero, i pastori dei quadri comunisti sarebbero dipinti meglio. Essendo dipinti come sono dipinti, la critica marxista nei riguardi di questi quadri é altrettanto giustificata che nei riguardi dei quadri borghesi.
***
Marx aveva detto: é tempo che la filosofia si adoperi non per spiegare ma per cambiare il mondo. Ma non aveva detto che l'arte dovesse fare la stessa cosa. Probabilmente, ove fosse stato interrogato in proposito, egli avrebbe riconosciuto che all'arte, come sempre, spettava il compito di rappresentare il mondo una volta che fosse cambiato. Il comunismo, invece, chiede all[...]

[...]uanto riguarda l'arte, non possa né debba esserci un rapporto come da inferiore a superiore ma di parità.
***
In un suo discorso del 1937, Mao Tze Dun, cosí definiva il compito dell'arte: essa, qualunque sia il suo livello, deve lavorare per il popolo e soltanto per il popolo. Giusto concetto, ma chi dira all'arte in che modo essa deve lavorare per il popolo? Evidentemente non il popolo stesso il quale, per ragioni storiche, pub anche ignorare ciò che gli é utile, bensì i dirigenti che sono i depositarii e gli amministratori dell'ideologia dominante. Ed è qui appunto che sta il luogo debole dello schieramento dell'arte comunista. Perché l'ideologia comunista, nel suo autoritarismo, da una parte é tratta spesso a confondere ciò che é utile al popolo con ciò che é utile ai dirigenti; dall'altra non sembra, almeno per ora, in grado di elaborare una sua estetica (ivi compresa quella del realismo socialista) che possa resistere alla pressione degli eventi e non venga alla fine mortificata e sviata dalle esigenze utilitarie della dittatura e della guerra e ridotta così alla funzione di semplice strumento di controllo. In queste condizioni potrebbe anche avvenire che l'arte invece di lavorare per il popolo e soltanto per il popolo, si distacchi dal popolo.
A un'arte di partito, si dovrebbe chiedere prima di tutto di non sembrare di partito. Perché, s[...]

[...] bisonti in fuga non era gran che diverso da Balzac che descrive in un suo romanzo il contegno degli agenti di borsa in un giorno di mercato. Ed é pur vero che l'uomo preistorico viveva di caccia e i personaggi di Balzac del gioco al rialzo e al ribasso. Ma quello che in ambedue i casi interessa l'artista non è il perché, bensì il come. Il movimento della vita non le cause di quel movimento.
Quanta filosofia, quanto pensiero per arrivare a dire ciò che nell'antichità si sarebbe data in poche parole: vogliamo un'arte che sia utile allo stato, alla società. Ciò che distingue il mondo moderno da quello antico é la sua incapacità di cinismo. Il mondo antico era vicino alla natura e la natura é cinica, diretta e ingenua. Il mondo mo demo invece é lontano dalla natura, intellettualistico, indiretto, scaltro.
Zdanov, in un suo discorso, dice tra l'altro: «rappresentare le nuove virtù degli uomini sovietici, mostrare al nostro popolo non soltanto ciò che egli é oggi ma quello che sarà domani, illuminare di un raggio
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luminoso la sua marcia in avanti: ecco i compiti dello scrittore sovietico onesto. Lo scrittore non deve trascinarsi al rimorchio degli avvenimenti, deve marciare all'avanguardia del popolo e additargli la strada del suo sviluppo ». Ecco, in poche parole, una buona definizione dell'arte di propaganda la quale infatti non rappresenta gli uomini come sono ma come dovrebbero essere, non tratta delle cose presenti ma di quelle che immancabilmente saranno e, insomma, non descrive il regno di [...]

[...] cui la rivoluzione comunista non ha avuto luogo. In questi paesi i critici di fede marxista, sono marxisti per quanto riguarda l'arte borghese dei loro paesi e conformisti per quanto riguarda invece l'arte dei paesi comunisti. L'opera d'arte americana sarà indicativa di una data situazione sociale, l'opera d'arte sovietica invece non lo sarà affatto. Che cosa se ne deve arguire? Forse che le teorie marxiste sono rivoluzionarie soltanto in parte cioè relativamente alla società borghese
e all'arte borghese; ma che cessano di esserlo appena si tratta di arte
e società comuniste?
***
Eppure le teorie marxiste sull'arte sono invece meravigliosamente adatte ad una diagnosi dei mali del corpo sociale; e la loro forza rivoluzionaria é indubbia. Applicatele all'arte dei paesi comunisti e vedrete che daranno risultati non inferiori a quelli che si ottengono applicandole all'arte dei paesi borghesi. Essi dimostreranno infatti che anche in quei paesi la società si difende nell'arte con gli stessi mezzi
e gli stessi compromessi che nei paesi bo[...]

[...]SMO AL POTERE E I PROBLEMI DELL'ARTE
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livello delle masse salirà indefinitamente. Purtroppo, però, quando il livello delle masse sarà veramente alto, bisognerà provvedere a far salire egualmente il livello degli artisti, diventato, nel frattempo, estremamente basso.
* * *
Il problema della realtà per uno stato che pretenda di essere in possesso della verità attraverso una sua ideologia, si pone in maniera molto semplice: é reale tutto ciò che risponde a quell'ideologia; irreale, ossia irrazionale, ossia negativo, tutto ciò che la contraddice. Insomma un artista che non piaccia allo stato, esce dalla realtà, avventura terribile per ora sfiorata soltanto dai romanzi avveniristici. il guaio si ò che spesso l'artista é nella realtà e lo stato invece ne é uscito. Ma per far rientrare un artista nella realtà basta una critica sfavorevole su un giornale ufficiale. Invece, purtroppo, per far rientrare uno stato nella realtà, non ci vuole meno di una rivoluzione.
* * *
In fatto di romanzi sociali, nessuno ha mai scritto un romanzo così persuasivo come Germinal di Zola, tanto per fare un esempio. I romanzi del realismo[...]



da [I Documenti del convegno. Appunti per le relazioni e Comunicazioni] N. Bobbio, Nota sulla dialettica in Gramsci in Studi gramsciani

Brano: [...]? Ha il concetto di dialettica rilievo nel pensiero di Gramsci? È un concetto centrale o marginale nel suo sistema dottrinale? Quale uso egli ne fa e per risolvere quali problemi? Non mi pare che il tema della dialettica in Gramsci sia stato sinora affrontato con l'attenzione che l'importanza del concetto richiede. Eppure per comprendere la filosofia di uno scrittore marxista è utile cominciare dal concetto ch'egli ha della dialettica e dall'ufficio che gli assegna.
Non pretendo con questa nota di rispondere esaurientemente a
74 I documenti del convegno
tutte le domande che mi son poste, bensí, soltanto, di avviare una ricerca che potrà servire da contributo a quello studio minuto e organico sulla filosofia di Gramsci, che, se non sbaglio, dopo i primi studi esplorativi e alcuni saggi parziali, non è ancora stato scritto. Questa nota consiste semplicemente nella raccolta di passi sulla dialettica, tratti dai Quaderni — raccolta che non presumo completa —, ordinata intorno a tre problemi: 1°. quale importanza Gramsci assegna al concett[...]

[...] nella parte distruttiva e costruttiva del suo pensiero.
2. Si può dire senza esitazione che Gramsci assegna alla dialettica un'importanza fondamentale. Il passo piú significativo si trova là dove, discutendo la svalutazione della tecnica compiuta dal Croce nel campo dell'arte e della logica, esce in questa osservazione: « Anche per la dialettica si presenta lo stesso problema; essa è un nuovo modo di pensare, una nuova filosofia, ma è anche perciò una nuova tecnica » 1. Non ci interessa qui la questione della tecnica; ci interessa l'affermazione che per Gramsci la dialettica è un nuovo modo di pensare, anzi una nuova filosofia. In questo senso egli si riallaccia alla nota tesi marxiana ed engelsiana, secondo cui il metodo dialettico era stato il lato rivoluzionario di Hegel, e aveva segnato una svolta nella storia della filosofia. Il legame tra dialettica e rivoluzione filosofica compiuta dal marxismo, è ribadito ancor piú esplicitamente in un passo, anch'esso di origine engelsiana, nella polemica con Bukharin: « La funzione e il signi[...]

[...]i ed economici impedisce al metodo dialettico di mostrare tutta la sua potenza inventiva e costruttiva. Altrove, infatti, precisa che nella scienza della dialettica o gnoseologia, come lui la intende, « i concetti generali di storia, di politica, di economia si annodano in unità organica » 2; e quindi essa non può essere separata, come teoria del metodo, dall'applicazione del metodo ai problemi dell'interpretazione storica, economica e politica. Ciò gli permette di condannare la « concezione molto diffusa », secondo cui « la filosofia della prassi è una pura filosofia, la scienza della dialettica, e che le altre parti sono l'economia e la politica, per cui si dice che la dottrina è formata di tre parti costitutive, che sono nello stesso tempo il coronamento e il superamento del grado piú alto che verso il '48 aveva raggiunto la scienza delle nazioni piú progredite d'Europa: la filosofia classica tedesca, l'economia classica inglese e l'attività e scienza politica francese » 3. Con queste parole Gramsci condanna la disintegrazione dell'un[...]

[...] del metodo dialettico.
Si osservi che questa insofferenza per la separazione della dialettica « come specie di logica formale », dal corpo delle dottrine marxistiche, è ribadita anche a proposito della Storia del materialismo del Lange. Gramsci ritiene che quest'opera sia stata la causa di alcune grossolane interpretazioni materialistiche del marxismo, le quali hanno fatto del marxismo una dottrina materialistica corretta dalla dialettica, ma, ciò
M. S., p. 132.
2 M. S., p. 129.
3 M. S., pp. 128129.
76 I documenti del convegno
facendo, — qui ritorna il suo concetto principale — si è assunta la dialettica come « un capitolo della logica formale e non come essa stessa una logica, cioè una teoria della conoscenza » 1.
Proprio perché la dialettica è un nuovo modo di pensare, una nuova filosofia, è un modo di pensare difficile, non da tutti: essa va contro il senso comune, che è dogmatico e si fonda sulla logica formale, mentre essa è critica, è la critica per eccellenza e invece di essere un capitolo della logica formale, ne è l'antitesi. Vi sono due passi su questo punto: « Si sente che la dialettica è cosa molto ardua e difficile, in quanto il pensare dialetticamente va contro il volgare senso comune che è dogmatico, avido di certezze perentorie ed ha la logica formale c[...]

[...]tolo della logica formale, ne è l'antitesi. Vi sono due passi su questo punto: « Si sente che la dialettica è cosa molto ardua e difficile, in quanto il pensare dialetticamente va contro il volgare senso comune che è dogmatico, avido di certezze perentorie ed ha la logica formale come espressione » 2. Parlando del dilettantismo filosofico parla « della mancanza di senso storico nel cogliere i diversi momenti di un processo di sviluppo culturale, cioè di una concezione antidialettica, dogmatica, prigioniera degli schemi astratti della logica formale » 3.
L'interesse che Gramsci aveva per il problema della dialettica può anche essere testimoniato dal progetto che egli andava accarezzando di approfondirne lo studio: in un passo bibliografico sono citate, come opere da cercare, la Dialettica dei Padri Liberatori e Corsi, e i due volumi Dialettica di Baldassarre Labanca, oltre al capitolo « Dialettica e logica » nei Problemi fondamentali del marxismo di Plekhanov 4.
3. Quanto all'uso del termine « dialettica » (e derivati), si trovano nella[...]

[...]roblema di identificare teoria e pratica si pone, si pone in questo senso: di costruire su una determinata pratica una teoria che, coincidendo e identificandosi con gli elementi decisivi della pratica stessa, acceleri il processo storico in atto, rendendo
1 Dialettica della natura, trad. it., Roma, ed. Rinascita, 1950, . p. 32.
2 M. S., p. 12.
78 I documenti del convegno
la pratica piú omogenea, coerente, efficiente in tutti i suoi elementi, cioè potenziandola al massimo, oppure, data una certa posizione teorica, di organizzare l'elemento pratico indispensabile per la sua messa in opera » 1. Peraltro, l'uso piú 'frequente del termine «dialettica», inteso come azione reciproca, si trova in Gramsci a proposito del rapporto strutturasuperstruttura, cioè di quel composto o sintesi ch'egli chiama
blocco storico ». 'Si può dire che per « blocco storico » Gramsci intenda il risultato, in una certa situazione storica, del rapporto dialettico di struttura e di superstruttura. In im celebre passo, dove egli dice che « la struttura e le superstrutture formano " un blocco storico " » , e spiega quali sono le condizioni storiche necessarie perché l'ideologia trasformi la realtà, ciò che esprime, in termini hegeliani, dicendo che il razionale si fa reale, conclude: < Il ragionamento si basa sulla reciprocità necessaria tra struttura e superstrutture (reciprocità che è appunto il processo dialettico reale) » 2.
L'uso di gran lunga piú frequente e indubbiamente anche piú importante del termine « dialettica » nel linguaggio gramsciano è quello corrispondente al significato di « processo tesiantitesisintesi ». Aggiungiamo che è anche il significato piú genuinamente hegelianomarxistico; basti pensare che confluisce nel concetto di « divenire » . Proprio a proposito del diveni[...]

[...]e anche piú importante del termine « dialettica » nel linguaggio gramsciano è quello corrispondente al significato di « processo tesiantitesisintesi ». Aggiungiamo che è anche il significato piú genuinamente hegelianomarxistico; basti pensare che confluisce nel concetto di « divenire » . Proprio a proposito del divenire, della distinzione fra progresso e divenire, ci si imbatte in quest'uso del termine: « Nel " divenire " si è cercato di salvare ciò che di piú concreto è nel " progresso ", il movimento e anzi il movimento dialettico (quindi anche un approfondimento, perché il progresso è legato alla concezione volgare dell'evoluzione) » 3. È chiaro che qui con « movimento dialettico » si vuole indicare, in contrapposizione alla concezione evolutiva del corso storico, una concezione per cui il corso storico procede per negazione e negazione della negazione. Altrove: « La fissazione del momento " catartico" diventa cosí, mi pare, il punto di partenza di tutta la filosofia della prassi; il processo catartico coincide con la catena di sintes[...]

[...]me intiero gruppo sociale, non solo comprende le contraddizioni ma pone se stesso come elemento della contraddizione, eleva questo elemento a principio di conoscenze e quindi di azione » 1.
Non manca, infine, in Gramsci il riferimento del termine « dialettica » al principio o legge del passaggio dalla quantità alla qualità. Ne parla ripetutamente nella critica al materialismo volgare di Bukharin. In un passo, lamenta che il Saggio popolare non sciolga uno dei nodi teorici del marxismo, vale a dire, appunto « come la filosofia della prassi abbia " concretato " la legge hegeliana della quantità che diventa qualità » 2. Altrove si vale del principio in funzione polemica contro l'evoluzionismo volgare « che non può conoscere il principio dialettico col passaggio della quantità alla qualità » 3; altrove, ancora, contro la teoria della previsione nella storia, che parte dal presupposto che le forze contrastanti siano riducibili a quantità fisse, mentre cid non accade perché « la quantità diventa continuamente qualità » 4.
1 M. S., pp. 9394. [...]

[...]dall'insieme dei sistemi. Ha dialettizzato i due momenti della vita del pensiero, materialismo e spiritualismo, ma in modo speculativo, onde è risultato il famoso uomo che cammina sulla testa.
I continuatori di Hegel hanno distrutto l'unità dialettica, ed è toccato alla filosofia della prassi di ricostruirla, ma questa volta ponendo l'uomo sulle gambe 1. Quanto al materialismo tradizionale, il suo vizio fondamentale è di essere evoluzionistico, cioè, appunto, di non essere dialettico. Nel passo già ricordato, in cui il concetto di divenire vien distinto da quello di progresso, è proprio il concetto di dialettica che offre il criterio di discriminazione. Poiché anche alla filosofia della prassi è toccato lo stesso destino della filosofia di Hegel, cioè di scindersi, e « dall'unità dialettica si è ritornati da una parte al materialismo filosofico, mentre l'alta cultura moderna idealistica ha cercato di incorporare ciò che della filosofia della prassi le era indispensabile per trovare qualche nuovo elisir » 2, la battaglia su due fronti continua, e spetta ad una ripresa genuina della filosofia della prassi (è il compito che Gramsci si pone) di ricostruire l'unità dialettica perduta.
Com'è noto, nei frammenti gramsciani il fronte materialistico è rappresentato da Bukharin, quello idealistico da Croce. Nei rispetti di Bukharin e di Croce, Gramsci rinnova le critiche che Marx ed Engels avevano mosso rispettivamente al materialismo meccanicistico e alla filosofia di Hegel. Quale rimprovero muove, fra gli altri[...]

[...]eculativa, e in tal modo egli ritorce l'accusa che Croce aveva mosso al marxismo di essere una filosofia teologizzante per
1 M. S., p. 132. Il corsivo è mio.
2 P., p. 190.
3 Si veda, ad esempio, M. S., pp. 44, 200.
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aver ripresentato nella struttura il principio di un dio ascoso 4. Basterà ricordare un passo fra i molti che si potrebbero scegliere: « La filosofia del Croce rimane una filosofia " speculativa " e in ciò non è solo una traccia di trascendenza e di teologia, ma è tutta la trascendenza e la teologia, appena liberate dalla piú grossolana scorza mitologica » 2. Solo la filosofia della prassi si è liberata da ogni residuo di trascendenza ed è storicismo assoluto. « Lo storicismo idealistico crociano rimane ancora nella fase teologicospeculativa » 3. Ma che intende dire Gramsci quando parla della filosofia crociana come filosofia speculativa? Uno dei sensi di questa accusa si ricollega ancora una volta al concetto di dialettica. C'è in Gramsci il sospetto che la dialettica di Croce sia una dialetti[...]

[...]a da ogni residuo di trascendenza ed è storicismo assoluto. « Lo storicismo idealistico crociano rimane ancora nella fase teologicospeculativa » 3. Ma che intende dire Gramsci quando parla della filosofia crociana come filosofia speculativa? Uno dei sensi di questa accusa si ricollega ancora una volta al concetto di dialettica. C'è in Gramsci il sospetto che la dialettica di Croce sia una dialettica concettuale in antitesi alla dialettica reale, cioè una dialettica delle idee e non delle cose. L'accusa viene formulata in questo modo: Croce avrebbe scambiato il divenire con il concetto del divenire, onde la sua storia « diventa una storia formale, una storia di concetti, e in ultima analisi una storia degli intellettuali, anzi una storia autobiografica del pensiero del Croce, una storia di mosche cocchiere » 4. Con altre parole: la storia del Croce è una storia delle idee, e di conseguenza dei portatori e creatori delle idee che sono gli intellettuali; ovvero è una storia in cui le contraddizioni reali sono percepite attraverso le teorie [...]

[...] nei momenti cruciali da farcelo annoverare fra le fonti piú importanti della sua riflessione sul marxismo 2. Marx accusava Proudhon di aver frainteso il significato della dialettica, che è movimento di opposti o passaggio dall'affermazione alla negazione e alla negazione della negazione, dal momento che aveva preteso di distinguere in ogni evento storico il lato buono e il lato cattivo, e conservare il primo eliminando il secondo. E spiegava: « Ciò che costituisce il movimento dialettico è la coesistenza dei due lati contraddittori, la loro lotta e la loro confusione in una nuova categoria. Basta in realtà porsi il problema di eliminare il lato cattivo, per liquidare di colpo il
1 M. S., p. 185.
2 M. S., pp. 104, 185, 221; Mach., p. 31, n. 71. «La Miseria della filosofia è un momento essenziale della formazione della filosofia della prassi; essa può essere considerata come lo svolgimento delle Tesi su Feuerbach, mentre la Sacra famiglia è una fase intermedia indistinta di origine occasionale » (Mach.; p. 31, n.).
84 I documenti del c[...]

[...]della formazione della filosofia della prassi; essa può essere considerata come lo svolgimento delle Tesi su Feuerbach, mentre la Sacra famiglia è una fase intermedia indistinta di origine occasionale » (Mach.; p. 31, n.).
84 I documenti del convegno
movimento dialettico »1. Altro che eliminare il lato cattivo: « È il lato cattivo — ribadiva Marx — a produrre il movimento che fa la storia, determinando la lotta » 2. Qui Marx metteva in rilievo ciò che è il nucleo del pensiero dialettico, cioè la forza della negatività nella storia. Ed ecco come Gramsci, in polemica con Croce, rileva la stessa difficoltà: « L'errore filosofico (di origine pratica!) di tale concezione consiste in ciò che nel processo dialettico si presuppone " meccanicamente " che la tesi debba essere " conservata " dall'antitesi per non distruggere il processo stesso, che pertanto viene " preveduto " come una ripetizione all'infinito, meccanica, arbitrariamente prefissata. In realtà si tratta di uno dei tanti modi di " mettere le brache al mondo ", di una delle tante forme di razionalismo antistoricistico » 3. Ciò che la posizione del tipo ProudhonCroce (Gramsci pone sempre accanto a Proudhon anche Gioberti) rappresenta attraverso la pretesa di conservare la tesi nell'antitesi, è proprio la sconfessione di quella forza della negatività che costituisce il nerbo della dialettica. « Nella storia reale, — prosegue Gramsci — l'antitesi tende a distruggere la tesi, la sintesi sarà un superamento, ma senza che si possa a priori stabilire ciò che della tesi sarà " conservato" nella sintesi, senza che si possa a priori " misurare " i colpi come in un "ring " convenzionalmente regolato » 4. Ci troviamo di fronte, indubbiamente, a uno dei nodi, forse al nodo principale del pensiero gramsciano, in quanto erede, interprete, continuatore del pensiero marxista. Qual è il rapporto fra tesi e antitesi? Vi è un pensiero che tenta di mettere l'accento sulla tesi sia che pretenda di conservare nell'antitesi una parte della tesi (il « lato buono » di Proudhon) sia che, come si legge in un altro passo, pretenda di sviluppare tutta la tesi fino [...]

[...] luogo, questa falsificazione della dialettica, in quanto conduce ad una ricostruzione puramente teorica della storia,. ad uso dei conservatori e dei moderati che temono sopra ogni altra cosa coloro che fanno la storia, è una prerogativa degli intellettuali, « i quali concepiscono se stessi come gli arbitri e i mediatori delle lotte politiche reali » , e sono « quelli che impersonano la " catarsi " del momento economico al momento eticopolitico, cioè la sintesi del processo dialettico stesso, sintesi che " manipolano " speculativamente
1 M. S., p. 221.
2 Mach., p. 71. In un'analoga polemica contro U. Spirito, gli riconosce il merito di affermare « come l'AntiProudhon, che è necessario che i termini dialettici si svolgano in tutta la loro potenza e come " estremismi " contrapposti » (P., p. 28).
3 L'esposizione piú completa del problema si trova in M. S., pp. 135138..
4 M. S., p. 135.
86 I documenti del convegno
nel loro cervello dosandone gli elementi " arbitrariamente" (cioè passionalmente) »'.
Entrambe le conseguenze, di cui la [...]

[...]
1 M. S., p. 221.
2 Mach., p. 71. In un'analoga polemica contro U. Spirito, gli riconosce il merito di affermare « come l'AntiProudhon, che è necessario che i termini dialettici si svolgano in tutta la loro potenza e come " estremismi " contrapposti » (P., p. 28).
3 L'esposizione piú completa del problema si trova in M. S., pp. 135138..
4 M. S., p. 135.
86 I documenti del convegno
nel loro cervello dosandone gli elementi " arbitrariamente" (cioè passionalmente) »'.
Entrambe le conseguenze, di cui la prima si ricollega alla critica del riformismo e alla giustificazione storica del momento giacobino, e la seconda ci introduce alla critica della politica degli intellettuali, sono un'ultima conferma della necessità che una comprensione della filosofia di Gramsci cominci dal concetto di dialettica.
1 M. S., p. 186.



da (Nove domande sullo stalinismo) Palmiro Togliatti in KBD-Periodici: Nuovi Argomenti 1956 - 5 - 1 - numero 20

Brano: [...]gliati.
Il primo, il più grossolano e persino ridicolo, è di ritenere —
o fingere di ritenere — che formulando quella condanna e queste critiche i comunisti sovietici siano passati alle posizioni, se non dell'anticomunismo per lo meno di chi non ha mai né approvato né capito la loro azione. Voglio dire ch'essi abbiano buttato a mare,
o si accingano a buttare a mare tutte le loro posizioni di principio
e pratiche, tutto il loro passato, tutto ciò che hanno affermato, sostenuto, difeso, attuato in tanti decenni del loro lavoro. Comprendo benissimo che questa sia la interpretazione che del XX Congresso danno gli alfieri dell'anticomunismo, ma non c'è motivo per cui dobbiamo dar loro retta oggi, più di quanto non l'abbiamo data ieri. E del resto, essi scoprono il loro giuoco, forzandolo sino alla esasperazione, come sempre, e mettendo così in mostra la mala fede. Non escludo, per:, e lo voglio dire apertamente, che vi sia anche chi in perfetta buona fede scivoli su quella posizione e incominci a domandare se, date quelle critiche a Stali[...]

[...], attraverso Yalta e Teheran, al patto di non aggressione con la Germania del 1939, alla guerra di Spagna, ecc. ecc. ecc. e, in altro campo, alle direttive per la costruzione economica socialista e alla lotta contro chi la ostacolava e infine, una volta preso l'avvio — perché no? — sino agli atti decisivi della
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Rivoluzione d'ottobre, che furono la presa del potere da parte dei Soviet degli operai, contadini e soldati, lo scioglimento dell'Assemblea costituente e la creazione di una nuova struttura politica della società. A coloro che in buona fede accennassero a intender le cose in questo modo, dovremmo dire che sbagliano. Naturalmente, su tutti gli atti attraverso i quali i comunisti sovietici sono giunti alla conquista del potere e alla creazione dell'attuale loro ordinamento sociale é sempre possibile si discuta e per molto tempo si discuterà, senza dubbio, allo scopo di precisarne il carattere, il contenuto e le conseguenze, allo scopo di valutarli storicamente nel modo più esatto. I compagni sovietici stanno [...]

[...]o ci() che avviene nell'Unione sovietica. Essa ha per questo i suoi specialisti, capaci, per qualsiasi spostamento di responsabile dell'uno o dell'altro dicastero, dell'una o dell'altra organizzazione, di pesare esattamente quanti grammi di influenza poli
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tica vi abbia perduto questo o quel dirigente, quanti metri abbia avanzato verso il potere esclusivo questo o quel gruppo di uomini,
e così via. Le più grandi sciocchezze, poi, vengono dette quando da queste sottili valutazioni ipotetiche si vuole risalire al contrasto,
e persino alla lotta, tra civili e militari, per esempio, tra tecnici e uomini di partito, ecc. ecc. Il tecnico e l'uomo di partita molto spesso, nell'Unione sovietica, coincidono. Quanto ai militari, tutti sanno che in tutte le lotte interne di partito che si ebbero dalla rivoluzione in poi non vi fu mai una posizione delle forze armate come tali. Bisogna dunque lasciare queste cose ai dilettanti del fronzolo e del pettegolezzo politico. Non possiamo né vogliamo affatto escludere che, [...]

[...]i, il compito di correggere gli errori da lui compiuti, di denunciare questi errori e di muoversi su una strada per molti aspetti nuova. Questa evidente difficoltà spiega perché la denuncia aperta degli errori precedentemente commessi non poté farsi subito dopo la morte di Stalin. Non solo non sarebbe stata capita, ma avrebbe forse provocato reazioni negative, pericolose e non controllabili. La correzione di fatto degli errori, invece, prima per ciò che si riferisce al metodo di direzione e poi negli altri campi, è evidente che incominciò subito. Altrettanto evidente è però che questa correzione non avrebbe potuto compierla un gruppo dirigente nel quale si fosse svolta una tenebrosa lotta di persone o di gruppi per il po
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tere. La stessa eliminazione di Beria, uno dei principali responsabili delle sanguinose conseguenze dei più gravi tra gli errori commessi sotto la direzione di Stalin, lo dimostra. Poté infatti aver luogo rapidamente, senza scosse nel gruppo dirigente e senza alcun conflitto tra differenti settori della pubblica amministrazione.
Bisogna dunque, per concludere su questo punto, abituarsi[...]

[...]pali responsabili delle sanguinose conseguenze dei più gravi tra gli errori commessi sotto la direzione di Stalin, lo dimostra. Poté infatti aver luogo rapidamente, senza scosse nel gruppo dirigente e senza alcun conflitto tra differenti settori della pubblica amministrazione.
Bisogna dunque, per concludere su questo punto, abituarsi a pensare che le critiche a Stalin e al culto della sua persona significano per i compagni sovietici esattamente ciò che essi sinora hanno detto. E che cosa, precisamente ? Che in conseguenza degli errori di Stalin e del culto della sua persona si erano accumulati elementi negativi, si erano create situazioni sfavorevoli e anche nettamente cattive in differenti settori della vita e della società sovietica, in differenti parti dell'attività del partito e dello Stato. Non è però semplice ridurre tutti questi momenti negativi sotto un solo concetto generale, perché anche in questo caso si corre il rischio della eccessiva, arbitraria e falsa generalizzazione, cioè il rischio di giudicare cattiva, da respingersi[...]

[...] e del culto della sua persona si erano accumulati elementi negativi, si erano create situazioni sfavorevoli e anche nettamente cattive in differenti settori della vita e della società sovietica, in differenti parti dell'attività del partito e dello Stato. Non è però semplice ridurre tutti questi momenti negativi sotto un solo concetto generale, perché anche in questo caso si corre il rischio della eccessiva, arbitraria e falsa generalizzazione, cioè il rischio di giudicare cattiva, da respingersi, da criticarsi, tutta la realtà economica, sociale e culturale sovietica, il che è un ritorno alle consuete idiozie reazionarie. La meno arbitraria delle generalizzazioni é quella che vede negli errori di Stalin il progressivo sovrapporsi di un potere personale alle istanze collettive di origine 'e natura democratica e, come conseguenza di questo, l'accumularsi di fenomeni di burocratizzazione, di violazione della legalità, di stagnazione e anche, parzialmente, di degenerazione, in differenti punti dell'organismo sociale. Si deve però subito ag[...]

[...]in azione un molteplice sistema di pressioni, intimidazioni, coartazioni, falsificazioni, artifici legali e illegali, per cui la espressione della volontà popolare viene ad essere assai gravemente limitata e falsificata. E il sistema opera nelle mani e a favore non solo di chi sta in quel momento al governo, quanto di chi detiene nella società il potere reale, che è dato dalla ricchezza, dalla proprietà dei mezzi di produzione e di scambio, e da ciò çhe ne deriva, incominciando dalla effettiva direzione della vita politica, sino alla immancabile protezione delle autorità religiose e di tutti gli altri gangli di potere che esistono in una società capitalistica. Noi sosteniamo che oggi, dati gli sviluppi e la forza attuale del movimento democratico e socialista, si possono operare strappi assai larghi in questo sistema che impedisce la libera espressione della volontà popolare, e si può quindi aprire un varco sempre più ampio alla manifestazione di questa volontà. Per questo ci muoviamo sul terreno democratico e senza uscire da questo terr[...]

[...]età capitalistica. Noi sosteniamo che oggi, dati gli sviluppi e la forza attuale del movimento democratico e socialista, si possono operare strappi assai larghi in questo sistema che impedisce la libera espressione della volontà popolare, e si può quindi aprire un varco sempre più ampio alla manifestazione di questa volontà. Per questo ci muoviamo sul terreno democratico e senza uscire da questo terreno riteniamo possibili sempre nuovi sviluppi. Ciò non vuol dire, però, che non vediamo le cose come sono e che del modo come si svolge la vita democratica nel mondo occidentale (guai, poi, a spingersi un po' troppo in là, in questo mondo, sino a trovarvi la Spagna, o la Turchia, o il Sud America, o il Portogallo, o il sistema elettorale discriminato degli Stati Uniti
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d'America, ecc. ecc.!) noi ci dobbiamo fare un feticcio, il modello universale e assoluto della democrazia! Anzi, noi continuiamo a' pensare che la democrazia di tipo occidentale è una democrazia limitata, imperfetta, per molte cose falsa, che richiede di essere sviluppata e perfezionata, attraverso una serie di riforme economiche e politiche. Anche se, dunque, giungeremo alla conclusione che il XX Congresso apre un nuovo processo di sviluppo democratico nell'Unione sovietica, siamo ben lontani dal pensare e riteniamo sia errato pensare che questo sviluppo possa e debba compiersi con un ritorno a istituti di tipo «occidentale ».
La legittimità de[...]

[...]rivoluzione. Questa ha dato il potere alla classe operaia, che era minoranza, ma è riuscita, risolvendo i grandi problemi nazionali e sociali che si ponevano, a raccogliere via via attorno a sé tutte le masse popolari, trasformare la struttura eco nomica del paese, creare, far funzionare e progredire una società nuova, costruita secondo i principi socialisti. Dimenticare la rivoluzione, non tener conto della nuova struttura sociale, dimenticare, cioè, tutto ciò che è proprio dell'Unione sovietica e poi fare un confronto puramente esteriore con i modi della vita politica nei paesi capitalistici, è un trucco e niente più. Ma questo primo richiamo alla realtà non basta. La società sovietica ha avuto, sin dall'inizio, una sua struttura politica democratica, fondata, precisamente, sulla esistenza e sul funzionamento dei Soviet (Consigli di operai, contadini, lavoratori, soldati). Il sistema dei Soviet è, come tale, molto più democratico e progredito di qualsiasi sistema democratico tradizionale, e questo per due motivi. Il primo è che fa penetrare la vit[...]

[...]non solo esiste una omogeneità sociale dovuta alla scomparsa delle classi capitalistiche, non solo esiste una omogeneità politica che si esprime con la alleanza tra gli operai e i contadini, ma esiste una forma di unità della vita
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civile e della direzione politica che è sconosciuta e forse nemmeno capita, qui, nel mondo «occidentale ». La stessa nozione di partito é, nella Unione sovietica, qualcosa di diverso da ciò che noi intendiamo sotto questo termine. Il partito lavora e combatte per realizzare e sviluppare il socialismo, ma la sua opera é essenzialmente di natura positiva e costruttiva, non di natura polemica contro un ipotetico oppositore politico interno. L'« oppositore » contro cui si batte è la difficoltà oggettiva da superare, il contrasto da risolvere lavorando; la realtà da dominare, la sopravvivenza del vecchio da distruggere per far avanzare il nuovo, ecc. La dialettica dei contrasti che è essenziale per lo sviluppo della società non si esprime più nella competizione tra diversi partiti, d[...]

[...].
Ma se ritengo assurdo che il sistema possa esser fatto saltare per ritornare indietro, credo però che all'interno di esso possono e dovranno essere introdotte modificazioni, anche profonde, sulla base dell'esperienza che è stata compiuta, sulla base dei successi ottenuti in tutti i campi, e sulla base stessa della necessità di avere più efficaci garanzie contro errori come quelli di Stalin. Su questo punto é da concentrare la attenzione, e perciò devono essere seguite e studiate le misure nuove che via via nell'Unione sovietica si stanno prendendo, sia dal partito che dal governo. Le più interessanti, sino ad ora, e di più vasta portata, sono quelle che stabiliscono un decentramento sempre più esteso della direzione economica. La centralizzazione, anche in forme estreme, fu una necessità dei periodi in cui si dovevano operare rapidamente profondissimi cambiamenti, distruggere le basi del capitalismo, gettare le fondamenta della economia socialista, far fronte a necessità eco
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nomiche, politiche, militari urgenti[...]

[...]sure limitatissime e del tutto indirette. Per questo diciamo che questa non è ancora una vera democrazia e non comprendiamo perché, per correggere le cattive cose fatte da Stalin, i popoli sovietici dovrebbero ricaderci.
Alcune cose ancora vorrei dire a proposito di garanzie efficaci contro il ripetersi di errori come quelli fatti da Stalin. Qui so che viene avanzata l'idea della (( indipendenza della magistratura » (della divisione dei poteri, cioè) come rimedio sicuro contra qualsiasi violazione della legalità. Io a questo rimedio, sinceramente, non credo. Il giudice deve avere una sua posizione di indipendenza, e la Costituzione sovietica gliela garantisce, come molte altre Costituzioni. Ma la violazione di questa norma avviene sempre in linea di fatto, non di diritto. Il giudice, inoltre, non é e non può essere un cittadino che viva fuori della società, dei suoi contrasti, delle correnti che la percorrono e la dominano. Nessun giudice si sarebbe nemmeno sognato, dieci anni fa, di condannare all'ergastolo — all'ergastolo! — un eroico[...]

[...] che in questa si determinano. Ci dicono, ora, che nell'U. S. vi furono, al tempo di Stalin, processi che si conclusero con condanne illegali e ingiuste. I giudici che emisero quelle condanne non erano, assai probabilmente, cittadini che tradissero la loro coscienza: erano cittadini convinti che le errate dottrine di Stalin, allora diffuse in tutto il popolo, circa la presenza dappertutto di «nemici del popolo» da distruggere, fossero giuste. Perciò, pur essendo formalmente «indipendenti », giudicarono in quel modo. Una vera garanzia può consistere soltanto nella giustezza degli indirizzi politici del partito e del governo, e questa si assicura con una retta vita democratica sia nel partito che nello Stato e con un permanente e stretto contatto con le masse popolari, in tutti i gradi della vita pubblica. Anche il giudice, sarà sempre tanto più giusto quanto più legato col popolo..
4. — Questa affermazione della diversità di linguaggio politico tra Occidente e Oriente, mi si consenta di dire che è una pura sciocchezza reazionaria. Fu uno[...]

[...]stezza degli indirizzi politici del partito e del governo, e questa si assicura con una retta vita democratica sia nel partito che nello Stato e con un permanente e stretto contatto con le masse popolari, in tutti i gradi della vita pubblica. Anche il giudice, sarà sempre tanto più giusto quanto più legato col popolo..
4. — Questa affermazione della diversità di linguaggio politico tra Occidente e Oriente, mi si consenta di dire che è una pura sciocchezza reazionaria. Fu uno degli argomenti del sanfedismo, continua a esserlo. Rinvio ancora una volta a un testo curioso, il Nuovo vocabolario filosofico democratico indispensabile per ognuno che brama intendere la nuova lingua rivoluzionaria, edito a Venezia nel 1799. Libertà, patriottismo, uguaglianza, diritti, ecc. ecc., tutta la terminologia politica del tempo, esprimente le grandi idee nuovamente affermate e fatte trionfare dalle rivoluzioni borghesi, é in questo manualetto sanfedista analizzata per duecento pagine per dimostrare, precisamente, che quelle grandi parole esprimevano cose [...]

[...] del passato, mentre in bocca dei rivoluzionari, in quella Francia aborrita dove ha trionfato la rivoluzione, esprimono cose del tutto diverse e opposte. Libertà significa, per il rivoluzionario, «podestà assoluta per gli scellarati, birbanti e disperati d'ogni nazione di spogliare e massacrare la parte onesta, laboriosa e che possiede qualcosa, dei suoi concittadini ». Uguaglianza é termine privo di senso,
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«la piú
alta sciocchezza, senza idea reale ». Democratico significa cc ateo, assassino, birbante in governo ». E così via. Questo riferimento alla polemica sanfedista dei secoli passati, che in un suo particolar modo, come si vede, applicava la dottrina della diversità dei linguaggi politici, puó servire a chiarire il fondo della questione. Non è che nell'una e nell'altra parte del mondo si parlino due lingua diverse, ma i gruppi sociali incapaci non solo di approvare, ma persino di comprendere le profonde trasformazioni sociali e politiche che si stanno compiendo e cui sono ostili, vorrebbero creare tra le di[...]

[...]el mondo, e a danno della parte che progredisce, abissi di incomprensione. Ma non ci riescono.
Il linguaggio politico è, tra Oriente e Occidente, assolutamente comune. Tirannide vuole dire, qui e là, la stessa cosa. Nel regime istaurato da Stalin in determinati periodi vi erano elementi di tirannide, e furono commessi, dal potere, atti delittuosi e moralmente repugnanti. Nessuno lo nega. Lo stesso significato ha, qui e là, la parola democrazia, cioè governo del popolo nell'interesse del popolo, eguaglianza dei cittadini, ecc. Quando i comunisti russi, nelle prime loro Costituzioni, stabilirono una marcata diversità tra il peso del voto degli operai e quello dei contadini, sapevano benissimo che quella non era una norma formalmente democratica. Ma la adottarono perché volevano che fosse anche legalmente garantita alla classe operaia la funzione dirigente che si era conquistata con la rivoluzione, salvando il paese dall'invasione straniera e dalla catastrofe, creando le prime condizioni necessarie all'avvento del socialismo. Raggiunti i p[...]

[...]adottarono perché volevano che fosse anche legalmente garantita alla classe operaia la funzione dirigente che si era conquistata con la rivoluzione, salvando il paese dall'invasione straniera e dalla catastrofe, creando le prime condizioni necessarie all'avvento del socialismo. Raggiunti i primi grandi risultati in questa direzione, quella norma venne soppressa. E le cose vennero dette chiaramente in questo modo, sempre. Venne detto apertamente, cioè, che sopprimendo la disparità del voto si restaurava in pieno la democrazia. Qui, nel famoso Occidente, aspetto mi si chiarisca che rapporto possa mai avere con la democrazia la discriminazione politica tra i cittadini, che un governo di democristiani e socialdemocratici tentò di porre alla base, in Italia, di tutta l'attività governativa, e che è tuttora norma generale di condotta della maggior parte delle autorità dello Stato, dei padroni, degli istituti di assistenza, degli Uffici del lavoro, ecc. ecc.
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Non è assolutamente vero che « in Oriente » l'opposizi[...]

[...] l'errore dei suoi collaboratori fu di non essersene accorti a tempo, di averlo lasciato fare sino al punto in cui la correzione non era più possibile senza danno per tutti.
5. 6. — A queste due domande risponderò assieme perché, a parte la loro formulazione concreta, che limiterebbe la ricerca a temi di ordine particolare, esse consentono, se si supera questa limitazione, di affrontare la questione che logicamente si presenta a questo punto, e cioè come, nella società sovietica, gli errori denunciati dal XX Congresso abbiano potuto essere compiuti e quindi abbia potuto crearsi, e durare un assai lungo periodo di tempo, una situazione in cui la vita democratica e la legalità socialista subivano continue, gravi ed estese violazioni. A questa si innesta,
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com'è ben comprensibile, la questione tanto della corresponsabilità, per questi errori, di tutto il gruppo dirigente politico, compresi i compagni che oggi hanno avuto la iniziativa sia della denuncia che della correzione del male che prima era stato fatto, quanto [...]

[...] iniziativa sia della denuncia che della correzione del male che prima era stato fatto, quanto
delle conseguenze di questo male.
A proposito di questa corresponsabilità, due spiegazioni sono state avanzate. Una è la più evidente ed è stata affacciata da noi stessi, nelle discussioni che hanno avuto luogo nel nostro partito. E stata formulata anche dal compagno Courtade, in una serie di articoli sulla Humanité (1), ed ora, se si deve credere a ciò che riferiscono i giornalisti, pure dal compagno Khrustcióv, rispondendo a una domanda rivoltagli in un ricevimento. L'allontanamento di Stalin dal potere, quando apparve la gravità degli errori ch'egli stava compiendo, era «giuridicamente possibile », ma impossibile in pratica, perché se la questione fosse stata posta ne sarebbe risultato un conflitto, e questo conflitto avrebbe probabilmente compromesso le sorti della rivoluzione e dello Stato, contro il quale erano puntate le armi da tutte le parti del mondo. Basta aver avuto un contatto . anche superficiale con l'opinione pubblica sovietica negli anni in cui Stalin era alla testa del paese e aver[...]

[...] Aucun communiste honnête n'oserait l'affirmer. Pratiquement, il n'était guère possible de faire autre chose que ce qui fut fait. Il fallait serrer les dents ' et travailler á l'édification du socialisme, au renforcement de l'U.R.S.S., au renforcement des partis communistes dans le monde entier, et cela malgré les tragédies engendrées par le culte de la personnalité de Staline u. L'Humanité, 26 aprile 1956.
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Khrustciòv dunque, spiega si, lo stato di necessità in cui si trovarono coloro che avrebbero voluto correggere la situazione che si era creata, ma è, nello stesso tempo, un costatazione che complica il quadro, e in sostanza lo aggrava. Si è costretti ad ammettere che gli errori che Stalin commetteva, o erano ignorati dalla grande massa dei quadri dirigenti del paese e quindi dal popolo, e questo non pare verosimile, oppure non erano considerati errori da questa massa di quadri e quindi dalla opinione pubblica, da essi orientata e diretta. Come si vede, io escludo la spiegazione della impossibilità di u[...]

[...] pare riconoscere che, non ostante gli errori che commetteva, Stalin aveva il consenso di una grandissima parte del paese e prima di tutto dei suoi quadri dirigenti e anche delle masse. Era questa la conseguenza del fatto che Stalin non commise solo degli errori, ma fece anche molte cose buone, «fece moltissimo per PU. S. », «era il più convinto dei marxisti e saldo nella sua fiducia nel popolo » ? Ha riconosciuto questo lo stesso compagno Khrustciòv, nelle dichiarazioni riferite sopra, correggendo così lo strano ma comprensibile sbaglio che venne fatto, secondo me, al XX Congresso, di tacere questi meriti di Stalin. Ma questo non spiega tutto, e non spiega tutto appunto per la gravità degli errori che oggi vengono denunciati. La spiegazione non si può trovare se non in una attenta indagine del modo come al sistema caratterizzato dagli errori di Stalin si giunse. Solo così si potrà comprendere come questi errori non fossero soltanto qualcosa di personale, ma investissero in modo profondo la realtà della vita sovietica.
Un'altra spiegazi[...]

[...]engono denunciati. La spiegazione non si può trovare se non in una attenta indagine del modo come al sistema caratterizzato dagli errori di Stalin si giunse. Solo così si potrà comprendere come questi errori non fossero soltanto qualcosa di personale, ma investissero in modo profondo la realtà della vita sovietica.
Un'altra spiegazione del perché non si poté giungere prima alle necessarie correzioni è stata data, se non erro, dallo stesso Khrustciòv, affermando che se queste correzioni non poterono farsi è perché la posizione dei dirigenti del partito e dello Stato verso gli errori di Stalin non fu eguale in tutti i periodi. Vi furo
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no dunque dei momenti in cui attorno a Stalin, vi fu una ampia solidarietà degli altri, e questa solidarietà era l'espressione, precisamente, di quel consenso di cui sopra parlavamo.
E qui bisogna riconoscere, apertamente e senza esitazione, che, mentre il XX Congresso ha dato un contributo enorme alla impostazione e soluzione di molti, seri e nuovi problemi del movimento democratico[...]

[...] é sottoposto a uno sbrigativo giudizio! Lo stesso Lenin, come risulta da una lettera da lui indirizata a Dzerginski e ora resa pubblica, prevedeva si dovesse fare una svolta quando la controrivoluzione e l'intervento straniero fossero stati del tutto sconfitti, il
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che avvenne qualche anno prima della sua morte. Si dovrà vedere se questa svolta venne compiuta o se, quasi per forza di inerzia, non si consolidò una parte di ciò che avrebbe dovuto venire modificato o abbandonato. In questo momento, poi, si scatenò la lotta dei gruppi che contestavano la possibilità di una edificazione economica socialista e questo non poté non avere una estesa influenza su tutta la vita sovietica. Anche questa lotta ebbe il carattere di un vero combattimento, dal cui esito dipendevano le sorti del potere e che si doveva quindi vincere ad ogni costo. È in questo periodo che Stalin ebbe una parte positiva, e attorno a lui si unirono le forze sane del partito. Ora si potrà osservare che si unirono attorno a lui in modo tale, e guidati d[...]

[...]e degli apparati diretti dall'alto, per cui o non poterono più opporsi quando incominciarono a venire alla luce le cose cattive, oppure non compresero nemmeno bene, all'inizio, che si trattasse di cose cattive. Forse non si sbaglia affermando che è dal partito che ebbero inizio le dannose limitazioni del regime democratico e il sopravvento graduale di forme di organizzazione burocratica.
Ma più importante mi pare debba essere l'esame attento di ciò che avvenne in seguito, quando fu realizzato il primo piano quinquennale e fu attuata la collettivizzazione della agricoltura. Qui si toccano infatti vere questioni di principio. I successi otte, nuti furono qualcosa di molto grande, di grandioso, anzi. Fu creata una grande industria socialista, e fu creata senza aiuti o' crediti dall'estero, attraverso un impegno e uno sviluppo delle forze interne della nuova società. Fu trasformata, anche se in modo meno sicuro, attraverso notevoli difficoltà, fretta eccessiva ed errori; la struttura sociale delle campagne: I risultati ottenuti erano qualco[...]

[...] aspro dibattito, durato mesi e mesi, contro chi aveva esaltato i « sacrifici » fatti dagli operai russi per il successó del piano quinquennale. Non si doveva parlare di sacrifici, dicevano, perché se no cosa avrebbero pensato gli operai in Occidente ? Ma i sacrifici c'erano stati, perché le condizioni di vita negli anni del primo piano erano state molto dure, e la classe operaia non si spaventa affatto se le si spiega che uno sforzo e un sacrificio sono necessari per costruire il socialismo, anzi, questo stimola ed esalta lo spirito di classe della sua avanguardia. È un piccolo episodio, questo, ma dimostra, come dicevamo, un errato orientamento di principio, perché é un errore di principio credere che, ottenuti i primi grandi successi, la costruzione socialista vada avanti da sé, e non attraverso il giuoco di contraddizioni di nuovo tipo, che devono ëssere risolte, nel quadro della nuova società, dalla azione delle masse e del partito che le dirige.
Ne derivarono due principali conseguenze, credo. La prima fu un isterilimento della at[...]

[...]qui, sono i dirigenti sovietici che debbono dare la risposta, comprendendo che questo é oggi uno dei problemi che assillano i militanti sinceri del movimento operaio internazionale. Fino a che punto, da quale momento ed entro quali limiti gli errori di Stalin compra misero la linea politica del partito, crearono difficoltà sussidiarie e quale peso ebbero queste difficoltà, e come si riuscì, non ostante quegli errori, a progredire ? Sulla base di ciò che conosciamo, noi possiamo fare solo alcune affermazioni generali, disposti a rivederle se necessario. Ci sembra debba essere riconosciuto che la linea seguita nella costruzione socialista continuò a essere giusta, anche se gli errori che vengono denunciati sono tali che non possono non avere seriamente limitato i successi nella sua applicazione. Questo é però uno dei punti su cui saranno necessarie le maggiori spiegazioni, perché la restrizione e in qualche caso persino la scomparsa della vita democratica é cosa essenziale per la validità di una linea politica. Ci sembra ad ogni modo, inco[...]

[...]ualche caso persino la scomparsa della vita democratica é cosa essenziale per la validità di una linea politica. Ci sembra ad ogni modo, incontrovertibile che la burocratizzazione del partito, degli organi dello Stato, dei sindacati, e soprattutto degli organi periferici, che sono i piú importanti, deve avere frenato, limitato, compresso, il pensiero creativo del partito, l'attività delle masse, il funzionamento demo cratico dello Stato e lo slancio costruttivo di tutta la società, con evidenti danni reali. D'altra parte, gli stessi successi ottenuti, e in
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pace e in guerra e dopo la guerra, sono la prova di una impressionante capacità di lavoro, di entusiasmo e di sacrificio delle nasse popolari in qualsiasi situazione, di una loro adesione continua agli scopi che la politica del partito poneva a tutto il paese,
e che attraverso l'opera loro vennero realizzati. E difficile dire, per esempio, quale altro popolo sarebbe stato capace di resistere, riprendersi e poi vincere, con Hitler nei sobborghi di Mosca e poi sul Volga, e con le strettezze terribili del periodo di guerra. Si deve dunque concludere che la sostanza del regime socialista non andò perduta, perché non andò perduta nessuna delle precedenti conquiste, né, soprattutto, l'adesione al regime delle masse [...]

[...]re democratico.
Abbiamo detto alcune volte che tocca ai compagni sovietici affrontare alcune delle questioni da noi poste e fornire gli elementi per una complessiva risposta. Sino ad ora essi hanno sviluppato le critiche al « culto della personalità » soprattutto correggendo errati giudizi storici e politici su fatti e su persone, distruggendo miti e leggende creati a scopo di esaltazione di una sola persona. Questo va benissimo, ma non è tutto ciò che si deve attendere da loro. Ciò che più oggi importa è di rispondere giustamente, con un criterio marxista, alla domanda sul come gli errori oggi denunciati si siano intrecciati con lo sviluppo della società socialista, e quindi se nello sviluppo stesso di questa società non siano intervenuti, a un certo momento, elementi di disturbo, sbagli di ordine generale, contro i quali tutto il campo del socialismo deve essere messo in guardia, — e intendo dire tutti coloro che già stanno costruendo il socialismo secondo una loro strada,
e coloro che una loro strada stanno ancora ricercando. Si può essere senz'altro d'accordo che i![...]

[...]accordo che i! problema centrale é della salvaguardia delle caratteristiche democratiche della società socialista, ma come si colleghino le questioni della democrazia política e di quella economica, della democrazia interna e della funzione dirigente del partito con il funzionamento democratico dello Stato,
e come lo sbaglio intervenuto in uno di questi campi possa riper
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cuotersi su tutto il sistema, — questo, é ció che bisogna studiare a fondo e chiarire.
7. — I comunisti di tutto il mondo ebbero sempre una fiducia senza limiti nel partito comunista sovietico e nei suoi dirigenti. Donde sgorgasse questa fiducia è più che evidente. Nei momenti decisivi della storia e sulle questioni decisive del movimento operaio e della politica internazionale la posizione dei comunisti sovietici fu quella giusta. La rivoluzione del 1917, in cui essi presero il potere, suscitò l'entusiasmo. La giustezza della politica da essi affermata, difesa e seguita dopo la rivoluzione, risultò dai fatti. Si conoscevano le difficol[...]

[...]ione che questa solidarietà
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fosse il tratto distintivo di un movimento proletario veramente rivoluzionario. E questo era fondamentalmente vero. Di questo rapporto di fiducia e di solidarietà non vi è quindi nessuno di noi che abbia e pentirsi. F quello che ci ha permesso, lavorando e combattendo ciascuno nelle condizioni del proprio paese, di esprimere e dare una precisa forma politica e di organizzazione a quel nuovo slancio rivoluzionario che la Rivoluzione d'ottobre aveva suscitato nella classe operaia, che i progressi nella costruzione di una società socialista nella Unione sovietica alimentavano, estendevano, rendevano via via più consapevole di sé. Le forme, i modi, le vie pratiche di questi successi non furono però oggetto, tra di noi, di discussione, se non sino a un certo momento, che si può collocare, approssimativamente, negli anni di realizzazione del primo piano quinquennale e della collettivizzazione agricola. Nei dieci o quindici anni precedenti questo momento, il dibattito tra i comunisti russi cir[...]

[...]otta e questa partecipazione abbiano anche potuto avere, in certi momenti, in certi paesi e in certe condizioni, qualche ripercussione negativa nel nostro movimento. Alludo a lotte di frazione talora artificialmente attizzate, a giudizi politici talora esagerati, ecc. Chi può, vada a rivedere il discorso pronunciato da me, per esempio, al VI Congresso dell'Internazionale, nel 1928, e vi troverà la critica di alcune di queste cose, oppure rilegga ciò che ebbe a dire Dimitrov al VII Congresso. Nel complesso, però, l'educazione politica del nostro movimento si fece in questi dibattiti, che toccarono i più importanti temi della nostra ideologia e della nostra politica. Attraverso di essi il nostro movimento si avviò verso la sua maturità.
In seguito, delle questioni che si ponevano ai compagni sovietici nella costruzione di una società socialista si parlò nei nostri partiti sempre di meno, anche perché i compagni sovietici non ce le presentarono più in modo problematico, come facevano prima,
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ma quasi come ta[...]

[...]o che poteva uscire dal campo della semplice agitazione e propaganda, correggere molti degli sbagli commessi prima dell'avvento al potere di Hitler e svolgere un'ampia azione politica positiva, nella lotta contro il fascismo, contro la guerra che si preparava, per tentar di salvare la Repubblica spagnuola, per l'unità del movimento operaio e democratico, ecc. Si stavano creando quelle condizioni che consigliarono poi, nel corso della guerra, lo scioglimento dell'Internazionale comunista.
I processi cui la domanda si riferisce credo si collochino (spiegherò poi il valore di questa limitazione) in questo periodo, mentre si combatteva in Francia per il fronte popolare, in Spagna con le armi, e la politica internazionale dell'Unione sovietica si suol geva con grande efficacia nella difesa della democrazia e della pace. I dirigenti comunisti non avevano nessun elemento che consentisse loro di dubitare della legalità dei giudizi, soprattutto perché sapevano che, sconfitti politicamente e tra le masse, i dirigenti dei vecchi gruppi di opposizi[...]

[...]bile che la correzione e la critica degli errori di Stalin partissero dall'alto. La stessa restrizione della vita democratica nel partito e nello Stato, contenuto e conseguenza di questi errori, e i consensi di cui Stalin era stato circondato, facevano si che una critica dal basso si sarebbe potuta avere solo con lentezza e si sarebbe sviluppata in modo confuso, non privo di rotture pericolose. La cosa può apparire spiacevole, ma deriva da tutto ciò che era avvenuto prima. Era compito del gruppo dirigente, convinto che si dovesse liquidare il cattivo e cambiare corso, aprire la strada al nuovo corso con una energica critica dall'alto, oltre che con una prima correzione, di fatto, delle storture più gravi. Rieducare a una normale vita democratica, secondo il modello che era stato stabilito da Lenin nei primi anni della rivoluzione, rieducare, cioè, alla iniziativa nel campo delle idee e nella pratica, alla ricerca, al dibattito vivace, a quel grado di tolleranza degli errori che è indispensabile per scoprire la verità, alla piena indipendenza del giudizio e del carattere ecc. ecc. un quadro di partito di alcune centinaia di migliaia di donne e di uomini, attraverso di essi tutto il partito e attraverso il partito tutto uno sterminato paese, dove le condizioni della vita civile sono ancora molto diverse da regione a regione, è compito di enorme peso, che non si assolve né con tre anni di lavoro né con un congresso. Credo sia persino es[...]

[...]he conducano a una esatta valutazione di principio, politica e pratica, sia degli uni che delle altre. Mi pare, insomma, che gli errori di Stalin debbano essere corretti, attraverso questo ampio sviluppo, con un metodo profondamente diverso da quello che Stalin stesso segui in quel periodo della sua vita in cui aveva abbandonato le rette norme di funzionamento del partito e dello Stato. Quanto più avverrà così, tanto più grande sarà il profitto. Ciò che noi auguriamo è che le correzioni vengano fatte, senza esitazioni, con coraggio, e che da esse esca, come deve uscire, un nuovo slancio in avanti della società socialista in tutte le direzioni, sopra una base democratica ampia, sana, piena di nuove e ricche pulsazioni vitali.
9. — Spero non esista più nessuno, in Italia, per lo meno, che ancora presti fede alla balorda leggenda dei partiti comunisti che ricevono da Mosca, passo a passo, le istruzioni, le direttive, gli ordini. Se ancora qualcuno esiste, per lui é inutile scrivere, perché è evidente ch'egli ha la testa troppo dura, che è assolutamente incapace anche solo di avvicinarsi alla comprensione dei problemi dell'odierno movimento operaio. Scriviamo dunque per gli alt[...]

[...]co del movimento operaio e poi del movimento comunista nei singoli paesi vennero ampiamente dibattute al centro, a Mosca, in Congressi e altre riunioni internazionali, da cui uscirono indirizzi precisi. In questo periodo si può dire esistesse una direzione centralizzata del movimento comunista, e la responsabilità principale di essa ricadeva sui compagni russi, assistiti da compagni provenienti da altri paesi. Ben presto però il movimento incominciò a andare avanti da sé, soprattutto dove aveva buoni dirigenti. Nel 1924, per esempio, la decisione del nostro partito di uscire dalla assemblea aventiniana delle opposizioni e ritornare nel Parlamento, fu presa da noi in netto contrasto con il consiglio che ci veniva dai dirigenti della
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Internazionale, che era il contrario. All'epoca del VII Congresso (1935), i partiti che si erano rafforzati, che erano uniti e diretti bene, già sentivano che un centro internazionale non poteva fare altro che elaborare giudizi generali sulla situazione e sui compiti del nostro moviment[...]

[...]eva essere opera dei singoli partiti, affidata pienamente alla loro iniziativa e responsabilità. In questo modo ci si mosse, in Francia e in Spagna, soprattutto, nel periodo delle grandi lotte tra il 1934 e il 1939, durante la guerra e ancora più dopo di essa. Se i comunisti avanzarono nella grande scia della politica internazionale dell'Unione sovietica é perché erano convinti che quella politica fosse giusta, e tale essa era, in realtà.
L'Ufficio di informazione, costituito nel 1947 con compiti ben diversi da quelli che aveva avuto l'Internazionale, fece, essenzialmente, due cose, la prima buona, la seconda cattiva. La prima fu di giustamente orientare tutto il movimento operaio nella resistenza e lotta contro i piani di guerra dell'imperialismo. La seconda fu il disgraziato intervento contro i comunisti jugoslavi. Altro non fece, se non un bollettino pubblico, utile solo a scopo di informazione. A noi italiani, per esempio, non é accaduto mai, se non nella riunione di fondazione del Cominform, di avere a discutere della nostra politi[...]

[...] esempio, non é accaduto mai, se non nella riunione di fondazione del Cominform, di avere a discutere della nostra politica in riunioni internazionali. Tutte le iniziative da noi prese dopo la guerra furono opera esclusivamente nostra, dai compagni dirigenti di altri partiti comunisti forse nemmeno sempre pienamente comprese, perché dettate dalle condizioni in cui lavoriamo noi, in Italia, e che sono del tutto particolari. Oggi, poi, anche l'Ufficio di informazione é stato sciolto, per i motivi che sono stati ampiamente esposti.
Gli errori compiuti da Stalin nella direzione del partito comunista sovietico contribuirono certamente, poiché limitavano i dibattiti e la vita democratica alla sommità di quel partito, a rendere alquanto esteriori e formali anche i rapporti tra i comunisti sovietici e quelli degli altri paesi, a creare tra di loro un certo distacco, senza però diminuire la reciproca fiducia, perché dei fatti che oggi vengono dénunciati noi non avevamo e non potevamo avere nozione alcuna. Questo almeno per ciò che ci riguar
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[...]

[...] del partito comunista sovietico contribuirono certamente, poiché limitavano i dibattiti e la vita democratica alla sommità di quel partito, a rendere alquanto esteriori e formali anche i rapporti tra i comunisti sovietici e quelli degli altri paesi, a creare tra di loro un certo distacco, senza però diminuire la reciproca fiducia, perché dei fatti che oggi vengono dénunciati noi non avevamo e non potevamo avere nozione alcuna. Questo almeno per ciò che ci riguar
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da. In altri partiti, soprattutto nei paesi di democrazia popolare, alcuni degli errori di Stalin vennero dopo la guerra ripetuti in modo meccanico, così come, probabilmente, in modo meccanico si ebbe la tendenza a trasferire e applicare in questi paesi tutta l'esperienza e tutta la pratica sovietiche, senza tenere sempre il necessario conto delle particolari condizioni che in ogni paese imponevano e impongono particolari vie di sviluppo, correzioni e adattamenti dell'esperienza sovietica.
Le critiche a Stalin fatte al XX Congresso, giunte per l[...]

[...]no e impongono particolari vie di sviluppo, correzioni e adattamenti dell'esperienza sovietica.
Le critiche a Stalin fatte al XX Congresso, giunte per la maggior parte inattese, hanno certamente colpito il quadro del movimento comunista internazionale e anche, in misura minore, le sue masse. Il modo come i nemici si sono buttati su queste critiche per farne strumento di lotta contro di noi ha stretto attorno al partito i suoi militanti. A parte ciò, si deve dire che non vi é stata tra di essi soltanto sorpresa. Vi é stato dolore, qua e là smarrimento. Sono sorti dubbi circa il passato, e così via. Queste cose non erano evitabili, data la gravità dei fatti che sono stati denunciati e il modo della denuncia; dato che i compagni sovietici, limitatisi in sostanza a denunciare i fatti e a intraprenderne la giusta correzione, hanno sinora trascurato il compito, non ancora assolto, di affrontare il difficile tema del giudizio politico e storico complessivo.
Da tutto ci() non credo possa derivare una diminuzione della reciproca fiducia e solid[...]



da (Nove domande sullo stalinismo) Giuseppe Chiarante in KBD-Periodici: Nuovi Argomenti 1956 - 5 - 1 - numero 20

Brano: [...] alla linea e alla ideologia leninista: arresto e deviazione imposti dalle necessità di un paese arretrato, avente alle sue spalle secolari tradizioni storiche di tipo autocratico. Una simile tesi, ovviamente, conduce ad un atteggiamento di attesa: l'attesa che la fine dei pressanti condizionamenti storici permetta all'Unione Sovietica e al proletariato mondiale di riprendere costruttivamente il proprio discorso là dove esso si era interrotto, e cioè all'irrisolta opposizione fra la Seconda Internazionale e il leninismo.
La terza tesi, infine, che é stata sino agli ultimi tempi soste
nuta dai partiti e dagli uomini di cultura comunisti — giudica lo stalinismo nulla di più che un fedele sviluppo e una laboriosa continuazione della rivoluzione d'Ottobre, minacciata in tutto il trentennio staliniano dalla pressione internazionale della borghesia e dalle deviazioni di destra e di sinistra.
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Il XX congresso del PCUS ha, a dire il vero, del tutto sconvolto questo schieramento. Se da un lato infatti, denunciando[...]

[...]. III, pag. 241.
(2) Stalin, Opere, rol. IX, pag. 107108.
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Pur tuttavia, ed è qui l'elemento decisivo, che significato veniva ad assure la tesi sulla rivoluzione socialista in un solo paese, oltretutto arretrato, all'interno del sistema concettuale leninista?
Essa rappresentava, è facile convenirne, il superamento di una concezione ancora per molti versi astratta e mitica del processo rivoluzionario; ne precisava cioè scientificamente il punto d'avvio e le forme iniziali. Lenin per) non andò oltre questi termini; e del resto la situazione stessa cui si trovava di fronte non gli proponeva certo altri problemi né gli forniva i mezzi per risolverli. Per lui quindi la rivoluzione sovietica rimaneva pur sempre il punto di inizio di un processo sostanzialmente continuo che avrebbe dovuto, necessariamente e a breve scadenza, investire l'Occidente capitalistico e trovarvi il suo reale epicentro. Anche nel brano famoso dello scritto «Sulla parola d'ordine degli Stati Uniti d'Europa », più volte utilizzato da Stali[...]

[...]tempo) le condizioni necessarie ad una rivoluzione socialista. In tal modo l'URSS non era più semplicemente il punto di avvio di un processo che subito avrebbe trovato al di fuori delle sue frontiere il proprio principale sostegno, ma rappresentava un'esperienza rivoluzionaria autonoma, il naturale punto di applicazione delle forze proletarie al livello da esse raggiunto nel 1917, il sicuro fondamento di ogni nuovo, futuro tentativo. Diveniva perciò necessario disporsi a costituire fino in fondo il socialismo poggiando sulle sole energie locali, senza cioè poter « giovare dell'aiuto economico del proletariato occidentale al potere » (Trotski) e sotto la pressione di uno schieramento imperialistico ricostituito nella sua unità e nella sua forza.
Da quel momento la tesi marxiana secondo la quale la rivolu' zione rappresentava il punto conclusivo del naturale sviluppo capitalistico e doveva quindi combattere la sua prima e decisiva battaglia entro l'ambito dei paesi economicamente progrediti veniva definitivamente superata. E, su questa base, è facile comprendere come l'innovazione staliniana, al di là del suo contenuto specifico, rappresentasse[...]

[...] da Zinoviev, e Ho già avuto occasione di dire: per i russi, in confronto ai paesi avanzati, é stato più facile iniziare la grande rivoluzione proletaria; ma sarà per essi più difficile continuarla e condurla sino alla vittoria definitiva, nel senso della completa organizzazione della società .socialista» (5), anzi che divenire occasione per il disfattismo e la rinuncia, diveniva così, per Stalin, un drammatico incitamento alla lotta e al sacrificio rivolto ai proletari e ai contadini sovietici.
***
Posizione profondamente rinnovata, quindi, quella staliniana.
Ma era anche l'unica posizione esatta ?
Dimostrarlo sulla base dei testi di Stalin sarebbe forse un'im
(5) Lenin, Opere, vol. XXIX pag. 284.
GIUSEPPE CHIARANTE 23
presa complessa e difficile. Il fatto é che la scelta staliniana fu, in primo luogo e sovrattutto, scelta di un politico, intuizione di un uomo di Stato. Non sempre e non del tutto, perciò, il suo stesso autore riuscì a difenderla con chiarezza e persuasività di argomenti teorici.
Altro però diviene il discorso po[...]

[...]ri e ai contadini sovietici.
***
Posizione profondamente rinnovata, quindi, quella staliniana.
Ma era anche l'unica posizione esatta ?
Dimostrarlo sulla base dei testi di Stalin sarebbe forse un'im
(5) Lenin, Opere, vol. XXIX pag. 284.
GIUSEPPE CHIARANTE 23
presa complessa e difficile. Il fatto é che la scelta staliniana fu, in primo luogo e sovrattutto, scelta di un politico, intuizione di un uomo di Stato. Non sempre e non del tutto, perciò, il suo stesso autore riuscì a difenderla con chiarezza e persuasività di argomenti teorici.
Altro però diviene il discorso potendo usare, come noi possiamo, gli strumenti dei posteri: avendo cioè a disposizione la conoscenza dell'ulteriore sviluppo storico e i più elaborati strumenti concettuali che la situazione attuale obiettivamente ci offre.
Tutta la storia più recente sta infatti a dimostrare — mi sembra — che nei paesi capitalistici non sono esistite per quasi tutta l'epoca staliniana (fino cioè, più o meno, alla guerra antifascista e alla rivoluzione cinese) quelle condizioni obiettive necessarie alla rivoluzione, che già Lenin aveva con precisione indicato. Vediamo, brevemente, di verificarlo.
In primo luogo dopo la prima guerra mondiale, non si ripeté più una generale crisi politica del sistema borghese (e tale non fu certo neppure la crisi del '29, che ebbe caratteri essenzialmente economici e non giunse a scuotere le basi politiche dell'assetto statuale) di fronte alla quale il movimento proletario potesse assumere, come nella guerra '1418, una posizione di mera contrapposizio[...]

[...]ifficilmente sarebbe stato possibile, se non disponendo dello strumento di urì ormai compiuto e consolidato sistema statuale.
In secondo luogo il fascismo fece chiaramente intendere che una semplice alleanza operaicontadini contrapposta in modo rigido

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ad ogni altro gruppo sociale non è sufficiente ad esprimere e organizzare la « grande maggioranza della popolazione » nei paesi occidentali; e ciò per l'esistenza in tali paesi di grandi masse di medio ceto facilmente egemonizzabili dalla borghesia di fronte alla prospettiva di una rivoluzione meramente proletariacontadina. E d'altra parte tutti i tentativi per risolvere questo problema avrebbero condotto, prima delle condizioni nuove create dall'ultimo conflitto, a cedimenti e deviazioni opportunistiche: la borghesia ancora forte, unita ed egemone, poteva facilmente corrompere e ricattare i medi ceti.
Infine l'esperienza dei fronti popolari e dei governi tripartiti ha dimostrato che, anche quando eccezionali congiunture hanno per[...]

[...]a migliore per le resistenze sociali del capitalismo morente e per i tentativi controrivoluzionari ? Era o non era quello, in definitiva, un momento di « estremo pericolo per la repubblica » analogo a quello che condusse in Francia al terrore ?
In terzo luogo, perdere la speranza di una rivoluzione in Occidente significava prepararsi a subire un lungo periodo di accerchiamento capitalistico, ed anzi, prima o poi, una sicura aggressione bellica. Ciò evidentemente spingeva ad accelerare, con ogni mezzo, la costruzione e il consolidamento del sistema economico e politico, e quindi a battere l'opposizione di destra e di sinistra, ormai di fatto concorde nel frenare l'opera di edificazione. Ma c'è di piú: non si può infatti dimenticare l'affermazione, più volte fatta da Trotzki, della famosa « tesi Clemenceau », secondo la quale l'opposizione avrebbe atteso la guerra per rovesciare la macchina staliniana di potere. È pensabile che l'Unione Sovietica potesse avviarsi a subire l'aggressione capitalista minacciata al suo interno dalle forze del[...]

[...]one che potrebbe venire avanzata contro il ragionamento sin qui svolto e che in effetti nell'ultimo ventennio è stata a più riprese formulata da diverse correnti politiche e culturali,
e in particolare dalla socialdemocrazia di sinistra. Si può infatti obiettare: ammettiamo pure che l'opera di Stalin rappresenti la necessaria linea di sviluppo, nelle concrete condizioni in cui si trovava l'Unione Sovietica, della rivoluzione leninista del 1917. Ciò non toglie che essa rappresenti una via di edificazione del socialismo adeguata soltanto alla situazione di un paese arretrato quale era la Russia, e perciò di gran lunga inferiore alla via, gradualistica nei suoi metodi e rispettosa nella sua sostanza dei classici istituti dello Stato liberale, indicata già da tempo dall'interpretazione socialdemocratica del marxismo.
E chiaro qual è il corollario che discende da questa tesi: la rivoluzione sovietica non è in alcun modo un fatto di' valore mondiale
e perciò da essa ben poco ha da apprendere l'evoluto socialismo europeo; anzi la Russia stessa, colmato il distacco che la separava nel grado di sviluppo economico dalle più progredite nazioni dell'Occidente, è a sua volta destinata, per uscire dall'ancor barbarica autocrazia staliniana, ad assumere le più « civili » strutture politiche delle moderne democrazie occidentali.
Quest'obiezione, che conduce, necessariamente, a misconoscere il grande valore della rottura storica operata dalla Rivoluzione d'Ottobre e a patrocinare una sbrigativa liquidazione di tutta l'esperienza politica staliniana (e al f[...]

[...]partenza del processo rivoluzionario, dello Stato stalinista rispetto all'assetto statuale proposto dalla socialdemocrazia più avanzata.
A dimostrare l'estrema debolezza di questa obiezione potrebbe anche esser sufficiente — mi pare — il richiamo a quanta si é detto in precedenza riguardo al problema dell'edificazione del socialismo in un solo Stato. Si é visto infatti come tale dottrina rappresenti non già il frutto.di una scelta empirica, per ciò stesso teoricamente non più valida di altre possibili scelte, ma sia il logico punto d'arrivo della costruzione di una teoria politica scientificamente determinata (e quindi non più genericamente ideologica) sulla rivoluzione socialista e sulle sue condizioni obiettive in una particolare fase storica. E si è pure visto come, fra le concrete condizioni che hanno portato in URSS nell'era staliniana all'adozione di metodi di governo di
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accentuata repressione, quella rappresentata dall'arretratezza del sistema economicosociale russo non abbia avuto, in sede logica,[...]

[...]ne proletaria in un solo Stato, indipendentemente dal paese in cui questa abbia a verificarsi.
***
Ma all'obiezione avanzata dalla socialdemocrazia di sinistra é possibile dare anche un significato piú ampio e di fondo: e in tal
caso con essa vengono di fatto a consentire anche gli eredi della più matura e conseguente tradizione liberale (Si ricordino, ad esempio, gli articoli pubblicati su questa stessa rivista da Norberto Bobbio). Ci si può cioè domandare: un processo rivoluzionario che in vista della realizzazione di un'economia socialista comporti il sacrificio dei tradizionali istituti di libertà, non implica un prezzo troppo alto perché si possa essere disposti ad accettarlo? Non conviene invece ricercare una diversa via di sviluppo, in cui la libertà si congiunga alla giustizia, in cui le necessarie trasformazioni economicosociali non entrino in opposizione con i classici ordinamenti democratici ?
La conseguenza di una tale obiezione è evidentemente questa: che si riconosce in certa misura l'importanza storica dell'opera staliniana, specie in considerazione delle caratteristiche die paese premoderno proprio della vecchia Russia zarista; ma che s[...]

[...]iluppo, in cui la libertà si congiunga alla giustizia, in cui le necessarie trasformazioni economicosociali non entrino in opposizione con i classici ordinamenti democratici ?
La conseguenza di una tale obiezione è evidentemente questa: che si riconosce in certa misura l'importanza storica dell'opera staliniana, specie in considerazione delle caratteristiche die paese premoderno proprio della vecchia Russia zarista; ma che si stabilisce un bilancio fra evolute democrazie occidentali e regime sovietico di dittatura del proletariato che può chiudersi, valutati gli elementi positivi e negativi presenti nell'uno e nell'altro assetto, tutt'al più in pareggio.
Dare una compiuta risposta a questa posizione richiederebbe evidentemente un discorso molto ampio: è chiaro infatti che per
GIUSEPPE CHIARANTE 31
qúesta via rientra in gioco anche tutta la polemica leninista con la Seconda Internazionale sulla dottrina della dittatura del proletariato. Mi pare tuttavia, pur senza alcuna pretesa di dar fondo in poche righe al problema, che anche in qu[...]

[...]uni temi, il cui approfondimento — almeno così io penso — può condurre a vedere come lo Stato socialista forgiato da Stalin, nonostante le profonde insufficienze che in esso certamente esistevano ed esistono, rappresenti comunque un decisivo passo avanti rispetto a qualsivoglia assetto, sia pure il più evoluto, di tipo democraticoborghese.
Credo che proprio il problema della libertà possa costituire a questo riguardo un utile punto di partenza. Ciò non certo nel senso di voler vedere nella rivoluzione proletaria, secondo gli schemi ormai troppo abusati di `un generico e superficiale storicismo, solo un momento del grande processo di liberazione che si vien svolgendo attraverso la storia, e con ciò giustificare tutti gli eventuali elementi di negatività che tale rivoluzione comporta: sarebbe questa infatti, indubbiamente, una soluzione troppo sbrigativa e al fondo insufficiente.
Si tratta invece — mi pare — di cercar di chiarire, muovendo non da generiche considerazioni di filosofia della storia ma da un'analisi di scienza politica il più possibilmente rigorosa, attraverso quale processo é possibile passare dal livello di libertà garantito dall'assetto borghese a un livello più ampio e comprensivo.
Sotto il profilo della libertà il grande merito storico dello Stato liberalborghese é, [...]

[...] attengo, per ora, alle formulazioni date al problema da Lenin e Stalin in,relazione alla situazione sovietica):
(7) Stalin, Opere, vol. VI, pag. 137.
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a) anche dopo la conquista del potere politico da parte del proletariato, la borghesia, rimane, ancora per un certo tempo, la classe più forte sul piano dei rapporti economicosociali, in quanto in tale sfera essa può disporre di strumenti di cui il proletariato é privo. Perciò il rovesciamento del nuovo assetto politico diviene inevitabile se il proletariato non fa un uso autoritario del potere di cui é venuto a disporre (cfr.: Lenin, La rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky: «Ancora per lungo tempo dopo la rivoluzione gli sfruttatori conservano inevitabilmente una serie di enormi vantaggi di fatto: rimangono loro il denaro, che non si può sopprimere immediatamente, una certa quantità di beni mobili, spesso considerevoli; rimangono loro le relazioni, la pratica organizzativa e amministrativa, la conoscenza di tutti i segreti dell'amministrazione; rimangono [...]

[...]rimangono loro il denaro, che non si può sopprimere immediatamente, una certa quantità di beni mobili, spesso considerevoli; rimangono loro le relazioni, la pratica organizzativa e amministrativa, la conoscenza di tutti i segreti dell'amministrazione; rimangono loro un'istruzione più elevata; strette relazioni con l'alto personale tecnico, che vive e pensa da borghese, rimane loro una co noscenza infinitamente superiore dell'arte militare... [Perciò] anche dopo la prima disfatta seria, gli sfruttatori rovesciati, che non si aspettavano di esserlo, che non ci credevano, che non ne ammettevano neanche l'idea, si scagliano nella battaglia con energia decuplicata, con furiosa passione, con odio cento volte più intenso » (8).
b) In secondo luogo, l'edificazione dell'economia socialista non può avvenire senza gravi costi e sacrifici; senza, soprattutto, la rottura di una serie di posizioni economicosociali cristallizzate, di cui fruiscono non solo la grande e media borghesia, ma anche la piccola borghesia e il medio ceto. Lo strumento politic[...]

[...]a decuplicata, con furiosa passione, con odio cento volte più intenso » (8).
b) In secondo luogo, l'edificazione dell'economia socialista non può avvenire senza gravi costi e sacrifici; senza, soprattutto, la rottura di una serie di posizioni economicosociali cristallizzate, di cui fruiscono non solo la grande e media borghesia, ma anche la piccola borghesia e il medio ceto. Lo strumento politico della dittatura del proletariato si manifesta perciò necessario per poter condurre avanti vittoriosamente un processo di sviluppo tanto faticoso (cfr.: Lenin, Discorso agli operai ungheresi: «Lo scopo [della dittatura del proletariato] é di creare il socialismo, di eliminare la divisione sociale della società in classi, di fare di tutti i membri della società dei lavoratori, di togliere la base ad ogni sfruttamento dell'uomo da parte dell'uomo. Questo scopo non può essere raggiunto di colpo: esso esige un periodo abbastanza lungo di transi
(8) Lenin, Opere, vol. XXIII pag. 354.
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zione dal capitalismo al socialism[...]

[...]lla produzione è cosa difficile, perché occorre del tempo per operare delle trasformazioni radicali in tutti i campi della vita, perché la forza enorme dei costumi economici piccoloborghesi può essere superata soltanto attraverso una lotta lunga e accanita » (9).
e) Infine, non va dimenticato che lo Stato socialista si viene edificando sotto la pressione della borghesia internazionale che fa gravare su di esso una continua minaccia di guerra; e ciò comporta inevitabilmente restrizioni e sacrifici.
Questo lungo richiamo alle tesi di Lenin e Stalin sulla dittatura del proletariato mi è parso necessario perché ritengo che esso ponga bene in luce come, nello sviluppo della rivoluzione sovietica, tale forma di gestione del potere non sia stata il frutto di una scelta empirica, ma abbia rappresentato scientificamente ii necessario passaggio per il superamento della società classista e l'edificazione del socialismo: e abbia segnato quindi, sotto questo aspetto e nel senso indicato, anche un decisivo passo avanti sulla strada della libertà. E [...]

[...] sia pure dimostrata, in linea indiretta ma non confutabile, dall'inevitabile fallimento della via socialdemocratica. Non va infatti c:. nenticato che il tentativo socialdemocratico di portare al massimo la pressione politica e sociale del proletariato, senza la capacità e la possibilità di operare quella radicale rottura compiutasi in Russia nel '17, ha portato nel primo dopoguerra, in quei paesi in cui piú vigorosi erano i partiti socialisti e cioè in Italia e in Germania, alla tragedia fascista; mentre ha
(9) Lenin, Opere, vol. XXXII pag. 358.
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condotto in Francia ad una progressiva decadenza nazionale. In altri termini tale tentativo, anziché consentire di superare la dialettica delle contraddizioni borghesi, non ha fatto che sollecitarle sino al loro sbocco catastrofico: laddove invece l'esperienza sovietica ha stabilito un punto fermo da cui é oggi possibile muovere per un ordinato sviluppo dell'assetto mondiale.
É per questo che la vicenda politica staliniana, anziché essere considerata come un fenomeno ti[...]

[...]l 1924: u Certo in un avvenire lontano, se il proletariato vincerà nei principali paesi capitalistici e se l'attuale accerchiamento capitalistico sarà sostituito da un accerchiamento socialista, una via pacifica di sviluppo sarà del tutto possibile per alcuni paesi capitalistici, in cui i capitalisti, di fronte a una situazione internazionale sfavorevole, giudicheranno opportuno fare essi stessi delle concessioni serie al proletariato» (10).
Ma ciò che anche nella nuova situazione rimane valido é il nucleo essenziale della dottrina della dittatura del proletariato: rimane cioè valido che, solo sotto la piena e stabile egemonia di una forza quale "quella proletaria, che ha conquistato una completa autonomia rispetto alla classe borghese e non è disposta ad alcun compromesso con l'assetto privatistico della proprietà, é possibile il superamento delle contraddizioni capitalistiche e dei progressivi sacrifici di libertà che queste fatalmente comportano. É vero che lo sviluppo dello assetto mondiale rende oggi non' più utopistico, nei
(10) Stalin, Opere, vol. VI pag. 147.
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paesi d'occidente, cercare di far si che l'egemonia proletaria[...]

[...]mento delle contraddizioni capitalistiche e dei progressivi sacrifici di libertà che queste fatalmente comportano. É vero che lo sviluppo dello assetto mondiale rende oggi non' più utopistico, nei
(10) Stalin, Opere, vol. VI pag. 147.
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paesi d'occidente, cercare di far si che l'egemonia proletaria possa attuarsi in modo pieno senza comportare l'istituzionalizzazione di metodi autoritari e violenti di governo. E ciò può realizzarsi ricercando una vasta alleanza di forze politiche (distinte dal partito proletario essenzialmente per i loro fondamenti ideali, come può essere il caso dei cattolici o dei quadri tecnici e intellettuali eredi della migliore tradizione liberale), che siano disposte a collaborare col proletariato nella lotta a fondo contro la borghesia per l'abbattimento della struttura capitalistica, ma che al tempo stesso permettano di dare un più largo respiro al processo rivoluzionario, così che questo possa svilupparsi in modo da riassorbire e riqualificare le migliori conquiste della civilt[...]

[...]icata in base non a contrapposizione di classe ma a distinzioni di correnti ideali, alla non identificazione fra partito e Stato, al rispetto dell'autonomia delle diverse dimensioni in cui si viene svolgendo la vita della società civile). Ma una cosa non va dimenticata: ed è che se oggi un tale allargamento di respiro del movimento proletario é possibile, senza che questo significhi corrompimento opportunistico o cedimento all'egemonia borghese, ciò é solo perché esiste ormai un saldo punto d'appoggio costituito da quel mondo socialista che proprio la gigantesca tenacia di Stalin ha consentito di edificare.
Ma se così stanno le cose, non diviene del tutto retorico e letterario vedere nell'opera staliniana solo la dittatura contrapposta alla democrazia, il terrore che conculca la legalità, l'inclinazione autocratica del capo che soffoca la libera manifestazione della volontà popolare ? Non si tratta — torno a ripeterlo — di edulcorare tutti i problemi in una troppo sbrigativa visione storicisticá: che particolari errori possano essere ra[...]

[...]di edulcorare tutti i problemi in una troppo sbrigativa visione storicisticá: che particolari errori possano essere ravvisati nella politica di Stalin, che anzi si possa giungere a stabilire che in determinate circostanze si sia da parte sua accentuato oltre il necessario il ricorso a metodi di repressione, non è certo mia intenzione negarlo (e al riguardo utili precisazioni potranno venire da una ricerca storica condotta in modo analitico). Ma ciò che credo non vada dimenticato è che finché la lotta di classe non sarà superata con l'instaurazione di una società aclassista, la lotta politica assume inevitabilmente una
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veste drammatica che comporta in taluni momenti scene molto dolorose ma forse inevitabili.
Un ultimo punto, sempre riguardo a questo secondo problema, mi pare importante mettere in luce: ed é che, nonostante le contrarie apparenze, proprio Stalin ha posto con la sua politica alcune importanti basi teoriche per uno sviluppo in senso sempre più liberale del concetto di dittatura del proletariato. Tal[...]

[...]noscere il contributo decisivo, portato alla soluzione di tanti fondamentali problemi politici del nostro tempo, dallo statista georgiano che per così lungo periodo di anni ha diretto dal Cremlino le sorti del movimento proletario internazionale.
Ma sostenere questa tesi significa forse, come affrettatamente si potrebbe ritenere, negare la necessità di _ una qualsiasi revisione critica della posizione staliniana ? A mio avviso, certamente no. E ciò non tanto nel senso che determinati errori, concretamente evitabili, possono essere ravvisati (come più sopra ho accennato) anche all'interno di una linea di cui pur si riconosce la fondamentale esattezza; quanto perché è questa linea stessa che diviene radicalmente insufficiente, e perciò pericolosa ed erronea, se continuata meccanicamente in una fase storica diversa da quella per cui é stata elaborata.
Sotto questo profilo, anche il tono accentuatamente polemico (che a un primo esame può parere addirittura antistorico) con cui da parte degli attuali dirigenti sovietici é stata sviluppata al Congresso di Mosca la critica alle forme staliniane di gestione del potere, si rivela pienamente giustificato: é chiaro infatti che un sistema politico durato per tanti anni lascia dietro di sé cristallizzazioni e bardature che, anche quando si rivelano non più adeguate al nuovo stato di [...]

[...]potere, si rivela pienamente giustificato: é chiaro infatti che un sistema politico durato per tanti anni lascia dietro di sé cristallizzazioni e bardature che, anche quando si rivelano non più adeguate al nuovo stato di cose, non possono essere demolite senza contrasti e senza lotte.
Qual é il motivo che rede oggi necessaria una revisione della politica staliniana ? Essenzialmente il fatto che il periodo storico cui tale politica rispondeva, e cioè la fase dell'edificazione del socialismo all'interno di un solo Stato é oggi definitivamente chiusa. Logicamente tale fase è terminata sin dal momento della conclusione vittoriosa della guerra antifascista; su un piano storico più empiricamente determinato, é stato il successo della rivoluzione in Cina che ha sanzionato in modo non piú rifiutabile la rottura del mercato mondiale capitalistico e il consolidamento di un mondo socialista ormai in grado di porre la sua candidatura a forza egemone dello sviluppo politico.
In questa situazione i metodi di governo accentuatamente
GIUSEPPE CHIARAN[...]

[...]mai in grado di porre la sua candidatura a forza egemone dello sviluppo politico.
In questa situazione i metodi di governo accentuatamente
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rigidi e autoritari usati da Stalin si rivelano non più necessari; ed anzi essi, in quanto comportano un massimo di conservazione nella teoria e nella prassi, un massimo di imbrigliamento allo sviluppo di nuove energie politiche e culturali, divengono obiettivamente un soffocante impaccio per la soluzione dei nuovi problemi cui il movimento proletario russo ed internazionale si trova di fronte.
Appunto per questi motivi, per l'ultimissima fase della politica di Stalin può forse essere in parte legittimo quel giudizio più accentuatamente negativo di cui ho cercato di mostrare l'infondatezza in riferimento ai periodi precedenti. Il suo naturale pessimismo, le abitudini mentali e pratiche create da lunghi anni di potere, la difficoltà di innovare in profondità formulazioni culturali ormai da tanto tempo assimilate, sembrano infatti aver condotto Stalin, anche dopo il successo de[...]

[...]non riconoscere con sufficiente prontezza l'assoluta novità della situazione e quindi i nuovi compiti cui venivano a trovarsi di fronte l'Unione Sovietica e il movimento proletario internazionale. E' per questo che la politica di Stalin negli ultimi anni ha finito col trovarsi prigioniera, mi sembra, di una sorta di circolo vizioso: da un lato egli riteneva non fossero ancora maturate le condizioni per uno sviluppo rivoluzionario in Occidente, e ciò lo portava a sostenere la necessità di una rigida conservazione delle tradizionali posizioni teoriche e pratiche del movimento operaio; ma d'altra parte proprio questo atteggiamento chiusamente conservatore finiva col costituire il massimo ostacolo così ad uno sviluppo più disteso e dinamico della situazione mondiale come alla scoperta di nuove prospettive teoriche che in questa potessero inserirsi e fecondamente operare.
Il XX Congresso ha tentato di operare la rottura di questo circolo vizioso. Ma le novità in esso venute in luce — ci si può domandare — rappresentano una sufficiente soluzi[...]

[...]rezza il grande patrimonio così conquistato
lit V S trrY; t:ri¡AKANTY. 41
è possibile superare in positivo e senza secche perdite gli aspetti ormai storicamente insostenibili della politica staliniana.
Ma come si pone, di conseguenza, il problema del superamento dello stalinismo? A mio avviso esso si configura in questi termini: mantenere salda, senza alcun compromesso con la borghesia, la conquista sostanziale della rivoluzione proletaria, e cioè la fondazione di un nuovo assetto sociale che è ormai al di là di quello borghese e tende per sua natura alla società senza classi; e insieme condurre avanti, come è consentito dalle nuove condizioni, lo sforzo già iniziato da Lenin e da Stalin per liberare la dottrina su cui il proletariato ha fondato le sue fortune da ogni implicazione metafisicheggiante e così portarla al suo esatto significato di scienza della politica e dello Stato. Solo infatti depurando la politica dai vizi ideologici, e cioè dalla tentazione di porsi metafisicamente come scienza di tutta la realtà, è possibile perven[...]

[...]mai al di là di quello borghese e tende per sua natura alla società senza classi; e insieme condurre avanti, come è consentito dalle nuove condizioni, lo sforzo già iniziato da Lenin e da Stalin per liberare la dottrina su cui il proletariato ha fondato le sue fortune da ogni implicazione metafisicheggiante e così portarla al suo esatto significato di scienza della politica e dello Stato. Solo infatti depurando la politica dai vizi ideologici, e cioè dalla tentazione di porsi metafisicamente come scienza di tutta la realtà, è possibile pervenire a un pieno riconoscimento dell'autonomia dei diversi momenti in cui si organizza la vita complessa della società umana (dalla dimensione del privato e dall'individuale alla cultura e alla religione) e così dare concretezza alle più ricche possibilità di libertà offerte da una società non più borghese.
E su questa linea — già vi ho accennato — che è a mio parere possibile un fecondo sviluppo del movimento proletario in Occidente: la riduzione della politica alla sua esatta funzione (ormai possibi[...]

[...]cidente: la riduzione della politica alla sua esatta funzione (ormai possibile per il fatto che il movimento operaio ha consolidato la sua piena autonomia rispetto alla borghesia e questa ha perduto l'egemonia mondiale) può consentire di riprendere, riqualificandole all'interno di un più ricco contesto, alcune essenziali conquiste libe rali (pluralità dei partiti, distinzione fra partito e Stato, tradizionali libertà dell'individuo, ecc.); e con ciò porre le basi per un incontro fra il proletariato e altre forze che non sono organicamente collegate con l'assetto borghese ma sono tuttavia rimaste sinora diffidenti nei confronti del comunismo, in quanta comprensibilmente temono che da questo possa venir compromesso il patrimonio culturale filosofico o religioso cui si richiamano.
E evidente che queste innovazioni di sostanza comportano
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anche profonde innovazioni di metodo: in particolare diviene necessario un progressivo passaggio a una forma non più rigida di gestione del potere, che consenta quella libera[...]

[...]uesto possa venir compromesso il patrimonio culturale filosofico o religioso cui si richiamano.
E evidente che queste innovazioni di sostanza comportano
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anche profonde innovazioni di metodo: in particolare diviene necessario un progressivo passaggio a una forma non più rigida di gestione del potere, che consenta quella libera circolazione delle idee che é condizione di una nuova elaborazione teorica e pratica. Ma ciò che più importa rilevare è che questo sviluppo richiede dei considerevoli passi avanti teorici non solo rispetto a Stalin ma anche rispetto al leninismo nel suo complesso.
Dei passi avanti, tuttavia, che, appunto in quanto tali, non possono verificarsi — torno a ripeterlo — se non sulla base di una piena comprensione del valore dell'opera di Lenin e di Stalin. Ed è per questo che la politica staliniana, che è stata per tanti anni il segno di contraddizione intorno a cui si è intrecciato il dibattito fra la libertà « nuova » e la libertà « antica », fra la dittatura del proletariato e la demo[...]

[...]no a ripeterlo — se non sulla base di una piena comprensione del valore dell'opera di Lenin e di Stalin. Ed è per questo che la politica staliniana, che è stata per tanti anni il segno di contraddizione intorno a cui si è intrecciato il dibattito fra la libertà « nuova » e la libertà « antica », fra la dittatura del proletariato e la democrazia borghese, non potrà prima o poi non configurarsi, ad una analisi spassionata, sotto una veste nuova: e cioè — io credo — come un momento essenziale di un processo che condurrà a far si che la rivoluzione non appaia più in contraddizione con la libertà, ma si riveli, secondo la sua più valida sostanza, come la matrice di un ulteriore allargamento della sfera di questa.
GIUSEPPE CHIARANTE



da [I Documenti del convegno. Appunti per le relazioni e Comunicazioni] L. Gruppi, I rapporti tra pensiero ed essere nella concezione di A. Gramsci in Studi gramsciani

Brano: [...]he, senza la comprensione delle quali, ci pare, qualche cosa dell'insegnamento di Gramsci sfuggirebbe. E Gramsci ce ne avverte: « La proposizione contenuta nell'introduzione alla " Critica dell'economia politica " che gli uomini prendono coscienza dei conflitti di struttura sul terreno delle ideologie deve essere
1 M. S., p. 11.
Luciano GrupPi 167
considerata come un'affermazione di valore gnoseologico e non puramente psicologico e morale. Da ciò consegue che il principio teoricopratico dell'egemonia ha anche esso una portata gnoseologica e pertanto in questo campo è da ricercare l'apporto teorico massimo di Ilic [Lenin) alla filosofia della prassi. Ilic avrebbe fatto progredire effettivamente la filosofia come filosofia, in quanto fece progredire la dottrina e la pratica politica. La realizzazione di un apparato egemonico, in quanto crea un nuovo terreno ideologico, determina una riforma delle coscienze e dei metodi di conoscenza, è un fatto di conoscenza, un fatto filosofico » 1.
Da questa affermazione si scorge come Gramsci faccia[...]

[...]e ancella della pratica » 1.
Lo sforzo di Gramsci sarà dunque quello di superare agni residuo meccanicistico per riuscire a stabilire la piú profonda unità tra teoria e pratica, essere e pensiero. Questo sforzo gli è necessario, ripetiamo, per portare avanti nel modo piú conseguente il principio dell'egemonia.
Dove trova Gramsci la base per giungere all'unità dell'essere e del pensiero?
Egli la trova nel carattere « creativo » del conoscere.
Ciò esige il superamento della concezione ricettiva e tutt'al piú ordinatrice del conoscere, propria della filosofia precedente all'idealismo z, e il superamento della concezione creativa del conoscere propria dell'idealismo.
« ... Cosa significa " creativo "? Significherà che il mondo esterno è creato dal pensiero?... Si può cadere nel solipsismo e infatti agni forma di idealismo cade nel solipsismo necessariamente »3.
Si tratta per Gramsci di sfuggire al solipsismo, alla concezione seconda cui l'affermata creatività del pensiero lo riduce ad essere creativo di se stesso, in un perpetuo circol[...]

[...] d'el materialismo metafisico pare voglia significare una oggettività che esiste anche all'infuori dell'uomo, ma quando si afferma che una realtà esisterebbe anche se non esistesse l'uomo o si fa una metafora o si cade in una forma di misticismo » 4.
A questo punto si presenta un problema che non può, a nostro parere, essere eluso piú oltre. Nel suo sforzo per elaborare il concetto leninista di egemonia, per ricavarne tutto il succo possibile — ciò che non può essere fatto senza porlo anche nei suoi termini filosofici di unità di essere e pensiero — Gramsci entra necessariamente in polemica con le posizioni del Bukharin. Ma una parte di questa polemica non giunge anche a toccare una serie di formulazioni filosofiche di Lenin? A noi pare di sì e ci pare che i1 relatore l'abbia riconosciuto là dove ha affermato che per Gramsci sembra esclusa la tesi del conoscere came riflesso. Ci sembra anche che sia; questo l'aspetto della questione che bisogna soprattutto affrontare, poiché qui si tratta non del raffronto delle posizioni di Gramsci con[...]

[...]umana, come attività pratica, non soggettivamente » ? 2.
Concepito il conoscere come riflesso dell'oggetto, il carattere creativo del conoscere viene meno, l'oggetto, il reale ritornano ad essere concepiti solo « sotto la forma di oggetto » e « non come attività sensibile umana », proprio come Marx rimproverava a Feuerbach. Cosí l'affermazione, pure ripresa con insistenza da Lenin: « È nell'attività pratica che l'uomo deve dimostrare la verità, cioè la realtà e il potere, il carattere terreno del suo pensiero » 3, viene ad essere sostanzialmente abbandonata poiché il concepire la conoscenza come riflesso riporta alla vecchia concezione della verità corne « adaequatio rei et intellectus », e non alla concezione secondo cui la verità si dimostra nella pratica.
La stessa affermazione conclusiva delle Glosse a Feuerbach: « I filosofi hanno solo interpretato il mondo in modi diversi; si tratta però di mutarlo » perde gran parte del suo significato poiché la conoscenza che riflette, ma non crea, ritorna a distaccarsi dalla pratica e ci ripor[...]

[...] contiene appunto il germe della concezione giusta, perché si ricorre alla storia e all'uomo per dimostrare la realtà oggettiva » .
« L'uomo conosce oggettivamente in quanto la conoscenza è reale per tutto il genere umano storicamente [la sottolineatura è di Gramsci) unificato in un sistema culturale unitario; ma questo processo di unificazione storica avviene con la sparizione delle contraddizioni interne che dilaniano la società umana » ... « Ciò che gli idealisti chiamano " spirito " non è un punto di partenza ma di arrivo, l'insieme delle sovrastrutture in divenire verso l'unificazione concreta e oggettivamente universale e non già un presupposto unitario, ecc. » j.
E dunque affermando la storicità del conoscere che Gramsci si distingue dall'idealismo; concependo la coscienza come risultato di tutto un processo storico e non come il presupposto di questo processo.
Va dunque affermata, al tempo stesso, la storicità dell'oggetto, che resta invece al di fuori della storia nelle concezioni del materialismo meccanico e del realismo in [...]

[...] piú si allontani da quel carattere di rifiesso, di copia, che gli era assegnato dal realismo ingenuo è che corrispondeva ad un'epoca in cui il minor sviluppo delle scienze, la minore consapevolezza della capacità trasformatrice dell'azione politica e i limiti reali di questa, avevano certamente messo meno in rilievo il carattere creativo del conoscere, in un'epoca anzi in cui il conoscere (e cosí l'agire umano) era effettivamente meno creativo. Ciò che caratterizza il marxismo è che in esso giunge a piena maturità la coscienza del carattere creativo del conoscere e dell'agire, e viene superato quanto vi era ancora di astratto, di teologico, nell'affermazione idealistica della creatività del conoscere medesimo. $ in questo senso che « il movimento operaio è l'erede della filosofia classica tedesca D.
Ci pare che il merito di Gramsci stia proprio nell'aver colto questi aspetti decisivi del marxismo e di aver collocato ál punto giusto la storicità della coscienza, collegandola alla lotta per l'egemonia.
« La coscienza di esser parte di u[...]

[...] di teologico, nell'affermazione idealistica della creatività del conoscere medesimo. $ in questo senso che « il movimento operaio è l'erede della filosofia classica tedesca D.
Ci pare che il merito di Gramsci stia proprio nell'aver colto questi aspetti decisivi del marxismo e di aver collocato ál punto giusto la storicità della coscienza, collegandola alla lotta per l'egemonia.
« La coscienza di esser parte di una determinata forza egemonica (cioè la coscienza politica) è la prima fase per una ulteriore e progres siva autocoscienza in cui teoria e pratica finalmente si unificano. Anche l'unità di teoria e pratica non è quindi un dato di fatto meccanico, ma un divenire storico, che ha la sua fase elementare e primitiva nel senso di ".distinzione ", di " distacco", di indipendenza appena istintivo, e progredisce fino al possesso reale e completo di una concezione del mondo coerente e unitaria » '.
Collegato il processo, per cui teoria e pratica diventano unitarie, alla conquista dell'egemonia, appare tutta la funzione del partito, come[...]

[...]ettuale collettivo », di cui Gramsci parla, può ben essere considerato anche il demiurgo, grazie al quale si compie l'unirà della teoria e della pratica, del pensiero e dell'essere; un demiurgo che esce dalle ombre del mito e si fa corpo nella realtà della storia. Il partito è il filosofo collettivo come è il politico collettivo. È l'azione demiurgica del partito che consente al proletariato « di farsi erede della filosofia classica ».
In tutto ciò consiste essenzialmente la natura filosofica del partito e non solo nel fatto che esso possieda « una concezione del mondo », poiché in questo caso la sua filosoficità sarebbe ancora quella tradizionale.
La funzione del partito nella lotta per l'egemonia, la sua capacità demiurgica di realizzare, in un processo storico che si compie faticosamente in lui stesso, l'unità della teoria e della pratica, consentono di affermare che non si filosofa fuori dal partito, fuori cioè da una vasta esperienza collettiva, storicamente formatasi e che storicamente si sviluppa, di pensiero e di azione. In ciò[...]

[...]e la natura filosofica del partito e non solo nel fatto che esso possieda « una concezione del mondo », poiché in questo caso la sua filosoficità sarebbe ancora quella tradizionale.
La funzione del partito nella lotta per l'egemonia, la sua capacità demiurgica di realizzare, in un processo storico che si compie faticosamente in lui stesso, l'unità della teoria e della pratica, consentono di affermare che non si filosofa fuori dal partito, fuori cioè da una vasta esperienza collettiva, storicamente formatasi e che storicamente si sviluppa, di pensiero e di azione. In ciò consiste il carattere di partito del filosofare.
Il rilievo che il partito viene ad assumere quando ci si muove lungo questa linea di sviluppo del pensiero marxista, ci pare essere una riprova della validità di questa linea medesima. Ci pare invece che ove si insista, conducendo la polemica antiidealistica, prima di tutto sul carattere di riflesso, di copia del conoscere, anziché sul suo carattere creativo, la funzione del partito si appiattisca.
A riprova dell'argomentazione che abbiamo svolto per dimostrare che il pensiero di Gramsci non può essere in alcun modo ridotto all'idealismo, pon[...]

[...] fuori del pensiero. Ancor piú: si ignorerebbe il carattere sovrastrutturale del conoscere che rende impossibile il concepire una obiettività per sé.
L'uno e l'altro, il solipsismo idealistico e il realismo ingenuo, negano il conoscere come rapporto. L'idealismo perché riduce l'uno dei termini (essere) del rapporto all'altro (pensiero); i'l realismo ingenuo — anche se la cosa appare meno evidente — perché toglie al soggetto la sua soggettività, cioè il suo carattere attivo e quindi lo riduce, nella sostanza, all'oggetto. L'idealismo, come il realismo ingenuo (e a quest'ultimo si rifà il materialismo meccanico nella teoria del conoscere), nega, per le conseguenze inevitabili delle proprie posizioni, il conoscere come rapporto e quindi 'la sua capacità creativa. È dunque ancora una volta dall'affermazione che la validità del pensiero si dimostra « nell'attività pratica v, che bisogna partire. È cioè nell'attività pratica che si dimostra il carattere di rapporto del conoscere, la impossibilità di ridurlo a solo pensiero, come soltanto a co[...]

[...] suo carattere attivo e quindi lo riduce, nella sostanza, all'oggetto. L'idealismo, come il realismo ingenuo (e a quest'ultimo si rifà il materialismo meccanico nella teoria del conoscere), nega, per le conseguenze inevitabili delle proprie posizioni, il conoscere come rapporto e quindi 'la sua capacità creativa. È dunque ancora una volta dall'affermazione che la validità del pensiero si dimostra « nell'attività pratica v, che bisogna partire. È cioè nell'attività pratica che si dimostra il carattere di rapporto del conoscere, la impossibilità di ridurlo a solo pensiero, come soltanto a copia del reale, perché altrimenti verrebbe a cadere ogni possibilità di una attività pratica, creatrice, trasformatrice che come tale esige sempre il soggetto e l'oggetto, il soggetto trasformante e l'oggetto trasformato, la capacità di obiettivarsi del soggetto, in quanto esso trasforma l'oggetto, e la soggettività dell'oggetto in quanto in esso opera la capacità trasformatrice del soggetto. È nella pratica — ce io dice Engels, come ce lo ripete Gramsci[...]

[...]ché altrimenti verrebbe a cadere ogni possibilità di una attività pratica, creatrice, trasformatrice che come tale esige sempre il soggetto e l'oggetto, il soggetto trasformante e l'oggetto trasformato, la capacità di obiettivarsi del soggetto, in quanto esso trasforma l'oggetto, e la soggettività dell'oggetto in quanto in esso opera la capacità trasformatrice del soggetto. È nella pratica — ce io dice Engels, come ce lo ripete Gramsci — che si scioglie il noumeno. È dunque l'affermazione della praticità del conoscere, quella che consente di difenderne la storicità, di affermare la storicità della coscienza, e insieme quella della realtà obiettiva, la storicità dell'unità tra teoria e pratica, e di ritrovare nello storicismo conseguente del materialismo, indissolubilmente legata alla praticità del pensiero, il tratto che lo distingue in modo decisivo dall'idealismo.
Insieme alla praticità del conoscere, impedisce ogni assimilazione del
178 I documenti del convegno
pensiero gramsciano all'idealismo, l'affermazione che esso compie del c[...]

[...] a Per la critica dell'economia politica, mai dobbiamo dimenticare la terza delle Glosse a Feuerbach, che afferma: « La dottrina materialistica che gli uomini sono prodotti dall'ambiente e dall'educazione... dimentica che sono proprio gli uomini che modificano l'ambiente e che l'educatore stesso deve essere educato ».
Inoltre deve essere chiaro che l'essere di cui Marx parla è una realtà ben precisa e non piú l'« Essere » della metafisica: sono cioè i rapporti di produzione e di scambio. Sono cioè il risultato dell'opera dell'uomo
1 M. S., p. 159.
Luciano Gruppi 179
medesimo, sono storia; rapporti in cui l'uomo entra, è vero, senza consapevolezza, ma che tuttavia non esisterebbero senza un suo lavoro, il quale, a sua volta, deriva sempre da un certo grado di sviluppo della coscienza. Si tratta dunque di una priorità che non rompe il rapporto tra l'essere e la coscienza, ma che anzi viene constatata all'interno di questo rapporto medesimo 1. Anche qui dobbiamo richiamarci al fatto che l'unità tra essere e pensiero non è data meccanicamente, ma si compie storicamente, per rilevare co[...]

[...]rocessi fisiologici del cervello al pensiero debba essere ricercato nel fatto che il pensiero è un rapporto. Su questo carattere del pensiero, come rapporto, Gramsci insiste nel suo sforzo di superare ogni residuo di materialismo meccanico. « Che la natura umana sia il " complesso dei rapporti sociali " è la risposta piú soddisfacente, perché include l'idea del divenire: l'uomo diviene, si muta continuamente col mutarsi dei rapporti sociali e perciò nega l'" uomo in generale " » 2.
Lenin afferma che « l'unica "proprietà" della materia, il cui riconoscimento è alla base del materialismo filosofico, è la possibilità di essere una realtà obiettiva, di esistere fuori della nostra coscienza ». Abbiamo già detto della critica gnoseologica a cui, a nostro parere, questa proposizione deve essere sottoposta. Il quesito che si pone è perciò il seguente: se la materia non è una realtà obiettiva, esistente fuori dalla
i Se fosse altrimenti si ritornerebbe ancora una volta a quel dualismo di
pensiero che il marxismo vuole appunto superare.
2 M. S., p. 31.
180 1 documenti del convegno
nostra coscienza, a che si riduce il concetto di materia? Diremo che deve essere abbandonato il concetto di materia in senso generale e percid assoluto che ci riporta al materialismo metafisico. Diremo che ad ogni scienza spetta di definire la propria materia, vale a dire l'oggetto della propria ricerca. L'indagine non è infatti concepibile al di [...]

[...].) della materia, che nel loro insieme costituiscono la materia stessa (a meno che non si ricaschi in una concezione del noumeno kantiano) sono considerate, ma solo in quanto diventano " elemento economico" produttivo. La materia non è quindi da considerare come tale, ma come socialmente e storicamente organizzata per la produzione e quindi la scienza naturale come essenzialmente una categoria storica, un rapporto umano » 1.
La materia viene perciò ridotta all'economia, ai rapporti di produzione e di scambio, ad una realtà storica che è opera dell'uomo, che può essere affermata in quanto l'uomo entra in rapporto con essa e la cui obiettività è dimostrata, nella pratica, dalla lotta per mutarla.
Qui direi si compie lo sforzo di Gramsci per uscire dal materialismo meccanico proprio mentre conduce la sua polemica contro l'idealismo, per sviluppare nel modo piú conseguente la concezione marxista della creatività del conoscere.
Pare a noi che Gramsci si ricolleghi all'elevata temperie filosofica del momento in cui il marxismo ruppe il cord[...]

[...]ercata la sostanza leninista della sua concezione, il suo conseguente leninismo. Esso risiede nella capacità di comprendere — aI di là e grazie anche alla sua polemica con una serie di proposizioni filosofiche di Lenin — come il concetto leninista di egemonia consenta di superare radicalmente ogni determinismo economico, in filosofia, come ogni massimalismo, che in politica impacci la funzione egemone della classe operaia. È grazie anche a tutto ciò che Gramsci è riuscito a trarre tanto frutto dalla concezione leninista dell'egemonia.



da Benno Sarel, Intellettuali e classe operaia nella Germania orientale durante la crisi del '56 in KBD-Periodici: Nuovi Argomenti 1958 - 1 - 1 - numero 30

Brano: [...]ata è un marxismo a scientifico » e scolastico, ma dove tutto esiste in funzione del proletariato.
Gli intellettuali stessi, in quanto uomini, sono legati ai rapporti di produzione stabiliti dal regime. Salvo poche eccezioni, non possono lavorare che per lo Stato, e vien loro richiesto di considerarsi come parte integrante della classe operaia e, insieme, di fondersi con il gruppo dirigente.
Tuttavia, a un certo momento, si produce una svolta: ciò avviene quando l'ideologia degli intellettuali, che concepiscono la società in funzione della classe operaia, tende ad acquistare una coscien
INTELLETTUALI E CLASSE OPERAIA NELLA GERMANIA ORIENTALE 135
za piena, mentre, d'altra parte, gli uomini, resi esperti da dure esperienze, non possono e non vogliono più sopportare il modo di vita imposto dal regime.
L'atteggiamento che il regime vuole che gli intellettuali assumano nei confronti della classe operaia — atteggiamento che effettivamente gli intellettuali tendono ad assumere nel 1956 — dovrebbe essere il riconoscimento del posto occupato[...]

[...] il prodotto. Dal momento che gli operai non possono oggettivarsi nei loro prodotti restano, per riprendere il termine di Marx, alienati e fondamentalmente stranieri alla società in mezzo alla quale vivono. E tuttavia il fatto che il regime della Germania orientale ponga la classe operaia al centro della società è ben altro che una vuota for mula; è il punto di arrivo di una evoluzione storica basata sul riconoscimento della funzione del lavoro. Ciò significa anche la convinzione che la società moderna non pue, trovare la sua realizzazione al. di fuori della classe operaia. La fabbrica moderna modella gli operai e nello stesso tempo è da questi modellata. Ma tra fabbrica e società c'è un rapporto, e nella misura in cui la pianificazione della società riproduce la pianificazione della fabbrica non fa che sottolineare questo rapporto. In altri termini, la realtà stessa pone un nesso tra intellettuali e operai; ciò che è in concreto importante è di capire il modo con cui si pongono i rapporti fra gli uni e gli altri, nonché la maniera con c[...]

[...] convinzione che la società moderna non pue, trovare la sua realizzazione al. di fuori della classe operaia. La fabbrica moderna modella gli operai e nello stesso tempo è da questi modellata. Ma tra fabbrica e società c'è un rapporto, e nella misura in cui la pianificazione della società riproduce la pianificazione della fabbrica non fa che sottolineare questo rapporto. In altri termini, la realtà stessa pone un nesso tra intellettuali e operai; ciò che è in concreto importante è di capire il modo con cui si pongono i rapporti fra gli uni e gli altri, nonché la maniera con cui gli intellettuali cercano di integrarsi nella classe operaia.
La società della Germania orientale si presenta, secondo la sua ideologia ufficiale, come una estensione della classe operaia. Sono gli intellettuali del regime che, concependo la società come operaia e considerando se stessi in questo quadro, sottolineano l'armonia e l'unità di una società siffatta. Sono, ancora, gli intellettuali formati dal regime che tentano di integrarsi nella lasse operaia e di co[...]

[...]lla pianificazione, per ricavarne una nuova interpretazione teorica della società in genere e del ruolo della classe operaia in specie. I filosofi invece partono dallo studio della teoria marxista e giungono alla creazione di organizzazioni clandestine destinate ad accogliere intellettuali e operai.
Fin dal gennaio 1956 il prof. Fritz Behrens — che nel 1955, non dimentichiamolo, appariva come il teorico del cosiddetto corso « direttorialista », cioè di una tendenza che sottolineava, nell'impresa, l'importanza dei quadri dirigenti — prende posizione contro i metodi dei direttori d'impresa e nello stesso tempo contro il centralismo burocratico della pianificazione. I partigiani del regime, in seno all'Istituto delle Scienze Economiche diretto dal Behrens, sono visibilmente sulla difensiva. In aprile Behrens constata, in un articolo pubblicato nella rivista di teoria economica « Wirtschaftssenschaft », che le speranze poste in un modernizzamento della tecnica non sono fondate. « Man
INTELLETTUALI E CLASSE OPERAIA NELLA GERMANIA ORIENTALE [...]

[...]l Behrens, sono visibilmente sulla difensiva. In aprile Behrens constata, in un articolo pubblicato nella rivista di teoria economica « Wirtschaftssenschaft », che le speranze poste in un modernizzamento della tecnica non sono fondate. « Man
INTELLETTUALI E CLASSE OPERAIA NELLA GERMANIA ORIENTALE 137
chiamo di carbone, di acciaio... Non potremmo modernizzare la tecnica con la rapidità che desideriamo anche se sfruttassimo tutte le possibilità, ciò che è ben lungi dall'essere il caso nostro ». Secondo F. Behrens, l'unico modo per elevare l'economia del paese è di utilizzare completamente nelle imprese la giornata lavorativa: cosa che — come egli dimostra — dipende dalla organizzazione del lavoro, cioè in definitiva dalla coscienza operaia.
Nel corso dell'anno l'atteggiamento del prof. Behrens si precisa, mentre la maggioranza dei membri dell'Istituto delle Scienze Economiche evolvono nello stesso senso. Il prof. Behrens si dichiara per una larghissima libertà dell'impresa ma, nello stesso tempo, questa libertà per lui ha senso solo se l'iniziativa creatrice degli operai può espandersi. Egli afferma che la socializzazione della proprietà non è sufficiente e che è necessario passare alla socializzazione della amministrazione di questa proprietà: cioè, egli prosegue, bisogna passare alla ge[...]

[...], mentre la maggioranza dei membri dell'Istituto delle Scienze Economiche evolvono nello stesso senso. Il prof. Behrens si dichiara per una larghissima libertà dell'impresa ma, nello stesso tempo, questa libertà per lui ha senso solo se l'iniziativa creatrice degli operai può espandersi. Egli afferma che la socializzazione della proprietà non è sufficiente e che è necessario passare alla socializzazione della amministrazione di questa proprietà: cioè, egli prosegue, bisogna passare alla gestione della economia da parte dei lavoratori. Behrens afferma che lo Stato deve cominciare a scomparire fin dal periodo di transizione, periodo nel quale si trova la Repubblica Democratica Tedesca; che il primo nemico del socialismo è la burocrazia; infine che Stato e burocrazia stanno reciprocamente assimilandosi.
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La figura di 'gran lunga piú notevole nella cultura filosofica della Germania Orientale è quella del prof. Ernst Bloch di Lipsia. In realtà egli è, insieme a. Lukàcs, uno dei pochissimi filosofi marxisti del cosiddetto mondo oriental[...]

[...]ali.
Ma non è facile applicare questa tattica. È urgente di rialzare la produzione. Alla fine di giugno Ulbricht è costretto a constatare che il numero delle imprese in perdita aumenta, mentre le macchine utensili sono circa per tre quarti « di qualità inferiore al livello mon
(3) Nel novembre 1956 sei studenti liceali di 1718 anni e un giovane meccanico di Dresda prendono contatto con gli impiegati della azienda tranviaria e li incitano allo sciopero. Il capo di questo gruppo è uno studente borsista, figlio di operai; questi, al momento dell'intervento russo in Ungheria aveva chiesto ai compagni (del corso di masso) di fare un minuto di silenzio. Per condurre a buon fine il progettato sciopero dei tranvieri, uno degli studenti si impiega come fattorino (cfr. e Saechsische Zeitung », 14 nov. 56 e 19 genn. 57).
(4) Cfr. a Neuer Weg », marzo 1957.
(5) Cfr. a Forum a, febbraio 1957.
i
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diale ». Come sottolinea lo stesso Ulbricht, identica — o appena migliore — é la situazione in svariati settori, come quello della radio e degli apparecchi di segnalazione, quello delle macchine tessili delle macchine tipografiche, delle locomotive ecc. (6). D'altra parte i diversi gruppi che formano il ceto dirigente sono disuniti. Un provvedimento a vantaggio degli uni scontenta[...]

[...]una « casta » ingannano l'operaio. I pianificatori affermano che l'operaio non pub partecipare alla elaborazione del piano, dáto il suo orizzonte ristretto. Invece, ribatte la rivista, la difficoltà fondamentale consiste nella mancanza di partecipazione operaia alla gestione delle imprese. Lo stesso fascicolo di « Einheit » (agosto 1956) stabilisce la seguente graduatoria nei fattori della produttività del lavoro: 1) la coscienza degli operai, « cioè la volontà di utilizzare in modo completo i mezzi di produzione esistenti »; 2) la salute degli operai; 3) la loro qualificazione; 4) l'organizzazione del lavoro; 5) il livello tecnico dell'impresa e i metodi di lavoro. Solo un anno prima la tecnica e l'interesse materiale erano stati posti in primo piano.
Verso l'autunno del 1956 il regime lancia l'idea di allargare la partecipazione operaia alla gestione delle imprese. Questa idea sarà ripresa in modo molto piú energico due o tre mesi dopo. Per il momento ci si limita ad affermare la necessità di un allargamento dei diritti sindacali di c[...]

[...]— che sia compatto e guidato da un gruppo di dirigenti « dotati di cultura e di qualità eccezionali » (17).
***
Abbiamo visto quale era la posizione di Wolfang Harich rispetto al problema del Partito. Fritz Behrens, che resta nell'ambito della legalità, non si pronuncia su questo problema. Ma il regime — per l'occasione Naumann, membro del comitato centrale — interpreta il suo silenzio in questo modo: se egli contrappone l'iniziativa operaia a ciò che chiama pianificazione burocratica significa anche che contrappone classe operaia a Partito, poiché pianificazione e Partito non sono che una sola cosa (18).
Un assistente del prof. Behrens, Arne Benary, membro dell'Istituto delle Scienze Economiche, mette in discussione le tesi di Lenin sul Partito. Lenin, fa presente Benary, affermava the la spontaneità operaia, abbandonata a se stessa, porta a un predominio dell'ideologia borghese fra gli operai. Senza mettere in dubbio le tesi di Lenin, Benary afferma che non possono però applicarsi alla situazione della Repubblica Democratica Tedesca[...]

[...]sarsi ed a contrapporsi. Per l'una, il Partito concepisce la classe operia come classe dominante e se stesso come coscienza operaia; per l'altra, gli intellettuali dell'opposizione scoprono l'esistenza di una classe operaia indipendente, ed il loro problema appunto é di definire il socialismo in rapporto a questa classe.
Per l'una e per l'altra, in seno al regime come in seno all'opposizione, il socialismo é in certo qual modo una estensione di ció che é la classe operaia. Ma per il Partito gli operai esistono, sono soggetti di storia solo se si riconoscono in lui: per l'opposizione la società può svilupparsi solo se può verificarsi l'indipendenza degli ,operai. Di fatto appare chiaro che lo stesso termine di a socialismo» indica delle realtà opposte, i cui elementi corrispondono tra di loro e insieme si contrappongono in modo radicale, cosí come si corrispondono e si contrappongono la fotografia e la sua negativa.
Intellettuali e operai, privi come sono di proprietà e lavorando per lo Stato, costituiscono i due gruppi più integrati de[...]

[...]e riconosce l'esistenza degli operai e degli intellettuali solo se sono uniti in un rapporto nel quale i primi siano la massa ed i secondi la coscienza.
Nella ideálogia delle democrazie popolari é sufficiente che operai e intellettuali siano unità perché la società venga concepita come tendenzialmente unitaria. Ma nei casi concreti il problema della unione degli intellettuali e degli operai con le altre classi sociali continua ad essere aperto. Ciò resta vero sia per il regime che per l'opposizione.
Nel 1956 le campagne ed i ceti medi urbani stanno in una posizione di attesa. Ma non c'é dubbio che queste classi, per il fatto solo di esistere, hanno una importanza considerevole. Ciò é dimostrata dall'atteggiamento tenuto sia dall'opposizione che dal regime. Il prof. Viewieg, presidente dell'Accademia delle Scienze Economiche
INTELLETTUALI E CLASSE OPERAIA NELLA GERMANIA ORIENTALE 151
Agrarie e seguace di Fritz Behrens, si dichiara favorevole alla sop pressione delle aziende agricole collettivizzate. Quando a Harich, voleva che la piccola industria e il piccolo commercio tornassero in mano privata. Non é raro il caso, durante le discussioni che si svolgono nelle università, sentire questo studente o quell'intellettuale esprimere ammirazione per il liberalismo del mondo occidentale.
Orientandosi in primo luogo verso una intesa con l'impresa privata delle città — intesa che nello stesso tempo costituisce un tentativo di assorbimento — il regime offre, e talora impone, la sua partecipazione, in quanto azionista (in genere col 51% delle azioni) alle imprese private. Giuridicamente l'impresa resta privata, ma il suo carattere — si sottolinea é cambiato. La contr[...]

[...]i operai, che riprende alcune idee dell'opposizione degli intellettuali, proprio nel momento in cui più violenta é la reazione contro gli intellettuali. Un articolo di « Einheit » di dicembre riassume questa teoria. L'autore, un insegnante alla scuola centrale del Partito, parte dal concetto che la classe operaia finora ha esercitato il suo potere al livello dello Stato, della pianificazione al centro, ma non al livello dell'impresa. La colpa di ciò viene addossata alla burocrazia. Ora, gli operai, strettamente condizionati come sono dal loro lavoro e dai rapporti sociali che si stabiliscono sulla base del loro lavoro, sono in grado di concepire la società solo in funzione del ruolo da loro svolto nell'impresa. E' ne, cessario di modificare, per mezzo dei comitati operai, i rapporti esistenti nelle fabbriche e di assegnare finalmente agli operai una funzione dirigente. Per quanto riguarda le modalità di elezione dei comitati ed i limiti esatti delle loro competenze, l'autore dell'articolo si limita a dichiarare aperta la discussione in p[...]

[...]il principio della direzione unica dell'impresa e della responsabilità personale del direttore possa essere messo, in qualunque modo, in discussione. Il Partito dovrà esercitare la sua funzione unificatrice in seno al comitato operaio, al comitato sindacale e alla direzione. In tal modo gli eventuali conflitti non acquisteranno mai un carattere generale. L'impresa, conclude l'articolo, dovrà formare una collettività unita dotata di autonomia per ciò che concerne la sua organizzazione interna e delegata dal potere operaio di gestire una parte della proprietà sociale. Questa collettività avrà dunque a cuore gli interessi generali della classe operaia, rappresentata dal regime. In parole povere, l'impresa dovrà tener conto, come è avvenuto finora, delle direttive impartite dagli organi centrali della pianificazione.
Il 1956, caratterizzato da una crisi di eccezionale ampiezza, si chiude dunque con un tentativo del regime di bloccare le agitazioni con la creazione di un nuovo organo che possa essere integrato nel sistema sociale della fabbr[...]



da Ernesto De Martino, Apocalissi culturali e Apocalissi Psicopatologiche in KBD-Periodici: Nuovi Argomenti 1964 - 7 - 1 - numero 69

Brano: [...] apocalissi culturali, anche se spesso è ravvisabile molta incertezza nel circoscrivere l'argomento in modo non arbitrario e nel precisare la qualità dell'interesse che vi si porta. Tale rinnovato interesse non è un fe
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nomeno casuale, ma trae alimento in modo decisivo dal fatto che almeno una parte della cultura della società borghese si trova oggi variamente impegnata in una particolare modalità storica di apocalittica, cioè di perdita e di distruzione del mondo: una apocalittica che, come si è già accennato, si riflette nella vita culturale e nella disposizione degli animi e delle menti. Al tempo stesso il marxismo, in quanta teoria rivoluzionaria della fine di un mondo, il mondo capitalistico, e dell'avvento del mondo socialista e comunistico, racchiude senza dubbio una apocalittica, anche se di carattere nettamente diverso da quello che esprime la crisi della società borghese e la perdita di senso del suo proprio mondo. Se a ciò si aggiunge la varia reazione della stessa tradizione escatologica giudaicocristi[...]

[...]me si è già accennato, si riflette nella vita culturale e nella disposizione degli animi e delle menti. Al tempo stesso il marxismo, in quanta teoria rivoluzionaria della fine di un mondo, il mondo capitalistico, e dell'avvento del mondo socialista e comunistico, racchiude senza dubbio una apocalittica, anche se di carattere nettamente diverso da quello che esprime la crisi della società borghese e la perdita di senso del suo proprio mondo. Se a ciò si aggiunge la varia reazione della stessa tradizione escatologica giudaicocristiana di fronte a queste due apocalittiche della nostra epoca, e se si tien conto dei rischi di alienazione connessi alla feticizzazione della tecnica (e ciò sino alla possibilità estrema della distruzione fattuale della civiltà mediante un gesto tecnico dell'uomo), si comprendono anche troppo le ragioni per le quali la nostra epoca porta un rinnovato interesse per il tema della fine. Ma proprio perché questo interesse affonda le sue radici in reali nodi operativi in cui l'occidente è attualmente impegnato, si avverte l'esigenza di formulare, in sede più propriamente scientifica, il progetto di una ricerca storicoculturale e antropologica, cioè genetica, strutturale e comparativa, che affronti il problema con la maggiore ampiezza possibile di conf[...]

[...]ruzione fattuale della civiltà mediante un gesto tecnico dell'uomo), si comprendono anche troppo le ragioni per le quali la nostra epoca porta un rinnovato interesse per il tema della fine. Ma proprio perché questo interesse affonda le sue radici in reali nodi operativi in cui l'occidente è attualmente impegnato, si avverte l'esigenza di formulare, in sede più propriamente scientifica, il progetto di una ricerca storicoculturale e antropologica, cioè genetica, strutturale e comparativa, che affronti il problema con la maggiore ampiezza possibile di confronto e quindi con la maggiore probabilità di promuovere su questo argomento un sapere realmente chiarificatore.
Ma, a questo punto, si pone un problema preliminare di metodo, dato che un progetto del genere corre sin troppo il rischio di procedere senza una chiara individuazione del fine e dei mezzi, ora smarrendosi dietro il fantasma di una assoluta completezza di informazione su tutte le apocalissi, ed ora incorrendo — sotto lo stimolo di immediate e incandescenti passioni — in incaute[...]

[...]tto del genere, e i criteri e le finalità con cui dovrà essere istituito un confronto fra essi.
In quanto tema di una ricerca storicoculturale e antropologica, la (( fine del mondo » rinvia al confronto fra quattro tipi distinti di documenti. In funzione di stimolo inaugurale della ricerca, e di permanente centro di riferimento, di unificazione e di controllo, sta innanzi tutto il documento apocalittico nell'occidente moderno e contemporaneo, e cioè il tema della fine sia come espressione diretta della crisi della società borghese (1), sia come fine della società borghese nella prospettiva delle apocalitica marxista. In seconda luogo sta il documento apocalittico della tradizione giudaicocristiana della letteratura paleo e neotestamentaria e dei ricorrenti millenarismi della storia cristiana dell'occidente, nel quadro escatologico di una immagine unilineare della storia umana (2). In terzo luogo sta il documento apocalittico
(1) A proposito della già vasta letteratura relativa alla analisi e alla interpretazione della Stimmung apocalit[...]

[...]sta letteratura relativa alla analisi e alla interpretazione della Stimmung apocalittica della società borghese in crisi nelle sue diverse manifestazioni culturali (letterarie, artistiche, filosofiche, di costume), ci limiteremo qui a ricordare, fra i contributi apparsi nel secondo dopoguerra: E. MOUNIER, La petite peur du XXe siècle (conferenze tenute dal 1946 al 1948 in occasione dei ` Rencontres internationales de Genève' e della Semaine de Sociologie '), in Oeuvres, III, 1962, pp. 341423; G. SEDLMAYR, Verlust der Mitte, Salzburg 1955 7a ed. (la ed. 1948) e La Rivoluzione nell'arte moderna, trad. it. Milano 1961; F. ALTHEIM, Apokalyptik heute in `Die neue Rundschau', 1954, fast. 1; FRANE:LIN L. BAUMER, TwentiethCentury Version of the Apocalypse, in ' Cahiers d'histoire mondiale ' a cura della Commissione internazionale per una storia dello sviluppo scientifico e culturale dell'umanità, vol. I, 1954, pp. 623 sgg.; la raccolta di articoli di vari autori contenuti nel fascicolo s Apocalisse e Insecuritas a dell'Archivio di Filosofia dire[...]

[...]i, Milano 1960; W. E. MÜHLMANN, Chiliasmus und Nativismus: Studien zur Psychologie, Soziologie und historischen Kasuistik der Umsturzbewegungen, Gütersloh 1962. Cfr. anche M. ELUDE, Renouvellement cosmique etc., già citato nella nota precedente. Raccolte panoramiche di contributi sulle apocalittiche religiose sia dei popoli cosiddetti primitivi, sia nelWambito del Cristianesimo, e delle altre religioni dell'ecumene si ritrovano in `Archives de sociologie des religions' n. 4 (lugliodicembre 1957 e n. 5 (genn: giugno 1958), in Sylvia L. Trupp (ed.), Millennial Dreams in Action: Essays in comparative study, 'Comparative Studies in Society and History', Suppl. II, The Hague 1962, e in ' Religions de Salut ', Bruxelles 1962 (Annales du Centre d'Etude des religions, 2).
APOCALISSI CULTURALI ECC. 109
logico più generale. Ora proprio per non smarrire questa prospettiva antropologica unitaria, acquista valore euristico decisivo un quinto tipo di documento apocalittico, quello psicopatologico, che ci mette in rapporto con un comune rischio umano[...]

[...]uesta ovvietà diventa per lo storico della cultura e per l'antropologo un problema da risolvere: e tanto più questa pretesa ovvietà diventa un non eludibile problema in quanto i caratteri esterni delle apocalissi psicopatologiche sembrano riprodursi anche in quelle culturali, dato che anche le apocalissi culturali racchiudono l'annunzio di catastrofi imminenti, il rifiuto radicale dell'ordine mondano attuale, la tensione estrema dell'attesa angosciosa e d'euforico abbandonarsi alle immaginazioni di qualche privatissimo paradiso irrompente nel mondo. Non è pertanto illegittimo, sempre nella
dare, oltre a A. WETZEL, Das Weltuntergangserlebnis in der Schizophrenie, ' Ztschr. f. Neurologie', 78 (1922), pp. 403 sgg., i contributi direttamente ispirati allo esistenzialismo Heideggeriano; A. STORCH, Die Welt der beginnenden Schizophrenie und die archaische Welt, 'Zeitschrift f. Neurologie', 127 (1930), pp. 109 sgg. e Tod und Erneuerung in die schizophrenen DaseinsUmwandlung, 'Zeitschrift f. Neurologie', 181 (1948), pp. 275 sgg.; R. BIRZ, Die M[...]

[...]e apocalissi psicopatologiche che non soltanto le contrapponga alle apocalissi culturali, ma che metta a nudo il rischio dal quale le apocalissi culturali sono sempre di nuovo chiamate a difendersi. Nel documento psicopatologico della fine il mutamento di segno della realtà, la perdita di senso e la catastrofe degli enti intramondani, del proprio corpo e della stessa presenza al mondo, la caduta dei rapporti interpersonali, il progressivo e minaccioso restringersi di qualsiasi orizzonte di operabilità mondana, il carattere rigidamente privato, cifrato, incomunicabile delle rappresentazioni disforiche o euforiche che accompagnano la crisi, testimoniano di un effettivo precipitare che mette progressivamente fuori giuoco qualsiasi possibile ordine storicoculturale, qualsiasi piano comunitario di nuova valorizzazione della vita e del mondo, qualsiasi dischiudersi di messaggi comunicabili, qualsiasi rapporto culturalmente produttivo fra tradizione e iniziativa, costume e decisione personale, retrospezione attiva del passato individuale o coll[...]

[...]zzazione della vita e del mondo, qualsiasi dischiudersi di messaggi comunicabili, qualsiasi rapporto culturalmente produttivo fra tradizione e iniziativa, costume e decisione personale, retrospezione attiva del passato individuale o collettivo e attiva apertura prospettica verso il futuro. Per quanto clinicamente diverso possa essere il modo di manifestarsi di questo precipitante finire, e diverso il modo col quale il malato si rapporta ad esso, ció che qui denuncia il carattere morboso è la caduta della energia della valorizzazione della vita, il mutamento di segno della stessa possibilità dell'umano su tutto il fronte dell'umanamente e intersoggettivamente valorizzabile. Qui dunque noi siamo di fronte alla apocalisse come rischio di non poterci essere in nessun mondo possibile, in nessuna operosità socialmente e culturalmente validabile, in nessuna intersoggettività comunicante e comunicabile. Il documento psicopatologico della fine mette a nudo tale rischio con una evidenza esemplare, e già solo con ciò consente di valutare più concre[...]

[...]egno della stessa possibilità dell'umano su tutto il fronte dell'umanamente e intersoggettivamente valorizzabile. Qui dunque noi siamo di fronte alla apocalisse come rischio di non poterci essere in nessun mondo possibile, in nessuna operosità socialmente e culturalmente validabile, in nessuna intersoggettività comunicante e comunicabile. Il documento psicopatologico della fine mette a nudo tale rischio con una evidenza esemplare, e già solo con ciò consente di valutare più concretamente la qualità tendenzialmente opposta delle apocalissi culturali, almeno nella misura in cui la loro dinamica rende percepibile una mediata restituzione di operabilità del mondo, una riapertura di fatto verso determinate prospettive co
APOCALISSI CULTURALI ECC. 113
munitarie di nuove valorizzazioni della vita (quale che sia poi il modo e il grado di coscienza che di questo fatto hanno gli operatori storici impegnati in una determinata apocalittica). D'al tra parte se il dramma delle apocalissi culturali acquista rilievo come esorcismo solenne, sempre rinn[...]

[...]e è da osservare che la verstehende Psychopathologie e la Daseinsanalyse hanno concorso a raccorciare le distanze che impedivano in passato qualsiasi feconda collaborazione fra studiosi di fenomeni culturali e stu
114 ERNESTO DE MARTINO
Se si vuole illustrare il particolare valore euristico che spetta alle apocalissi psicopatologiche nello studio storicoculturale e antropologico delle apocalissi culturali, viene innanzi tutto in considerazione ciò che abbiamo chiamato la apocalittica moderna e contemporanea della società borghese in crisi. La elettività di questo punto di partenza, nel quadro di una più vasta ricerca comparativa, è in rapporto al fatto che della apocalittica d'oggi possiamo parlare in prima persona, cioè in quanto occidentali e in quanto u borghesi» che vivono e combattono i rischi della loro epoca e che sono partecipi di una storia culturale che quei rischi ha maturati. Ciò comporta la possibilità di utilizzare un documento interno di comprensione che soltanto con minore immediatezza è raggiungibile a proposito di altre apocalittiche culturali, come p. es. quella del protocristianesimo o quelle delle grandi religioni storiche o dei popoli cosiddetti primitivi (8).
Tentativi di confronto fra la apocalittica d'oggi e il documento psicopatologico non mancano nella letteratura scientifica, sia in prospettiva storicoculturale che in prospettiva psicopatologica: basterebbe ricordare a questo proposito, e nei limiti di una valutazione dell'arte moderna, le notazioni c[...]

[...]ale e dalla etnopsichiatria, come anche con i lavori ispirati al neofreudismo americano, il rapporto fra malattie mentale e cultura (e fra malattie mentali e società) è entrato in una nuova fase, orientandosi sia verso la problematizzazione degli irrelati corporativismi specialistici tradizionali e dei limiti europeocentrici della psichiatria classica, sia verso la ricerca di una metodologia della ricerca interdisciplinare. Per la problematica sociopsichiatria ed etnopsichiatria, e per la già vasta bibliografia sull'argomento, si veda: CH. ASTRUP, Nervöse Erkrangunken und soziale Verhältnisse, Berlino 1956; M. K. Opler (ed.), Culture and mental Health, New York 1959; M. PFLANZ, Sozialkulturelle Faktoren und psychische Störungen, Fortschritte der Neurologie und Psychiatrie', 28 (1960), pp. 471 sgg.; M. MEAD, Psychiatry and Ethnology, in Psychiatrie der Gegenwart, 3 (1961), pp. 452 sgg.; CALLIERI e FRIGHI, Inquadramento dei problemi di sociopsichiatria, in Riv. sper. di Fren.'; H. LENz, Vergleichende Psychiatrie: die Beziehung von Kultur, [...]

[...]sta bibliografia sull'argomento, si veda: CH. ASTRUP, Nervöse Erkrangunken und soziale Verhältnisse, Berlino 1956; M. K. Opler (ed.), Culture and mental Health, New York 1959; M. PFLANZ, Sozialkulturelle Faktoren und psychische Störungen, Fortschritte der Neurologie und Psychiatrie', 28 (1960), pp. 471 sgg.; M. MEAD, Psychiatry and Ethnology, in Psychiatrie der Gegenwart, 3 (1961), pp. 452 sgg.; CALLIERI e FRIGHI, Inquadramento dei problemi di sociopsichiatria, in Riv. sper. di Fren.'; H. LENz, Vergleichende Psychiatrie: die Beziehung von Kultur, Soziologie und Psychopathologie, Wien 1964, nonché gli Atti del 1° congresso internazionale di psichiatria sociale (Londra, agosto 1964), di prossima pubblicazione.
(8) Senza dubbio questo documento interno s, per la sua immediatezza, può esporre al pericolo di incaute generalizzazioni antropologiche e di arbitrarie interpretazioni; ma appunto per questo lo studio delle apocalissi culturali della società borghese in crisi dovrà, nell'ulteriore sviluppo del progetto di ricerca, essere integrato [...]

[...]trovano rispettivamente alle pp. 11 sg., 15, 101 sg., 105, 159 sg. e 153 sg. dell'ed. francese e alle pp. 7 sg., 10, 84 sg., 86, 136 sg., e 171 sg., della trad. italiana.
116 ERNESTO DE MARTINO
Bisogna dire come io vedo questa tavola, la via, le persone, il mio pacchetto di tabacco, poiché è questo che è cambiato. Occorre determinare esattamente la estensione e la natura di questo cambiamento... Sabato i ragazzini giuocavano a far rimbalzare i ciottoli sul mare ed io avrei voluto imitarli, ma d'un tratto mi sono arrestato, ho lasciato cadere il ciottolo e me ne sono andato. Dovevo avere un'aria smarrita, probabilmente, poiché i ragazzini mi hanno riso dietro. Questo esteriormente. Ciò che è avvenuto in me non ha lasciato chiare tracce. Debbo aver visto qualcosa che mi ha disgustato ma non so più se guardavo il mare o il ciottolo. Il ciottolo era piatto, con le dita molto allargate per evitare di insudiciarmi... Il curioso è che non sono affatto disposto a credermi pazzo, anzi, vedo chiaramente che non lo sono: tutti questi cambiamenti concernono gli oggetti. O almeno è di questo che vorrei essere sicuro.
In questo appunto diaristico l'inizio del vissuto di mutamento di presenta con una nota di incertezza: Roquentin cerca ancora di minimizzare « la piccola crisi di pazzia » e di appellarsi al regolare e al domestico della vita quotidiana, per esempio al rumore dei passi del commerciante di Rouen che ogni fine settimana viene[...]

[...]o la forchetta e forse nel modo con cui la forchetta si fa prendere. La maniglia di una porta si denunzia nella sua mano come un oggetto freddo che attira la sua attenzione « con una specie di personalitá », il volto dell'autodidatta, figura familiare da anni, è riconosciuta nella sua identità solo dopo alcuni secondi, e nel
APOCALISSI CULTURALI ECC. 117
salutarlo con la consueta stretta di mano avverte in quella dell'autodidatta e nel suo braccio che ricade mollemente dopo la stretta, una sorta di estraneità e di bizzarria che accenna al deforme e all'orrido. Nelle strade «il y a une quantité de bruits louches qui traînent », al caffè evita di guardare un bicchiere di birra sul tavolo perché si viene sottraendo al suo ovvio significato domestico per spaesarsi nel nulla. L'intero diario ritesse variamente questa tematica del crollo degli enti intramondani, della perdita della loro ovvietà quotidiana, e si dispiega in una successione di episodi esistenziali in cui è vissuto lo spaesamento del familiare. L'avventura apocalittica, inaugur[...]

[...]nent », al caffè evita di guardare un bicchiere di birra sul tavolo perché si viene sottraendo al suo ovvio significato domestico per spaesarsi nel nulla. L'intero diario ritesse variamente questa tematica del crollo degli enti intramondani, della perdita della loro ovvietà quotidiana, e si dispiega in una successione di episodi esistenziali in cui è vissuto lo spaesamento del familiare. L'avventura apocalittica, inauguratasi subdolamente con il ciottolo della spiaggia, investe come per contagio ambiti sempre nuovi del mondano, che entrano in travaglio disfacendosi di ogni evidenza, sicurezza, certezza. Così al caffé le bretelle color malva di Adolfo, cancellate e come nascoste per l'azzurro della camicia, denunziano «una falsa umiltà », son travagliate da uno sforzo incompiuto di esser se stesse, che resta però a mezza strada e che le mantiene in una irritante sospensione: era «come se, partite per diventar viola, si fossero arrestate a mezza strada senza rinunziare alla loro pretesa », sollecitando in Roquentin una scongiurante richies[...]

[...] questo bicchiere è un recipiente di cristallo o di metallo fabbricato per metterci un liquido e portarlo alle labbra senza che si spanda, mi sembrerà di avere con esso un rapporto qualsiasi, sufficiente a farmi credere alla sua esistenza e, in linea subordinata, anche alla mia. Ma fate che il bicchiere avvizzisca e perda la sua vitalità al modo che ho detto, ossia che mi si palesi come qualche cosa di estraneo, col quale non ho nessun rapporto, cioè, in una parola mi appaia un oggetto assurdo e allora da questa assurdità scaturirà la mia noia, la quale, in fine dei conti, non è che incomunicabilità e incapacità di uscirne. Ma questa noia, a sua volta, non mi farebbe soffrire tanto se non sapessi che pur non avendo rapporti col bicchiere, potrebbe forse averne, cioè che il bicchiere esiste in qualche paradiso sconosciuto nel quale gli oggetti non cessano un solo istante di essere oggetti. Dunque la noia, oltre che incapacità di uscire da me stesso, è la consapevolezza teorica che potrei forse uscirne, grazie a non so quale miracolo.
E
n, ancora :
La noia, per me, era simile a una specie di nebbia nella quale il mio pensiero si smarriva continuamente, intravvedendo soltanto a intervalli qualche particolare della realtà; proprio come chi si trovi in un denso nebbione e intravveda ora un angolo di casa, ora la figura di un passante, ora qualche altro og[...]

[...]a maggior parte dei nobili proprietari di terre di questo impero». Da siffatta « noia della parola», che qui copre la perdita di senso dei rapporti sociali e del monda quotidiano nella società absburgica declinante, Lord Chandos si traeva fuori solo in alcuni rari momenti previlegiati, e a proposito di alcune impressioni assolutamente futili e casuali, come un inaifiatoio abbandonato sotto un noce, un erpice nel campo, un cane al sole, un poveraccio deforme, e simili: in tali istanti felici e vivificanti il contenuto futile e casuale diventava la coppa di una rivelazione inaudita, da cui sgorgava come un'onda di vita superiore che investiva qualsiasi fenomeno dell'ambiente quotidiano: una rivelazione tuttavia troppo viva perché la parola potesse esprimerla compiutamente, così come troppo spento era per la parola il grigio mondo di ogni giorno che precedeva questi fugaci istanti beatificanti e che inesorabilmente si richiedeva su
(13) H. v. HOFFMANNSTHAL, Der Brief des Lord Chandos, in Prosa, II, Frankfurt a. M.. 1951, p. 7.
122 ERNESTO[...]

[...], in atto di separarsi dal loro nome e dal loro significato e di precipitare nello spessore opaco di una esistenza «nuda », senza memoria di domesticazione umana. Questa esistenza indigesta che resta sullo stomaco e che nella vertigine del significante suscita la nausea, coinvolge tutti gli enti intramondani, gli altri uomini non meno delle cose, e infine se stesso (Si ricordi il vissuto di estraneità di Roquentin nel guardarsi nello specchio: « ciò che vedo é ben al di sotto della scimmia, al confine del mondo vegetale, al livello dei polipi »).
A questo vissuto di insufficienza della oggettivazione in generale si collega in modo organico quello di un vero e proprio eccesso, di una tensione interna, che travaglia gli oggetti. Nella misura in cui gli oggetti si separano dalla rete di relazioni da mestiche, dalle memorie culturali latenti che li mantengono come ambiti ovvii, come solidi e definiti punti di appoggio per la prassi variamente utilizzante, si fa valere il rischio di un loro caotico relazionarsi, di un loro eccedere dai limit[...]

[...] d'inondazione: ed io sarei seduto sul ventre dell'asino, ed i miei piedi sarebbero a bagno nell'acqua chiara... Il bigliettaio mi sbarra la strada: « Aspettate la fermata! ». Ma .lo respingo e salto giù dal tram. Non ne potevo più. Non potevo sopportare le cose fossero così vicine.
Più oltre, in occasione della esperienza della radice di castagno nei giardini pubblici, Roquentin descrive (do strano eccesso» di cui pativa la radice, il suo minaccioso andar oltre le qualità sensibili in una apparente « dovizia » che tuttavia « finiva per diventare confusione » e accennava a sprofondare nel caos. Più oltre ancora, in contrapposizione alla pigra normalità in cui per lo più gli uomini vivono nella moderna civiltà industriale (le loro facce «ottuse e piene di sicurezza »), Roquentin dispiega, a guisa di minaccioso ammonimento, il quadro di una possibile «fine del mondo»:
E se capitasse qualcosa? Se d'un tratto si mettesse a palpitare? Allora s'accorgerebbero della sua presenza e gli sembrerebbe di sentirsi scoppiare il cuore. A che cosa gli servirebbero, allora, le loro dighe, i loro argini, le loro centrali elettriche, i loro alti forni, i loro magli a va
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pore? Ciò potrebbe succedere in qualunque momento, magari subito: i presagi ci sono.
La apocalisse immaginata da Roquentin si sconfigura come irruzione del mostruoso: i vestiti avvertiti come viventi, la lingua che diventa un millepiedi vivo, l'occhio beffardo che la madre scopre nella screpolatura della carne rigonfia del bambino, l'apparizione di cose nuove per le quali occorrerà trovare nomi nuovi, come l'occhio di pietra, il gran braccio tricorno, l'allucegruccia, il ragnomascella. Lo stesso andamento dell'annunzio apocalittico ricorda quello delle profezie bibliche: «E si accorgeranno che le loro vesti sono divenute cose viventi. E un altro si accorgerà che qualcosa lo solletica nella bocca... ». Oppure Roquentin immagina la catastrofe come una oScura notifica senza mutamenti apprezzabili nelle cose: solo che una mattina la gente, aprendo le persiane, avvertirà «un senso orribilmente posato sulle case», una minacciosa immobilità carica di latenti tensioni esplosive.
Di questo u universo in tensione » — ovvero di questa « es[...]

[...]mascella. Lo stesso andamento dell'annunzio apocalittico ricorda quello delle profezie bibliche: «E si accorgeranno che le loro vesti sono divenute cose viventi. E un altro si accorgerà che qualcosa lo solletica nella bocca... ». Oppure Roquentin immagina la catastrofe come una oScura notifica senza mutamenti apprezzabili nelle cose: solo che una mattina la gente, aprendo le persiane, avvertirà «un senso orribilmente posato sulle case», una minacciosa immobilità carica di latenti tensioni esplosive.
Di questo u universo in tensione » — ovvero di questa « esplosione» del mondo — sarebbe sin troppo facile addurre esempi nella varia apocalittica moderna e contemporanea, soprattutto nella poesia. Basterà qui ricordare il rimbaudiano Nocturne Vulgaire (14), in cui proprio ciò che di piú familiare appartiene alla nostra vita quotidiana — le pareti, i tetti, i focolari, le vetrate — appare come percosso da un soffio di uragano che inaugura una vicenda allucinatoria di metamorfosi e trascina il « veggente » al centro dei suoi evanescenti episodi:
Un souffle ouvre des brèches opéradiques dans les cloisons / brouille le pivotement des toits rongés / disperse les limites des foyers / éclipse les croisées...
* * *
L'avventura di Roquentin costituisce — come si é detto — un testo esemplare per esplorare la sensibilità apocalittica della
(14) A. RIMBAUD, Oeuvres, ed. G[...]

[...]ricostruire la storia culturale moderna e contemporanea che condiziona questo testo e che ci aiuta a meglio comprendere la sua unità e il suo significato irripetibili, la sua specifica Einmaligkeit (valutazioni analoghe possono ovviamente essere condotte a proposito degli altri testi apocalittici riportati e, in generale, a proposito di qualsiasi prodotto culturale della apocalittica d'oggi). Ma la ricerca può prendere anche una terza direzione, cioè quella del confronto con le apocalissi psicopatologiche. Sia detto ancora una volta: tale confronto non significa affatto assumere che il personaggio letterario Roquentin possa essere valutato come un caso clinico (ovviamente solo persone reali possono essere in una prospettiva medica valutate come casi clinici), né d'altra parte tale confronto significa che si intende ridurre La nausée ad un sintomo o ad una serie di sintomi utili per concorrere a formulare una diagnosi relativa alla persona reale del suo autore. Tuttavia fra l'apocalisse di Roquentin e quelle variamente attestate dal docum[...]

[...]sapere e la congiunta tendenza a dimenticare che proprio dalle terre di nessuno da esse lasciate senza statuto scientifico possono talora provenire stimoli decisivi per riproporre in nuovo modo i problemi della comprensione dell'uomo da parte dell'uomo.
Il discorso comparativo, di cui viene qui posta l'esigenza, può prender le mosse dal concetto di «vissuti deliranti primari» (primäre Wahnerlebnisse), introdotto in psicopatologia dallo Jaspers, cioè di vissuti deliranti non ulteriormente derivabili con i quali si annunzia l'accadere psicotico (15). La crisi ha un inizio repentino, inaugurandosi con una semplice « disposizione delirante » (Wahnstimmung)'in cui tutto ad un tratto il mondo quotidiano dell'abitudinario e dell'appaesato, dell'ovvio e del familiare, diventa problematico, segnalando un mutamento oscuro di significato che si pone in modo non eludibile e che tuttavia resta senza soluzione. Una malata di Sandberg diceva al marito: «E' accaduto qualche cosa, dimmi che cosa ». E alla domanda del marito su che cosa le stava capitand[...]

[...]mente ammesse nella loro ovvietà, e appunto per questo non emergenti nella coscienza attuale : da questo sfondo attualmente non problematico si solleva di volta in volta, con varia intensità di impegno, un determinato vertice operativo di presentificazione valorizzatrice, attualmente problematica. Questa patria dell'agire, questo suolo fermo e questo orizzonte sicuro, per quanto immersi nella opacità dell'abitudinario o nella oscurità dell'inconscio, racchiudono
(15) K. JASPERS, 1956, pp. 82 sgg.: cfr. EY, 1950, III, pp. 207 sgg. Le opere da ora in poi citate col solo nome dell'autore e con l'anno della pubblicazione rinviano alla bibliografia contenuta nelle note (1) e (6).
(16) JASPERS, op. cit., 1. C.
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tuttavia tesori di implicite relazioni, di umani drammatici sforzi di appaesamento e di domesticazione, immense riserve di memorie sepolte che ciascuno viene accumulando seconda i vari condizionamenti della propria biografia sociale e storicoculturale: e proprio questa latente sto[...]

[...]atenelle, il camino in marmo di Sienne nella mia camera da letto di Cambray, presso i nonni, nei giorni lontani che in quel momento immaginavo attuali senza rappresentarmeli con esattezza, e che avrei rivisto meglio subito dopo, una volta completamente sveglio.
Ora mentre nel tema proustiano dello smarrimento al risveglio viene finemente descritta la ripresa di sé e del mondo — il che
testimonia una duplice risoluzione del rischio della crisi, cioè la risoluzione conseguita al risveglio e quella dell'artista " che, ram
memorando tale risoluzione, la esprime con letteraria finezza — nel vissuto delirante di mutamento che inaugura l'accadere psicotico il dramma appare svolgersi con segno opposto, poiché a partire dal normale rapporto di veglia di un mondo variamente operabile comincia a destrutturarsi, contro ogni tentativo di ripresa, lo stesso orizzonte mondano dell'operare. Lo sfondo domestico, appaesato, familiare, la patria culturale dell'agire, il sicuro orizzonte per entro il quale emerge il problema operativo che di volta in vol[...]

[...]sato, familiare, la patria culturale dell'agire, il sicuro orizzonte per entro il quale emerge il problema operativo che di volta in volta viene posto, entrano qui in una crisi radicale, mettendo a nudo il ri
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schio di non poterci essere in nessun mondo culturale possibile e di non pater essere disponibili per nessuna effettiva ripresa valorizzante. Il circuito di memorie latenti che sostiene la rocca dell'ovvietà (cioè quanto attualmente sta come fedeltà non problematica che rende disponibili di volta in volta per la relativa infedeltà della iniziativa egemonica secondo valore) si viene rischiosamente interrompendo, e il progressivo franare di questa rocca, la sua incalzante catastrofe, segna sempre un punto di vantaggio sui disperati conati anastrofici di rimettere pietra . su pietra. Una penosa inversione di segno viene in tal modo guadagnando gli ambiti percettivi più ovvi e familiari, che ora sembrano strani, bizzarri, artificiali, teatrali, irreali, meccanici, fuori quadro, assurdi: e questa inversion[...]

[...] loro quadro » possono, appunto per questo, essere trava
gliati da un rischioso eccesso di semanticità indeterminata, da una allusività oscura e sospetta, da una tensione interna che li
predispone ad una sorta di esplosione, e infine da un irrelato andar oltre che li sospinge verso il deforme e il mostruoso, accennando a caotiche mescolanze. Vien fatto qui di pensare alla «strano eccesso» della radice di castagno esperito da Roquentin, al minaccioso andar oltre di questa radice in una apparente (( dovizia» che tuttavia (( finiva per diventare confusione ». Ovvero vien fatto di pensare, sempre a proposito di Roquentin, alla irruzione del caos nella immaginata catastrofe del mondano, ai vestiti avvertiti come viventi, alla lingua che diventa un millepiedi vivo, all'occhio beffardo che la madre scopre nella screpolatura della carne rigonfia del suo bambino, all'apparizione dell'occhio di
pietra, del gran braccio tricorno, dell'allucegruccia, del ragnomascella. 'Ma per tornare al documento psicopatologico ecco co
me questa polarità di di[...]

[...]uesta radice in una apparente (( dovizia» che tuttavia (( finiva per diventare confusione ». Ovvero vien fatto di pensare, sempre a proposito di Roquentin, alla irruzione del caos nella immaginata catastrofe del mondano, ai vestiti avvertiti come viventi, alla lingua che diventa un millepiedi vivo, all'occhio beffardo che la madre scopre nella screpolatura della carne rigonfia del suo bambino, all'apparizione dell'occhio di
pietra, del gran braccio tricorno, dell'allucegruccia, del ragnomascella. 'Ma per tornare al documento psicopatologico ecco co
me questa polarità di difetto e di eccesso di semanticità si riflette nel racconto reso da René, la schizofrenica di Mme Séchehaye (21:)
Per me la follia era come un paese, opposto alla realtà, dove regnava una luce implacabile, che non dava alcun posto all'ombra e che accecava. Era una immensità senza limiti, sconfinata, piatta, piatta, un paese minerale, lunare, freddo... In questa distesa tutto era immutabile immobile, irrigidito, cristallizzato. Gli oggetti sembravano disegni di uno sce[...]

[...]la energia di presentificazione su tutto il fronte del valorizzabile e la disarticolazione e la problematizzazione progressiva e irrisolvente di ogni sfondo appaesato possibile, rende comprensibile il rilievo particolare che, in dati casi, può acquistare il vissuto di essereagitida, con la connotazione fondamentale di una perdita radicale della libertà che non consente in nessun momento il ridischiudersi dell'operabile e il dispiegarsi dello slancio valorizzatore. In questo vissuto la presenza in crisi avverte di essere al centro di una rete di insidie diffuse, di forze ostili, di oscure trame cospirative tessute ai suai danni, esperendo al tempo stesso un continuo spossessamento di sé, un esser esposti irresistibilmente alla perdita di qualsiasi intimità ed a un continuo deflusso dissipatore nel mondo esterno. Per tale connotazione é di particolare interesse il caso di una schizofrenica 'di Storch, che avvertiva t< di non essere più in vita per forza propria», e che viveva la distruzione della propria presenza a'1 mondo sotto la specie [...]

[...]a... Ma ora non ho più nome.
— Siete sposata?
— Vivevo con un uomo chiamato Giovanni. Lo chiamavo mio marito, e non poteva esserlo. Avevamo stabilito di restare insieme 28 anni, sino alla fine del mondo.
— Avete figli?
— Avevo un figlio che dicevo il figlio di Giovanni, ma non era mio figlio.
— Che età ha vostro figlio?
— A quel momento [la fine del mondo] aveva 25 anni: è morto come tutti.
— Perché sembrate così inquieta?
— Ah! Quant'è sciocca, quant'è sciocca questa Celina, essa è dannata, essa ha ucciso tutti.
Diceva una malata di Janet: «Avvenga qualunque cosa, non importa quando, questo non mi riguarda, il tempo non esiste per me in nessun modo, il mio orologio rotto segna sempre la stessa
ora ». Ma la stessa malata non mancava di contrapporre nostalgicamente al suo tempo rattrappito, quella fluido che aveva smar
rito, cioè «il tempo dell'anima, irregolare per eccellenza », nei quale «si può vivere un minuto terrestre che valga per noi un numero incalcolabile di annate morali» (26).
La psicopatologia conosce infine anche una reazione catastrofica attiva che si accompagna ad un fantasma di fine del mondo, un impulso cataclismatico che vendica d'un Sol colpo la pro
(25) EY 1950, II, p. 430.
(26) JANET 1928, II, p. 74.
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pria morte e gli oltraggi subiti durante la vita, com'è il caso *illustrato dallo Schiff — di quella operaia disoccupata che appiccò il fuoco alla sua piccola bibl[...]

[...]a causa di questa fine. Appiccando il fuoco ai miei libri mi rappresentavo una immensa catastrofe, col fuoco e l'acqua e la terra e il vento scatenati nello stesso tempo, in una distruzione universale (27).
Fin qui è stato messo l'accento sulle «somiglianze» fra l'apocalittica d'oggi e le apocalissi psicopatologiche. Quanto alle differenze, si potrebbe far ricorso a molteplici argomenti, tutti praticamente validi, per sottolinearle. Si potrebbe cioè osservare che un'opera culturale può serbar tracce di stati psichici morbosi, ma che in quanto effettiva opera culturale testimonia, almeno nel suo specifico carattere di opera dotata di valore, a favore del sano e non del malato; che alcune pretese opere culturali si riducono in realtà a stati psichici morbosi, senza che ciò significhi che i loro autori siano degli psicotici, perché potrebbe benissimo trattarsi di persone normali nella loro vita pratica, o un po' eccentriche o al più leggermente nevrotiche; e infine che vi possono essere opere di alto significato culturale prodotte da individui che
(27) SCHIFF 1946, p. 279 sg.
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nel corso della loro biografia sono stati internati in qualche clinica neuropsichiatrica o che hanno concluso con una psicosi la loro vita altamente produttiva dal punto di vista culturale. Tuttavia per lo storico e per l'antropologo che si propone di ricostruire l[...]

[...] diventare identità, e in cui le differenze sono state — o non sono state — drammaticamente istituite. Le apocalissi psicopatologiche segnalano una possibilità non accidentale, ma permanente, delle apocalissi culturali, in quanta manifestano il rischio di non poterci essere in nessun mondo culturale storicamente determinato, di perdere qualsiasi possibilità dell'operabile secondo valori intersoggettivi comunicabili, di patire la caduta dello slancio verso la valorizzazione su tutto il fronte del mondanamente valorizzabile. Nella misura in cui ha luogo la effettiva ripresa da questa rischiosa possibilità, le apocalissi culturali ridischiudono mediatamente la operabilità del mondo, la progettabilità comunitaria della vita umana, l'attiva testimonianza di effettive opere economiche, morali, giuridiche, politiche, artistiche, scientifiche, filosofiche: in tale mediata ripresa del mondano che si compie attraverso il vario simbolismo apocalittico e che si palesa nella concreta dinamica culturale di questo simbolismo, sta il reale momento escat[...]

[...]ne lasciato alla testimonianza mondana della charitas che sta al di sopra della fede e della speranza (1 Cor. 13, 13). Nel periodo compreso fra la morte di Gesù e la Pentecoste si distende l'epoca critica per eccellenza della comunità cristiana primitiva, la grande prova della sua produttività culturale. Questa epoca critica dovette assumere la forma di un'attesa spasmodica del ritorno del Risorto e del compimento immediato della sua promessa: a ciò accennano le
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individuare di volta in volta, anche per l'apocalittica d'oggi, l'opera mondana variamente qualificata che essa media e con
sente, risalendo la perigliosa china di cui l'apocalisse psicopatologica indica il rischio in modo esemplare. Nell'analisi dei prodotti dell'apocalittica d'oggi lo storico della cultura e l'antropologo sono quindi chiamati di volta in volta a misurare di quanto l'immediato finire della crisi radicale sia affrontato e oltrepassato nella sua incombenza paralizzante, nella sua attualità indicibilmente disforica, nella sua privat[...]

[...]esemplare. Nell'analisi dei prodotti dell'apocalittica d'oggi lo storico della cultura e l'antropologo sono quindi chiamati di volta in volta a misurare di quanto l'immediato finire della crisi radicale sia affrontato e oltrepassato nella sua incombenza paralizzante, nella sua attualità indicibilmente disforica, nella sua privata e incomunicabile fruizione euforica di paradisi terrestri e di ultramondi, ovvero nel suo furore distruttivo di tutto ciò che vive e che vale. Nell'analisi di questi prodotti spetta allo storico della cultura e all'antropologo il compito di determinare, attraverso tale misurazione, il mediato ricostituirsi — oltre la crisi — di un messaggio relativo alla vita e al mondo che continuano e si trasformano, e spetta altresì il compito di indicare quando questo messaggio é incerto o assente, e quando infine, nel silenzio di ogni effettiva comunicazione, ricalca i modi stessi della crisi: ma proprio per assolvere questo compito, lo storico della cultura e l'antropologo non possono non avvalersi del sussidio euristico d[...]

[...]esato, abitudinario, quotidiano. Senza dubbio la deliberata rimessa in causa di ogni feticizzazione naturalistica del mondo, la presa di coscienza che l'uomo non é riducibile ad oggetto fra oggetti, l'attiva demistificazione di quanto a noi si presenta col pigro prestigio dell'autorità e della tradizione, la deliberata riconquista della soggettività variamente alienata, costituiscono un salutare esercizio in un'epoca come la nostra: in un'epoca, cioè, in cui le contraddizioni della società borghese, i pericoli connessi alla feticizzazione della tecnica, all'uomomassa e alla smaniante mediocrità del scñorito satifecho, e infine la difficoltà di adeguare il quadro dei valori alle rapidissime trasformazioni dei regimi tradizionali di esistenza, prospettano il non eludibile compito di una più umana valorizzazione dell'ordine economico e sociale e la fondazione di una consapevolezza umanistica che, al di là dei prestigi ineccepibili e irreversibili della tecnica e della scienza, preveda e legittimi altre valorizzazioni della vita e altre dime[...]

[...] n. 64 11961), pp. 368 sgg.
(30) H. SRDLMAYR 1961 pp 213 rgg. ha messo in evidenza il rapporto fra la protesta del dostojewskiano e uomo del sottosuolo » e la 4 pazzia deliberata r dei due manifesti surrealisti.
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senza felici inconseguenze, rischia di ridursi alla stimolazione tecnica di vissuti psicotici, alla loro rammemorazione più o meno fedele, o addirittura alla semplice notificazione del loro irrompere. Con ciò si assottiglia — e in casi estremi si cancella — il margine che separa i prodotti della apocalittica d'oggi dal documento psicopatologico, in quanto lo spaesamento artificiale e programmatico del mondo, laSciato senza effettiva ripresa, finisce col confondersi con lo spaesamento radicale della crisi e col suo corteo di irrisolventi conati di recupero e di reintegrazione. La ripresa valorizzatrice del rischio psicopatologico si viene così tramutando in tecnica per secondare tale rischio, e questa tecnica della catabasi senza anabasi è sempre sul punto di perdere l'acrobatico equilibrio che cer[...]

[...]el rischio psicopatologico si viene così tramutando in tecnica per secondare tale rischio, e questa tecnica della catabasi senza anabasi è sempre sul punto di perdere l'acrobatico equilibrio che cerca di mantenere sull'orlo dell'abisso. L'immagine d.i un mondo spoglio di memorie operative umane, l'idolo di una natura anteriore ad ogni domesticazione comunitaria dell'uomo in società, rischiano sempre di nuovo di notificare un vissuto cieco e angoscioso che rende prigionieri e lascia senza voce né gesto. Si legge in Camus (31):
L'ostilità primordiale del mondo, attraverso i millenni, risale sino a noi. Per un istante, noi non Io comprendiamo più, poiché per secoli abbiamo compreso in esso solo le figure ed i disegni che vi avevamo già messo anteriormente, poiché ormai le forze ci mancano per adoperare questo artificio. Il mondo ci sfugge perché ridiventa se stesso. Gli scenari mascherati dall'abitudine diventano quel che sono: essi si allontanano da noi... Questo spessore e questa estraneità del mondo, ecco l'assurdo.
((Per un istante, noi non lo comprendiamo più)): ma questo istante critico racchiude già una possibilità di dilatazione morbosa, cioè di declinarsi secondo le modalità delle apocalissi psicopatologiche, dato che queste apocalissi irrompono appunto quando su tutto il fronte dell'operabile vengono meno le «figure » e i ((disegni », cioè le varie intenzioni, che stanno come appoggio latente e come fedeltà implicita di una particolare esplicita problematiz
(31) CAMUS, Op. dt., p. 28.
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zazione e di un particolare esplicito impegno operativo secondo valore: quando cioè viene meno, o recede, o si destruttura, la stessa potenza della vita culturale, lo stesso ethos primordiale che, novello Atlante, sostiene il cielo e gli impedisce di precipitare sulla terra. L'artificio di cui parla Camus non è che la stessa possibilità della cultura umana: e la confessione che ormai ci mancano le forze per adoperarlo pub acquistare il pericoloso senso che la cultura è ormai irrevocabilmente ridotta ad essere la secondante notificazione di una realtà in cui l'assurdo si espande irresistibilmente e senza sosta, al pari di lebbra. Per questa via si corre però il rischio di approssimarsi a quel limite della semplice notificazione psicotica che rappresenta il naufragio della cultura. All'uomo è dato problematizzare e rimettere in causa determinate sfere di ovvietà su cui si conc[...]

[...]iersi effettivamente nel suo proprio cen tro valorizzatore, allora si imbocca una strada che conduce, a seconda dei casi, ad una rimbaudiana u saison en enfer », a frammenti di una apocalissi senza momento escatologico, e infine alle varie servitù dei vissuti psicotici.
Il. confronto della apocalittica d'oggi con le apocalissi psicopatologiche comporta dunque, per lo storico della cultura e per l'antropologo, il compito di misurare in concreto, cioè nei singoli prodotti della apocalittica moderna e contemporanea, la emergenza e la dissipazione di quelle (( annate morali» che la malata di Janet lamentava di aver smarrito. Ma quel confronto assume un significato più ampio, che non concerne soltanto lo storico di cultura e l'antropologo, ma l'uomo della nostra epoca in generale: rende cioè avvertiti che, rispetto alla dissipazione di quelle (canna
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te morali », cioè dell'ethos del trascendimento valorizzante della vita, impallidisce per importanza la stessa atroce prospettiva della catastrofe fattuale del mondo umano per un possibile conflitto termonucleare. Infatti se la catastrofe fattuale del mondo umano dovesse prodursi magari a casualmente» O « per equivoco» — attraverso un gesto tecnico della mano dell'uomo, ciò significherebbe che il mondo era segretamente finito già molto prima e che già poteva capitare qualsiasi cosa, per esempio l'avventura di Gregorio Samoa che una mattina, destandosi da sogni inquieti, si trovò mutato in un insetto mostruoso: e che già poteva capitare qualsiasi cosa non più nel distacco di un racconto, ma proprio nella realtà, diventata essa stessa allucinatoria e distruttiva.
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da (Mito e civiltà moderna) Remo Cantoni, Mito e valori in KBD-Periodici: Nuovi Argomenti 1959 - 3 - 1 - numero 37

Brano: [...]appena solleviamo questo quesito — egli osserva — ci troviamo al centro di una grande battaglia fra opinioni contrastanti. In questo caso il fatto più sconcertante non é la mancanza, bensì l'abbondanza del materiale empirico a nostra disposizione. Il problema é stato affrontato da ogni punto di vista. Sono stati studiati con cura i fondamenti psicologici del pensiero mitico e il suo sviluppo storico. Filosofi, etnologi, antropologi, psicologi, sociologi, tutti hanno avuto la loro parte in questi studi. Sembra che ormai si sia in possesso di tutti i fatti: abbiamo una mitologia comparata che si riferisce a tutte le parti del mondo e che ci conduce dalle forme più elementari a concezioni altamente sviluppate ed elaborate. Per ciò che riguarda i nostri dati si direbbe che la catena sia ormai chiusa, non manca nessun anello essenziale. Ma la teoria del mito è ancora estremamente controversa. Ogni scuola ci dà una risposta diversa; e alcune di queste risposte sono in flagrante contraddizione fra loro. Una teoria filosofica del mito deve cominciare da questo punto ». (E. CASSIRER, Il mito dello Stato, tr. it. 1950, p. 20, 21).
Potremmo dire, in generale, che la controversia riguardante il mito si accende soprattutto su di un punto: quale sia il valore e il significato che assume il mito per l'umanesimo moderno, nato in l[...]

[...]atosi con l'acquisizione e l'uso sempre più frequenti di comportamenti volti a dominare con le arti dell'homo sapiens il mondo della natura. Il mito preesiste, nelle sue forme arcaiche, all'affermarsi vittorioso di quelle tecniche e di quei comportamenti, ma, come ci mostrano gli studi più recenti, il mito sopravvive, sia pure in forme trasfigurate e non sempre chiaramente riconoscibili, all'avvento dell'età della scienza e della tecnica. Esiste cioè un dilemma per l'uomo contemporaneo: squalificare la forma culturale del mito come un'età superata dell'intelligenza, una sopravvivenza indebita e rozza della mentalità primitiva e dell'homo magicus, o riconoscere piuttosto al mito uno statuto culturale che conserva pur sempre la sua dignità e il suo valore, non sgià in polemica can le scienze e con le tecniche, ma accanto, a, forse, al di là,
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di esse? I due corni del dilemma, le due diverse risposte si ripresentano ogni volta che il problema viene sollevato. Ed é problema antico e recente. Già i Greci si tormentavano ne[...]

[...] le categorie e le tecniche desunte dal comportamento che chiamiamo scientifico e logico. In una visione più sensibile alla pluridimensionalità delle forme culturali si può affacciare l'ipotesi che vi sia stata, ancora vi sia, e vi possa in futuro essere, nella ricca fenomenologia del mito, una forza luminosa e chiarificatrice di cui l'uomo si giova nell'intendere e fondare i momenti più critici e significativi della propria esistenza. Si tratta cioè, in sede storica, di rintracciare il senso e il valore che il mito ha avuto per il cosiddetto uomo « precategoriale ». E tale senso e tale valore si dischiudono solo attraverso un'analisi non preconcetta dei mitologemi, rinunciando a proiettare ab initio nella mens dell'uomo che vive l'esperienza mitica le nostre preoccupazioni scientifiche e filosofiche più recenti. Solo rispettando la « scala » dei fenomeni mitici, non coartandoli ad essere o a significare altro da quel che sono e significano, si comprende l'intenzionalità che li genera e il significato che li attraversa. Se questa ipotesi[...]

[...] mitica le nostre preoccupazioni scientifiche e filosofiche più recenti. Solo rispettando la « scala » dei fenomeni mitici, non coartandoli ad essere o a significare altro da quel che sono e significano, si comprende l'intenzionalità che li genera e il significato che li attraversa. Se questa ipotesi di lavoro si dimostra feconda e valida nel capire l'universo di cultura dell'uomo « precategoriale », si può affacciare una seconda ipotesi, quella cioè di chiedersi se il mito non costituisca forse anche per l'uomo moderno una avventura ripetibile, o una esperienza, in certo modo, necessaria e feconda, quando le situazioni della sua esistenza, per il loro carattere particolare e drammatico, si presentino a noi in cifra di destino e impegnino l'uomo a non evitare il problema del loro significato conclusivo. Dobbiamo cioè chiederci se la forma culturale del mito, lungi dall'essere l'ibrido prodotto di un uomo posto a « livello etnografico », non sia una realtà spirituale sempre viva e operante, in una sfera sua propria, a ogni livello culturale. Si tratta in conclusione di recuperare il significato della funzione mitica distinguendo la patologia del mito, che indubbiamente esiste e ci minaccia, dalla sua fisiologia, che potrebbe risultare una f un zione non distruggibile senza compromettere l'economia della vita culturale dell'uomo. Se il mito, come l'arte, come la religione, come il linguaggio, come la metaf[...]

[...]a di Gobineau, il culto dello Stato di Platone e di Hegel, o i culti primitivi del sangue
e della terra. Sappiamo che esiste una tecnica molto abile e raffinata per mettere in crisi e narcotizzare i comportamenti razionali sostituendoli con comportamenti emotivi e irrazionali. In un mio precedente saggio sul mito affermavo a tale proposito: « Occorre distinguere fra i prodotti spontanei e naturali della coscienza mitica e le manipolazioni artificiose volte a provocare, con il sussidio di tutti gli strumenti escogitati dall'homo faber e dall'homo sapiens, la narcosi della ragione. In quest'ultimo caso il mito é un triste espediente politico che ha una funzione paragonabile a quella di una droga o di uno stupefacente adoperati per distruggere sistematicamente l'esercizio libero e critico della ragione. Annebbiata e stordita la ragione, il mito rimane un ultimo espediente, una invocazione di potenze miracolose e misteriose, dispensatrici di salvezza, insindacabili nel loro operare. Dalla fisiologia del mito entriamo nella patologia del mit[...]

[...]stre tecniche empiriche, razionali e scientifiche restringono fatalmente il campo della coscienza mitica, ma questa stessa legittima e benefica restrizione, in cui si estrinseca e obiettiva una scelta storica straordinariamente feconda, lascia intatto un nucleo di miticità che sarebbe pericoloso estirpare ». (Umano e disumano, 1958, p. 279280).
Se ci riportiamo alle esperienze dei popoli primitivi comprendiamo meglio, per opposizione alla artificiosità di certi miti moderni vissuti in malafede, la « serietà » del mito arcaico e il valore esemplare che esso assume per l'uomo che lo vive e lo rievoca spontaneamente. a Il mito in una società primitiva » — ha scritto Bronislav Malinowki, in un passo sovente citato della sua opera Myth in Primitive Psychology (1926) —« vale a dire nella sua viva forma primitiva, non é semplicemente un racconto narrato, bens). una realtà vissuta. Esso non appartiene a quel genere d'invenzioni che ritroviamo nei nostri romanzi, bensì é una viva realtà che si crede sia accaduta all'inizio dei tempi e che da all[...]

[...]de e più importante che determina la vita, il destino e le attività attuali dell'umanità, mentre la loro conoscenza fornisce agli uomini sia i motivi per gli atti rituali e morali, sia le avvertenze sul come mettere questi in pratica ». I miti, ci ripete Mircea Eliade nella sua vasta produzione di storico delle religioni, hanno la funzione fondamentale di stabilire modelli esemplari per tutti i riti e tutte le azioni umane significative. Bisogna cioè dissociare la nozione di « mito », da quella di « parola », di « favola », e avvicinarlo, ci dice ancora Mircea Eliade (dr. Trattato di storia delle religioni, tr. it. 1954, p. 430), alle nozioni di « azione sacra », di « gesto significativo », di a avvenimento primordiale ». « È mitico non soltanto tutto quel che si racconta circa eventi svolti e personaggi vissuti in illo tempore, ma anche tutto ciò che si trova in relazione diretta o indiretta con tali eventi e con. personaggi primordiali ». (op. cit., p. 430). Cose sostanzialmente non diverse ci dicono LévyBrühl nella sua Mythologie primitive (1935), Kerény in tutta la sua opera dedicata allo studio della mitologia, il Preuss nell'opera Der religiöse Gehalt der Mythen (1933), il Van der Leeuw nella sua fenome nologia della religione intitolata La religion dans sono essence et ses manifestations (1948).
I miti sono per i primitivi — precisa LévyBrühl — storie realmente
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accadute, storie che appartengono a un piano di v[...]

[...]er Mythen (1933), il Van der Leeuw nella sua fenome nologia della religione intitolata La religion dans sono essence et ses manifestations (1948).
I miti sono per i primitivi — precisa LévyBrühl — storie realmente
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accadute, storie che appartengono a un piano di verità. Ma la loro verità non è quella degli avvenimenti quotidiani. Noi chiamiamo vera la storia di Napoleone e di Cesare, e non vera quella di Pantagruel o di Don Chisciotte. Non è di questa verità appartenente alla storia o alla cronaca che parlano i primitivi. I loro miti sono storie effettivamente accadute, ma accadute in uno spazio, in un tempo, in un mondo distinti dallo spazio, dal tempo e dal mondo di oggi. I miti sono cioè la storia sacra delle società « primitive ». « Se così è, per essi non si pone il problema di sapere se siano o no storie `vere'. L'aspetto per cui suscitano un appassionato interesse sta nel loro carattere sacro (simile a quello della storia sacra). Codesta, traendo dalla rivelazione la sua origine, trova in quella la garanzia della sua veridicità, qualora ve ne fosse bisogno: forse che potrebbe aversi un modo più perfetto, più saldo di quello contenuto nella parola di Dio? Mutatis mutandis, per i miti sarà la stessa cosa. Anche qui il carattere sacro, `soprannaturale' dei miti porta con sé[...]

[...]ri ed avvenimenti che appartengono alla sopranatura, ma la natura attuale è ad essi solidale e ne è inseparabile. E precisamente questi rapporti che essi contengono ne attestano il carattere sacro e garantiscono loro un'autorità incomparabile: la qual cosa può parimenti dirsi dei libri sacri ». (LévyBrühl, Carnets, tr. it. 1952, p. 114, 115).
Ci potremmo chiedere — in via preliminare se è legittimo parlare di mito come di un mondo unitario, se cioè esiste una realtà storicoculturale cui si possa, senza essere tacciati di arbitrio o di genericità, dare il name di mito. L'esistenza di questa realtà ci è comprovata dalle mitologie presenti in tutte le culture e in tutte le epoche, ai livelli più diversi di civiltà. Gli studi di Cassirer, Lévy Brühi, Kerény, Eliade, Jung, Gusdorf — per non citare che alcuni studiosi recenti — ci autorizzano a parlare di un « pensiero mitico » o di una « coscienza mitica », come ha fatto, ad esempio, Ernst Cassirer nel secondo volume della sua Filosofia delle forme simboliche. L'esistenza di una forma simbo[...]

[...], allo stesso titolo, esiste una storia e una fenomenologia del mito. Questa storia e questa fenomenologia sono capitoli della cultura umana perché i mitologemi non sono pure e semplici emozioni in cui si scarica l'ansia, la paura, l'angoscia dell'uomo immerso nelle situazioni esistenziali o da esse travolto, bensì costituiscono forme, simboli, immagini in cui le emozioni sono espresse, obiettivate
e risolte in creazioni culturali, trasfigurate cioè in valori che appartengono alla storia e si incorporano, come il linguaggio, le istituzioni, le norme giuridiche, nella realtà di ciò che si é soliti, dopo Hegel o Dil they, chiamare lo « spirito obiettivo ». I pericoli di dissolvere il mito con una analisi meramente psicologica sono scongiurati perché il mito é una forma e una forza simbolicoculturale che prende esistenza nel mondo e costituisce una realtà obiettiva come l'arte, la religione, l'edcità. Il mito, cioè, trascende la sfera dell'emozione, della paura, dell'angoscia, dell'attesa, che costituisce o può costituire la sua matrice psico. logica, il dato esistenziale in cui la coscienza può rimanere paralizzata
o sommersa, ed è una risposta culturale, una risoluzione e un superamento dell'emozione iniziale che mette la coscienza in crisi. Il mito é, insomma, un epilogo vittorioso da cui nascono immagini che appagano la coscienza, immagini che si coordinano fra loro fino a diventare eventi
e significati. Noi sappiamo bene che i miti australiani sono diversi dai miti greci, dai miti medioevali, da[...]

[...]aliani sono diversi dai miti greci, dai miti medioevali, dai miti moderni. Ma è pur sempre possibile riconoscere a tutti i livelli culturali la presenza di una funzione miticofabulatrice che di continuo genera prodotti diversi per contenuto, pur conservando costante l'universalità della sua funzione. Dalle ricerche di Lucien LévyBrühl sulla mentalità primitiva, che rimangono fino ad oggi le più importanti in argomento, nasce un problema analogo. Ciò che lo studioso francese ha chiamato partecipazione, ossia i1 complesso dei rapporti magicomitici, o « mistici » come li definisce il LévyBrühl, che collegano individuo e gruppo, gruppo e totem, gruppo
e antenati, gruppo e suolo, non sono una prerogativa esclusiva dei popoli primitivi. Il mondo della partecipazione che il primo LévyBrühl, ad esempio quello delle Fonctions mentales dans les sociétés inférieures del 1910, qualificava come un mondo « prelogico », nettamente distinto dal nostro universo dominato dalla logica e dall'uso dei concetti, ci appare negli interessanti Carnets, scritti [...]

[...]va dei popoli primitivi. Il mondo della partecipazione che il primo LévyBrühl, ad esempio quello delle Fonctions mentales dans les sociétés inférieures del 1910, qualificava come un mondo « prelogico », nettamente distinto dal nostro universo dominato dalla logica e dall'uso dei concetti, ci appare negli interessanti Carnets, scritti nel 19389, e pubblicati postumi, come una esperienza universale e non certo limitata alle sole società inferiori. Ciò non significa che le credenze magiche, le rappresentazioni
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mitiche, le varie pratiche rituali in uso presso i primitivi continuino ad avere valore per noi. Noi non crediamo che le cosiddette e appartenenze » (capelli, avanzi di cibo, tracce di passi, unghie, vesti impregnate di sudore, ecc.) siano identificabili con l'individuo, né crediamo, ad esempio, che piantare una lancia nella traccia del piede di un nemico o di un animale equivalga a ferire o ad uccidere l'uomo o l'animale che ha depositato la traccia. Non pensiamo che l'immagine sia misticamente consustanziale all'o[...]

[...]iamo, ad esempio, che piantare una lancia nella traccia del piede di un nemico o di un animale equivalga a ferire o ad uccidere l'uomo o l'animale che ha depositato la traccia. Non pensiamo che l'immagine sia misticamente consustanziale all'originale o che siano reali i fenomeni di bipresenza o di multipresenza che ci vengono attestati dai miti e dalle credenze dei primitivi. Neppure crediamo che il sentimento individuale della nostra esistenza, ciò che comunemente chiamiamo a coscienza », coinvolga ea ipso in una specie di simbiosi mistica, l'esistenza del gruppo sociale al quale apparteniamo, quella degli antenati che sono passati in un altro mondo, quella degli antenati mitici che vivono in un tempo sacrale e numinoso. Variano cioè i contenuti della partecipazione. Ma il sentimento della partecipazione, l'esperienza emozionale sui generis per cui essere e vivere significa a partecipare », ossia non stare chiusi in un recinto che chiamiamo Io, coscienza, spirito, bensì comunicare con piani di realtà che ci trascendono, siano essi la natura, la società, o un mondo diverso dall'esperienza attuale hic et nunc, sopravvivono in noi. Variano, cioè, i contenuti, i modi concreti e storici della partecipazione, ma sopravvive il fenomeno esistenziale della partecipazione, la sua funzione antropologica di creare fondamenti e radici, significati e valori. La partecipazione espressa e obiettivata mette in essere una specie di statuto metafisico, più o meno esplicito, più o meno consapevole, ma pur sempre esistente e necessario per vivere e orientarsi in una realtà che ci rifiutiamo di riconoscere come un regno assurdo e angoscioso nel quale saremmo scagliati per i decreti di un dio ostile e straniero.
Il LévyBrühi non ha voluto, se non con [...]

[...]e storici della partecipazione, ma sopravvive il fenomeno esistenziale della partecipazione, la sua funzione antropologica di creare fondamenti e radici, significati e valori. La partecipazione espressa e obiettivata mette in essere una specie di statuto metafisico, più o meno esplicito, più o meno consapevole, ma pur sempre esistente e necessario per vivere e orientarsi in una realtà che ci rifiutiamo di riconoscere come un regno assurdo e angoscioso nel quale saremmo scagliati per i decreti di un dio ostile e straniero.
Il LévyBrühi non ha voluto, se non con timidi cenni, sviluppare il problema della partecipazione fuori dall'ambito della mentalità primitiva. Questa scrupolo fa onore alla sua probità scientifica. Negli stessi Carnets il LévyBrühl si avventura molto raramente e con estrema cautela nella fenomenologia moderna della partecipazione. Egli afferma soltanto che l'esperienza della partecipazione esercita un suo compito nella religione, nella metafisica, nell'arte e anche nella concezione complessiva della natura (cfr. op. cit[...]

[...] », sebbene la parola « mistico » non andasse troppo a genio nemmeno a lui. Ma a chi gli suggeriva di sopprimere la s di mistico egli, come ci informa Maurice Leenhardt nella sua Prefazione ai Carnets, «opponeva il suo fine sorriso». Con quel termine LévyBrühl alludeva, secondo il Leenhardt, a « forze impercettibili ma reali, e non si rendeva conto che il vocabolo forza già di per sé é una parola che circoscrive un avvenimento a un dato momento, cioè già un mito » (p. 24). « In realtà » — conclude giustamente il Leenhardt — « mistico era allora, ed é tutt'ora, il termine rifugio in cui si racchiude tutto ciò che, nel comportamento umano, sfugge alla chiara analisi. Ha fatto fortuna oggi, anche se gli etnologi l'hanno abbandonato per usarlo, con cognizione di causa, solo quando si è in presenza di misticismo e di assorbimento nella divinità... LévyBrühl se ne è servito per qualificare la frangia affettiva che contorna ogni esperienza umana e può financo assorbirla » (p. 24). Più adatti sarebbero i termini « mitico » e talvolta « magico » per indicare in modo meno ambiguo la natura della partecipazione. Ma ciò che a noi importa soprattutto porre in rilievo, mettendo a frutto le ricerche del LévyBrü[...]

[...]. Ha fatto fortuna oggi, anche se gli etnologi l'hanno abbandonato per usarlo, con cognizione di causa, solo quando si è in presenza di misticismo e di assorbimento nella divinità... LévyBrühl se ne è servito per qualificare la frangia affettiva che contorna ogni esperienza umana e può financo assorbirla » (p. 24). Più adatti sarebbero i termini « mitico » e talvolta « magico » per indicare in modo meno ambiguo la natura della partecipazione. Ma ciò che a noi importa soprattutto porre in rilievo, mettendo a frutto le ricerche del LévyBrühl, é l'universalità storica della partecipazione e la costante presenza in essa di un substrato mitico che ne costituisce il fondamento e quasi il principio di chiarificazione. Non si cerchi in una ricerca complessa e difficile come questa un insieme di definizioni precise e rigide. Lo stesso LévyBrühl, dopo una lunga vita tutta dedicata allo studio di tali problemi, confessava di trovarsi di fronte a una serie di difficoltà non risolte. Egli accusava la nostra terminologia filosofica e psicologica di es[...]

[...]minologia filosofica e psicologica di essere crudamente inadeguata ad esprimere i rapporti complessi che esistono tra
mito », « partecipazione », « categoria affettiva del soprannaturale », « esperienza mistica ». L'esperienza mistica é infatti inseparabile dalle credenze e dai miti, ed anche il sentimento e la rappresentazione del soprannaturale si configura ed esprime nei miti. L'ultimo LévyBrühl si proponeva dunque uno studio psicologico e sociologico della partecipazione, e questo studio si sarebbe trasformato in una nuova ricerca approfondita intorno al significato e al valore del mito.
Potremmo dire che la ragione distingue e articola, laddove il mito, le cui categorie sono fortemente impregnate di emozionalità, unifica e
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fonde in una partecipazione che rende l'uomo solidale al destino della natura e della società. Le categorie razionali distinguono, o tendono almeno a distinguere, l'io dal mondo, l'individuo dalla società il mondo vegetale dal mondo animale, il mondo animale dal mondo umano, i vari regni e le [...]

[...]o, come hanno veduto bene Durkheim e Cassirer, non é assenza totale di razionalità, ma razionalità fusa in un crogiuolo affettivo, sentimento di una Gemeinschaft alles Lebendigen per cui le varie distinzioni categoriali o recedono quasi annullate da una energia emozionale che le sovrasta e le sommerge, oppure ed è il caso dei miti piú arcaici — quelle categorie, quelle distinzioni, quelle classificazioni ancora non sono emerse storicamente e giacciono latenti o debolmente operanti nel grembo indifferenziato, nella comune matrice di una mente « precategoriale ». La tentazione di considerare il mito come un prodotto della sancta simplicitas o della stupidità originaria generatrice di assurdità e contraddizioni è stata sempre forte tra gli avversari del mito, ed essa sembra rinnovarsi periodicamente, anche oggi, come vediamo ad esempio dallo studio di Kelsen intitolato Società e natura. Eppure noi sappiamo che in tutte le grandi culture del passato — la babilonese, la cinese, l'indiana, la greca — l'elemento mitico è predominante e non può [...]

[...]losofi come lo Schelling, o grandi poeti come il Novalis, videro nel mito una mirabile fusione di poesia e verità, ideale e reale, mondo soggettivo e mondo oggettivo.
Ci si consenta di ricordare ancora una volta una felice osservazione di Ernst Cassirer: « Dal punto di vista dello scienziato — egli nota — vi erano due modi diversi di formulare la questione. Il mondo mitico poteva essere spiegato secondo gli stessi principii del mondo teoretico, cioè del mondo dello scienziato. Oppure si poteva mettere l'accento sulla faccia opposta. Invece di cercare una qualunque similarità fra i due mondi, si poteva insistere sulla loro reciproca incommensurabilità, sulla loro differenza radicale e inconciliabile. Era quasi impossibile decidere questo conflitto tra le diverse scuole mediante criteri puramente logici. In un capitolo importante della sua Critica della ragion pura Kant tratta di un contrasto fondamentale nel metodo dell'interpretazione scientifica.
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Secondo lui, vi sono due gruppi di studiosi e di scienziati. Uno di es[...]

[...]ea Eliade, Rudolf Otto, Walter Otto, Carlo Kerény e molti altri, sono sensibili soprattutto all'elemento di eterogeneità e discontinuità esistente tra esperienza « primitiva », « sacrale », « mistica », da un lato, ed esperienza razionale, profana, logicoconcettuale dall'altro. Il problema di una fenomenologia della ragione si allarga qui nel problema più vasto, e in certo senso più drammatico, di una fenomenologia dell'esperienza. Esisterebbero cioè non solo vari tipi di ragionamento, ma addirittura vari modi di essere nel mondo. Da quest'ultimo punto di vista la ragione stessa e le sue varie tecniche logiche e scientifiche potrebbe essere considerata uno dei modi di essere nel mondo, una delle forme
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fondamentali di comportamento storico per fronteggiare la crisi esistenziale dell'uomo. I due metodi della omogeneità e della eterogeneità, rispondenti a un duplice interesse della ragione, vanno oggi, a proposito del mito, messi tra loro a confronto e integrati, onde evitare una duplice deformazione interpretativa che al[...]

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fondamentali di comportamento storico per fronteggiare la crisi esistenziale dell'uomo. I due metodi della omogeneità e della eterogeneità, rispondenti a un duplice interesse della ragione, vanno oggi, a proposito del mito, messi tra loro a confronto e integrati, onde evitare una duplice deformazione interpretativa che altera la fisionomia del mito riducendolo o a un cumulo di macerie divenute inservibili dopo la costruzione dell'edificio razionale oppure a un evento metafisico inattaccabile dai processi razionali. Il senso di questa nota è appunto quello di garantire una miglior comprensione del mito, evitando di costruire un falso dilemma per cui dovremmo oggi compiere una ridicola scelta storica tra pensiero mitico e pensiero razionale, come pur continuano a proporre i troppo accesi avversari fautori del mito. Quella scelta sappiamo bene che la cultura moderna l'ha già compiuta da tempo, e in senso ben preciso. Già nella cultura greca la ragione era impegnata in una lotta tenace e coraggiosa contro le remore e l'oscurità di[...]

[...]a tra pensiero mitico e pensiero razionale, come pur continuano a proporre i troppo accesi avversari fautori del mito. Quella scelta sappiamo bene che la cultura moderna l'ha già compiuta da tempo, e in senso ben preciso. Già nella cultura greca la ragione era impegnata in una lotta tenace e coraggiosa contro le remore e l'oscurità di una tradizione dominata dal mito. I Sofisti, Socrate, Tucidide, Euripide vollero liberare il pensiero dall'abbraccio troppo soffocante del mito. La stessa filosofia di Platone può anche — sotto un certo profilo — essere considerata come un tentativo di salvaguardare i diritti della ragione e della scienza, della dialettica intesa come diàiresis e come episteme, contra gli attardamenti nel mondo della doxa e del mythos. In realtà filosofia e scienza si sono costituite nella loro autonomia rompendo le partecipazioni dell'universo mitico e precategoriale. Sotto questo profilo il mito é il nonessere, la nonlibertà, l'opinione, la tradizione chiusa nelle sue presunte verità. Il mondo della cultura umana, in tutt[...]

[...]diàiresis, é una vittoria sul mondo indifferenziato e precategoriale del mito. Il processo, dunque, in cui storicamente é sorta la ragione non è in alcun modo annullabile, né é un processo reversibile nel tempo. Si tratta soltanto di recuperare alcuni valori perduti, al di fuori di ogni inattuale polemica tra pensiero mitico e pensiero razionale.
Il pensiero mitico, come abbiamo già veduto, non é un mondo arbitrario e caotico, un prodotto capriccioso di una mente ribelle o refrattaria alla logica. Esso é pervaso di una razionalità, o almeno non può venir considerato un fenomeno irrazionale, come hanno veduto il Durkheim, il Cassirer, il Frazer e molti altri studiosi. Già la parola mitologia indica che i mitologemi uniscono mythos e logos in una sintesi originale e signi
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ficativa nella quale non è mai possibile dissociare allo stato puro l'elemento mito. Quando un uomo come Jacob Burkhardt afferma che « la vera, irraggiungibile grandezza dei Greci é il loro mito », noi avvertiamo che nel mito sono anche racchiusi [...]

[...]bi, nel suo libro intitolato La psicologia di Carl G. Jung (tr. it. 1949), dà questi chiarimenti circa i rapporti tra archetipi e metafisica classica: « L'uomo aristotelico direbbe : gli archetipi sono idee nate dall'esperienza dei progenitori reali. L'uomo platonico direbbe: i progenitori sono nati dagli archetipi, perché questi sono le immagini prime, i modelli dei fenomeni. Gli archetipi esistono a priori per l'individuo, ineriscono all'inconscio collettivo e sono perciò sottratti al divenire e passare individuale ». Gli archetipi sarebbero, dunque, nel linguaggio metafisico e teologico di cui troppo spesso si compiace la psicologia del profondo, « presenze eterne » che la coscienza a volte percepisce e a volte no. Essi emergono in molti stadi e piani psichici nelle forme più varie, negli adattamenti e nelle metamorfosi più singolari, pur rimanendo i medesimi nella loro originaria struttura. Mircea Eliade e Carlo Kerény hanno ripreso questi motivi junghiani. Eliade li ha addirittura portati a una forma di esasperazione metafisica
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e teologic[...]

[...]a struttura. Mircea Eliade e Carlo Kerény hanno ripreso questi motivi junghiani. Eliade li ha addirittura portati a una forma di esasperazione metafisica
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e teologica, adoperandoli, per così dire, in ' chiave antimoderna, come argomenti per una polemica a sfondo irrazionalisticodecadente contro l'empirismo e l'intellettualismo del mondo contemporaneo. Non seguiremo certo Eliade lungo questa strada che porta a contrapporre artificiosamente i valori religiosi del mito alle insidie presunte o reali dell'umanismo e dello storicismo moderni. Ma occorre riconoscere che alla comprensione del mito hanno recato un forte contributo proprio quegli studiosi moderni come LévyBrühl, Walter Otto, Eliade, Kerény, che hanno cercato di avvicinarsi alle creazioni culturali del mito dall'interno, simpaticamente invece che polemicamente. Comprendere il mito é problema analogo a quello di capire che cosa sia la musica, la poesia. Kerény ha ragione quando afferma che le grandi creazioni mitologiche costituiscono un fenomeno paragonabile, per[...]

[...] nel linguaggio della scienza, è appunto perché esso non può venir espresso completamente se non in forma mitologica ». (Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia, p. 1617). Il Kerény trattando il problema del carattere eziologico della mitologia osserva che la mitologia « chiarisce se stessa e tutto quanto vi è nel mondo non perché essa sia stata inventata per spiegare bensì perché essa ha anche la facoltà di chiarire ». I mitologemi, cioè, non sono stati escogitati allo scopo di spiegare, ma rendono il mondo più trasparente, spandono chiarezza su ciò che è, ciò che avviene e deve avvenire. La mitologia non è una spiegazione scientifica o pseudoscientifica, bensì un tentativo di motivare, fondare, giustificare, una cosa riportandola al suo fondamento. La parola tedesca Begründen è appropriata per farci capire quale sia il tema, il motivo dominante dei mitologemi. La mitologia, se a una domanda risponde, non si chiede il « perché? » nel senso greco della parola «Ira (causa), ma ricerca l'origine, il « da dove? ». « La mitologia precisa Kerény — non dà mai «críce, "cause". Essa é "eziologica" solo se si capisce che le x íca — come dice Aristotele (Met[...]

[...] ricollegando la struttura storica del reale e dell'uomo stesso a un suo dover essere, a strutture paradigmatiche e originarie dalle quali si sprigiona senso e luce. La mitologia, ogni mitologia, anche nelle sue metamorfosi più recenti e non chiaramente individuate e consapevoli, chiarisce e giustifica la condizione umana, la trascrive in immagini ricche di significato. La crisi sempre risorgente dell'esistere viene risolta mediante un ricorso a ciò che Bergson avrebbe chiamato a funzione fabulatrice u, introducendo negli aspetti più ingenui della coscienza mitica potenze ausiliatrici e soteriologiche, eroi civilizzatori, forze sopranna turali, se avesse senso parlare di soprannaturale per un tipo d'uomo che ancora non opera le nostre nette distinzioni categoriali tra natura e soprannaturale. Possiamo, in senso lato, chiamare mondo della partecipazione, usando il linguaggio caro a LévyBrühl, il mondo delle connessioni vitali in cui si muove l'uomo primitivo e in cui torna a muoversi mutatis mutandis l'uomo categoriale quando riemerge in [...]

[...]le per un tipo d'uomo che ancora non opera le nostre nette distinzioni categoriali tra natura e soprannaturale. Possiamo, in senso lato, chiamare mondo della partecipazione, usando il linguaggio caro a LévyBrühl, il mondo delle connessioni vitali in cui si muove l'uomo primitivo e in cui torna a muoversi mutatis mutandis l'uomo categoriale quando riemerge in lui, in forme storicamente trasfigurate, l'esigenza del mito. La giustificazione mitica, cioè, non è pura dilettosa favola o libero e arbitrario proiettarsi della fantasia non governata da alcuna logica, e non è neppure prefigurazione immaginosa e provvisoria di una spiegazione razionale. Essa contiene tanto l'elemento fabulatore quanto l'elemento logico, ma quell'evento caratteristico che é il mito non viene interpretato secondo la scala originaria quando viene ridotto univocamente all'uno o all'altro elemento oppure a una commistione arbitraria dei due. Gli interpreti romantici del mito hanno torto quando ritengono, con Mircea Eliade, che i miti scoprano una struttura ontologica in[...]

[...]ù ostile ed estranea, bensì familiare e aperta all'investitura del senso. Alla condizione esistenziale della Geworfenheit generatrice di angoscia, il mito oppone la fede in una diversa condizione esistenziale, quella dell'uomo non scagliato nel mondo bensì fuso in esso, partecipe di un destino cosmico.
Le sorti del mito, in conclusione, non si riabilitano in un ritorno
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acritico verso un mondo indifferenziato e precategoriale. Ciò che riemerge nella vocazione mitica dell'uomo moderno non é l'uomo primitivo,
bensì la sua esigenza di fondamenti, di valori, di significati. Questa
esigenza indelebile coincide, per larga parte, con una esigenza di tipo metafisico e soteriologico. Anche l'uomo categoriale torna a chiedere i
suoi « perché? » e non si accontenta del dubbio metodico, della morale provvisoria, e della cauta epoché. L'avventura di vivere esige una scommessa ragionevole, ossia fondata su argomenti almeno probabili. E questa scommessa impegna l'uomo a scegliere per sé un mondo di valori, di modelli, di paradigmi[...]

[...]engono noi parliamo di teologie laiche o di camuffate teologie. Ma la critica radicale di queste ultime teologie non legittima, nell'ambito della filosofia, né un ritorno a una teologia raddrizzata né una rinuncia definitiva alla vocazione miticometafisica. Nasceranno forse metafisiche del probabile, del verosimile, del come se, ma non appare possibile mutilare il pensiero di una dimensione per così dire escatologica e soteriologica, riguardante cioè il significato globale e conclusivo dell'avventura umana.
I valori li vediamo emergere dalla storia, costituirsi e fondarsi storicamente, anche se sembrano sovrastare al piano della storicità e librarsi. in una loro trascendenza, indenne dalle peripezie e dalle brusche tra
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smutazioni della moda, del gusto, della cronaca e, in genere, dalle variazioni più superficiali dello spirito obiettivo. Invano cercheremmo per i valori una garanzia della loro validità für ewig. Essi non sono essenze metafisiche collocate in un regno ideale immune alla processualità e al divenire, ma [...]

[...] trascendenza, indenne dalle peripezie e dalle brusche tra
MITO E VALORI ill
smutazioni della moda, del gusto, della cronaca e, in genere, dalle variazioni più superficiali dello spirito obiettivo. Invano cercheremmo per i valori una garanzia della loro validità für ewig. Essi non sono essenze metafisiche collocate in un regno ideale immune alla processualità e al divenire, ma sappiamo che non sono neppure il prodotto di scelte gratuite, capricciose, meramente emozionali. I valori, cioè, non li riconosciamo come tali se ci risultano effimeri, transitori, arbitrari. Non avranno quell'universalità assoluta ed eterna che chiamiamo tradizionalmente universalità metafisica, ma all'interno di un orizzonte storicoculturale spetta ad essi quell'universalità sui generis che possiamo chiamare universalità storica. Questa universalità sui generis protegge i valori, li preserva dal cadere nell'effimero, nel caduco, nel provvisorio. I valori autentici possiedono durata, continuità, fecondità, profondità, rilievo. Senza questa loro consistenza obiettiva che li solleva in un'atmosfera di [...]

[...]be facilmente sotto l'accusa di superficialità perché non terrebbe nel dovuto conto la presenza ininterrotta di fenomeni culturali la cui intenzionalità è rivolta appunto verso forme, idee, norme, valori, paradigmi assoluti e metastorici. Una descrizione obiettiva di questi fenomeni — si pensi soltanto al mito, alla metafisica, alla religione — se vuole rispettare la scala di tali fenomeni deve riconoscerne la direzione intenzionale, non ridurli cioè a manifestazioni secondarie e patologiche di altri fenomeni considerati, essi soltanto, primari e fisiologici.
Per quanto riguarda più propriamente i valori e il loro rapporto con il mito, potremmo parlare di un vero e proprio paradosso che presiede alla costituzione del valore. Il valore si genera storicamente, come abbiamo veduto, ma afferma il proprio diritto alla vita in un atto di ribellione contro la storia che l'ha generato. Traspare qui il rapporta di parentela tra valore e mito. I valori non potrebbero essere tali se il pensiero mitico non intraprendesse in modo sempre ricorrente i[...]

[...] paradosso che presiede alla costituzione del valore. Il valore si genera storicamente, come abbiamo veduto, ma afferma il proprio diritto alla vita in un atto di ribellione contro la storia che l'ha generato. Traspare qui il rapporta di parentela tra valore e mito. I valori non potrebbero essere tali se il pensiero mitico non intraprendesse in modo sempre ricorrente il tentativo di universalizzarli, quasi proiettandoli fuori dalla storia, fuori cioè
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dalla loro stessa matrice. La storia dei valori P, insieme, in termini contraddittori e paradossali, storicismo e destorificazione. Questa aporia per cui il valore, come il mitico Crono distruttore del regno di suo padre Urano, instaura il proprio dominio tentando di annullare la potenza che lo ha generato, la storia, ricorre oltre che nella fenomenologia del valore anche nella fenomenologia del mito.
Occorre chiarire un possibile equivoco. Tra mito e valore vi è parentela ma non equivalenza o identificazione. Non si può sostenere né che la coscienza mitica sia eternamente generatrice[...]

[...]e né che la coscienza mitica sia eternamente generatrice di valori, né che i valori coincidano sempre con i prodotti della coscienza mitica. Creature del mito sono anche i figli degeneri, nati da una immaginazione proliferante nell'assurdo e sprovvisti di ogni contrassegno assiologico. La fenomenologia del mito tocca punti di significato assiologico diversissimo e il mito non ha, in alcun modo, la proprietà del re Mida di convertire in oro tutto ciò che tocca. D'altra parte se mitica é la consacrazione dei valori, il processo per cui i valori fatalmente entrano in una magica atmosfera di destorificazione che li erige in modelli, paradigmi, archetipi, esemplari, norme che sovrastano la storia, non é a dire che sia l'investitura mitica per se stessa a creare i valori. Tutt'al più essa li fissa, li stabilizza, li consacra. Il mito è una celebrazione del valore, una specie di suggello metafisico, non il processo per cui il valore si genera. Afrodite, ad esempio, é la celebrazione mitica e sacrale dei valori della bellezza e dell'amore. Ma qu[...]



da Giovanni Mari, Ritratti critici contemporanei. Louis Althusser in KBD-Periodici: Belfagor 1980 - luglio - 31 - numero 4

Brano: [...]scelta di scrivere dei testi filosofici per produrre determinati effetti teoricopolitici in tale congiuntura 2. La quale inizia, secondo Althus
1 Nel corso del testo ho usato le seguenti sigle che rimandano alle opere cit. in bibliografia (la p. si riferisce, ad eccezione che per l'Avantpropos a Duménil, alla trad. it. cit.): FL, per Freud et Lacan, tr. it. in n. 66; PM, per Pour Marx, n. 21; LC, per Lire le Capital, n. 23; Lettere, per M. L. Maciocchi, Lettere dall'interno del PCI a L.A., n. 40; LAIE, per Idéologie et appareils idéologiques d'Etat, n. 66; Avertissement per Avertissement aux lecteurs du Livre I du « Capital », n. 39; RJL, per Réponse à John Lewis, n. 53; PPSS, per Philosophie et philosophie spontanée des savants, n. 59; EA, per Eléments d'autocritique, n. 60; SEJM, per Sur l'évolution du jeune Marx, n. 60; EMP, per Estil simple d'être marxiste en philosophie?, n. 66; Finalmente, per Finalmente qualcosa di vitale si libera dalla crisi e nella crisi del marxismo, n. 71; MF, per Marx et Freud, in nn. 68 e 75; MO, per Il ma[...]

[...] contraddizioni di diversi livelli della formazione sociale nel « momento attuale » (cfr. To my english readers, prefazione a For Marx, London, New Left Books, 1971).
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ser, con la denuncia del « culto della personalità » e delle « violazioni » della « legalità socialista » compiute dal xx Congresso del Pcus (1956), nonché con la scissione del movimento comunista internazionale degli anni immediatamente seguenti.
Per Althusser ciò che caratterizza questa congiuntura è, per un verso, la lotta tuttora in corso tra una « critica di destra » (prevalente) ed una « critica di sinistra » dello stalinismo, e, per l'altro, l'effettiva sopravvivenza nel movimento operaio dello stalinismo a causa dell'assenza di una vera spiegazione, di una spiegazione marxista, di esso. Il problema teorico e politico dello stalinismo, e quindi della crisi che la sua denuncia ha determinato nel comunismo internazionale, è in altre parole ciò che domina la « congiuntura teorica e ideologica » del movimento comunista in cui Althusser interviene con[...]

[...]per un verso, la lotta tuttora in corso tra una « critica di destra » (prevalente) ed una « critica di sinistra » dello stalinismo, e, per l'altro, l'effettiva sopravvivenza nel movimento operaio dello stalinismo a causa dell'assenza di una vera spiegazione, di una spiegazione marxista, di esso. Il problema teorico e politico dello stalinismo, e quindi della crisi che la sua denuncia ha determinato nel comunismo internazionale, è in altre parole ciò che domina la « congiuntura teorica e ideologica » del movimento comunista in cui Althusser interviene con i suoi scritti filosofici. Questi « interventi filosofici » hanno avuto essenzialmente il carattere, durante gli anni Sessanta, di una « difesa » della « specificità » e della « novità » del marxismo nei confronti dell'assalto delle varie forme dell'« ideologia borghese » sviluppatosi nel quadro delle « critiche di destra » dello stalinismo. Una difesa, come vedremo, che ha comportato un « ritorno alle fonti », ai classici, e che Althusser ha portato avanti, spesso da solo, non in nome d[...]

[...]rendono entrambi scritti degli anni 196065). La ricerca di Althusser si presenta quindi nettamente periodizzata in almeno due fasi principali, il cui anno di separazione può essere agevolmente identificato nel 1970.
La « rettifica » consiste essenzialmente nell'assunzione da parte della problematica di Althusser di un nuovo tipo di rapporto tra politica e teoria, precisamente nella proposta della tesi del « primato della pratica sulla teoria », cioè del « primato della lotta di classe nell'economia e nella politica sulla lotta di classe nella teoria » (EA, p. 5). La lotta di classe nella teoria è la filosofia, precedentemente (Per Marx e Leggere il Capitale) definita come « teoria della pratica teorica ». Qui mi interessa soprattutto notare come, sia la congiuntura politica in cui Althusser « interviene », sia la sua stessa ricerca filosofica presentano una svolta: la prima nel '68, la seconda nel '70. E la cronologia di queste due svolte è tale da porre immediatamente il problema del primato della politica sulla svolta teorica di Althu[...]

[...]filosofia (1968, febbraio), mi sembra evidente che la « logica esterna » di tale sbocco non sia ricostruibile prescindendo dal « Maggio '68 ».
Ma la vera difficoltà che presenta lo sviluppo della filosofia di Althusser, ed in particolare la sua « autocritica », non riguarda tanto la ricerca del nesso che intercorre tra la fase politica successiva al 1968 e la enunciazione della « crisi generale del marxismo », bensí la individuazione del nesso (cioè del « primato » di quale politica) che intercorre tra la fase aperta dal 1956 e la « deviazione teoricista » di tale filosofia. In altre parole, esiste una radice politica di questa « deviazione » filosofica? perché questa « deviazione » nel periodo di difesa del marxismo e di « ritorno alle fonti » (anni Sessanta)? anche a quali errori o deviazioni di tipo politico si può far risalire l'idealismo filosofico di cui Althusser si autocritica? Il filosofo francese non dice niente in proposito, egli si sofferma solo sulle radici teoriche del proprio « teoricismo » e « razionalismo » (Spinoza, Ba[...]

[...] sostenuto negli anni Sessanta posizioni idealistiche (« Teoricismo vuol dire qui: primato della teoria sulla pratica, insistenza unilaterale sulla teoria; ma piú precisamente: razionalismo speculativo », EA, p. 22, nota 20), difende senza alcuna esitazione gli effetti politici ed ideologici ottenuti da questa filosofia « speculativa »: « Ma, e questo è certamente piú importante, alcune tesi che noi attaccavamo hanno dovuto fare marcia indietro: cioè le tesi umaniste, storiciste, ecc. » (EA, p. 40). Ora la difficoltà è tutta qui perché Althusser, dopo aver rivendicato il primato della pratica sulla teoria (in Elementi di autocritica questo primato è rivendicato anche quando si definisce « principale » la giusta tendenza politica dei primi saggi, rivolti contro le « pseudospiegazioni » del xx Congresso e contro gli assalti dell'ideologia borghese, e « secondaria » la loro « deviazione » filosofica), e dopo aver riconosciuto che nei saggi degli anni '60'65 egli ha sostenuto una filosofia razionalista e speculativa, conclude difendendo gli [...]

[...]po aver riconosciuto che nei saggi degli anni '60'65 egli ha sostenuto una filosofia razionalista e speculativa, conclude difendendo gli effetti politici ed ideologici determinati dall'inter
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vento di questa filosofia nella congiuntura, quindi ristabilendo un nuovo tipo di separazione tra filosofia e politica.
Si tratta di un tipo di separazione particolare, la quale si esprime in un'assenza, e che riguarda il « secondario », cioè la « deviazione ». Nel senso che tale separazione non impedisce di veder il nesso che intercorre tra la congiuntura e la tendenza « principale » e giusta della riflessione degli anni '60'65, impedisce di vedere solo quello che intercorre tra la stessa congiuntura e la « deviazione ». E questa separazione che permane tra filosofia e politica sul piano della « deviazione », cioè del « secondario », non solo impedisce di pensare la possibilità di un primato non giusto della politica sulla teoria (su cui invece Althusser si era molto acutamente soffermato nella Introduzione al Per Marx), ma finisce per caratterizzare teoreticamente la filosofia dei primi saggi soltanto per i suoi aspetti negativi: un « secondario » quindi che diviene esaustivo. Ovvero un'« autocritica », per un verso (sul lato del politico) incompleta (assenza della ricerca del rapporto tra idealismo filosofico e pratica politica degli anni Sessanta), e per l'altro (sul lato del filosofico) forse anch[...]

[...]n'« autocritica », per un verso (sul lato del politico) incompleta (assenza della ricerca del rapporto tra idealismo filosofico e pratica politica degli anni Sessanta), e per l'altro (sul lato del filosofico) forse anche eccessiva. Vedremo in seguito come è forse possibile colmare questa incompletezza, questa assenza.
3. Uno dei grandi temi presenti in tutto l'arco della ricerca di Althusser è rappresentato dalla questione del « giovane Marx ». Cioè da quel complesso di problemi di ordine storiografico e teorico, ma anche politico e ideologico, legato all'interpretazione, sia del significato che rivestono gli scritti giovanili di Marx (Ideologia tedesca compresa) all'interno dell'evoluzione del pensiero marxiano, sia dello statuto teorico di tali scritti e di alcuni concetti chiave in essi contenuti (lavoro alienato, il comunismo come umanismo, l'uomo totale, ecc.). $ un fatto che il dibattito su questi problemi (presenti nel marxismo occidentale con crescente fortuna sin dal periodo compreso tra le due guerre) rappresenta uno dei momen[...]

[...]urre né Stalin né la III Internazionale alla « deviazione staliniana », ed ammette l'esistenza di « meriti » storici di Stalin. Una posizione, in altre parole, che non intende fare, come invece fanno certi umanisti marxisti, tabula rasa di una complessa esperienza del movimento operaio, e che per molti versi si può ricondurre a certe posizioni del Pcc. Quello teorico è rappresentato dalla tesi dell'« antiumanesimo teorico di Marx », del rifiuto, cioè, di Marx della « pretesa teorica » della concezione umanistica (radicata nella tradizione della « grande filosofia classica ») di spiegare la storia e la politica a partire da un'« Essenza dell'Uomo ». Marx non parte dall'uomo e dal Soggetto (soggetto razionale, economico, morale, giuridico e politico), bensí dal modo di produzione, dalle forze produttive, dai rapporti di produzione, dalla lotta di classe, dalla sovrastruttura, ecc. Per Althusser, comunque, il carattere antiumanista della teoria marxista non esclude affatto l'assunzione da parte del movimento operaio di una ideologia umanist[...]

[...]eoria marxista non esclude affatto l'assunzione da parte del movimento operaio di una ideologia umanistica (e con altri caratteri): l'ideologia è un fenomeno permanente della società (anche di quella comunista) con precise funzioni pratiche e l'atteggiamento nei suoi
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confronti va stabilito volta per volta con criteri strettamente politici (si può fare « Una (eventuale) politica marxista dell'ideologia umanista », PM, p. 206). Ciò che lo studioso francese combatte è dunque soltanto la riduzione del marxismo ad una ideologia umanistica, sia perché il marxismo non è un'ideologia (è una filosofia e una scienza della storia), sia perché tale riduzione farebbe cadere il marxismo sotto l'influenza dell'ideologia dominante, essendo l'umanesimo una componente essenziale dell'offensiva ideologica della borghesia volta a mettere da parte la lotta di classe in nome dell'Uomo. Ebbene questo gruppo di tesi che qui abbiamo assai schematicamente ricordato, e che si presentano sostanzialmente identiche in tutta la prima fase della ric[...]

[...] evoluzione rappresentata dagli scritti del 1845 (Tesi su Feuerbach e Ideologia tedesca) mediante la categoria filosofica di « rottura epistemologica »; 2) la definizione della deviazione staliniana come « recrudescenza » e « vendetta postuma » della tendenza fondamentale della ii Internazionale, l'economicismo, affermatasi nuovamente nel movimento operaio a partire dagli anni Trenta sotto la « copertura obbligata » dell'umanesimo. Lo stalinismo cioè come espressione nel movimento operaio della « coppia economicismo/umanesimo » che caratterizza nella sua intima essenza l'ideologia borghese dominante.
A questo punto si possono fare due osservazioni. La prima per sottolineare che nella interpretazione del giovane Marx compiuta da Althusser si riflettono la svolta della congiuntura politica e la svolta della stessa ricerca dello studioso francese. In altre parole che si hanno due interpretazioni della storia di Marx e della « rottura epistemologica », le quali contribuiscono, a loro volta ed in modo profondo, a caratterizzare i due periodi[...]

[...]e la nuova filosofia (il materialismo dialettico) come la conseguenza della fondazione di tale nuova pratica scientifica. Già Bachelard aveva scritto che la « scienza crea una filosofia » (La formation de l'esprit scientifique), e da Bachelard Althusser non trae soltanto l'idea di « rottura epistemologica ».
Il limite speculativo del primo periodo si manifesta quindi, sia nella interpretazione teoricista della « rottura epistemologica » (« Ecco ciò che mancava d'essenziale ai miei primi saggi: la lotta di classe e i suoi effetti nella teoria », EA, p. 41), sia nella contrapposizione razionalista, « in generale », tra la scienza (« la verità ») e la ideologia (« l'errore »), sia, infine nell'appiattimento della filosofia marxista sulla scienza (la filosofia come « Teoria della pratica teorica ») e della scienza marxista (che è invece « rivoluzionaria ») sulla scienza in generale. Nel secondo periodo (cioè a partire dallo scritto Sull'evoluzione del giovane Marx, del 1970, e soprattutto nella Réponse à J. Lewis ed in Elementi d'autocritic[...]

[...]a d'essenziale ai miei primi saggi: la lotta di classe e i suoi effetti nella teoria », EA, p. 41), sia nella contrapposizione razionalista, « in generale », tra la scienza (« la verità ») e la ideologia (« l'errore »), sia, infine nell'appiattimento della filosofia marxista sulla scienza (la filosofia come « Teoria della pratica teorica ») e della scienza marxista (che è invece « rivoluzionaria ») sulla scienza in generale. Nel secondo periodo (cioè a partire dallo scritto Sull'evoluzione del giovane Marx, del 1970, e soprattutto nella Réponse à J. Lewis ed in Elementi d'autocritica, entrambi del 1972), Althusser si pone il problema delle « condizioni » della « rottura epistemologica », individuandole essenzialmente nel « cambiamento di posizione teorica di classe dell"individuo' storico MarxEngels » (EA, p. 42). In questi
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scritti la « rottura epistemologica » è quindi preceduta e « comandata » dal passaggio di Marx (e di Engels) a posizioni politiche e ideologiche di classe proletarie e dal connesso mutamento filoso[...]

[...]con precisione il significato teorico dell'introduzione di questa coppia di concetti: essa rompe definitivamente con l'epistemologia (speculativa, di stampo bachelardiano) come teoria delle differenze tra scienza e ideologia (in generale) ed al suo posto delinea lo spazio per una teoria materialista delle condizioni materiali, sociali, ideologiche e filosofiche della produzione delle conoscenze in grado di spiegare in modo non meccanicistico e sociologico (Althusser direbbe anche non « storicistico ») il « comando » del materiale sul teorico. In altre parole si potrebbe dire che si tratta del programma di un'epistemologia materialista. Si pone allora il problema del rapporto tra questa epistemologia ed il materialismo storico, da una parte, e la filosofia marxista, dall'altra. Ci sono, evidentemente, delle sovrapposizioni problematiche e delle distinzioni da porre con chiarezza.
Seconda osservazione. La coppia rupture/coupure, che intende spiegare l'influenza, il « comando », del « materiale » (ideologico e politico) sull'evoluzione del[...]

[...]a rupture/coupure, che intende spiegare l'influenza, il « comando », del « materiale » (ideologico e politico) sull'evoluzione del teorico (scientifico) mediante la funzione « centrale » della « ri
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voluzione » filosofica, opera in particolari condizioni e in un modo particolare. Molto schematicamente, il funzionamento della coppia r./c. nel ragionamento di Althusser sembra implicare: 1) una (Althusser direbbe)
« topica », cioè una disposizione, una struttura spaziale dei livelli pratico (ideologicopolitico), filosofico, scientifico in cui la filosofia occupa il posto
« centrale »: 2) una struttura temporale che stabilisce la successione delle
« rivoluzioni »: quelle nella teoria (la r. e la c.) avvengono sempre dopo la modificazione al livello del pratico, del « materiale » (la scelta di classe), e la c. avviene sempre dopo la r.; 3) una omogeneità « rivoluzionaria » (in senso politico, di classe) tra il passaggio di classe (proletaria) che costituisce l'iniziale modificazione pratica e la nuova scienza fondata [...]

[...]letaria) tra ideologia e scienza (entrambe « rivoluzionarie ») sembrano poter tendere, per un verso, a qualche forma di meccanicità causale, e, per l'altro, sembrano far risorgere dall'ombra del passato il motto « scienza borghese/ scienza proletaria », pur cosí efficacemente e ripetutamente criticate e derise dallo stesso Althusser che anche negli Elementi di autocritica lo definisce un'« impostura ». Contro queste tendenze opera la « topica », cioè la posizione della filosofia, opera la filosofia: in Althusser cambiano, e radicalmente, sia la posizione nella « topica », sia la concezione della filosofia, ma non muta mai la funzione antisociologista e antieconomicista, e quindi anche, come vedremo, antistoricista ed antiumanista, della filosofia. Ma è sufficiente definire questo tipo di « centralità » perché la filosofia sia messa realmente in grado di assolvere a questa funzione? Perché questa « centralità », che può apparire un privilegio ed una eccezionalità (la filosofia è partecipe sia del pratico sia del teorico, e dei loro rispettivi oggetti), di fatto è anche assenza e debolezza. La filosofia non ha un proprio oggetto, né una vera
e propria autonoma proposta: le Tesi su Feuerbach si limitano ad « annunciare » una nuova po[...]

[...]ne su tale oggetto (critica althusseriana dei concetti di lavoro alienato, ecc.). La filosofia quindi non entra in merito all'oggetto, non apporta (rispetto alla politica ed alla scienza) alcun contributo diretto alla sua definizione, non esiste un livello filosofico dell'economia politica. Ma a questo punto la sola « centralità » critica è realmente in grado di far assolvere alla filosofia la sua funzione di controtendenza al meccanicismo, al sociologismo, all'operaismo? Questa « centralità » sembra funzionare soprattutto al fine di una determinazione diretta del teorico scientifico da parte del pratico materiale, solo al fine di mettere in rapporto diretto (sgombrato il campo dagli ostacoli ideologici, filosofici e scientifici borghesi) la politica (proletaria) e la riflessione scientifica sotto il comando di questa politica e del suo oggetto. Ma la filosofia non entra in merito alle forme di questo « comando », essa non sembra in grado di pensare una articolazione della linearità della successione, né di rendere piú complessa e non to[...]

[...] prima fase della ricerca di Althusser e la congiuntura, in cui è venuto a trovarsi il movimento comunista dopo le « pseudospiegazioni » del xx Congresso, dominata dal problema dello stalinismo e delle sue « sopravvivenze » teoriche
e politiche. A questo fine mi sembra indispensabile rifarsi alla forma filosofica in cui il dogmatismo staliniano si è costituito ed è stato assimilato nell'esperienza storica del movimento comunista internazionale, cioè al « materialismo dialettico »: il programma filosofico e politico in cui la visione unitaria e totalizzante del marxismo del periodo stalinista trova la sua espressione ed i propri titoli teorici piú elevati ed efficaci. Ebbene mi pare che i limiti di speculativismo che Althusser individua nella propria ricerca debbano anche essere fatti risalire proprio ad un suo iniziale insufficiente distacco da questo « materialismo dialettico », una delle « sopravvivenze » piú tenaci e diffuse dello stalinismo. Piú precisamente, proprio al tentativo
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che Althusser compie, al fine di [...]

[...]stacco da questo « materialismo dialettico », una delle « sopravvivenze » piú tenaci e diffuse dello stalinismo. Piú precisamente, proprio al tentativo
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che Althusser compie, al fine di rinnovarlo, di iscrivere la propria ricerca della filosofia di Marx all'interno del programma del « materialismo dialettico ». Di questo programma egli non mantiene soltanto la distinzione tra filosofia marxista e scienza della storia marxista, ciò che gli facilita, tra l'altro, la ricerca della filosofia di Marx. Ne mantiene inizialmente, pur rinnovandoli profondamente, alcuni obiettivi di fondo che influenzano in senso speculativo la sua ricerca, ed i quali rispondono tutti alla medesima esigenza, profondamente radicata nel movimento comunista, di possedere una teoria in grado di abbracciare tutte le cose ed il loro movimento sul modello della presunta unità filosofica (dialettica) del pensiero di Marx.
Il razionalismo speculativo di Althusser (che possiede anche delle venature metodologistiche), in quanto deviazione filosofica, pone[...]

[...]ttuali, e che la « Teoria » che definisce questo metodo (il materialismo dialettico, la filosofia di Marx) possa essere conquistata a partire dalla pratica teorica (scientifica) piú alta di Marx, il Capitale. Una controprova a queste osservazioni si può rintracciare, mi sembra, nelle seguenti affermazioni contenute nell'Avantpropos scritta da Althusser nel 1977 all'opera di G. Duménil, Le concept de loi économique dans `Le Capital', cinque anni, cioè, dopo l'« autocritica »: « La teoria marxista non è di diritto universale, né arbitrariamente estendibile ad ogni fenomeno che appartiene al campo dei `fatti' sociali ed umani... Ecco ciò che forse scoraggerà i metafisici marxisti dall'impegnarsi nell'avventura d'estendere d'autorità la teoria marxista a degli oggetti che essa esclude dal suo campo, o sulla cui sorte mantiene il silenzio » (Ap, p. 20).
5. Althusser inizia la propria riflessione sulla filosofia di Marx a partire da determinati « vuoti » e « punti di fragilità teorica » del ragionamento marxiano, e perviene, nella seconda metà degli anni Sessanta, all'esplicita affermazione che l'attuale « crisi generale del marxismo » va spiegata anche con le « difficoltà, contraddizioni e lacune » del pensiero di Marx. In gen[...]

[...]esto Althusser può parlare di uno sviluppo
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del marxismo a partire dalla « lettura » delle sue difficoltà filosofiche e dal conseguente e necessario sviluppo della sua filosofia. Comunque in questi anni è proprio la persuasione dell'esistenza di un certo tipo di sistematicità del discorso scientifico del Capitale, della validità dell'unità che il « metodo di esposizione » di Marx ha saputo imporre alla sua materia di indagine, ciò che permette ad Althusser di identificare i « vuoti » epistemologici. Del resto, egli nota, questo tipo di ritardo filosofico è inevitabile: la fondazione di una nuova scienza introduce una « nuova forma di razionalità », una
« rivoluzione nel Teorico esistente », che solo successivamente la filosofia è in grado di definire compiutamente. E ciò appare tanto piú valido per Marx, in cui devono assommarsi lo sforzo di consapevolezza epistemologica
« quello di fondazione del materialismo storico.
Nel secondo periodo, che culmina nell'enunciazione della « crisi generale del marxismo », è la stessa unità scientifica dell'opera di Marx ad essere messa in discussione da Althusser, a cominciare da alcuni aspetti essenziali del Capitale: « ...l'unità del Denkprozess del Capitale, l'unità del suo ordine di esposizione, non è come si presenta — ma segnatamente ineguale e disparata » (Ap, p. 22). Oppure, ancora piú esplicitamente: « nel Capita[...]

[...], p. 226). Ora quindi Althusser parla apertamente di
« contraddizioni » e di « difficoltà » che concernono direttamente il ragionamento scientifico di Marx nel suo complesso (e non solo in alcuni punti: es. la « causalità strutturale ») e non si limita piú a rilevare « lacune » e
« manchevolezze » filosofiche i cui effetti rimarrebbero comunque estrinsechi alla forma del ragionamento scientifico di Marx. Questo tipo di rilievi filosofici ha perciò un significato assai diverso da quello sostenuto negli anni Sessanta e permette attualmente ad Althusser di fondare teoricamente la
« crisi generale del marxismo » sulla sua « crisi teorica ».
Ma vediamo, anche se molto schematicamente, i principali risultati a cui Althusser perviene a partire dalle « difficoltà » e dai « punti di fragilità teorica » del ragionamento di Marx. Come Althusser indica in E facile essere marxisti in filosofia? questi risultati possono essere raggruppati attorno a due grandi temi: quello della « determinazione in ultima istanza » (della sovrastruttura da parte de[...]

[...]compresi nel Per Marx, oltreché nella seconda parte del saggio L'oggetto del « Capitale » (1965), compreso in Leggere « Il Capitale ».
Il ragionamento di Althusser, in Per Marx, inizia con la constatazione dell'« equivocità » della « formula del `rovesciamento' » contenuta nel Po
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scritto alla seconda edizione del primo libro del Capitale (« La dialettica, in Hegel, è capovolta. Bisogna rovesciarla per scoprire il nocciolo razionale dentro il guscio mistico »): questa formula ad Althusser appare solo « indicativa, anzi metaforica » e tale da porre « piú problemi di quanti ne risolva ». E con la costatazione che in Marx la concezione dei « rapporti specifici tra struttura e sovrastruttura meritino ancora di essere teoricamente elaborati e indagati ». L'obiettivo è duplice: dimostrare la totale diversità e specificità della dialettica marxista rispetto a quella hegeliana, e combattere le interpretazioni economicistiche (evoluzioniste e meccaniciste) della tesi materialisticostorica della determinazione in ultima istanza dell'economia (cioè[...]

[...]la costatazione che in Marx la concezione dei « rapporti specifici tra struttura e sovrastruttura meritino ancora di essere teoricamente elaborati e indagati ». L'obiettivo è duplice: dimostrare la totale diversità e specificità della dialettica marxista rispetto a quella hegeliana, e combattere le interpretazioni economicistiche (evoluzioniste e meccaniciste) della tesi materialisticostorica della determinazione in ultima istanza dell'economia (cioè della contraddizione tra forze produttive e rapporti sociali di produzione) del corso della storia. A questo scopo egli elabora, a partire dalla pratica teorica e politica marxista, due nozioni, quella di « surdeterminazione », cioè di « contraddizione surdeterminata » (PM, p. 82), e quella di « tutto complesso strutturato a dominante » (PM, p. 178). Le quali sono proposte in sostituzione dei concetti hegeliani di « contraddizione » e di « totalità ». La contraddizione hegeliana infatti non ammette alcuna reale surdeterminazione, non ammettendo mai una vera determinazione ad essa esterna. Essa cioè è « semplice », presentandosi sempre come « fenomeno » di un'unica semplicità intrinseca (essenza, principio, ecc.). A sua volta la totalità hegeliana, essendo lo « sviluppo alienato di un'unità semplice », non ammette che differenze e contraddizioni apparenti e quindi, né una contraddizione dominante, né una struttura a dominante: la sua « unità è di tipo `spirituale' », non strutturale. Insomma Marx non ha in alcun modo « conservato, neppure `capovolti' », né il concetto hegeliano di contraddizione, né quello di società.
Piú complessi i termini della polemica antieconomicistica. Si tratta[...]

[...]addizione dominante, né una struttura a dominante: la sua « unità è di tipo `spirituale' », non strutturale. Insomma Marx non ha in alcun modo « conservato, neppure `capovolti' », né il concetto hegeliano di contraddizione, né quello di società.
Piú complessi i termini della polemica antieconomicistica. Si tratta di risolvere in maniera diversa dall'economicismo una reale difficoltà teorica del pensiero di Marx, il quale, se da un lato sostiene ciò che Engels definisce la « determinazione in ultima istanza dell'economia » (« Con il cambiamento della base economica si sconvolge piú o meno rapidamente tutta la gigantesca sovrastruttura », Marx, Prefazione a Per la critica dell'economia politica), dall'altro afferma che la « lotta di classe è il motore della storia ». A questo proposito Althusser introduce una distinzione (compiuta anche in base al concetto di « legge primaria della disuguaglianza » tratto dallo scritto di Mao, Sulla contraddizione) tra « contraddizione dominante » (l'« invariante » strutturale del tutto complesso che pres[...]

[...]), e la successiva identificazione del carattere dominante con quello motore, e la sua localizzazione di fatto, se ho ben capito, nella sovrastruttura. In questo modo però si finisce per contrapporre all'economicismo una teoria dell'efficacia e dell'autonomia relativa della sovrastruttura in cui l'elemento relativo è sempre dalla parte dell'economia e quello dell'autonomia e della dominanza sempre dalla parte della politica e della teoria. Tutto ciò, poi, è rafforzato dalla polemica antistoricista che insiste enormemente sul carattere autonomo della teoria e della scienza (« teoricismo »). Come interpretare allora questo carattere assoluto del relativo, questo dominio assoluto dell'autonomia relativa della sovrastruttura al fine di salvaguardarne il carattere motore, assente in Marx? Lo si è detto, come una risposta ad una reale difficoltà teorica del marxismo, precisamente alla separazione presente in Marx tra carattere determinante e carattere motore della contraddizione, alla difficoltà (o impossibilità: non è forse non casualmente as[...]

[...]uesta difficoltà ad essere presente ed operante dietro la distinzione antieconomicista che Althusser introduce, permettendo in questo modo di pensare, e non è poco, questa difficoltà (o impossibilità) di Marx.
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In Leggere « Il Capitale » Althusser riprende il tema della determinazione in ultima istanza rilevando l'assenza in Marx di un concetto preciso che permetta di pensare in maniera rigorosa la « causalità strutturale », cioè la determinazione da parte di una struttura dominante (il modo di produzione dominante in una data epoca) delle strutture subalterne (gli altri modi di produzione presenti nella formazione sociale) e degli elementi determinati (la sovrastruttura). Causalità di cui pure Marx tiene conto e calcola gli effetti. Tuttavia Althusser definisce questa « causalità strutturale », o « causalità metonimica » (termine tratto dalla psicanalisi), come una « causalità assente », ovvero presente solo nei suoi effetti. Infine sottolinea che in questo concetto si deve ricercare la grande novità teorica di Marx[...]

[...]ica, ed un'effettiva influenza della filosofia di Spinoza e non dell'ideologia strutturalista, e propone di esprimere lo stesso concetto, d'accordo con la « tradizione marxista », mediante quello di « causalità dialettica materialistica ». A me comunque sembra che su questo tema della determinazione in ultima istanza, a parte le differenze terminologiche e le precisazioni concettuali, la sostanza del ragionamento di Althusser non muti rispetto a ciò che ho cercato di sottolineare circa il tipo di critica antieconomicista che egli porta avanti negli scritti del Per Marx. A questo proposito si può infatti leggere in Elementi di autocritica: « Ma non si può neppure `mettere le mani' su questa contraddizione `in ultima istanza', come su la causa. Non si può afferrarla ed aver presa su di essa se non nelle forme della lotta di classe, che è, in senso forte, la sua esistenza storica. Dire che `la causa è assente' significa dunque... che la `contraddizione in ultima istanza' non è mai presente di persona sulla scena della storia... » (EA, p. 24[...]

[...]on è che il fenomeno esterno del processo del pensiero. Per me, viceversa, l'elemento ideale non è altro che l'elemento materiale trasferito e tradotto nel cervello degli uomini », Marx, Poscritto alla seconda edizione del r libro del Capitale). Come interpretare questa priorità dell'astrazione ed insieme del materiale, del reale ed insieme dell'ideale? La novità della riflessione di Althusser consiste nel suo rifiuto della soluzione storicista, cioè di quella posizione che pensa di risolvere questa difficoltà mediante una dottrina delle « astrazioni reali » o delle « astrazioni storicamente determinate », basata sulla tesi della esistenza di una « corrispondenza biunivoca » tra pensiero e realtà, tra sviluppo logico del pensiero e sviluppo della storia. E ciò, sia per la forma, perché alle categorie ed agli oggetti reali competerebbe ugualmente il « mutamento », sia per il contenuto, perché a determinati concetti corrisponderebbe un determinato stadio dello sviluppo storico: « La storia avrebbe in qualche modo raggiunto questo punto, prodotto questo presente specifico eccezionale in cui le astrazioni scientifiche esistono allo stato di realtà empiriche, dove la scienza, i concetti scientifici esistono nella forma del visibile dell'esperienza come altrettante verità a ciel sereno » (Lc, p. 132).
Il Capitale, insomma, come una « deduzione logicosto[...]

[...]in base alla quale avanza due tesi, quella della « conoscenza come produzione » e quella della « distinzione tra oggetto reale e oggetto di conoscenza ». Il processo di conoscenza scientifica è un lavoro di trasformazione, compiuto da una Generalità ii (l'insieme dei concetti e delle tecniche esistenti ad un dato momento della storia di una scienza), su una Generalità i (che costituisce la materia prima che non è mai un « dato » o un « fatto »), ciò che produce la Generalità iii (conoscenza scientifica). Qualora la materia prima sia costituita da una generalità ideologica (le « intuizioni » e « rappresentazioni » di Marx) il processo di conoscenza presenta una « rottura epistemologica ». Se invece essa è già una generalità scientifica, il prodotto è una nuova conoscenza scientifica.
Tale lavoro di trasformazione appartiene interamente al « processo di pensiero », ed il suo prodotto, il « concreto di pensiero » (la conoscenza), è distinto dal « concreto reale » (l'oggetto reale) nei cui confronti, questo il punto importante, possiede un [...]

[...]ga tra loro i concetti nel sistema della totalitàdipensiero » (PM, p. 72). Ebbene il meccanismo che produce l'« effetto di conoscenza » (il « meccanismo attraverso cui la conoscenza considerata compie, per colui che la manipola come conoscenza, la sua funzione conoscitiva dell'oggetto reale attraverso il mezzo del suo oggetto pensato ») avviene « nel `gioco'... che costituisce l'unità di scarto (l'unité de décalage) del sistema e del discorso ». Cioè, l'« effetto di conoscenza è prodotto come effetto del discorso scientifico, che esiste solo come discorso del sistema,
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vale a dire dell'oggetto considerato nella struttura della sua costituzione complessa » (Lc, p. 72).
È indubbio che in questo modo Althusser ha coerentemente ricercato all'interno della pratica teorica (di Marx) il criterio della sua « verità ». Vi è riuscito? Solamente due brevi osservazioni. La prima riguarda la nozione di Gliederung che Althusser usa per indicare sia il tipo di organizzazione logica, la struttura del « concreto di pensiero », sia la [...]

[...]a che Althusser propone non è altro (a parte quelle che Althusser definisce le proprie « aggiunte ») che il modo in cui il Capitale permette di conoscere la formazione sociale capitalistica, il modo in cui il Capitale, funziona a questo scopo conoscitivo. In particolare la nozione di « meccanismo » dell'« effetto di conoscenza » è interamente elaborata sulla base dell'analisi del « modo di esposizione » (Darstellungsweise) del Capitale, del modo cioè in
3 L. ALTHUS SER, prefazione a D. LECOURT, Lenin e la crisi delle scienze, Roma, 1974, p. 8.
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cui il Capitale sviluppa le forme astratte del valore, plusvalore, ecc. per risalire verso il concreto (di pensiero) del processo complessivo della produzione capitalistica (iii libro). Ora, a parte la generalizzazione di un processo di conoscenza che Marx pratica solo nella critica dell'economia politica, il ragionamento di Althusser si basa sul presupposto dell'unità e della necessità del discorso scientifico di Marx. In particolare su quelle del « modo di esposizione » e [...]

[...]uindi questo paradosso: che è posta solo per essere annullata. Ma non basta: per essere annullata, deve continuamente essere posta » attraverso la « produzione di nuove conoscenze » (p. 158). La polemica è contro il marxismo dogmatico.
Nell'Avantpropos al libro di G. Duménil, ed in discussione con questi, Althusser ritorna sui concetti di « astrazione », di « processo di pensiero », di « metodo di esposizione » e di « inizio » di una scienza, e ciò in relazione ad una nuova valutazione del discorso scientifico del Capitale. In particolare Althusser cerca di trarre alcune conseguenze dalla tesi di Duménil che l'« astrazione » di Marx si costituisce per esclusione: « Se Marx pensa nel
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l'astrazione, il cui processo è un processo di concretizzazione, è perché Marx pensa mediante l'astrazione è perché ogni posizione di un concetto, dunque ogni apertura di un campo teorico `interno', è nello stesso tempo esclusione dell'esterno, dunque chiusura del campo. L'apertura del campo è in relazione alla sua chiusura, che implica, [...]

[...]cretizzazione, è perché Marx pensa mediante l'astrazione è perché ogni posizione di un concetto, dunque ogni apertura di un campo teorico `interno', è nello stesso tempo esclusione dell'esterno, dunque chiusura del campo. L'apertura del campo è in relazione alla sua chiusura, che implica, in ogni momento, di fare astrazione dell'esterno » (p. 19). Per questa via Althusser può pervenire ad alcune importanti conclusioni circa l'unità del Capitale, cioè dell'« ordine » dei suoi concetti espresso nel « metodo di esposizione ». Infatti il discorso scientifico del Capitale non presenta un solo « ordine di esposizione ». Se ne esiste uno « maggiore » (majeur) (« visibile, impressionante, unitario e omogeneo »), ne esistono però anche altri che « a piú riprese » interrompono e attraversano il « maggiore »: « capitoli discontinui e interminabili, di grande importanza, ed in cui interviene un"analisi' del tutto diversa, che per semplicità si è definita `concreta' e `storica', in opposizione all'analisi veramente `teorica' dell'ordine maggiore — co[...]

[...]sser il preciso intento di stabilire un rapporto positivo tra marxismo e psicoanalisi (la
« psicoanalisi, tra i comunisti, non era `in odore di santità' nel 1964, quando
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pubblicai Freud e Lacan »), sulla base del convincimento che « nel campo delle `scienze umane', due scoperte imprevedibili e sconcertanti hanno sconvolto l'universo dei valori dominanti: le opere di Marx e di Freud » (MF, p. 129).
Alla scoperta dell'inconscio e piú in generale al pensiero di Freud, Althusser dedica due scritti specifici, Freud e Lacan (1964) e Marx e Freud (1976). Ma frequenti riferimenti all'opera di Freud sono rintracciabili anche in altri scritti. Nel saggio del '64 Althusser si sofferma soprattutto ad illustrare il significato dell'opera di Lacan, ma già sottolinea quello che gli appare come l'effetto teorico piú importante della scoperta dell'inconscio: la crisi della concezione ideologica e filosofica tradizionale di « uomo » e di
« soggetto ». Lacan, a cui non sfugge che Freud ha fondato una scienza (« Una scienza nuova, che è la scienza di un oggetto nuovo: l'inconscio », FL, p. 9), ha compreso l'esigenza e l'importanza teorica di un « autentico ritorno a Freud », che egli realizza nella duplice forma di una « critica ideologica » (contro lo sfruttamento ideologico del pensiero di Freud portato avanti dalla psicologia, dalla sociologia, dalla biologia, dalla filosofia) e di un
« chiarimento epistemologico » (come già Marx, anche Freud dovette formulare le proprie scoperte mediante concetti teorici già esistenti — il modello della fisica energetica di Helmholtz e di Maxwell — che essendo stati creati per altri scopi determinano nella psicoanalisi delle zone di opacità teorica). In questo duplice lavoro di restaurazione e di sviluppo Lacan perviene alle proprie scoperte mediante il ricorso ad una scienza piú recente di quella a cui si rifà Freud. È infatti attraverso il ricorso ai concetti della linguistica strutturale [...]

[...]r altri scopi determinano nella psicoanalisi delle zone di opacità teorica). In questo duplice lavoro di restaurazione e di sviluppo Lacan perviene alle proprie scoperte mediante il ricorso ad una scienza piú recente di quella a cui si rifà Freud. È infatti attraverso il ricorso ai concetti della linguistica strutturale che Lacan chiarisce ed approfondisce l'idea freudiana che tutto dipendeva dal linguaggio chiarendo che « il discorso dell'inconscio è strutturato come un linguaggio » (FL, p. 18).
Già da questa sommaria esposizione risulta evidente il parallelismo che Althusser instaura, attraverso quello tra Marx e Freud (che in questo modo ne risulta rafforzato), tra la propria opera di difesa della radicale diversità del marxismo e del suo sviluppo attraverso la ricerca della filosofia di Marx,
e l'opera analoga che Lacan compie nei confronti del pensiero di Freud. Un'interpretazione degli anni Sessanta, in altre parole, non solo come del periodo del ritorno a Marx (Althusser, Della Volpe, ed altri), ma anche del ritorno a Freud (Lac[...]

[...]non solo come del periodo del ritorno a Marx (Althusser, Della Volpe, ed altri), ma anche del ritorno a Freud (Lacan), come « ritorno », insomma, ai massimi teorici rivoluzionari del campo delle scienze umane.
Piú direttamente connessa alla ricerca althusseriana sull'ideologia (che vedremo nel paragrafo seguente) è l'idea che Freud avrebbe sottoposto ad una prova trasformatrice « una certa immagine tradizionale, giuridica, morale
e filosofica, cioè in definitiva ideologica, dell"uomo', del `soggetto' » (FL, p. 29). Questa idea viene particolarmente approfondita nello scritto del '76
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in cui Althusser affronta la questione delle « sorprendenti affinità » tra Marx e Freud. Tali affinità sono soprattutto le seguenti: il carattere conflittuale della teoria (quelle di Marx e di Freud sono verità che dividono: la storia del marxismo e della psicoanalisi è una storia di revisionismi e di scissioni); la fondazione della teoria attraverso una precisa esperienza pratica personale (Marx ed Engels hanno « partecipato » alle lott[...]

[...]e dell'identità inseparabile di ogni coscienza » e della sua « funzione » unificante) .
La riflessione di Althusser insiste particolarmente su quest'ultimo aspetto: per il filosofo francese non è infatti la coscienza, bensí l'ideologia a costituire i soggetti. Se Marx, criticando l'economia politica, ne ha criticato anche la filosofia sottostante dell'uomo cosciente dei suoi bisogni come elemento primario di ogni società, la scoperta dell'inconscio critica l'idea della coscienza come base dell'unità morale e psicologica dell'uomo. Idea di uomo cosciente di sé di cui l'ideologia dominante ha assolutamente bisogno per poter imporre liberamente agli individui una determinata « forma di identificazione » per « giungere all'unificazione delle loro differenze concrete » e per consentire « l'egemonia delle forme materiali dell'ideologia dominante » (MF, p. 138).
7. Un altro grande tema presente in tutto l'arco della ricerca di Althusser è quello dell'ideologia, che viene trattato, come gli altri, in relazione alle lacune ed ai ritardi del pen[...]

[...] sovrastruttura, e si specifica, piú tardi, attorno ai temi dello stato e del partito politico.
Althusser affronta la questione dell'ideologia e della sua presenza sotto molteplici aspetti. Rispetto alla filosofia tradizionale, quando sostiene che la filosofia classica borghese riflette nelle proprie categorie il soggetto giuridicopolitico dell'ideologia borghese, in particolare quando essa definisce i termini del « problema della conoscenza », cioè delle garanzie e delle condizioni per cui un soggetto entra in rapporto ad un oggetto nell'atto conoscitivo. In questa ottica la filosofia classica appare caratterizzata e dalla riflessione sulla scienza moderna (i due tipi di causalità già ricordati), e dalla riflessione sull'ideologia del soggetto (il problema gnoseologico). In relazione alla scienza ed agli operatori scientifici, quando elabora le nozioni di « conoscenza come
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produzione », di « rottura epistemologica », di « filosofia spontanea degli scienziati » (temi che vedremo subito). Sul piano politico e della[...]

[...]gia del soggetto (il problema gnoseologico). In relazione alla scienza ed agli operatori scientifici, quando elabora le nozioni di « conoscenza come
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produzione », di « rottura epistemologica », di « filosofia spontanea degli scienziati » (temi che vedremo subito). Sul piano politico e della lotta di classe, quando parla di « ideologia dominante », di « ideologia piccolo borghese », di « ideologia proletaria ». Infine, ed è ciò su cui soprattutto mi soffermerò, sul piano della società e della storia, quando elabora gli elementi di una teoria in generale dell'ideologia dedicandovi uno dei suoi scritti piú interessanti e fortunati, Ideologia e apparati ideologici di Stato (1969).
Ai punti estremi della riflessione althusseriana su questi temi troviamo gli scritti raccolti nel Per Marx e Il marxismo oggi (1978). Nei primi il marxismo è visto (ad eccezione del saggio Sul giovane Marx, 1961) solamente come il risultato di una « rottura epistemologica » nei confronti dell'ideologia, la filosofia come determinata dalla fo[...]

[...]vane Marx, 1970).
Di questi anni immediatamente precedenti l'« autocritica » vale la pena di ricordare anche alcuni eccessi, significativi anche se collocati in un periodo di riaggiustamento e di ridefinizione della problematica. Ad esempio quelli, di natura direi operaista, contenuti nella Introduzione al Libro del Capitale (1969), quando Althusser sostiene che « per comprendere il Capitale... occorre giungere a posizioni di classe proletarie, ciò è relativamente facile per gli operai... Poiché possiedono `per natura' un `istinto di classe' formatosi alla rude scuola dello sfruttamento quotidiano, è loro sufficiente un'istruzione supplementare, politica e teorica, per comprendere oggettivamente ciò che sentono soggettivamente, istintivamente » (Introduzione, p. 42). Il fatto
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è che la rivalutazione della funzione positiva dell'ideologia proletaria che Althusser compie in questi anni successivi agli avvenimenti del « Maggio '68 », e che in Elementi di autocritica gli permette di individuare il razionalismo della contrapposizione tra ideologia in generale e scienza in generale, e quindi di parlare di ideologia proletaria e di scienza rivoluzionaria, tutto questo introduce nel suo ragionamento la preoccupazione e la ricerca a tutti i livelli di una sorta di omogeneità e [...]

[...]ccenno all'analisi dei caratteri dell'« ideologia dominante », dell'ideologia che serve all'egemonia borghese, individuata essenzialmente nell'umanismo teorico. Non si tratta, naturalmente, di misconoscere i meriti storici della « grande tradizione umanistica » che ha saputo affermare, al

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l'inizio dell'era moderna, un'idea laica e terrena della dignità e della libertà dell'uomo contro la Chiesa e le ideologie religiose. Ciò che ad Althusser preme rilevare è l'origine e la funzione di classe di tale umanesimo (storicamente non separabile dalla borghesia in ascesa) che trova le sue espressioni piú elaborate nella « filosofia classica » e nell'economia politica borghese. Entrambe volte alla ricerca di una spiegazione della storia e della società fondate teoricamente sull'idea di un « soggetto originario », su « un concetto di uomo dalle pretese teoriche, cioè come soggetto originario dei suoi bisogni (homo oeconomicus), dei suoi pensieri (homo rationalis), dei suoi atti e delle sue opere (homo moralis, juridicus et politicus) » (EMP, p. 169).
In Filosofia e filosofia spontanea degli scienziati (1967), è introdotta la nozione di « filosofia spontanea degli scienziati » (Fss) per indicare il fatto che in « ogni scienziato vi è un filosofo che sonnecchia », come emerge in maniera spettacolare nei momenti di crisi delle scienze. Questa ideologia scientifica, che va distinta, sia dalla filosofia, sia dalla ideologia pratica (o concezione del mondo) d[...]

[...]enziato, rappresenta l'idea che l'operatore scientifico si fa, spesso inconsapevolmente, della scienza e del proprio lavoro di ricerca. La FSS presenta due elementi che ne costituiscono il contenuto
« contraddittorio ». L'elemento I (credenza nell'esistenza della realtà oggettiva, nella oggettività della conoscenza, nel metodo scientifico) è di origine
« interna », ed è materialistico. L'elemento II è idealistico e di origine esterna, proviene cioè da tesi filosofiche elaborate al di fuori della pratica scientifica, e la cui funzione essenziale consiste nel « sottomettere l'esperienza della pratica scientifica a determinate tesi, ossia a `valori' o a `istanze' che le sono estranee e che, sfruttando le scienze, servono acriticamente a corroborare una serie di obiettivi che dipendono dalle ideologie pratiche » (PPss, p. 95). La contraddizione tra i due elementi si risolve, nella stragrande maggioranza dei casi, a favore dell'elemento II che « domina » l'elemento I. Ebbene questa dominazione non fa che riprodurre « in seno alla Fss il rap[...]

[...]attraverso il « rapporto di forza filosofico » che agisce attraverso l'intermediazione della Fss, anche nella ricerca scientifica. E, affinché tale lotta non si risolva quasi immancabilmente a vantaggio dell'ideologia della classe dominante, Althusser propone una « alleanza » tra gli operatori scientifici e la filosofia materialisticodialettica, la sola in grado di intervenire su tale rapporto di forza modificandolo a vantaggio del materialismo, cioè dell'elemento I.
Vediamo infine le tappe essenziali dell'analisi dell'ideologia in generale, analisi in cui lo studioso francese raggiunge i suoi risultati piú significativi.
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Nel 1961 (Sul giovane Marx) egli non fuoriesce dall'impostazione marxiana dell'Ideologia tedesca: piú tardi (1963) definirà egli stesso questa impostazione dall'ideologia. Il carattere essenziale di questa consiste nella « deforcentrale dell'articolo è quello della possibilità e della necessità della liberazione dall'ideologia. Il carattere essenziale di questa consiste nella « deformazione » della [...]

[...] ad ogni società per formare gli uomini, trasformarli e metterli in condizione di rispondere alle esigenze delle loro condizioni di esistenza » (PM, pp. 207 e 210).
Il problema della liberazione si trasforma in quello della scelta tattica dell'ideologia in base ai criteri imposti dalla lotta di classe. Quanto al tema della « deformazione », esso permane, ma è subordinato al carattere essenziale che ora Althusser intende rilevare nell'ideologia, cioè alla sua « attività ». È nella costituzione dell'attività degli uomini, nella rappresentazione delle motivazioni della volontà, che l'ideologia deforma immaginandolo il rapporto reale degli uomini con le loro condizioni di esistenza. Il rapporto immaginario /reale non è piú tra un interno ed un esterno (da conquistare mediante un « cambiamento di terreno »), ma è una contraddizione intrinseca all'ideologia stessa che si risolve mediante la subordinazione del reale
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all'immaginario, il quale esprime il senso della volontà e dell'attività dell'uomo. « Nell'ideologia il rap[...]

[...]tato (1969) per un verso sono ripresi e precisati alcuni risultati raggiunti in Marxismo e umanismo, e per l'altro introdotte nel proprio ragionamento alcune essenziali modifiche ed aggiunte. Dello scritto del 1964 è ripreso, prima di tutto, il concetto chiave di « rapporto »: nell'ideologia non si esprime una visione distorta e immaginaria della realtà, bensí il rapporto necessariamente « immaginario » dell'uomo con questa realtà. L'ideologia è ciò che permette di rappresentare l'investitura della realtà da parte della « volontà » e della « speranza », quindi una realtà in movimento (immaginario), intrisa di finalità e di valori, immediatamente posta in un orizzonte trascendente il dato di fatto, l'esistente, perché nella rappresentazione di questo vi include per definizione l'attività. Come dire, se nella scienza l'uomo è solo di fronte alla realtà, nell'ideologia egli è sempre in compagnia della propria speranza o della propria nostalgia. A sua volta la scienza dell'ideologia è ciò che permette di pensare questa compagnia, questa asso[...]

[...]« speranza », quindi una realtà in movimento (immaginario), intrisa di finalità e di valori, immediatamente posta in un orizzonte trascendente il dato di fatto, l'esistente, perché nella rappresentazione di questo vi include per definizione l'attività. Come dire, se nella scienza l'uomo è solo di fronte alla realtà, nell'ideologia egli è sempre in compagnia della propria speranza o della propria nostalgia. A sua volta la scienza dell'ideologia è ciò che permette di pensare questa compagnia, questa associazione, cioè questo rapporto. Una compagnia in cui l'uomo, tra l'altro, può associarsi agli altri uomini: le forme ideologiche di massa.
Ma in Ideologia e apparati ideologici di Stato (TATE) Althusser introduce delle novità rilevanti nel proprio ragionamento al fine di eliminare ogni separazione tra uomo e ideologia, e cíò in due sensi. Primo, l'ideologia non è piú soltanto la rappresentazione immaginaria del rapporto uomo/realtà, e quindi ciò che attiva gli uomini facendo loro immaginare i fini e le conseguenze dei loro atti, ciò che presuppone l'esistenza degli uomini. L'ideologia è esattamente ciò che costituisce questi uomini, i quali esistono solo in quanto soggetti ideologici. Gli uomini (o « individui concreti ») non esistono fuori delle ideologie, essi sono sempre (ancor prima di nascere) sog
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getti in una determinata rappresentazione del loro rapporto con la realtà: esistono soltanto i « soggetti ». Secondo, l'ideologia non è qualcosa di diverso dagli atti che il soggetto compie come prescritti e codificad dall'ideologia. Solo una concezione ideologica dell'ideologia può separare le idee dagli atti. Se l'ideologia è gli atti, allora si può parlare di « material[...]

[...]a tale che `recluta' soggetti tra gli individui (li recluta tutti), o `trasforma' gli individui in soggetti (li trasforma tutti) con questa operazione molto precisa che noi chiamiamo l'interpellare che possiamo rappresentarci nel modo stesso del piú banale interpellare poliziesco (o no) di ogni giorno: `Ehi, lei laggiú!' » (IAIE, p. 111). Althusser esemplifica il proprio ragionamento mediante l'analisi dell'ideologia religiosa del cristianesimo (ciò vale anche per tutte le altre ideologie: l'ideologia è « eterna » e tutte le ideologie possiedono un'identica « struttura »). Dall'analisi risulta che l'interpellare presuppone l'esistenza di un « Soggetto », « unico e centrale », che si autodefinisce tale (nel caso della religione cristiana è Dio), ed in nome del quale i soggetti sono « interpellati », divengono, cioè, suoi « specchi » e « riflessi »: uno sdoppiamento del Soggetto nei soggetti. Ciò comporta un assoggettamento di questi ultimi, il loro mutuo riconoscimento, e quello tra loro ed il Soggetto. Un assoggettamento di cui Althusser sottolinea il carattere spontaneo e « libero »: « l'individuo è interpellato come soggetto (libero) affinché si sottometta liberamente agli ordini del Soggetto, perché `compia da solo' i gesti e gli atti del suo assoggettamento » (TAIE, p. 119).
Per quanto riguarda la connessione che si può rilevare tra lo sviluppo della riflessione di Althusser sull'ideologia e la « svolta » nella congiuntura politica si deve almeno richiamare l'articolo su « La P[...]

[...]ouvelle Critique », 1966, n. 175, pp. 141146. 28. Sur
te Contrat social », «Cahiers pour l'Analyse », 1966, n. 8, pp. 542. 29. Crémo
nini, peintre de l'abstraction, « Démocratie Nouvelle », 1966, n. 8, pp. 105120 (tr. it. di F. Madonia, in L. CREMONINI, Mostra antologica, 19531969, Bologna, Alfa,
1969). 30. Sur le travail théorique. Difficultés et ressources, «La Pensée »,
1967, n. 132, pp. 322. 31. Prefazione alla 2' ediz. di L.A., La revolucion teo
rica de Marx, Mexico, Siglo xxi, 1968. 32. An die deutschen Leser (1967), in
Für Marx, Frankfurt/M, Suhrkamp, 1968, pp. 715 (corrisponde alla prefazione anche
delle trad. inglese e svedese di Pour Marx). 33. Avertissement (1967), alla 2'
ediz. di Lire le « Capital », Paris, Petit collection Maspero, 1968 (tr. it. in n. 23). 34. Intervista rilasciata a M. A. Maciocchi, « l'Unità », 1° febbraio 1968 (tr. franc. col titolo La philosophie comme arme de la revolution, « La Pensée », 1968,
n. 138). 35. La filosofia la politica e la scienza, « Rinascita », xxv, 1968, 15
marzo, pp. 2324. 36. Lénine et la philosophie, « Bulletin de la Société française
de Philosophie », 1968, n. 4, pp. 125181. Poi, con lo stesso titolo, Paris, Maspero,
1969, 59 pp. (tr. it. n. 49). 37. A magyar olvasöhoz (Al lettore ungherese), in
L.A., Marx az elmélet forradalma, Budapest, Kossuth, 1968, pp. 915 (in S. Karsz, Théorie et politique, Paris, Librairie A. Fayard, 1974, tr. i[...]

[...], 1976, pp. 333339). 38. Comment lire « Le Capital », « L'Humanité »,
21 marzo 1969 (tr. it. in n. 66). 39. Avertissement aux lectures du Livre I du
«Capital », in K. Max,A Le Capital. Livre I, Paris, GarnierFlammarion, 1969, pp.
513 (tr. it. di M. Ciampa e E. Donda, L.A., Introduzione al I libro del Capitale, Parma, Pratiche Editrice, 1977, con una prefazione di M. Ciampa ed in appendice un
saggio di P. Raymond). 40. Lettere a Maria Luisa Maciocchi, in M.L.M., Lettere
dall'interno del P.C.I. a Louis Althusser, Milano, Feltrinelli, 1969, pp. 36, 2326,
5365, 126127, 331361. 41. A propos de l'article de Michel Verret sur « Mai
Etudiant », « La Pensée », 1969, n. 145, pp. 314 (affronta gli stessi temi della lettera
del 15 marzo 1969, in n. 40, pp. 338361).. 42. Idéologie et appareils idéologi
ques d'Etat (Notes pour une recherche), « La Pensée », 1970, n. 151, pp. 338 (tr. it., « Critica Marxista », vin, n. 5, 1970; « Il piccolo Hans », n. 67, 1975; Sull'ideologia,
Bari, Dedalo, 1976). 43. Sur le rapport de Marx à Hegel (1968), in[...]

[...] a. Glan, 1970, pp. 4558 (tr. it. in n. 49). 45.
Lettera al traduttore del 19. Gennaio 1970, in L. A./E. BALIBAR, Reading Capital,
LOUIS ALTHUSSER 441
London, New Left Book, 1970, pp. 323324. 46. Foreword (1970), in L.A.,
Lenin and Philosophy and other Essays, London, New Left Book, 1971, pp. 79 (tr. it.
in S. Karsz, op. cit., pp. 344347). 47. Lettera al traduttore (di Freud et Lacan)
del 21 febbraio 1969, in n. 46, pp. 177178. 48. Presentación (1971) alla nuova
edizione di MARTA HARNECKER, Los conceptos elementales del materialismo histórico,
Mexico, Siglo xxl, 19794°, pp. xixvi (tr. it. in S. Karsz, pp. 348354). 49. Lénine
et la philosophie suivi de Marx et Lénine devant Hegel, Paris, Maspero, 1972, 91 pp. Raccoglie i nn. 36, 44, 43 (tr. it. di F. Madonia, L.A., Lenin e la filosofia. Seguito da: Sul rapporto fra Marx e Hegel. Lenin di fronte a Hegel, Milano, Jaca Book,
1972). 50. Sur une erreur politique. Les maîtres auxiliaires, les étudiants tra
vailleurs et l'aggrégation de philosophie, « France Nouvelle », 1972, nn. 1393[...]

[...]MINIQUE LECOURT, Lyssenko. Histoire réelle d'une « science prolétarienne », Paris, Maspero, 1976, pp. 79 (tr. it. di F. Grillenzoni, D.L., Il caso
Lyssenko, Roma, Editori Riuniti, 1977). 66. Positions (19641975), Paris, Édi
tions Sociales, 1976, 173 pp. Comprende, oltre ad una Nota editoriale, i rm. 19, 34, 38, 48, 42, 63 (tr. it. L.A., Freud e Lacan, Roma, Editori Riuniti, 1977, a cura e
con Introduzione di Claudia Mancina) 67. La tran f ormación de la filosofia,
Granada, Propuesta, 1976, 46 pp. Conferenza tenuta alla Facoltà di Filosofia e Let
tere dell'Università di Granada il 26 marzo 1976. 68. Über Marx und Freud
(1976), in L.A., Ideologie und ideologische Staatsapparate, WestBerlin, VSA, 1977,
pp. 89107 (tr. it. in n. 75). 69. Anmerkung über die ideologischen Staats
apparate (1976), in L.A., Ideologie und ideologische Staatsapparate, cit., pp. 154
168. 70. 22ème congrès, Paris, Maspero, 1977, 71 pp. Conferenza tenuta alla
Sorbona il 16 dicembre 1976 su invito del « Cercle de philosophie de l'Union des
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[...]

[...]5; PROJEKT KLASSENANALYSE, L. Althusser, Marxistische Kritik am Stalinismus?, West Berlin, 1975; A. CALLINICOS, Althusser's marxism, London, 1976; P. FOUGEYROLLAS, Contre LévyStrauss, Lacan et Althusser. Trois essais sur l'obscurantisme contemporain, Paris, 1976; AA.VV., Discutere lo Stato, Bari, 1978; E. MANDEL, Réponse à L. Althusser et J. Elleinstein, Paris, 1979; COTTEN, La pensée d'Althusser, Paris, 1979; A. SÁNCHEZ VAZQUEZ, Ciencia y revolución, Mexico, 1979.


precedenti successivi
Grazie ad un complesso algoritmo ideato in anni di riflessione epistemologica, scientifica e tecnica, dal termine Ciò, nel sottoinsieme prescelto del corpus autorizzato è possible visualizzare il seguente gramma di relazioni strutturali (ma in ciroscrivibili corpora storicamente determinati: non ce ne voglia l'autore dell'edizione critica del CLG di Saussure se azzardiamo per lo strumento un orizzonte ad uso semantico verso uno storicismo μετ´ἐπιστήμης...). I termini sono ordinati secondo somma della distanza con il termine prescelto e secondo peculiarità del termine, diagnosticando una basilare mappa delle associazioni di idee (associazione di ciò che l'algoritmo isola come segmenti - fissi se frequenti - di sintagmi stimabili come nomi) di una data cultura (in questa sede intesa riduttivamente come corpus di testi storicamente determinabili); nei prossimi mesi saranno sviluppati strumenti di comparazione booleana di insiemi di corpora circoscrivibili; applicazioni sul complessivo linguaggio storico naturale saranno altresì possibili.
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