Brano: [...] « filologismo », eppure, quando si dedicava a lavori filologici, seguace proprio di una filologia « arida », senza ricerca di connessioni con la storia politicoculturale e la critica letteraria. Giustamente il La Penna ritiene (p. 93 s.) che queste ed altre contraddizioni, se devono essere francamente messe in rilievo e criticate, non per questo inducano a un giudizio svalutativo su Marchesi:
Ci sono personalità coerenti, in cui la coerenza è facilitata dalla povertà spirituale; ce ne sono altre ricche e incoerenti, in cui l'incoerenza è aggravata dalla ricchezza stessa: Marchesi è tra queste ultime [...] Sarebbe strano che noi dovessimo ricorrere a forzature unitarie proprio nell'interpretare Marchesi, che fu cosí attento alle inquietudini, alle incoerenze, alle contraddizioni dell'animo umano. Neppure nel giudizio morale, per es. a proposito dei giuramenti prestati alla monarchia e poi al regime fascista o della sua permanenza nel rettorato dell'Università di Padova sotto la repubblica fascista, è lodevole ricorrere a for
* A. LA PE[...]
[...] Ezio Franceschini per la memoria del maestro è cosí caldo . e puro da rendere degne di rispetto certe evidenti forzature); dall'altro una convinzione che, al di là di aspetti caduchi, il personaggio preso in esame ci abbia lasciato insegnamenti importanti, abbia arricchito la nostra cultura e la nostra umanità.
A prima vista, chi conosca Antonio La Penna considererà forse piú ovvio e comprensibile il distacco nei riguardi di Marchesi che la capacità di adesione e di valutazione positiva. Gran parte dell'opera di La Penna come studioso della poesia, della cultura, della società antica nasce da una sintesi (sintesi creativa e originale, non eclettismo né giustapposizione) tra la filologia di Wilamowitz, Leo, Norden, Pasquali, mirante a riimmergere l'opera letteraria nell'ambiente e nella tradizione culturale da cui trasse impulso e alimento, di intendere storicamente, non come pure « illuminazioni » prive di antecedenti, anche i valori stilistici, formali della poesia, e l'esigenza marxista di collegare i fatti letterarioculturali e ideo[...]
[...]o avrei accostato affatto. Intendiamoci: La Penna sa bene che c'è tutto un aspetto della critica desanctisiana (« il bisogno di stringere la storia della letteratura con la storia civile », p. 96) al quale Marchesi è sordo, e che vedere nell'arte un puro fatto soggettivo, extrastorico, significherebbe « rinnegare De Sanctis » (p. 95). E tuttavia « l'aspetto piú affascinante di Francesco De Sanctis » (p. 96) è da lui considerato « il gusto, la capacità di Ein f ühlung, l'arte mirabile con cui trascina l'ascoltatore nell'alone della sua Ein f ühlung » (p. 120, nel saggio aggiunto dedicato a Tommaso Fiore). « Il potere magico » che gli allievi napoletani attribuivano a De Sanctis, diviene, cosí, simile alla capacità di Marchesi di esprimere « le sue reazioni o, molto piú spesso, i suoi abbandoni di fronte all'autore con cui entra in contatto », di
« trascinare il lettore in un clima nuovo e inatteso » (p. 89).
A me questa analogia sembra in gran parte fallace. Approfondire la questione implicherebbe una discussione sul De Sanctis, che qui può essere tutt'al piú appena accennata. Ein f ühlung è un concetto pericoloso: difficilmente riesco a concepire una « immedesimazione » che non sia in qualche misura inficiata da misticismo o da una sorta di forza di suggestione, che menoma la lucidità del giudizio[...]
[...]orretto, aiutato, confortato »; nessuno ci ha dato il rimedio per « evitare l'insonnia, la miseria, la follia »
IL « MARCHESI» DI ANTONIO LA PENNA 639
(SM, ii, p. 669 s., in uno scritto del 1910: il passo, non breve, è tutto da leggere, e con ragione il La Penna, p. 35 s., ne sottolinea la centralità per capire Marchesi). Al pari della filosofia, la scienza « non potrà mai svelare l'arcano della vita » (Il poema di Lucrezio, Torino, « Quaderni ACI », [1950], p. 16). L'opera di Tacito « non teme fallimento: perché le idee cadono, solo il dubbio rimane » (Tacito, Messina 1924, p. 252; un po' diverso nell'espressione, ma non nel contenuto, in Tacitoz, 1942, p. 186); e nello stesso Tacito parlerà di « quella superstizione o finzione chiamata volgarmente la verità » (p. 295, cit. anche da La Penna, p. 68). Le citazioni — anche da scritti di varia letteratura e meditazione — si potrebbero moltiplicare.
Ciò che non possono dare filosofia e scienza, può darlo, anche se non interamente, l'arte. A volte (vedi l'accenno, forse troppo fugace, di La Penna, p. 36) sembra che l'arte, per Marchesi, sia dotata di quel potere gnoseologico, unificatore e inveratore di un'esperienza altrimenti caotica e contraddittoria, che una secolare tradizione attribuisce appunto alla filosofia (o alla[...]
[...]o e la verità storica (in Voci di antichi, pp. 119121). Per via d'indagine razionale, dice Marchesi, la storia si frantuma in tante visioni, tutte vere e tutte false; c'è una sola « forza unificatrice: è quella dell'arte: sola infrangibile verità ». Lo storicoartista dischiuderebbe il segreto di una personalità del passato anche attraverso la narrazione di episodi in tutto o in parte inventati; di fronte a un racconto liviano di particolare efficacia rappresentativa, Marchesi esclama: « A chi mai — se non a un infelice pedante — può venire in mente di chiedere se l'episodio sia nei suoi particolari abbastanza documentato? ». Si potrebbe obiettare che Marchesi stesso talvolta non crede ai suoi prediletti storiciartisti: rivaluta Catilina contro Sallustio, Tiberio contro Tacito (cfr. La Penna, pp. 9 s., 68 s., che giustamente mette in rilievo il notevole valore di queste rivalutazioni). Qui la passione politica « di sinistra » nel primo caso, una consonanza autobiografica con la tristezza di Tiberio nel secondo, hanno portato Marchesi a dissentire; ma a dissentire, se ben si guarda, mettendosi egli stesso in gara, come storicoartista e storicopsicologo, con Sallustio e con Tacito. E con ragione osserva La Penna (p. 69) a proposito del dissenso su Tiberio: « Neppure si può parlare di un'opposizione del critico al proprio autore; giacché Tacito ha ricevuto il personaggio di Tiberio dalla tradizione aristocratica, ma è stato lui a crearne l'anima; e nel crearne l'anima (possiamo aggiungere ricorrendo al concetto che il critico formulerà per Livio e Sallustio) ci dà attraverso l'arte la verità ». Nel Tacitoz (p. 243)
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Marchesi distingue tra il giudizio dello storico sui propri personaggi, che può essere falso, e la rappresentazione che egli ne dà « nel momento vivo dell'azione »: qui la verità si rivela, anche contro le intenzioni dell'autore.
Ma piú che alla storia politica e sociale (che, con insanabile contraddizione rispetto al suo socialismo, rappresenta per Marchesi sempre qualcosa di effimero e di angusto) l'arte dà il suggello della verità alla « natura umana », che è formata da individui, ciascuno diverso dall'altro, ma accomunati proprio dalla loro solitudi[...]
[...] già citata sul Poema di Lucrezio (p. 15 s.) diceva: « Sapienza e fede sono due luci di varia intensità: non sono due soluzioni. E il dolore dell'uomo resta immoto, se anche è rischiarato: se anche una favolosa felicità nella culla del sapiente o del santo faccia brillare le sue luci lontane ». C'è qui l'accenno vago ad una speranza, ma l'esclusione di ogni certezza; e la speranza è cosí debole da lasciare « immoto » il dolore umano (vedi anche Tacito', p. 186). Piú in là di questo punto, per quel che si può sapere, Marchesi non si spinse mai; certo, chi, pur conscio ed esperto dell'infelicità umana, intenda mantener fermo il coraggio della verità di un Leopardi (un poeta e pensatore che Marchesi cita qualche volta, ma con cui non dové consentire mai pienamente), troverà che Marchesi si era spinto già troppo oltre.
D'altra parte (e su questo si è forse sorvolato troppo) il « bisogno di Dio » era in Marchesi contrastato da una persuasione, a tratti riaffiorante, che proprio il dubbio e l'angoscia fossero il prezzo necessario della nobilt[...]
[...]so (xII, 1957, pp. 207209: il Russo metteva bene in luce il fondo pessimistico e precristiano, da « fato greco », della religiosità siciliana di Marchesi), di M. VALGIMIGLI (ivi, p. 722 s.) e di A. CAsSARÀ (xIII, 1958, pp. 220222). Nel postumo Diario di una donna di SIBILLA ALERAMO, cosí irrimediabilmente e pietosamente egocentrico (Milano, Feltrinelli, 1978), le pagine su Marchesi (per es. 199, 309, 321, 428) sono tra le poche che dimostrano capacità di comprendere il dolore, la solitudine, l'ansia di un a 1 t r o .
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Seneca (in SM, ir, p. 719 ss.): qui, in modo ancor piú esplicito, dichiarava « immenso » il fascino della dottrina epicurea sulla morte, « la virtú consolatrice dell'annullamento mortale »; e mostrava, citando l'epistola 54 a Lucilio, come neanche negli ultimi anni Seneca fosse diventato un fermo credente nell'immortalità. E non a caso l'autore cristiano da lui piú amato (cfr. Voci di antichi, p. 159 ss.) è Arnobio, un retore pessimista e materialista, piú lucreziano che cristiano, negatore dell'im[...]
[...] romana ».
È questa « antiromanità » che ha permesso a Marchesi di sentire e valutare con simpatia profonda e acuta intelligenza la letteratura postaugustea. Non per nulla, prima della Storia, gli autori sui quali scrisse i profili e i saggi piú penetranti sono alcuni dei maggiori postaugustei, in cui i valori patriottici sono ormai dissolti. Il La Penna mette bene in rilievo come anche uno scrittore fortemente legato ai valori della romanità, Tacito, sia ammirato da Marchesi per ragioni che puntano sull'homo e non sul civis: l'aristocratico disprezzo per il volgo, ma soprattutto il pessimismo storico e morale (cap. x); e come anche in Giovenale il critico sia affascinato, piú che dal rimpianto moralistico per i valori dell'età repubblicana, dalla capacità d'indagare, con indignata ma lucida amarezza, aspetti torbidi della psicologia umana che appartengono ad « ogni tempo » (p. 35). E anche Seneca, l'autore prediletto da Marchesi, è da lui, forse troppo, umanamente compreso per le sue incoerenze e debolezze politiche ed è poi esaltato per la sua tormentata interiorità morale da un lato, per il suo « cosmopolitismo » dall'altro: due fermenti entrambi dissolutori del nazionalismo romano.
Per quante riserve si debbano fare sul concetto marchesiano di « umanità eterna », è indubbio che la contrapposizione homocivis ha dato al critico una chiave [...]
[...]iii, 1978, p. 1225 s.
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chiunque altro da Scevola Mariotti, con l'alessandrinismo: cfr. « Belfagor » xx, 1965, p. 34 ss.) da un senso di crisi, di pessimismo, di saggezza dolorosamente conquistata, di rimpianto per una Roma primitiva ormai non piú resuscitabile. Io, nei capoversi precedenti, ho in parte citato passi di Marchesi diversi da quelli citati da La Penna, non per futile sfoggio, ma solo per far vedere come sia facile trovare sempre nuove espressioni di questo motivo che percorre tutta la meditazione di Marchesi sulla letteratura latina, dagli anni giovanili alla vecchiezza: aver dato a questo motivo il rilievo che gli compete è, ripeto, uno dei maggiori meriti del saggio di La Penna.
Certo, un'unica chiave, per quanto preziosa, non serve mai ad aprire tutte le porte. Anche a prescindere dalla letteratura arcaica, resta preclusa a Marchesi, nell'insieme, una personalità come quella di Cicerone (i motivi dell'anticiceronianismo di Marchesi si comprendono agevolmente, ma l'incomprensione, grave, rimane). [...]
[...]di restrizioni su Lucano 5.
Anche le predilezioni di Marchesi sono talvolta pericolose, giacché egli riversa nell'interpretazione degli autori da lui piú amati una carica di autobiografismo che da un lato è preziosa per penetrarne la psicologia e l'arte, d'altro lato è spesso troppo immediata, troppo tendente all'identificazione. Si veda il caso di Marziale: indubbiamente Marchesi ha « ritagliato » un Marziale melanconico, gustatore di amori fugaci e conscio della loro fugacità, osservatore disincantato di una società caotica, precocemente invecchiato e desideroso di pace nella sua città natale; e su tutto ciò ci ha dato, a piú riprese, pagine fra le sue piú felici. Ma non ci ha detto una parola su quanto di pettegolo, di futile, di moralisticamente frusto c'è nei troppi epigrammi di Marziale (di difendere Marziale dall'accusa tradizionale di immoralità Marchesi ha tutte le ragioni; ma anche l'irrisione dell'oscenità è una forma fastidiosa di moralismo; il giudizio di Paratore su Marziale sarà troppo duro, ma ha la sua parte di verità). E d'altra parte non ci ha d[...]
[...]o su Lucano è oscillante e scialbo.
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prima edizione (Messina, Principato, 1920) tale è l'identificazione del critico col suo autore, che la parte sulle opere viene ad essere costituita in misura preponderante da lunghissimi brani tradotti, quasiché non vi fosse pressoché nulla da aggiungere a ciò che Seneca disse (questa caratteristica si attenua nella seconda edizione, che reca il segno di un faticoso rifacimento, anche se il giudizio complessivo su Seneca non muta).
Quanto a Tacito, il La Penna ha, come si è visto, indicato le ragioni per cui questo patriota, imperialista, conservatore in politica interna ha tuttavia profondamente interessato Marchesi. Oserei dire che, per alcuni aspetti (soprattutto per l'acutezza di certi giudizi politici, cfr. La Penna, p. 65 s.), il Tacito è superiore al Seneca proprio perché l'identificazione fra il critico e il suo autore è meno immediata. Forse, però, Marchesi ha visto troppo poco in Tacito la coscienza (ad un livello piú profondo del livello « patriottico ») dell'iniquità dell'imperialismo romano e del suo avviarsi alla decadenza,, nonostante l'età « aurea » di Nerva e di Traiano. Egli accenna — ed è vero — che Tacito narra senza un moto di pietà i massacri di barbari compiuti dai soldati romani; soltanto tardi, negli Annali, si farebbe strada talvolta un moto di « ammirazione e di riverenza a quei barbari eroici » (p. 165, 2a ed. p. 158); ma anche qui — nei discorsi di Arminio, Ann. II 15, e di Carataco, xii 34, e nel giudizio conclusivo su Arminio, II 88 — Marchesi vede soltanto, da parte di Tacito, una ricerca artistica di drammatizzazione: « in questi rilievi personali l'artista opera assai piú che lo storico » (p. 170 s. = 1642). E il discorso di Calcago nell'Agricola, dove il motivo antiromano è sviluppato ben piú ampiamente e ben piú a fondo che in quei pur efficaci passi degli Annali? Marchesi (p. 213) vi trova soltanto lo svolgimento di un cliché: sarebbe uno dei soliti discorsi che ogni storico romano mette in bocca all'uno e all'altro capo dei due eserciti avversi prima della battaglia. Ma nelle parole che Tacito fa pronunziare a Calcago (Agr. 30): Auferre trucidare rapere falsis nominibus imperium, atque ubi solitudinem faciunt, pacem appellant c'è (come in tutto il resto di quel discorso) una tale carica di demistificazione dell'impero e della pax Romana che non può non derivare dalla coscienza profonda di Tacito stesso: pare incredibile che Marchesi non se ne sia accorto. E il dire che nella Germania Tacito « lanciava un grido di allarme che era altresí grido di guerra ad oltranza » (p. 163 = 1682) non è falso, ma è parziale. Nella Germania non c'è, sicuramente, amore per i Germani, ma c'è l'angosciosa consapevolezza che la « corruzione » porterà l'impero romano alla decadenza e alla rovina, e che la salvezza può ormai venire piú dalle discordie intestine dei barbari che dalla forza militare romana (Germ. 33). In questa « cruda compiacenza » (Tac.2, p. 132) c'è molta angoscia pessimistica: meglio che nel Tacito, Marchesi la vide o intravide nelle ultime edizioni della Storia. Urgentibus imperi[...]
[...]erra ad oltranza » (p. 163 = 1682) non è falso, ma è parziale. Nella Germania non c'è, sicuramente, amore per i Germani, ma c'è l'angosciosa consapevolezza che la « corruzione » porterà l'impero romano alla decadenza e alla rovina, e che la salvezza può ormai venire piú dalle discordie intestine dei barbari che dalla forza militare romana (Germ. 33). In questa « cruda compiacenza » (Tac.2, p. 132) c'è molta angoscia pessimistica: meglio che nel Tacito, Marchesi la vide o intravide nelle ultime edizioni della Storia. Urgentibus imperii fatis (Germ., ivi) non sono parole di un imperialista fiducioso; e d'altra parte le considerazioni ben note sulla sanità morale dei Germani in contrapposto all'immoralità romana divenuta ormai consuetudine rivelano ben altro che puri intenti artistici o retorici.
5. L'individuo e la cosmopoli. — Ancora qualche riflessione ci suggerisce il contrasto homocivis. Che l'arte diventi angusta quando si prefigge scopi « civili » anziché « umani » non è certamente, secondo Marchesi, un principio valevole per la sol[...]
[...]la tesi classicistaumanistica, secondo la quale l'arte classica è l'unica che può essere gustata solo nella lingua originale e non in traduzioni, laddove in Shakespeare o in Tolstoj « la grandiosità e la ricchezza della scena e l'immensa forza suggestiva della rivelazione umana s'impongono su ogni vizio di forma » (Umanesimo e comunismo, p. 397). Ma, a parte quell'accenno stranamente sprezzante a « ogni vizio di forma » in autori grandissimi, è facile obiettare che la maggiore o minore traducibilità delle opere artistiche si misura caso per caso, e anche a seconda del genere letterario, non già con una contrapposizione globale antichimoderni. Sarebbe arduo sostenere che, traducendo in lingua diversa dall'originale Shelley o Leopardi o Verlaine,
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Ma come si era formata questa cosmopoli romana che « costituiva veramente non uno Stato, ma una civiltà » (Storia lett. lat., if, p. 468)? Non con mezzi pacifici, ma con una delle piú lunghe e feroci serie di conquiste militari, e con uno dei piú esosi sfruttamenti dei c[...]
[...]nore traducibilità delle opere artistiche si misura caso per caso, e anche a seconda del genere letterario, non già con una contrapposizione globale antichimoderni. Sarebbe arduo sostenere che, traducendo in lingua diversa dall'originale Shelley o Leopardi o Verlaine,
648 SEBASTIANO TIMPANARO
Ma come si era formata questa cosmopoli romana che « costituiva veramente non uno Stato, ma una civiltà » (Storia lett. lat., if, p. 468)? Non con mezzi pacifici, ma con una delle piú lunghe e feroci serie di conquiste militari, e con uno dei piú esosi sfruttamenti dei conquistati, che la storia ricordi. Per far sorgere l'homo, c'era voluto il civis: un civis molto piú ricco di disciplina e di virtú militari che di spirito democratico (troppo presto soffocato dopo i parziali successi dei primi secoli della Repubblica): un civis che proprio in conseguenza delle grandi conquiste mediterranee aveva sempre piú perduto i propri diritti economicosociali e politici, cosicché non si era nemmeno avuta, specie dalla guerra annibalica in poi, quella coesiste[...]
[...]lsero correnti, sia pur diverse, di reazione antipositivistica, di spiritualismo, anche di aperto irrazionalismo. Qual è, in questo ambiente, la sua collocazione? Il problema (sul quale La Penna ed io abbiamo avuto scambi d'idee quando il suo saggio era già tutto scritto, ma prima che fosse pubblicato, come egli stesso accenna, con amichevoli parole, nell'Avvertenza iniziale, p. 2) è affrontato brevemente a p. 56 s., prescindendo da altri piú fugaci accenni nel corso del saggio. Sembra dapprima che Marchesi sia visto da La Penna, prevalentemente, come un idealista, non privo di influssi crociani e gentiliani. « Con alcuni residui positivistici conviveva una larga, sostanziale, importante influenza del neoidealismo contemporaneo. » Il materialismo a cui Marchesi diceva di aderire non era insincero né frutto di un semplice equivoco, ma, specialmente negli anni della maturità,
piuttosto velleitario e superficiale [ ...1. Era idealistica la sua sfiducia nella scienza, idealistica la sua rivalutazione quasi misticheggiante dell'individuo com[...]
[...]tro si ammetteva una zona di « mistero » inaccessibile alla conoscenza e si assumeva dinanzi a tale zona una posizione agnostica che non escludeva la fede religiosa. Sappiamo tutti che Herbert Spencer, uno dei fondatori del positivismo, al di là di un universo concepito materialisticamente ed evoluzionisticamente postulava il famoso « Inconoscibile » e non negava la religione, e che Emil Du BoysReymond, fautore di un meccanicismo addirittura laplaciano, riconosceva poi l'esistenza dei « sette enigmi del mondo », di fronte ai quali la scienza doveva dire non soltanto ignoramus, ma ignorabimus.
In un settore del tardo positivismo (un settore rappresentato, almeno in Italia, piú da letterati e studiosi di discipline umanistiche che da scien
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ziati della natura) questa concezione dualistica, che in quanto tale, come si è visto, compare già nel primo positivismo, assume una carica di « sgomento cosmico » e di ansia per il destino effimero dell'uomo. Due poeti e studiosi pur molto diversi l'uno dall'altro, P[...]
[...] ciò non fu un danno: a volte la debo
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lezza filosofica, che in sé è certo un limite, salva dai cavilli e dalle mistificazioni della filosofia). Il « presente del passato » e il « presente del futuro » sono per Marchesi l'eterno ripetersi della vicenda umana, costituita di infelicità e, per la maggior parte degli uomini, di meschinità ed egoismo, di sopraffazioni compiute
e di sopraffazioni sofferte. Nel Tacito (2a ed., p. 244), dopo una delle tante allusioni a quel passo di Agostino, aggiungeva a commento: « In verità la storia è il continuo e sempre rinnovato spettacolo del bene che non cessa di lottare e di soccombere e del male che non cessa di lottare e di prevalere » 9.
Nemmeno accosterei Marchesi — come, sia pure cautamente, fa il La Penna, p. 56, cfr. 36 — a un irrazionalismo vitalistico di tipo nietzschiano
o bergsoniano. Le ragioni le ho in parte già dette; aggiungerei che una cosa è la valutazione del « sapore immediato della vita » espresso dall'arte, quale Marchesi ritrovava nei suo[...]
[...] ricava dai documenti a nostra disposizione (io ho soltanto dei dubbi su un presunto legame tra il socialismo di Marchesi e l'esaltazione, che in lui riaffiorò poi sempre, del libero amore e il suo senso di fastidio per l'amore coniugale: il libero amore come lo concepisce Marchesi è troppo collegato al disprezzo per la donna, vagheggiata solo come oggetto di fugace piacere, come etèra: una Anna Kuliscioff, una Anna Maria Mozzoni non sarebbero piaciute affatto a Marchesi) .
Con l'umanitarismo e con un pessimismo di fondo coesisteva, in molti di codesti intellettuali, una convinzione nella « fatalità » dell'avvento al potere del proletariato. Questa convinzione era, com'è noto, tipica del marxismo della Seconda Internazionale (e del resto non era stata affatto estranea, seppure in forma meno schematica, agli stessi Marx ed Engels; e il volontarismo dei marxisti occidentali novecenteschi produsse poi, e tuttora produce, aberrazioni ben peggiori). Ma in chi si sentiva legato tuttora, per molti aspetti di cultura e di « umanità », alla civi[...]
[...]ta in quel periodo (C. Marchesi, Interventi al Consiglio comunale di Pisa, Pisa, Amministrazione provinciale, 1978).
_ Eppure, in quell'articolo Marchesi separa nel modo piú crudo l'idea dell'ineluttabilità del socialismo (una ineluttabilità che tuttavia non esclude un periodo ancora non breve, e altrettanto necessario, di dominio dei borghesi, « portentosi dominatori di due epoche e fattori straordinari di due civiltà », p. 561) dalla sua efficacia benefica. Anzi, l'avvento del socialismo è preveduto chiaramente, almeno nella sua prima fase, come un disastro: « Si può essere socialisti per sincerità di dottrina economica e per buona notizia di procedimenti sociali; cosí come il geologo può prevedere una eruzione e il fisico una tempesta: senza che affermi perciò il beneficio o la bellezza del fenomeno naturale che si compirà » (p. 558). Di fronte a questo nuovo ordine sociale, in cui « chi piú lavora si affermerà su chi meglio lavora » (ibid.: cioè il bruto e inintelligente lavoro manuale avrà il sopravvento sul meno faticoso ma piú « [...]
[...]uo discorso, lui nemico della scienza, una nota scientistica e laicistica: « Oggi molti uomini di studio volgono l'occhio lassú, in alto, in cielo, solo per indagare e conoscere le leggi della enorme vita planetaria, non già per offrire all'uomo affaticato il premio dell'oltretomba... ». Nella controreplica con cui la polemica si chiuse (« Giornale d'Italia », 1 agosto 1908 = Ricordi storici cit., p. 552 ss.) il D'Ancona ebbe, ancora una volta, facile vittoria, senza nemmeno incalzare troppo il Marchesi. E quanto alla questione di Dio, ribatté: « E sia: ma il mistero della vita, della vita umana ed universale, rimarrà sempre impenetrabile, per quanto si centuplichi il patrimonio del sapere ». Era un'asserzione tipicamente marchesiana, che il Marchesi si vedeva ritorcere contro! Ma certo sarebbe interessante (benché non
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facile) studiare il Marchesi socialista dagli inizi del nostro secolo fino alla fondazione del Partito comunista; è questo il periodo del Marchesi politico su cui meno sappiamo.
8. Il critico testuale. — Un ultimo punto sul quale, sempre seguendo e postillando il libro di La Penna, vorremmo dire qualcosa è l'attività di Marchesi come filologo classico, e più precisamente come critico testuale. Il La Penna (cap. III) valuta, in complesso, severamente le edizioni critiche o semicritiche (chiamo cosi i commenti scolastici muniti di piú o meno sporadici contributi criticotestuali: un genere ibrido, m[...]
[...]omplessivo del Marchesi sul Riccardiano rimane quello che abbiamo detto (l'unica ingenuità metodica consiste nell'affermare che il Ricc. conferma « molte lezioni di E, che con quella arida testimonianza di un sol codice ci lascerebbero assai perplessi », dopo aver detto a tutte lettere che il copista del Ricc. è « un collazionatore », « un redattore » che accorda E con A, e quindi non accresce per nulla la fides documentaria di E; ma qui il compiacimento della bella frase, unito a non sufficiente sicurezza di metodo, ha tradito il Marchesi). E le collazioni di questo e di altri codici fiorentini, se non servono a restituire tradizione genuina, servono, come in parte si è visto, a « retrodatare » congetture attribuite a filologi posteriori; da questo punto di vista, è stato un torto degli editori piú recenti non averne tenuto conto.
Se, poi, diamo uno sguardo all'« Indice dei luoghi in cui la presente edizione differisce dalle edizioni del Lea e del Richter » (p. 125 s.), e prendiamo a confronto l'edizione piú recente e migliore di cui p[...]
[...]»; aggiunge che « l'editore avanza anche congetture nuove, in parte felici » (p. 29).
Quali le spinte che possono aver contribuito a questa cosí notevole e quasi sorprendente maturazione? (Sorprendente anche se si pensa che quando compí la prima edizione di Arnobio, 1934, Marchesi aveva già cinquantasei anni, un'età in cui l'acume filologico, se non si è già rivelato, difficilmente fa la sua comparsa; e nella seconda edizione del 1953, a settantacinque anni e nel pieno di un'attività intensa di tutt'altro genere, fu ancora capace di arrecare al suo lavoro numerosi miglioramenti). Una delle ragioni, suppone il La Penna, può essere ravvisata nell'influsso di un critico testuale anticonservatore, amico di Marchesi e direttore del « Corpus Paravianum » in cui l'edizione del Marchesi apparve: Luigi Castiglioni. Le congetture che il Castiglioni comunicò privatamente al Marchesi, e che questi menzionò nell'apparato critico, non erano, dice il La Penna, « molto felici »: ma la tendenza anticonservatrice dell'amico « può aver contribuito a salva[...]
[...]n critico testuale conservatore, che molto imparò dal Vahlen e dal Wölfin e formò in Svezia una scuola di alto livello. C'è stato, nell'Ottocento e in buona parte del Novecento, un conservatorismo criticotestuale « all'italiana », che in gran parte era rinuncia a interpretare il testo, tendenza a giustificare tutto in ossequio alla « tradizione », rivendicazione grottescamente patriottica di una sorta di « buon senso italico » contro le folli audacie dei filologi tedeschi. Di questo tipo era stato il conservatorismo di Marchesi nelle edizioni anteriori a quella di Arnobio (il che non esclude, come si è visto, che in parecchi casi, a proposito del Tieste di Seneca, egli avesse ragione): sia pure con minore virulenza di un Romagnoli, aveva anch'egli accolto la connotazione patriottica del proprio indirizzo criticotestuale: nell'introduzione al Tieste il Leo e il Richter sono chiamati, in contesti polemici, « gli studiosi tedeschi », « gli editori tedeschi » (pp. 29, 38), e di « pernicioso influsso germanico », di « metodiche aberrazioni de[...]
[...] lotta contro le congetture normalizzatrici, classicistiche, ciceronianizzanti: lotta che in parte (e senza dubbio con qualche esagerazione) investiva i testi classici stessi, lo stesso Cicerone, meno ligio ad un uniforme ciceronianismo di quanto fosse apparso fin allora. E la scuola svedese aveva avuto come s'è accennato, i suoi precursori in Germania (oltre a precursori italiani piú remoti e rimasti isolati, come Giacomo Leopardi)
e aveva seguaci e alleati, di nuovo, nella Germania del Novecento. Ora, l'edizione di Arnobio non è soltanto una continuazione piú cauta
e bibliograficamente piú aggiornata del vecchio conservatorismo « all'italiana » del Marchesi giovane: è una svolta e un'adesione a questo nuovo conservatorismo, particolarmente necessario per un autore come Arnobio, cosí pieno non solo di volgarismi e arcaismi, ma di espressioni personali, di hapax, quasi tutti disconosciuti dal mediocrissimo editore anteriore al
IL « MARCHESI» DI ANTONIO LA PENNA 667
Marchesi, August Reifferscheid. Per la prima volta nella sua vita Mar[...]
[...]ndipendenza di giudizio del Marchesi è dimostrata anche da p. 171, 9, dove accetta, molto probabilmente con ragione, una congettura del Dousa, là dove il Löfstedt aveva mantenuto la lezione tramandata; vedi anche a p. 33, 4 l'ottima interpunzione dopo capere, che restituisce il senso della frase). Se lo Hagendahl in « Gnomon » 1940, p. 24, pur movendo al Marchesi alcune obiezioni giuste, dette della prima edizione un giudizio ispirato a meschina acidità, Löfstedt, scrivendo a Castiglioni, definí prächtig l'edizione stessa (Franceschini, op. cita, p. 20, cfr. p. 270). Ora è imminente la nuova edizione commentata di Arnobio a cura di Henri Le Bonniec, che occuperà parecchi volumi della collana delle « Belles Lettres ». A giudicare da alcuni articoli preparatori, in alcuni punti il Le Bonniec sarà ancor piú conservatore di Marchesi; credo anch'io che, mentre in qualche punto bisognerà emendare dove Marchesi ha conservato, in qualche altro dovrà avvenire il contrario; e molti resteranno i punti dubbi, nei quali, come dice La Penna (p. 101), [...]