Brano: CHE COSA E' STATO «IL POLITECNICO»
(194519471
Erano i primi d'agosto del '45, stava per sparire Hiroshima, e, da noi, il governo Parri resisteva ancora. Lavoravo ad un nuovo « indipendente di sinistra », che Vittorini diresse per due o tre giorni. I linotipisti del Corriere guardavano con simpatia e commiserazione quei giornalisti improvvisati, che eravamo noi, prendersi confidenza con piombi e banconi. Allora Vinorini era ardente e alato, parlava per ellissi; leggevamo « Uomini e No », stam
pato su una grigia carta di guerra; e quella Nota scomparsa dalle più
recenti edizioni ch'era tanto chiara, per chi avesse saputo leggervi: « Cer
care in arte il progresso dell'umanità è tutt'altro che lottare per tale progresso sul terreno politico e sociale. In arte non conta la volontà, non conta la coscienza ast[...]
[...]o dell'umanità è tutt'altro che lottare per tale progresso sul terreno politico e sociale. In arte non conta la volontà, non conta la coscienza astratta, non contano le persuasioni razionali... La mia appartenenza al Partito Comunista indica dunque quello che voglio essere mentre il mio libro pub indicare soltanto quello che in effetti io sono ». Era già una difesa, una recinzione di territori. Restava la parola « progresso ». Di qui, in realtà, Vittorini non s'è mosso: troppo forte in lui il sentimento del «progresso» tecnico nella letteratura, della avanguardia degli scrittori e delle sue proprie invenzioni e ricerche; e, a un tempo, troppo forte l'antipatia per le intenzioni e la volontà. Voler essere un comunista significa: « non lo sono». La « debolezza d'uomo », cui la Nota attribuiva tutti i demeriti del libro, doveva ben presto diventare la cittadella da difendere contro la coscienza astratta, le persuasioni razionali. Ma, per me, allora, quelle distinzioni parevano molto più ovvie di quanto non siano oggi. Non sapevo quasi nulla del m[...]
[...] Ma, per me, allora, quelle distinzioni parevano molto più ovvie di quanto non siano oggi. Non sapevo quasi nulla del mondo milanese, dei rapporti esistenti fra la gente che volteggiava intorno alla stampa e alle riviste di allora. Cercavo avidamente di sapere e di capire più che potevo di quel ch'era stata, a Milano, la Resistenza; e intanto facevo fatica a distinguere facce e idee. In quell'estate andavo ricopiando certe mie poesie. Le detti a Vittorini e lui in cambia mi fece leggere dei fogli dattiloscritti: il programma di una rivista. Partecipai ad alcune riunioni. Si cominciò a preparare il primo numero del Politecnico. Perché credo opportuno ricor
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FRANCO FORTINI
darlo, oggi? Perché fu l'occasionale teatro di alçune delle contraddizioni mag giori che ci hanno condotti fin qui.
Nel programma, il « settimanale dei lavoratori » prevedeva per ogni numero un articolo di « agitazione culturale »: «La cultura deve partecipare alla rigenerazione della società italiana. Come? »; «Che cosa ha inteso dire Ehrenburg quando ha scritt[...]
[...]tà di riconoscere i suoi uomini di cultura ».
Appena cominciò il lavoro redazionale (e poi, durante tutto il primo periodo di vita del Politecnico, che va dalla fine di settembre del 1945 al
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6 aprile 47, vigilia delle elezioni municipali di Milano) si fecero sentire le voci contraddittorie dei diversi redattori. Era un lavoro appassionante e lo
ricordo con piacere. « Per fare il Politecnico — diceva Vittorini ci vogliono
le fiamme al didietro, come i carabinieri ». Non era l'ardore a mancarci. Ma ci si avvide subito che la vita del settimanale subiva influenze difficili a decifrare, contraccolpi dei rapporti personali del direttore e dell'editore col Partito Comunista. Credo, anzi che questa, a me ignota, storia dei rapporti fra la direzione culturale del P. C. e il «settimanale di cultura» sia un'altra storia del periodico. Non ero iscritto al Partito e molto, quindi, mi restava celato.
Il Politecnico, almeno in un primo momento, si propose di rivolgere agli intellettuali dell'antifascismo, all[...]
[...]l'accento fu posto prevalentemente su formule marxiste. Certo é invece che ii Politecnico non si sottrasse in parte e in quella sua prima fase alla pretesa di presentare come obbligato passaggio alla cultura dei suoi lettori, quelle che erano state le letture, le simpatie, gli itinerari biografici del direttore e dei redattori: di non aver saputo distinguere fra necessario e accessorio.
E che cos'era questa cultura rivoluzionaria? L'articolo di Vittorini sul primo numero della rivista (che per molti, frettolosi e interessati, bastò a qualificare per sempre, o a squalificare, il settimanale) augurava un pensiero che governasse e non solo consolasse la società civile. Ossia un pensiero, una
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cultura che fossero identici per la classe politica e per quella tradizionalmente «intellettuale ». (L'assenza di precisione su questo punto di partenza è all'origine di tutte le seguenti incertezze). Si chiedeva una cultura che «prendesse il potere ». E in forma volutamente ingenua si esprimeva così quella certa unione di pragmatismo e [...]
[...]scista come possibile punto di partenza: di qui il richiamo, fin dal primo numero, della guerra di Spagna, per il suo grande patetico di rivoluzione tradita dov'era confluito tutto l'antifascismo mondiale. Il romanza di Hemingway sulla guerra di Spagna cominciava ad esser pubblicato a puntate fra le sbarre rosse e nere, come una bandiera di anarchici, del settimanale; però i tagli operati allora nel testo del romanzo, se non valsero a scagionare Vittorini di fronte ai suoi dirigenti di partito dall'accusa di eccessiva amore per quel « decadente » scrittore americano, stanno a dimostrare come non si volesse guardar troppo da vicino a quella guerra di Spagna, che, pur era stata la drammatica prova dell'Intelligenza di sinistra.
Ma subito, al secondo numero, una citazione di Lenin sconsigliava i politici dal distrarre uno specialista culturale con immediati compiti politici; come se il giornale avvertisse subito il pericolo di essere impiegato come bruto strumento di propaganda. La si vide, in redazione, alle proteste violente suscitate da una a[...]
[...]ero, una citazione di Lenin sconsigliava i politici dal distrarre uno specialista culturale con immediati compiti politici; come se il giornale avvertisse subito il pericolo di essere impiegato come bruto strumento di propaganda. La si vide, in redazione, alle proteste violente suscitate da una assai infelice interpretazione classista dell'opera del Manzoni, pubblicata anonima, (e dovuta, si disse, a E. Sereni). Si discuteva molto, in redazione; Vittorini, poco amante delle dispute e temperamento insofferente di critiche, ne evitava le sedute. Si dovette ottenere che le discussioni fossero stenografate per costringerlo a intendere, almeno per iscritto, le nostre critiche.
Al terzo numero si iniziava la conversazione con i cattolici; ma, almeno apparentemente, la correzione di Balbo alla formula dell'editoriale di apertura, non veniva ripresa o rilevata, né dal settimanale né da Bo (« Cristo non è cultura») che, poco dopo, si apprestava a replicare a Vittorini. Si può cogliere intanto la nascita di quella polemica sulle arti figurative che si [...]
[...]di critiche, ne evitava le sedute. Si dovette ottenere che le discussioni fossero stenografate per costringerlo a intendere, almeno per iscritto, le nostre critiche.
Al terzo numero si iniziava la conversazione con i cattolici; ma, almeno apparentemente, la correzione di Balbo alla formula dell'editoriale di apertura, non veniva ripresa o rilevata, né dal settimanale né da Bo (« Cristo non è cultura») che, poco dopo, si apprestava a replicare a Vittorini. Si può cogliere intanto la nascita di quella polemica sulle arti figurative che si tra scina tuttora: Guttuso parla d'una nuova epoca «eroica» che si apre per la pittura, ma già una didascalia posta sotto un manifesto di guerra giapponese afferma in modo perentorio quella che sarà uno dei punti centrali (mai però affrontato e risolto criticamente) del periodico: l'identità fra «arte
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vera » e « arte rivoluzionaria ». Vedi (n. 4) il frammento di Malraux (di prima della guerra, naturalmente): «Non sono né Claudel né Proust che significano la borghesia, [...]
[...]ffatto rinnovare la cultura italiana, ma vuole soltanto mostrare che sarebbe una buona cosa rinnovarla ». « Ogni rivoluzione è stata un tentativo più a meno riuscito della cultura viva di strappare il potere a Cesare e alla cultura morta che sempre è serva di Cesare e di instaurar, il «regno dei cieli», cioè il suo regno, sulla terra... Lenin era tipicamente uomo di cultura...» (n. 6). Sono appena passati due mesi dall'uscita del settimanale, e Vittorini, rispondendo a Bo, e ad altri critici del suo primo editoriale, accetta la traduzione del conflitto nella semplicistica contrapposizione di «via di fuori» e «via di dentro », di salvezza di tutti e di salvezza individuale, di storia e antistoria; un conflitto che ai giorni nostri continua ad essere volgarizzato a favore di scelte sentimentali e, in verità, ipocritamente interessate 1:
Tu parli di due vie, Carlo Bo, una che è dentro a noi e una che è fuori di noi. Io non voglio neanche dire che la via è una sola. Ma tu dici che
1 Nei numeri della rivista [e precisamente negli scritti « Legge[...]
[...]a via fuori di noi e la più breve quella dentro di noi. Io invece dico che é il contrario: che più breve é la via di fuori. È la via più umile, Carlo Bo, la più umana e terrena: per questo più breve. E quando tu indichi l'altra, da seguire, sei anche tu uno orgoglioso com'è Mila ed ogni idealista: mostri lo stesso orgoglio loro. Che cosa credi? Di potere mai compiere dentro a te solo quella «più grande e più vera rivoluzione »
cui pur aspiri?
Vittorini non vi sostiene (e non potrebbe, tanto vive in lui sono le vene nietzschiane e roussoiane di adorazione della vita e del presente, immuni da contaminazioni di pessimismo esistenziale, di angoscia storica) le tesi d'uno storicismo integrale; ma gli altri polemizzano con lui come se quelle tesi fossero le sue. Sopra la sua testa, si discute coi comunisti, anzi con la
Iunga bestemmia» del pensiero moderno, dalla Riforma ai giorni nostri. Né sono sufficienti gli esempi di indipendenza di fronte all'ortodossia cul turale sovietica, che il settimanale continua a moltiplicare, pubblicando Olescia o[...]
[...]e analoghe formazioni di quel tempo, portavoce di comodo del Partita Comunista e firmatari di manifesti. Il Partita Comunista stava passando ad una fase di consolidamento delle proprie attività, assumendo gran parte dei compiti che nell'Italia prefascista erano stati del Partita Socialista; e, fra questi, compiti di vera e propria divulgazione culturale. Pensarono, quei dirigenti, di poter impiegare a questi fini la popolarità del settimanale di Vittorini? Vi fu un momento nel quale lo pensarono; ma la composizione politicamente eterogenea della redazione e la stessa personalità del direttore dovettore presto dissuaderli. Il Politecnico non poteva diventare quello che, proprio in quel tempo, cominciava ad essere il Calendario del Popolo.
Si moltiplicano d'altra parte i punti di frizione fra le posizioni del settimanale e quelle del Partita Comunista; come i ripetuti atteggiamenti anticlericali di Vittarini (vedi posizione in favore del divorzio, in nota ad un
articolo di A. C. Jemolo, nel n. 9); come la pubblicazione (n. 16) di un passo di S[...]
[...]ziativa culturale dei comunisti francese (« Per una enciclopedia»). La stessa polemica iniziale — che è il motivo centrale della rivista continua a trascinarsi di numero in numero, con scritti di Balbo, Giolitti, Fortini, Ferrata, .finché comincia a farsi chiaro che essa non è altro che il problema della posizione del marxismo nel mondo moderno. Contro le interpretazioni socialdemocratiche di Karl Renner e contro la tentazione idealistica (e di Vittorini) dei «furori
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culturali » c'è (n. 26) una messa a punto di Balbo, (love è contenuto un accenno importante, che è già una critica al linguaggio del settimanale:
Questo successivo e strenuo «riemergere» della purezza, della tensione umana dalla formula che non serve più, che è insufficiente per costruire le nuove formule, la più larga e più comprensiva cultura tecnicamente sempre più articolata, . non si può certo definire con la parola "amministrazione", ma non si può nemmeno definire con la parola « furore culturale ». Tale parola non comprende abba[...]
[...] non si può nemmeno definire con la parola « furore culturale ». Tale parola non comprende abbastanza il senso del dato, della condizione obbiettiva e quindi la necessità dell'inserzione funzionale, del mordente preciso.
E non combatte il grave male dell'« eterna illusione »: credere che senza illusione l'uomo non si muova più.
Contro le tendenze e le pressioni rivolte a far del Politecnico uno stru mento di ordinaria amministrazione politica, Vittorini, nel n. 27, scriveva parole che ancora echeggiavano i ricordi mitici della Cultura Popular della repubblica spagnuola e che sarebbero suonate in contraddizione con quelle sue di pochi mesi dopo:
Le grandi affermazioni della cultura, i suoi rivolgimenti, le sue svolte, si hanno proprio nei momenti in cui sembrerebbe più saggio (agli stolti) lasciarli da parte. Quando, per esempio, un nemico sovrasta con le armi; quando manca il pane: quando occorre ricostruire tutto in un paese. È allora, é nell'emergenza, che può formarsi una nuova cultura.
Ma questo appello all'entusiasmo suonava come i pr[...]
[...]ffrontare le difficili prove degli anni seguenti. De Gasperi è da alcuni mesi capo del governo, e si capisce che vi resterà a lungo. Matura la svolta della politica americana. S'era fatto un gran discorrere di «partito nuovo », in quel tempo. Il V Congresso del P. C. affermava, nel nuovo statuto, la possibilità di appartenere al partito indipendentemente dalle proprie convinzioni filosofiche e religiose. Vedremo come il Politecnico, per bocca di Vittorini, interpreterà questa affermazione come la possibilità
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di rimettere in discussione gli stessi principi del marxismoleninismo; quando (e bastava aver letto, a questo proposito, gli scritti di Lenin sulla religione) l'unità nei fini politici più immediati era considerata solo propedeutica a quella ideologica. Tuttavia, quella « apertura » del Partito Comunista pareva fin da allora contraddetta dalla progressiva « chiusura » della situazione politica. Si doveva provvedere ad organizzare la difesa. Ecco perché l'affermazione contenuta nell'ultimo numero de[...]
[...] pubblico di lettori appartenente a cate gorie che l'attività del Partito prevedeva oggetto di una scrupolosa disciplina ideologica. Il pensiero e l'arte della tradizione rivoluzionaria non possono più esser presentati per una mozione degli affetti, ma debbono esser ripensati criticamente; è necessario vedere che cosa, in realtà, consegua alle generiche istanze di rinnovamento. Ma questa ricerca, (faranno capire i dirigenti culturali del P. C. a Vittorini), non pub esser compiuta portando lo smarrimento e l'incertezza fra i « compagni di base ». Ecco perché la rivista si preoccupa subito di definirsi « indipendente di sinistra », e di riaffermare che non è una rivista comunista.
Precauzioni insufficienti. Il nome di Vittorini, in qualche modo, impe gna il Partito. A nessun livello si possono ammettere « deviazioni a. Di qui il conflitto; che si è creduto evitare ritirandosi in una pubblicazione per specialisti ma che si conduderà solo con la fine della rivista.
A leggere ora tutta l'intricata rete di lettere, risposte, repliche si ha, come spesso avviene in questi casi, l'impressione che la parte più importante della discussione non si sia svolta per iscritto, ma nelle conversazioni e nei rapporti personali. Il linguaggio della polemica è in genere, molto cortese, con qualche occasionale e intenzionale durezza. M[...]
[...] » non è cultura, ad ogni tentativo di sto
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lui Togliatti, che su «Rinascita» (ottobre 1946) dichiara esplicitamente di averne ispirata la nota, rimproverano una « ricerca astratta del nuovo, del diverso, del sorprendente ». Ora é , davvero sorprendente che queste critiche paiono riferirsi al settimanale, ai più scoperti difetti del settimanale, fingendo di ignorare le ragioni del passaggio a rivista e l'autocritica compiuta. Vittorini lo farà ben notare in una prima nota alla lettera di Togliatti (n. 3334). Gli scritti di Luporini, Alicata, Togliatti, hanno insomma un falso scopo — la critica al confusionarismo del Politecnico settimanale — ed uno scopo reale: mettere in guardia i lettori comunisti contro i pericoli deviazionistici dell'« approfondimento » nella rivista mensile; e, al tempo stesso, provocare una decisiva autocritica del direttore della rivista. Il risultato sarà, naturalmente, che le critiche alla rivista come tale passeranno in second'ordine e il centro della discussione diventerà quello dei rapporti fra [...]
[...]imento » nella rivista mensile; e, al tempo stesso, provocare una decisiva autocritica del direttore della rivista. Il risultato sarà, naturalmente, che le critiche alla rivista come tale passeranno in second'ordine e il centro della discussione diventerà quello dei rapporti fra attività (o autorità) culturale e attività (o autorità) politica.
Non c'è dubbio che, da un punto di vista tanto politico quanto filosofico, le repliche di Ferrata e di Vittorini agli scritti di Luporini, Alicata e Togliatti sono evasive e manifestamente insufficienti. Finché si tratta di pubblicare Hemingway o Sartre o Reed, di mostrare simpatie per la narrativa sovietica, di difendere Gide`contro i «codini» o di parlar di «psicanalisi progressiva », tutto questo, almeno nel 1946, e in Italia, non sarebbe sufficiente a mettere in difficoltà disciplinari Vittorini e la sua rivista. Piuttosto, dietro gli scritti di Cantoni su Burnham, di Preti su Dewey e sull'Antiduering, di Leontiev sul pensiero economico sovietico; dietro le citazioni di Gramsci (che appunto in quei mesi cominciava ad esser pubblicato 4), si delinea la possibilità di un dibattito di fondo sui motivi essenziali del marxismo, e attraverso quello, della costituziond di un gruppo, di un nucleo di studio 5. O, in altri termini si forma la possibilità di un luogo di incon
ricizzare l'eterno gioco dell'anima non può concludersi che in una capitolazione di fronte al « Principe di questo mond[...]
[...]i partiti operai, in tutto il mondo, nell'ultimo mezzo secolo; che la guerra di Spagna aveva pur avuto, in questo senso, una sua storia; che la storia degli intellettuali comunisti e non comunisti in Unione sovietica, in Germania, in Cina, aveva pur qualcosa da insegnare. Gli uni e gli altri paiono invece preoccupatissimi di non estendere la discussione là dove solo avrebbe un senso, cioè sul terreno storicopolitico. E poi sembra impossibile che Vittorini, nelle righe più appassionate della sua Lettera a Togliatti ((pando discorre della rivoluzione che ha come fine l'individuo, quando dice di sperare in una rivoluzione straordinaria, o parla dell'occhio vitreo del Partito, o rifiuta di suonare il piffero per la rivoluzione o definisce i compiti dello scrittore rivoluzionario) non si rendesse conto che, pur nella
nano o su quello deliberativo della Terza Internazionale... è necessario che pongano una dialettica concreta delle varie situazioni nazionali... lo spirito del marxismo è nel superamento effettivo del contrasto non nella rinuncia a po[...]
[...]nze v.
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apparente confusione del suo dettato, egli chiedeva non solo un mutamento della politica culturale del P. C., ma una nuova teoria politica, una nuova filosofia. E, prima cosa, non tanto si trattava di rivendicare una autonomia teorica ma proprio l'autonomia pratica di poter continuare la rivista senza quegli ostacoli (ben «pratici ») che una sconfessione avrebbe portato con sé.
Le obiezioni di Onofri — che replica a Vittorini nel n. 36 della rivi
sta tutte in sé validissime (egli ricorda, fra l'altro, che l'attività politica è, non diversamente da quella « culturale », una attività superstrutturale) e di più evidente vicinanza al pensiero di Gramsci, spingono il problema al loro punto cruciale. Dice Onofri a Vittorini:
Forse che, quando tu hai scritto quelle tue lettere, non ;,svolgevi un lavoro culturale in connessione con la politica, non volevi appunto una politica in un certo modo per avere una cultura in un certo modo?
Nella sua breve risposta, Vittorini non raccoglie quella decisiva obiezione per limitarsi a' ribattere il suo rifiuto di una politica che ricorra alla forza contro la cultura, e di una alienazione «par la politique ». Infatti la rivendicazione di autonomia culturale, la richiesta di poter continuare senza scomuniche un certo lavoro di indagine culturale, era una richiesta politica; equivaleva a chiedere che il Partita Comunista cominciasse a considerare parte necessaria, elemento indispensabile al progresso della causa del socialismo, il lavoro critico dei « compagni di strada» e di tutti coloro che condividendo le finalità rin[...]
[...]tà culturale, quali che ne fossero i riflessi politici, ad una integra autonomia critica. Era — o meglio avrebbe dovuto essere e non fu — la rivendicazione della pluralità necessaria contro la teoria della pluralitàminor male, destinata a naufragare nella unitàunanimità.
Nella primavera del 1947, dopo la pubblicazione della Lettera a Togliatti (la rivista era uscita, sino allora, in cinque fascicoli), non poche persone e motivi volevano indurre Vittorini ad interrompere subito il periodico. Nella sede di via Filodrammatici, lugubre come un circolo filologico, non esisteva più una vera e propria redazione. Fra i collaboratori ci furono discussioni a tempesta. Chi voleva la fine immediata della rivista, con o senza un manifesto conclusivo, chi ne voleva la continuazione, con o senza il medesimo editore, accettando eventualmente di diminuire il numero delle pagine
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e la periodicità; chi ancora avrebbe voluto tornare al settimanale. In una lettera, cercai di chiarire la mia opinione. E, rileggendomi, cre[...]
[...] di uomini di cultura
e seguirla fino in fondo dicendo le proprie verità, anche a costo dello scandalo...
Intanto, in Francia e in Italia, i comunisti venivano estromessi dai governi. Della rivista, uscirono ancora quattro numeri di trentadue pagine ciascuno. L'ultimo (dicembre 1947) chiedeva: « Aiutate il Politecnico con un nuovo abbonamento ». Un numero di commiato — che avrebbe dovuto spiegare le ragioni dell'interruzione — non venne mai 6. Vittorini ci disse
e Ho copia d'una lettera che mandai, il 22 gennaio del '48, a Vittorini. Vi é detto,
fra l'altro:
« A poco a poco abbiamo capita che non potevamo pretendere di insegnare quel
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d'aver avuto contatti con altri editori, desiderosi di assumere la rivista, ma di avervi rinunciato perché sarebbero stati inevitabili controlli e limitazioni, politici, di natura opposta a quelli che rendevano ormai impossibile la continuazione della rivista. Lo credo senz'altro; ma, a questo scrupolo politico, si aggiungeva un motivo personale, l'esaurimento dei motivi di interesse e di avventura, la stanchezza di un lavoro dispersivo, i dubbi medesimi nati da nuove [...]
[...]si di assumere la rivista, ma di avervi rinunciato perché sarebbero stati inevitabili controlli e limitazioni, politici, di natura opposta a quelli che rendevano ormai impossibile la continuazione della rivista. Lo credo senz'altro; ma, a questo scrupolo politico, si aggiungeva un motivo personale, l'esaurimento dei motivi di interesse e di avventura, la stanchezza di un lavoro dispersivo, i dubbi medesimi nati da nuove letture e nuovi contatti (Vittorini era tornato a Parigi alla fine del giugno 1947, dove i suoi libri e la sua persona avevano avuto un grande successo, dopo essere stato, l'autunno precedente, ospite del Comité des Ecrivains); e soprattutto il desiderio di tornare al proprio lavoro di narratore, interrotto, meno la parentesi del Sempione, dal 1945. Con la primavera del 1948 finiva il dopoguerra; molti andavano sempre piú rapidamente perdendo le consuetudini, le amicizie e i ricordi che erano stati della dandestinità e delle speranze; per quanto apparisse precaria la pace, subentrava un naturale desiderio di sistemazione e di r[...]
[...] a fondo certe premesse e di concretare
un gruppo di buoni libri; e — questo un po' per colpa o per virtù tua, un po' per
viltà altrui non aver saputo legare cinque o dieci persone, strettamente, alle sorti della rivista ed al suo significato. Se questo fosse stato, oggi tu potresti affidare ad altri, almeno temporaneamente, la conduzione della rivista. E invece... oggi, se il Poli deve scomparire, sembra scomparire come l'organo personale di Vittorini e per i casi polrtici e ideologici personali di Vittorini.
...mi chiedo se è bene o male che il Poli muoia; male è certo... soprattutto perché il discorso del Poli è a metà, a metà il suo tentativo di accordare marxismo politico e 'altro', critica alla religione e fede religiosa, cultura e politica, il suo tentativo di parlare politica, senza essere 'politica'. E finalmente perché rappresenta una esigenza di comunisti o diciamo di rivoluzionari che non ha nulla a che fare con la terza forza o altre scempiaggini, ma che non deve accontentarsi della politica culturale del P. C. e nemmeno delle sue semplificazioni propagandistiche su gli U.S.A., l'U.R[...]
[...]latori. E non mancavano, anzi crescevano ogni giorno coloro che in tutto questo vedevano solo una conferma del loro cattolico pessimismo, coltivando amorevolmente quella cattiva coscienza che, negli ultimi anni, par diventata per molti un titolo d'onore.
Così dunque finiva il Politecnico. Pochi mesi più tardi, spento l'ottimismo elettorale del convegno fiorentino promosso dall'Alleanza della Cultura, dopo il 18 aprile e l'attentato a Togliatti, Vittorini, di ritorno dal congresso di Wroclaw, leggeva a Ginevra, alle Rencontres Internationales, una memoria sulla letteratura engagée 7 dov'era riaffermato l'equivoco del quale era morto il Politecnico; e ne forniva così la conclusione. Invece di andare innanzi, riprendere l'osservazione di Onofri ed affermare che, sì, la richiesta di indipendenza della ricerca letteraria é una richiesta politica, la richiesta di una certa politica culturale da imporre ai dirigenti politici, il contenuto della Lettera a Togliatti viene ridotto, dalla distinzione di cultura e politica qual era, alla distinzione di l[...]
[...]iduzione all'immediato propagandistico e insomma dalla critica delle armi, dalle soluzioni di forza dei comitati centrali, tutta la cultura, tutta la ricerca, anche quella di più immediate risultanze politiche (come quella storica, filosofica, economica) e quindi implicitamente proporre al suo partito, restandovi o uscendone, e più in genere agli organismi della «sinistra» italiana, con le armi della critica, nuove soluzioni teoriche e pratiche, Vittorini finiva col formulare la richiesta «corporativa» della libertà della letteratura. Il periodico, che s'era aperto chiedendo una « cultura che prendesse il potere» si chiudeva con una istanza assai meno preoccupante per i nostri uomini di governo. Sarebbe invece stato possibile dar battaglia sulla breccia aperta dalla Lettera a Togliatti, assumere intero il compito di ripensamento delle ideologie rivoluzionarie che, proprio in quei mesi, gli scritti di Gramsci stavano riproponendo agli intellettuali italiani? Ma, per far questo, sarebbe stato necessario ottenere dai collaboratori della rivista u[...]
[...]te che, malgrado i lunghi scritti storici e filosofici, il secondo Politecnico é una .rivista per immagini liriche, una rivista letteraria nel senso migliore (o peggiore) di questa parola. Questo avvertivano bene i collaboratori: i Balbo, i Cantoni, i Preti e molti altri (Giulio Preti vi era certo l'uomo dalle idee più chiare e più ricche, dal polso capace di condurre avanti l'impresa) non parteciparono mai o quasi mai alla vita della redazione, Vittorini non sapeva celare la sua insofferenza nei confronti di uomini avvezzi al rigore logico e metodico; né, d'altra parte, le critiche filistee dei professori arrivavano a capire come, sotto apparenze discutibili e personaggi e forme improprie, imposte dalle circostanze, si andassero dibattendo questioni che andavano ben oltre l'episodio e l'importanza della rivista. Non solo: ma era proprio alla schiera degli uomini di lettere tradizionali, i quali avevano lungamente ignorata e disprezzata la rivista (e aspettavano a braccia aperte il ritorno del figliuol prodigo) che, fra '46 e '47, essa andava [...]
[...]a '46 e '47, essa andava sempre più, e naturalmente, rivolgendosi.
Bisogna tuttavia aggiungere che probabilmente era impossibile, nell'aria del 1948, tentar su di una nuova disciplina e rigore una ripresa della rivista; essa avrebbe richiesto inevitabilmente una immediata rottura con il Partito Comunista e un lungo, forse definitivo, periodo di isolamento. Ora, il '48 fu anno di battaglie aperte, di situazione ancora fluida. Forse nessuno di
8 Vittorini pensò ad una serie di volumidialogo. Ma non se ne fece poi nulla.
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coloro che più tardi sarebbero usciti dal P. C. o dai quali — come ebbe a dire, in un pauroso accesso d'orgoglio, un di costoro — il P. C. sarebbe uscito, era preparato alla serietà del compito. Così, quando, quattro anni più tardi, su La Stampa, Vittorini farà la sua prima dichiarazione pubblica dopo il suo allontanamento dal comunismo, gli antichi collaboratori saranno dispersi ai quattro venti, restituiti per la maggior parte a quella « spontaneità » culturale così cara ai politici delle restaurazioni, che è quasi esattamente l'inverso della libertà.
Nato da una forse ingenua e irresponsabile fiducia nel garibaldinismo culturale; cresciuto fino ad intravvedere quale avrebbe dovuto essere il lavoro di gruppo di intellettuali che intendessero operare al rinnovamento del proprio paese; finito quando, all'avvicinarsi di un lavoro difficile, osc[...]