Brano: [...]i come critico letterario. Ora la relazione, rielaborata e molto ampliata, è divenuta un saggio d'insieme su Marchesi: un saggio denso ed essenziale, che per la prima volta ci dà un'immagine complessiva e convincente di una personalità cosí tormentata, cosí ricca di fascino e di aspetti sconcertanti.
Precedenti autori di libri e articoli su Marchesi hanno creduto di metterne in piú viva luce il valore negando le contraddizioni dell'uomo e dello studioso. La Penna ci presenta un Marchesi fortemente contraddittorio, quale fu in effetti: socialista (e poi comunista) con una sincera esigenza di giustizia e di elevazione culturale per i diseredati e gli oppressi, eppure legato a una concezione aristocratica della vita e a un senso dell'arte come creazione assolutamente individuale; angosciato dal dubbio esistenziale, dal « mistero », da un bisogno di fede religiosa sempre insoddisfatto e sempre perdurante, eppure non toccato da alcun dubbio di fronte alle atrocità staliniane, nemmeno quando esse, troppo tardi e troppo poco, furono sconfessate [...]
[...] LA PENNA, Concetto Marchesi: la critica letteraria come scoperta dell'uomo; con un saggio su Tommaso Fiore, Firenze, La Nuova Italia (« Biblioteca di cultura », 152), 1980, pp. 138.
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zature per giustificare tutto: guardiamo Marchesi come egli guardò Seneca, cercando di capire, non di condannare o giustificare tutte le sue debolezze. Chiunque discute di queste cose, dovrebbe prima leggersi il suo saggio su Seneca.
Ogni studio critico, ma piú che mai uno studio su una personalità di questa natura, esige da parte dell'autore la compresenza di due doti e di due atteggiamenti: da un lato quel distacco che impedisce di cadere nell'agiografia (e di agiografia, a proposito di. Marchesi, se ne è fatta troppa, da parte cattolica e da parte comunista, anche se, per esempio, l'amore di un Ezio Franceschini per la memoria del maestro è cosí caldo . e puro da rendere degne di rispetto certe evidenti forzature); dall'altro una convinzione che, al di là di aspetti caduchi, il personaggio preso in esame ci abbia lasciato insegnamenti importanti, abbia arricchito [...]
[...] di rispetto certe evidenti forzature); dall'altro una convinzione che, al di là di aspetti caduchi, il personaggio preso in esame ci abbia lasciato insegnamenti importanti, abbia arricchito la nostra cultura e la nostra umanità.
A prima vista, chi conosca Antonio La Penna considererà forse piú ovvio e comprensibile il distacco nei riguardi di Marchesi che la capacità di adesione e di valutazione positiva. Gran parte dell'opera di La Penna come studioso della poesia, della cultura, della società antica nasce da una sintesi (sintesi creativa e originale, non eclettismo né giustapposizione) tra la filologia di Wilamowitz, Leo, Norden, Pasquali, mirante a riimmergere l'opera letteraria nell'ambiente e nella tradizione culturale da cui trasse impulso e alimento, di intendere storicamente, non come pure « illuminazioni » prive di antecedenti, anche i valori stilistici, formali della poesia, e l'esigenza marxista di collegare i fatti letterarioculturali e ideologici con la struttura economicosociale e con le istituzioni e le vicende politiche ([...]
[...]di collegare i fatti letterarioculturali e ideologici con la struttura economicosociale e con le istituzioni e le vicende politiche (un marxismo, quello del La Penna, tendente a ridurre al minimo l'eredità hegeliana, ad accentuare l'istanza empirica, senza tuttavia cadere in un empirismo disgregato e agnosticizzante). La Penna stesso ha piú di una volta, fin da anni lontani, battuto l'accento su questa caratteristica della propria personalità di studioso (cfr. ad es. « Belfagor » y, 1950, p. 587 ss.; Testimonianze per un centenario: contributi a una storia della cultura italiana 18731973, Firenze, Sansoni, 1974, pp. 125127).
Per questo aspetto, si può ben dire che La Penna si trova in una posizione del tutto antitetica a quella di Marchesi. In Marchesi storico del mondo latino c'è una passione politica che dà spesso origine a giudizi acuti, ma non c'è alcuna seria presa di contatto col marxismo (cfr. La Penna, p. 13). Ancor maggiore è l'estraneità a quell'indirizzo filologico « wilamowitziano » a cui abbiamo accennato poc'anzi. In Marches[...]
[...]la biografia del poeta, non nella lettura di poeti precedenti, nella tradizione culturale a cui il poeta appartiene (La Penna, pp. 37, 55 s., 73 s., 93).
Nella prolusione padovana del 1923 Filologia e filologismo (in Scritti minori, Firenze 1978, rii, p. 1233 ss.: d'ora innanzi indicherò, seguendo il La Penna, questa silloge con SM), al cui esame il La Penna dedica il cap. viii, uno dei piú penetranti del suo libro, Marchesi conduce contro lo « studio delle
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fonti » una polemica che, in ciò che ha di giusto, è una battaglia di retroguardia, perché critica un metodo di scomposizione meccanica dell'opera d'arte e di riduzione del poeta a imitatore passivo dei suoi antecessori, che non era stato proprio nemmeno di tutta la filologia positivistica (anche il positivismo aveva avuto, nelle scienze naturali e umane piú ancora che nella filosofia, i suoi uomini d'ingegno e di genio) e che, comunque, era stato già superato proprio dalla migliore filologia tedesca (se con qualche seria ricaduta in un discut[...]
[...]ha notevole importanza, tra fonti, per cosí dire, meramente « contenutistiche » e analogie di espressione formale, le sole, queste seconde, che dimostrerebbero un effettivo rapporto di dipendenza (SM, in, p. 1234 s.; tale distinzione era stata enunciata anche in scritti precedenti, cfr. per es. SM, III, p. 1113: « sono solo le affinità formali gl'indizi imponenti delle derivazioni »). Ma è uno spunto che rimane inutilizzato o male utilizzato: lo studio del 1908 sulle fonti del Tieste di Seneca (SM, II, p. 493 ss.) prende in esame, sí, analogie di espressione, ma giustamente il La Penna (p. 23) lo giudica « poco piú che un elenco arido »; migliore è qualche altra ricerca (La Penna, p. 23 s.); ma Marchesi, critico pur non privo di senso stilistico, era piú capace di caratterizzare globalmente lo stile di uno scrittore che di analizzarlo puntualmente (egli cita quasi sempre passi tradotti, non testi in latino; e quanto anche la piú bella traduzione sia inadeguata a sostituire l'interpretazione non fu mai del tutto chiaro a lui, mentre fu chia[...]
[...]mpre passi tradotti, non testi in latino; e quanto anche la piú bella traduzione sia inadeguata a sostituire l'interpretazione non fu mai del tutto chiaro a lui, mentre fu chiaro, fin da Filologia e storia, a Giorgio Pasquali)1; e quindi era poco sensibile a quel rapporto di zêlos, di « citazioneemulazione », che piú tardi Pasquali teorizzerà con la massima limpidezza nel saggio Arte allusiva del 1942, ma che aveva già attratto l'attenzione e lo studio di filologi tedeschi dell'ultimo Ottocento e del primo Novecento, e di Pasquali stesso nell'Orazio lirico. Pasquali fu sempre ostentatamente ignorato da Marchesi, e tra i due studiosi ci fu sempre reciproca
I G. PASQUALI, Filologia e storia (1920), nuova ed. a cura di A. Ronconi, Firenze 1964, capp. vvi. Ma già Moriz Haupt aveva sentenziato con ragione, benché con una certa paradossalità: « Das Ubersetzen ist der Tod des Verständnisses » (in Ch. BELGER, M. Haupt als akademischer Lehrer, Berlin 1879, p. 248). Anche nei commenti scolastici a classici latini — pur pregevoli per molti aspetti: cfr. LA PENNA, p. 82 — una manchevolezza, secondo me, è costituita dal fatto che Marchesi si limita per lo piú a tradurre singole parole o brevi frasi, mentre è molto avaro di altre [...]
[...]tato di cultura, di raffinato senso ritmico, esprimentesi in una lingua piena di espressività e di forza vitale, ma non « volgare ». Si confronti l'accenno a Plauto nella recensione già citata al Leo (SM, in, p.. 1108) con ciò che nella Storia della letteratura latina (i`, p. 75) si dice di Plauto poeta « ellenistico », non « ignorante di genio », ma « grande poeta » e perciò « uomo di grande cultura: perché l'arte si alimenta di conoscenza e di studio: altrimenti è improvvisazione artistica di breve durata »; si vedano ancora, nella Storia (vol. cit., pp. 7375), i paragrafi sulla lingua plautina (che « non è quella del volgo, com'è mala consuetudine ripetere ») e sulla metrica; e si riconoscerà ben chiaro l'influsso del Leo. A proposito dell'origine dei cantica c'è perfino un accenno alle due teorie del Leo e di Eduard Fraenkel (derivazione dalla lirica ellenistica o dai cantica tragici?): dalla lettura del Leo Marchesi era passato, sia pure nei limiti di una rapida e non approfondita informazione, alla conoscenza di lavori plautini della[...]
[...]ze di impostazione metodologica (a cui si aggiungono diversità non meno notevoli di idee politiche e di Weltanschauung), La Penna è portato a simpatizzare con certi aspetti assai significativi della critica letteraria di Marchesi. Ma bisogna tener conto del fatto che la sintesi di filologia tedesca e di marxismo (o, come da qualche tempo egli preferisce dire, di « empiriomaterialismo ») non esaurisce il compito che La Penna si prefigge in quanto studioso del mondo antico (e non di esso soltanto). Egli ritiene che dovere del critico sia anche esprimere giudizi di valore sull'opera d'arte, contribuire a far partecipi gli altri di quella felicità (la felicità, secondo lui, più profonda e intensa concessa all'uomo) che è data appunto dall'arte, pur con la certezza che il giudizio estetico, come tutti i giudizi di valore, è soggettivo e che ufficio del critico non può essere, quando si arriva alla valutazione, quello di « convincere », ma solo quello di « persuadere ». Che la ricostruzione storica (passibile di trattazione « scientifica », alme[...]
[...]i giudizio errato non si può parlare se il giudizio è sempre soggettivo e, come tale, inconfutabile), ma solo per la propria « mi
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nore bravura » a difenderlo contro il critico. Ma non è questa la sede per cercar di sviluppare questa mia opinione. Qui si deve rimanere aderenti al tema La PennaMarchesi. E si deve constatare che il vivo amore di La Penna per la poesia, unito al ben giusto fastidio per recenti indirizzi di studio della letteratura che non sono né « scientifici » né « assiologici », ma hanno soltanto delle velleità scientistiche che si riducono a ostentazioni terminologiche dietro le quali non c'è alcuna vera conquista concettuale, ha fortemente contribuito a fargli scorgere i pregi di un criticoartista come Marchesi (diciamo anche di un criticoretore, senza tuttavia dare all'epiteto un significato soltanto svalutativo e senza affatto pretendere di racchiudere in questa definizione una personalità eticamente e psicologicamente cosí complessa). Qualche citazione ci farà meglio capire il fascino che, ma[...]
[...]ista autentico, perché dovremmo rifiutare i nuovi doni delle Muse? (p. 40).
Egli [...] rimane come uno dei maggiori criticiartisti che abbia avuto il Novecento italiano [...1. Per quante differenze ci dividano, nella concezione storica e nel metodo, dalla critica della prima metà del secolo, ricordo Marchesi, Valgimigli, Perrotta come uomini che sapevano ricevere i doni delle Muse con mani delicate; né a quel tempo né prima né dopo sono mancati studiosi delle lettere che fanno pensare ai porci rufolanti tra le perle. Onoriamo questo amico delle Muse con misura e con rispetto della verità; può darsi che, una volta tanto, lo verità sia piú ricca e affascinante dei miti e delle mistificazioni (p. 96: è la chiusa del saggio).
L'esortazione alla « misura » e al « rispetto della verità » non si riferisce soltanto, credo, alla mancanza di interesse storicoculturale e al misticismo estetico a cui abbiamo già accennato. Si riferisce anche, suppongo (e ciò, forse, andava piú messo in rilievo) alla sicurezza assoluta di giudizio che Marchesi ha sem[...]
[...]ntro l'« ideale », per una cultura dell'Italia unita borgheseavanzata con forti cautele « antiutopistiche ». Se nell'immediato dopoguerra si esagerò in « desanctisismo di sinistra », fu perché non si videro i limiti (d'indirizzo politico e, connessi con questi, anche di gusto estetico) di una prospettiva storica e critica che tagliava fuori Cattaneo, Pisacane, la prima scapigliatura, e fondamentalmente non capiva nemmeno Leopardi. Tuttavia nello Studio sul Leopardi, l'ultima opera rimasta incompiuta, c'è un'esigenza di ricerca filologicostorica e addirittura di preparazione bibliografica, di metodo
« tedesco ». Che cosa di tutto ciò ereditò Marchesi? Direi nulla, anche a volersi limitare al « gusto », che In Marchesi è sempre collegato con uno psicologismo, con una predilezione per le « anime tormentate » a cui De Sanctis (anche per
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ragioni di diversa epoca, di diverso clima socialeculturale) fu estraneo. Io temo che a questo ravvicinamento De SanctisMarchesi abbia contribuito una nozione di « critica romantica [...]
[...]a volta, spinte e inquietudini opposte. Da un lato, un incessante « bisogno di Dio » assillò Marchesi per tutta la vita, gli fece ricercare l'amicizia di religiosi, lo spinse piú volte a cercare pace e solitudine in monasteri, pur non facendolo mai deflettere dall'ostilità piú fiera per il cattolicesimo politico, per la Chiesa ufficiale alleata degli oppressori e degli sfruttatori. Di ciò hanno scritto ampiamente, con sostanziale veridicità, due studiosi cattolici, Pietro Ferrarino (Religiosità di Marchesi, ora in appendice a SM, III, p. 1331 ss.) ed Ezio Franceschini (C. Marchesi, Padova, Antenore, 1978, pp. 121 ss., 129 ss.). Ma il Ferrarino, piú sobrio e obiettivo pur nella sua chiara professione di cattolicesimo, si è fermato a tempo, non ha voluto dimostrare l'indimostrabile sugli ultimi istanti di vita di Marchesi; il Franceschini, non per quel meschino spirito di speculazione che ha indotto tanti clericali a inventare conversioni all'ultima ora, ma per una sofferta esigenza di sapere « salvato » il maestro e amico da lui amato con t[...]
[...]empre brani latini tradotti!
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uomo di Stato fu il fondatore dell'impero romano quale organismo politico universale »7. In confronto a Cesare, Augusto, osserva il La Penna (p. 76),
« non riscuote un'ammirazione neppure lontanamente paragonabile ». Ciò mi sembra vero soltanto in parte. Certo Marchesi non ha attribuito ad Augusto la genialità di Cesare, né lo poteva; ma non ha nemmeno accentuato, come altri studiosi, il contrasto fra la mediocrità dell'uno e la grandezza dell'altro. Anche ad Augusto è tributata una viva lode per quel punto che piú importa a Marchesi: « Con uguale risolutezza procede la politica unitaria provinciale che tende ad associare l'Italia alle provincie
e a costituire il grande impero romano al posto di quello Stato cittadino che vedeva nelle provincie un semplice campo di sfruttamento » (Storia, i', p. 356). E in un discorso su Augusto tenuto nel 1938 (l'anno del bimillenario augusteo; edito nella collana di « Opuscoli Accademici » dell'Università di Padova, ripubblicato poi[...]
[...]rispetto a cui il successivo idealismo e spiritualismo rappresentò una frattura e una svolta. E, pur riconoscendo ovviamente che il tardo positivismo ebbe connotati suoi propri, non dimenticherei che certi aspetti che si trovano nella Weltanschauung di Marchesi sono presenti in alcuni notevoli filoni del positivismo fin dall'inizio.
Sarò costretto a ricordare cose che non costituiscono alcuna novità (fra l'altro, c'è attualmente un rifiorire di studi sul positivismo, e il poco che rammenterò apparirà, ad un tempo, scontato e troppo generico); ma il mio scopo è soltanto di dare alcuni punti di riferimento per la collocazione della personalità di Marchesi, e di mostrare come quelle contraddizioni che giustamente, come si è visto, La Penna ha messo in risalto nella figura del suo autore non siano tutte e soltanto contraddizioni « personali », ma si ritrovino appunto nella cultura positivistica.
Certo, se si pensa al positivismo come scientismo o come sia pur parziale ripresa di motivi illuministici e laici dopo l'età romantica, Marchesi app[...]
[...] universo concepito materialisticamente ed evoluzionisticamente postulava il famoso « Inconoscibile » e non negava la religione, e che Emil Du BoysReymond, fautore di un meccanicismo addirittura laplaciano, riconosceva poi l'esistenza dei « sette enigmi del mondo », di fronte ai quali la scienza doveva dire non soltanto ignoramus, ma ignorabimus.
In un settore del tardo positivismo (un settore rappresentato, almeno in Italia, piú da letterati e studiosi di discipline umanistiche che da scien
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ziati della natura) questa concezione dualistica, che in quanto tale, come si è visto, compare già nel primo positivismo, assume una carica di « sgomento cosmico » e di ansia per il destino effimero dell'uomo. Due poeti e studiosi pur molto diversi l'uno dall'altro, Pascoli e Graf, esprimono spesso questo bisogno religioso all'interno di una cultura che è ancora nettamente positivistica; lo stesso si può dire di un autore a cui il Marchesi fu molto vicino nei suoi anni giovanili, Mario Rapisardi (cfr. La Penna, p. 7 s.; si pensi specialmente al Giobbe di Rapisardi; e si tengano presenti le affinità che risultano dal carteggio GrafRapisardi pubblicato da Carmelina Naselli in « Archivio storico per la Sicilia orientale », LVIII, 1962, fasc. 13, LIx, 1963, fasc. 13). Nessuno di essi pensò mai alla possibilità di porre [...]
[...]nquietudine che ti accusa un dolore dominato ma non vinto », parlava di « sgomento dell'infinito », di « pianto compresso », e asseriva che proprio per questa consapevolezza tragica (che tuttavia non menoma in lui il coraggio della verità) Lucrezio è superiore a Epicuro (op. cit., pp. 157, 163 s.). Senza soffermarci in altre citazioni che ci ruberebbero troppo spazio, notiamo che lo stesso motivo dell'Antilucrèce ritorna nel pur sobrio Giussani (Studi lucreziani, rist. Torino 1923, pp. xiir, xxiii) e piú tardi in uno spirito tormentato affine per certi aspetti a Marchesi (anche se di statura assai inferiore) come Carlo Pascal8. Ebbene, nella già citata
s Se si tien conto dei rapporti tra Marchesi giovane e Rapisardi, particolare interesse (ma anche difficoltà di una soluzione schematica) presenta il problema del lucrezismo rapisardiano. Il Rapisardi tradusse Lucrezio (La Natura, Milano 1880, Torino 18822, questa seconda volta con una prefazione di Trezza, in cui si esalta Lucrezio piú come « lirico » che come espositore dell'epicureismo).[...]
[...]ilosofico o teologico.
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parte la « retorica civile » estranea a Marchesi), e meno ancora tutta la schiera degli eruditiletterati carducciani; e non vi si sottrae, malgrado la grande diversità di temperamento dal Carducci, il Graf, uno dei fondatori del severo « Giornale storico della letteratura italiana » e, nello stesso tempo, troppo artista e troppo psicologista come critico letterario. Il Graf è figura ancora poco studiata; quando uscirà il saggio a lui dedicato da Girolamo de Liguori (di cui ho potuto leggere una parte ancora inedita), anche certe caratteristiche e certe contraddizioni di Marchesi ne usciranno, penso, meglio chiarite. E per quel ché riguarda gli italianisti e i medievalisti di fine Ottocento, non si dimentichi che nella produzione giovanile di Marchesi la filologia medievale e umanistica prevalgono, come quantità e anche come valore, sulla filologia classica, seguendo l'esempio di Remigio Sabbadini, anche lui, malgrado le cure date al testo di Virgilio, migliore studioso dell'umanesimo che [...]
[...]che certe caratteristiche e certe contraddizioni di Marchesi ne usciranno, penso, meglio chiarite. E per quel ché riguarda gli italianisti e i medievalisti di fine Ottocento, non si dimentichi che nella produzione giovanile di Marchesi la filologia medievale e umanistica prevalgono, come quantità e anche come valore, sulla filologia classica, seguendo l'esempio di Remigio Sabbadini, anche lui, malgrado le cure date al testo di Virgilio, migliore studioso dell'umanesimo che della letteratura latina antica. Di questa produzione giovanile di Marchesi tratta in modo eccellente il La Penna nel cap. ir del suo saggio, e io non ho nulla da aggiungere; qualcosa, piú oltre, dirò del Marchesi filologo classico.
Con ciò non intendo certo sostenere che Marchesi abbia trascorso la maggior parte della sua vita intellettuale chiuso dentro una corazza tardopositivistica, insensibile ad ogni influsso del neoidealismo e dell'irrazionalismo novecentesco. La condanna del filologismo (quale appare specialmente nella prolusione del 1923, per poi attenuarsi), l[...]
[...]uso una felice espressione del La Penna, p. 78, a proposito della Storia della letteratura latina — « convergevano con una certa impostazione idealistica ». E infatti, come ricorda ancora il La Penna, la Storia fu lodata da Croce (cfr. Storia della storiografia italiana nel sec. XIX, ir, Bari 19473, p. 197) ed ebbe ottima accoglienza nella cultura italiana degli anni Trenta. Prima ancora, il Seneca era stato accolto da Gentile nella collana di « Studi filosofici » da lui diretta presso Principato, ed era stato recensito assai favorevolmente da Adolfo Omodeo (Tradizioni morali e disciplina storica, Bari, Laterza, 1929, pp. 107117). A sua volta, Marchesi, pur non desistendo mai dalle sue puntate contro la filosofia « incapace di consolare », non s'impegnò mai in polemiche esplicite contro l'idealismo crociano e gentiliano e contro l'estetica crociana 10; non è improbabile che,
Io Una sua replica a Croce di argomento politico, assai rispettosa e tendente a conciliare piú che ad accentuare il dissenso, è in Umanesimo e comunismo, p. 50 ss. (d[...]
[...]oesia nuova che si innalzi un po' al di sopra dell'Inno dei lavoratori è esclusa a priori da Marchesi.
Il 1908 cade in un periodo in cui gran parte dell'intelligencija italiana, che si era accostata al socialismo durante la reazione di Crispi e di Pelloux e ancora nei primissimi anni del nostro secolo, ridiventa « borghese »: c'è chi si spinge al nazionalismo e prepara già un clima prefascista; ma il distacco dal socialismo fu compiuto anche da studiosi seri e onesti come Salvemini, Ciccotti e molti altri. Non è azzardato, credo, supporre che Marchesi, pur rimanendo iscritto al Partito socialista, abbia fortemente risentito dell'atmosfera antisocialista di quegli 'anni.
Quell'articolo del 1908 dette luogo (lo ricorda, anche se fugacemente, Piero Treves, art. cit., pp. 141,146) a una replica di Alessandro D'Ancona, Malinconica visione dell'avvenire (« Giornale d'Italia », 26 luglio 1908 = Ricordi storici del Risorgimento italiano, Firenze [1914], p. 541 s.). Il conservatore, ma non reazionario D'Ancona ebbe buon gioco nell'osservare che, [...]
[...]ltanto contro certi fraintendimenti della dottrina socialista. Dei propri insulti alla « moltitudine » non fece parola (mentre essi occupavano gran parte dell'articolo oraziano); e dopo aver deplorato in quel primo articolo, come si è visto, la prossima fine della fede in Dio, adesso dichiarò che Dio « sta troppo in alto », e introdusse perfino nel suo discorso, lui nemico della scienza, una nota scientistica e laicistica: « Oggi molti uomini di studio volgono l'occhio lassú, in alto, in cielo, solo per indagare e conoscere le leggi della enorme vita planetaria, non già per offrire all'uomo affaticato il premio dell'oltretomba... ». Nella controreplica con cui la polemica si chiuse (« Giornale d'Italia », 1 agosto 1908 = Ricordi storici cit., p. 552 ss.) il D'Ancona ebbe, ancora una volta, facile vittoria, senza nemmeno incalzare troppo il Marchesi. E quanto alla questione di Dio, ribatté: « E sia: ma il mistero della vita, della vita umana ed universale, rimarrà sempre impenetrabile, per quanto si centuplichi il patrimonio del sapere ». E[...]
[...]D'Ancona ebbe, ancora una volta, facile vittoria, senza nemmeno incalzare troppo il Marchesi. E quanto alla questione di Dio, ribatté: « E sia: ma il mistero della vita, della vita umana ed universale, rimarrà sempre impenetrabile, per quanto si centuplichi il patrimonio del sapere ». Era un'asserzione tipicamente marchesiana, che il Marchesi si vedeva ritorcere contro! Ma certo sarebbe interessante (benché non
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facile) studiare il Marchesi socialista dagli inizi del nostro secolo fino alla fondazione del Partito comunista; è questo il periodo del Marchesi politico su cui meno sappiamo.
8. Il critico testuale. — Un ultimo punto sul quale, sempre seguendo e postillando il libro di La Penna, vorremmo dire qualcosa è l'attività di Marchesi come filologo classico, e più precisamente come critico testuale. Il La Penna (cap. III) valuta, in complesso, severamente le edizioni critiche o semicritiche (chiamo cosi i commenti scolastici muniti di piú o meno sporadici contributi criticotestuali: un genere ibrido, ma nel qua[...]
[...]i contributi criticotestuali: un genere ibrido, ma nel quale dettero alcune buone prove il Terzaghi, il Galante ed altri) dell'Orator di Cicerone, del Tieste di Seneca, del De magia di Apuleio, dell'Ars amatoria di Ovidio; .considera con maggiore benevolenza alcune ricerche su codici di autori antichi (molte di piú, e piú fruttuose, il Marchesi ne compi su codici di autori medievali e umanistici) e in particolare mette in risalto il valore degli studi sugli scolii a Persio (SM, II, pp. 907983); sottolinea che un progresso criticotestuale assai notevole fu compiuto dal Marchesi con l'edizione di Arnobio (Torino 1934, 19532). Tuttavia anche riguardo a quest'ultima il La Penna ammonisce che « va lodata con misura », e vi ravvisa il difetto di tutta la critica testuale marchesiana, l'indirizzo troppo conservativo, di cui fornisce (a p. 30 e in un'appendice a pp. 101103) parecchi esempi, discutendo intelligentemente vari passi e proponendo anche qualche suo contributo persuasivo.
Sia la valutazione generale di Marchesi filologo, sia le discuss[...]
[...]el 1902 (dovuta principalmente al Richter, per la prematura morte del Peiper) si accorsero che i codici A, accanto a numerosissime banalizzazioni e alterazioni arbitrarie (altre, del resto, ne aveva anche E, benché in molto minor misura), presentavano lezioni sicuramente giuste e non congetturali; e cercarono di districare la genealogia dei codici A. Ma questa operazione doveva riuscire soltanto assai piú tardi (e pur sempre imperfettamente: gli studiosi piú recenti, certo molto meritevoli, ostentano tuttavia troppa baldanza); e le lezioni di A accolte dal Richter erano ancora, di gran lunga, troppo poche, e troppe le congetture, non piú felici di quelle del Leo. Perché apparisse chiaro quanto di buono si poteva ancora ricavare da A (anche senza affrontare il problema dei rapporti genealogici all'interno di questa famiglia) e di quante congetture inutili andasse sbarazzato il testo delle tragedie di Seneca, dovevano venire, dal 1926 in poi, gli studi di Gunnar Carlsson, che rimangono fondamentali, sebbene in alcuni casi il Carlsson si sia [...]
[...]tavia troppa baldanza); e le lezioni di A accolte dal Richter erano ancora, di gran lunga, troppo poche, e troppe le congetture, non piú felici di quelle del Leo. Perché apparisse chiaro quanto di buono si poteva ancora ricavare da A (anche senza affrontare il problema dei rapporti genealogici all'interno di questa famiglia) e di quante congetture inutili andasse sbarazzato il testo delle tragedie di Seneca, dovevano venire, dal 1926 in poi, gli studi di Gunnar Carlsson, che rimangono fondamentali, sebbene in alcuni casi il Carlsson si sia spinto troppo oltre.
Marchesi non aveva nel 1908 e non ebbe nemmeno piú tardi l'attitudine ad affrontare complessi problemi di genealogia dei codici (non la ebbero nemmeno, è bene ricordarlo, filologi suoi coetanei o suoi predecessori della forza di Cornparetti, Piccolomini, Vitelli, Sabbadini, Castiglioni; il gusto per problemi stemmatici si fece strada lentamente in Italia); è doveroso aggiungere che, anche se avesse avuto interessi di questo tipo, non avrebbe comunque potuto, privo della possibilità [...]
[...]tiamo che in molti passi (vv. 26 nec, 47 fratris, 93 sacra, 110 stetit, 111 qui, 114 latus, 141 tulerat, 255 modum, 302 preces. movebunt, 326 patri cliens, 740 ac, 833 et ignes, 890 implebo patrem, 994 abdidit, 1008 te nosque, 1084 haec) la lezione prescelta dal Marchesi è oggi accolta (cfr. anche i « fartasse recte » del Giardina a 180 e 322). In alcuni casi si tratta di scelte a favore di A, nelle quali il Marchesi precorse il Carlsson o altri studiosi, in uno di scelta a favore di E (v. 26: qui il Leo e il Richter avevano preferito ne di A, e ciò dimostra che Marchesi non aveva pregiudizi uniláterali contro l'Etrusco), in molti altri di conservazione della lezione di tutti i mss. Il La Penna, mentre enumera (p. 27) alcuni passi in cui il Marchesi ha sicuramente o probabilmente torto, non fa cenno (tranne che per il v. 302) dei casi, tutto sommato piú numerosi, in cui ha ragione contro Lea e Richter (talvolta la lezione giusta era stata già prescelta da vecchi filologi; ma è pur sempre un merito del Marchesi l'averla rivalutata contro le[...]
[...]di E sia piú consono allo stile di Seneca; eppure il confronto addotto da Marchesi con l'ordine delle parole nel modello virgiliano non è privo di finezza, e la lezione che egli preferisce non è tramandata dal solo Riccardiano, ma dall'intera classe A.
Questa mia difesa dell'edizione del Tieste va considerata, intendiamoci, come una difesa ben delimitata: i grossi difetti a cui già abbiamo accennato restano, e l'edizione rimane il lavoro di uno studioso non privo di qualità anche in critica testuale, ma immaturo.
Diverso è il caso dell'edizione di Arnobio. Su essa il La Penna si sofferma ampiamente, mostrandosi ottimo conoscitore del testo arnobiano e aggiungendo alle osservazioni sull'edizione di Marchesi propri contributi originali (pp. 29 s., 101103; altri contributi originali il La Penna pubblicherà prossimamente). Egli nota con ragione che,nell'Arnobio « la tendenza conservatrice », che aveva pesato negativamente sulle vecchie edizioni curate da Marchesi, « non è affatto generale e molto raramente è acritica »; aggiunge che « l'edit[...]
[...]tizione » (p. 30). Non mi sento di escludere questa ipotesi; ma confesso che ci credo poco. Le decine e decine di congetture del Castiglioni, tranne forse una o due, erano, diciamo la verità, del tutto inutili, normalizzatrici a sproposito; il Castiglioni, congetturatore spesso troppo analogista come il suo maestro Vitelli, ma quasi sempre ottimo conoscitore dell'usus scribendi degli autori da lui presi in esame, non si era minimamente curato di studiare a fondo la lingua e lo stile di Arnobio, cosí personali pur nell'ambito del latino tardo. Non direi che un simile profluvio di congetturalismo ozioso costituisse il miglior modo di ispirare a un critico conservatore come Marchesi fiducia nelle congetture; e infatti Marchesi relegò pressoché tutte le congetture di Castiglioni nell'apparato critico, e nell'apparato critico stesso le menzionò, è da credere, piú per cortesia verso l'amico che per fiducia in una loro sia pur vaga probabilità, e parecchie ne omise nella seconda edizione (citandone, in cambio, poche altre, a dire il vero non migl[...]
[...] filologi del nostro secolo, certamente superiore a Marchesi come crítico testuale: ma non come critico testuale arnobiano.
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Di un altro impulso, secondo me molto piú valido, ricevuto da Marchesi il La Penna fa menzione: « i grandi progressi fatti nella conoscenza del latino tardo soprattutto grazie al Löfstedt, che proprio ad Arnobio aveva dedicato cure particolari ». Ora, il Löfstedt fu, come è noto (non solo nei suoi studi dedicati ad autori o a fenomeni linguistici singoli, ma nella grande opera Syntactica), un critico testuale conservatore, che molto imparò dal Vahlen e dal Wölfin e formò in Svezia una scuola di alto livello. C'è stato, nell'Ottocento e in buona parte del Novecento, un conservatorismo criticotestuale « all'italiana », che in gran parte era rinuncia a interpretare il testo, tendenza a giustificare tutto in ossequio alla « tradizione », rivendicazione grottescamente patriottica di una sorta di « buon senso italico » contro le folli audacie dei filologi tedeschi. Di questo tipo era stato il cons[...]
[...]hi. Di questo tipo era stato il conservatorismo di Marchesi nelle edizioni anteriori a quella di Arnobio (il che non esclude, come si è visto, che in parecchi casi, a proposito del Tieste di Seneca, egli avesse ragione): sia pure con minore virulenza di un Romagnoli, aveva anch'egli accolto la connotazione patriottica del proprio indirizzo criticotestuale: nell'introduzione al Tieste il Leo e il Richter sono chiamati, in contesti polemici, « gli studiosi tedeschi », « gli editori tedeschi » (pp. 29, 38), e di « pernicioso influsso germanico », di « metodiche aberrazioni della cultura germanica » a cui gli italiani devono opporre « una cultura latina [ ... ] fondata sul "buon senso" ch'è sapientia » si parla con insistenza — riferendosi anche alla critica testuale — in Filologia
e filologismo (SM, in, pp. 1237, 1241; cfr. La Penna, p. 54). Ben diverso, anche se ebbe i suoi occasionali eccessi, era il conservatorismo criticotestuale della scuola svedese. Esso partiva dallo studio dei testi latini tardi, dai fatti lessicali e sintattici che [...]
[...]germanico », di « metodiche aberrazioni della cultura germanica » a cui gli italiani devono opporre « una cultura latina [ ... ] fondata sul "buon senso" ch'è sapientia » si parla con insistenza — riferendosi anche alla critica testuale — in Filologia
e filologismo (SM, in, pp. 1237, 1241; cfr. La Penna, p. 54). Ben diverso, anche se ebbe i suoi occasionali eccessi, era il conservatorismo criticotestuale della scuola svedese. Esso partiva dallo studio dei testi latini tardi, dai fatti lessicali e sintattici che da un lato anticipavano molti sviluppi delle lingue romanze, dall'altro si riconnettevano al latino arcaico, in parte per consapevole arcaismo, in parte maggiore per riemersione di una ininterrotta corrente di lingua popolare rimasta celata sotto la lingua letteraria degli scrittori dell'età classica. Non si trattava, quindi, da parte del Löfstedt e della sua scuola, di « venerazione » della tradizione manoscritta, ma di lotta contro le congetture normalizzatrici, classicistiche, ciceronianizzanti: lotta che in parte (e senza dubbi[...]
[...]chio conservatorismo « all'italiana » del Marchesi giovane: è una svolta e un'adesione a questo nuovo conservatorismo, particolarmente necessario per un autore come Arnobio, cosí pieno non solo di volgarismi e arcaismi, ma di espressioni personali, di hapax, quasi tutti disconosciuti dal mediocrissimo editore anteriore al
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Marchesi, August Reifferscheid. Per la prima volta nella sua vita Marchesi si mise a studiare un testo parola per parola, facendo i conti con la linguistica e la filologia fiorite fuori d'Italia, abbandonando (non nella concezione generale dei rapporti tra filologia e critica letteraria, ma nella tecnica filologica sí) il provincialismo. E non si limitò a far tesoro dei contributi altrui: notò egli per primo molte particolarità, inconcinnità sintattiche, stranezze individuali del latino di Arnobio (ricordo un solo esempio fra i tanti: l'uso di homo = corpus contrapposto all'anima, cfr. p. 51, 1 della 2a ed., e aggiungi ai passi citati dal Marchesi p. 58, 17 s.). Alcuni casi di cons[...]
[...]aratori, in alcuni punti il Le Bonniec sarà ancor piú conservatore di Marchesi; credo anch'io che, mentre in qualche punto bisognerà emendare dove Marchesi ha conservato, in qualche altro dovrà avvenire il contrario; e molti resteranno i punti dubbi, nei quali, come dice La Penna (p. 101), « non si sa se attribuire la lezione a un errore di scriba o all'estro del retore ». Ma l'edizione di Marchesi rimarrà sempre una tappa molto importante negli studi arnobiani.
Io suppongo che quella che ho chiamato la sprovincializzazione filologica (e linguistica) di Marchesi si debba anche all'influsso degli allievi dell'università di Padova, di uno soprattutto, il solo vero allievo che Marchesi abbia avuto, Ezio Franceschini, che è poi diventato un insigne medievalista. Franceschini ha sempre parlato di Marchesi come di un maestro « irraggiungibile », che, nonostante la grande umanità e la sostanziale modestia, poco o nulla poteva imparare dai suoi scolari. Tuttavia nel suo Marchesi il Franceschini ci ha narrato un episodio significativo (p. xit s.).[...]
[...]opo e gli espone i risultati: quel testo è la versione latina di un'opera araba composta nel 1053; ne esistono anche versioni in altre lingue, ed esistono molti altri codici della versione latina, ignoti a Marchesi. « Mi ascoltò silenzioso, con segni evidenti di stupore e d'interesse. Poi mí chiese: "Ma come ha fatto, scusi, a giungere a questi risultati?". Risposi: "Chiedendomi semplicemente se della questione non si fossero mai interessati gli studiosi tedeschi". Ero partito infatti da quella domanda, avevo fatto ricerche in quella direzione ed ora gli potevo presentare una lunga lista di autori a lui ignoti e le loro conclusioni. ».
Un fatto di questo genere (e non è detto che sia stato l'unico) dovette far riflettere Marchesi, probabilmente piú di quanto appaia dal séguito del racconto di Franceschini, che si preoccupa di ridare subito al maestro, nel colloquio, la funzione di guida, la preminenza. Certo Marchesi aveva già, in altri campi, letto e consultato e recensito molte opere di studiosi tedeschi; ma, come dimostrano proprio le [...]
[...]a gli potevo presentare una lunga lista di autori a lui ignoti e le loro conclusioni. ».
Un fatto di questo genere (e non è detto che sia stato l'unico) dovette far riflettere Marchesi, probabilmente piú di quanto appaia dal séguito del racconto di Franceschini, che si preoccupa di ridare subito al maestro, nel colloquio, la funzione di guida, la preminenza. Certo Marchesi aveva già, in altri campi, letto e consultato e recensito molte opere di studiosi tedeschi; ma, come dimostrano proprio le tante recensioni ora ristampate in SM, quasi sempre con frettolosità e (si ricordino le espressioni già da noi riportate) con la convinzione, piú o meno esplicita, che la forza d'intuizione latina avesse poco di importante da imparare dalla pedanteria teutonica. Sul finire degli anni Venti accadde evidentemente in lui un ripensamento, senza il quale non sarebbe immaginabile l'edizione di Arnobio. Il Franceschini, filologo di prim'ordine ma non disposto a esprimere sul suo Marchesi alcuna riserva e quindi nemmeno a compiere alcuna periodizzazione, ri[...]
[...]ogia di Marchesi ma considera eccellenti anche le edizioni critiche anteriori (op. cit., pp. 267, 308309); tuttavia testimonianze dello stesso Franceschini come: « Ricordo le lunghe discussioni sulla scelta di una variante, le ragioni valide per l'una o per l'altra parola, le ricerche lessicali e stilistiche, e ancora i dubbi e le incertezze, prima della decisione » (p. 94 s.); o: « Quante volte lo incontrai dopo una notte passata insonne per lo studio di una variante! » (p. 130, e ancora p. 167) non possono riferirsi che all'Arnobio (per « varianti » il Franceschini intenderà, insieme alla lezione tramandata, le varie proposte congetturali, ché il codice di Arnobio, come si sa, è uno solo) o forse a esercitazioni di seminario su testi medievali: non certo, per ovvie ragioni cronologiche, alle edizioni degli anni 190418, quando Marchesi non aveva ancora quel gusto per la filologia « puntuale » che gli venne piú tardi. Io suppongo, diversamente da Franceschini (op. cit., p. 157), che sia stata questa svolta a non fargli ripubblicare in alcu[...]
[...] medievali: non certo, per ovvie ragioni cronologiche, alle edizioni degli anni 190418, quando Marchesi non aveva ancora quel gusto per la filologia « puntuale » che gli venne piú tardi. Io suppongo, diversamente da Franceschini (op. cit., p. 157), che sia stata questa svolta a non fargli ripubblicare in alcuno dei suoi volumi piú tardi la prolusione Filologia e filologismo, e, aggiungo, a fargli apprezzare lavori di filologia « arida » come gli Studi sui Topici del Riposati (dr. Franceschini, p. 44). Ma, detto tutto ciò, vorrei ancora pregare di non frainten
IL « MARCHESI » DI ANTONIO LA PENNA 669
dermi: anche nell'ultimo Marchesi la filologia, pur tanto meglio apprezzata e praticata, rimase un'attività marginale.
9. Tommaso Fiore e gli « intellettuali disorganici ». — Se ora, dopo essermi soffermato cosí a lungo sul Marchesi di La Penna (mettendo a dura prova la pazienza dell'eventuale lettore), non mi soffermo sul piú breve saggio su Tommaso Fiore interprete di Virgilio (pp. 107131), non è perché non lo consideri degno del precedente[...]