Brano: [...]restati alla monarchia e poi al regime fascista o della sua permanenza nel rettorato dell'Università di Padova sotto la repubblica fascista, è lodevole ricorrere a for
* A. LA PENNA, Concetto Marchesi: la critica letteraria come scoperta dell'uomo; con un saggio su Tommaso Fiore, Firenze, La Nuova Italia (« Biblioteca di cultura », 152), 1980, pp. 138.
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zature per giustificare tutto: guardiamo Marchesi come egli guardò Seneca, cercando di capire, non di condannare o giustificare tutte le sue debolezze. Chiunque discute di queste cose, dovrebbe prima leggersi il suo saggio su Seneca.
Ogni studio critico, ma piú che mai uno studio su una personalità di questa natura, esige da parte dell'autore la compresenza di due doti e di due atteggiamenti: da un lato quel distacco che impedisce di cadere nell'agiografia (e di agiografia, a proposito di. Marchesi, se ne è fatta troppa, da parte cattolica e da parte comunista, anche se, per esempio, l'amore di un Ezio Franceschini per la memoria del maestro è cosí caldo . e puro da rendere degne di rispetto certe evidenti forzature); dall'altro una convinzione che, al di là di aspetti caduchi, il personaggio preso in esame ci abbia las[...]
[...]í dire, meramente « contenutistiche » e analogie di espressione formale, le sole, queste seconde, che dimostrerebbero un effettivo rapporto di dipendenza (SM, in, p. 1234 s.; tale distinzione era stata enunciata anche in scritti precedenti, cfr. per es. SM, III, p. 1113: « sono solo le affinità formali gl'indizi imponenti delle derivazioni »). Ma è uno spunto che rimane inutilizzato o male utilizzato: lo studio del 1908 sulle fonti del Tieste di Seneca (SM, II, p. 493 ss.) prende in esame, sí, analogie di espressione, ma giustamente il La Penna (p. 23) lo giudica « poco piú che un elenco arido »; migliore è qualche altra ricerca (La Penna, p. 23 s.); ma Marchesi, critico pur non privo di senso stilistico, era piú capace di caratterizzare globalmente lo stile di uno scrittore che di analizzarlo puntualmente (egli cita quasi sempre passi tradotti, non testi in latino; e quanto anche la piú bella traduzione sia inadeguata a sostituire l'interpretazione non fu mai del tutto chiaro a lui, mentre fu chiaro, fin da Filologia e storia, a Giorgio Pa[...]
[...]ina 1939, p. v.). Su Marchesi mediocre traduttore in versi, ottimo in prosa (e ben presto egli predilesse la prosa, discostandosi dalla linea RomagnoliBignone), cfr. LA PENNA, p. 37 s. e, piú ampiamente, E. PIANEZZOLA nel vol. collettivo La traduzione dei classici a Padova, Padova, Antenore, 1976, p. 23 ss. Fra le poche traduzioni in versi riuscite, giustamente il Pianezzola (pp. 3638) cita e riporta la monodia di Tieste nell'omonima tragedia di Seneca e una parte del coro delle Troades sulla morte come annullamento.
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incomprensione, credo anche antipatia personale. Forse l'unica allusione a Pasquali (finora, che io sappia, non notata) si trova appunto in Filologia e filologismo, e riguarda ancora quella che a Marchesi sembrava una stortura nella moderna ricerca delle fonti, il voler rintracciare fonti diverse dalle poche dichiarate e confessate dagli stessi autori antichi: « Cosí non è creduto Orazio quando dichiara che i suoi ispiratori sono fra i lirici classici della Grecia » (SM, III, p. 1236). L'Orazio lirico[...]
[...]bbassata al vegetare di quel « volgo » verso cui, come abbiamo visto e ancora vedremo, il socialista e comunista Marchesi non riuscí mai a superare un aristocratico disprezzo. Nella conferenza su Lucrezio, dopo aver detto le parole già da noi riportate, che la scienza non potrà mai svelare l'arcano della vita, aggiungeva: « Perché se lo potesse un giorno, sarebbe morta la poesia »: una cosa, dunque, da non auspicare. E nella seconda edizione del Seneca (MessinaMilano 1934', p. 404) dichiarava: « Solo lo smarrimento e il dubbio aprono le porte dell'infinito allo spirito umano che la certezza costringerebbe nell'angustia e nell'inerzia di una immobile contemplazione ». Nell'atto stesso in cui condanna la certezza filosoficoscientifica, Marchesi sembra rifiutare anche la certezza religiosa. E nel capitolo del Seneca dedicato al problema della morte, Marchesi non considera, pare, come un progresso il passaggio del suo autore dall'immanentismo stoico, privo di fede nell'immortalità individuale, alla fede platonica: insiste piuttosto sul convincimento, co m u n e alle due concezioni, della morte come liberatrice dai dolori e dalle ansie della vita. Un pensiero analogo aveva già espresso nel saggio del 1910 sul Dubbio sull'anima immortale in due luoghi di
e pubblica rendono inamabile il volto della Chiesa impedendo alle rette coscienze di aderire ad una Verità che essi disonorano, questo libro è con infinit[...]
[...]fato greco », della religiosità siciliana di Marchesi), di M. VALGIMIGLI (ivi, p. 722 s.) e di A. CAsSARÀ (xIII, 1958, pp. 220222). Nel postumo Diario di una donna di SIBILLA ALERAMO, cosí irrimediabilmente e pietosamente egocentrico (Milano, Feltrinelli, 1978), le pagine su Marchesi (per es. 199, 309, 321, 428) sono tra le poche che dimostrano capacità di comprendere il dolore, la solitudine, l'ansia di un a 1 t r o .
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Seneca (in SM, ir, p. 719 ss.): qui, in modo ancor piú esplicito, dichiarava « immenso » il fascino della dottrina epicurea sulla morte, « la virtú consolatrice dell'annullamento mortale »; e mostrava, citando l'epistola 54 a Lucilio, come neanche negli ultimi anni Seneca fosse diventato un fermo credente nell'immortalità. E non a caso l'autore cristiano da lui piú amato (cfr. Voci di antichi, p. 159 ss.) è Arnobio, un retore pessimista e materialista, piú lucreziano che cristiano, negatore dell'immortalità dell'anima.
4. L'« antiromanità » della letteratura latina. — Ci siamo, senza volerlo, discostati alquanto dal tema dell'« homo » et « civis »: dobbiamo adesso ritornarvi. Fin dai profili anteriori alle opere di maggior mole (i profili formigginiani di Marziale, Petronio, Giovenale, ai quali La Penna, con piena ragione, attribuisce importanza decisiva per [...]
[...], sia ammirato da Marchesi per ragioni che puntano sull'homo e non sul civis: l'aristocratico disprezzo per il volgo, ma soprattutto il pessimismo storico e morale (cap. x); e come anche in Giovenale il critico sia affascinato, piú che dal rimpianto moralistico per i valori dell'età repubblicana, dalla capacità d'indagare, con indignata ma lucida amarezza, aspetti torbidi della psicologia umana che appartengono ad « ogni tempo » (p. 35). E anche Seneca, l'autore prediletto da Marchesi, è da lui, forse troppo, umanamente compreso per le sue incoerenze e debolezze politiche ed è poi esaltato per la sua tormentata interiorità morale da un lato, per il suo « cosmopolitismo » dall'altro: due fermenti entrambi dissolutori del nazionalismo romano.
Per quante riserve si debbano fare sul concetto marchesiano di « umanità eterna », è indubbio che la contrapposizione homocivis ha dato al critico una chiave preziosa per comprendere i valori piú profondi della letteratura latina, che non nascono dall'adesione al patriottismo e all'imperialismo romano, [...]
[...]moralità Marchesi ha tutte le ragioni; ma anche l'irrisione dell'oscenità è una forma fastidiosa di moralismo; il giudizio di Paratore su Marziale sarà troppo duro, ma ha la sua parte di verità). E d'altra parte non ci ha detto nulla neanche su quell'aspetto di vitalità sorgiva, « al di qua del bene e del male », che è un carattere di alcuni tra i piú vivi epigrammi, messo piú tardi in evidenza dal La Penna (« Maia » vut, 1955, p. 137). Anche al Seneca (il libro a cui probabilmente Marchesi teneva di piú, come dimostra la dedica alla memoria della persona da lui piú amata, sua madre) nuoce talvolta un eccesso di autobiografismo che è, insieme, un eccesso di psicologismo, di quella predilezione per le « anime tormentate » a cui già s'è accennato. L'ammirazione per Seneca passa ogni limite: da molti passi sembra chiaro che Marchesi lo consideri l'autore piú grande di tutta l'antichità, se non di tutta l'umanità. Nella
5 In un saggio giovanile su un volgarizzamento medievale della Pharsalia (SM, i, p. 247, segnalato brevemente dal LA PENNA, p. 21) Marchesi sembra aver intuito, attraverso il Fortleben di Lucano nel Medioevo, i due principali motivi ispiratori — strettamente legati l'uno all'altro — di questo poeta: l'esasperato e disperato libertarismo e la negazione della provvidenza divina. Ma nella Storia questa intuizione ha scarso sviluppo; e il capitolo s[...]
[...]e la negazione della provvidenza divina. Ma nella Storia questa intuizione ha scarso sviluppo; e il capitolo su Lucano è oscillante e scialbo.
IL « MARCHESI » DI ANTONIO LA PENNA 645
prima edizione (Messina, Principato, 1920) tale è l'identificazione del critico col suo autore, che la parte sulle opere viene ad essere costituita in misura preponderante da lunghissimi brani tradotti, quasiché non vi fosse pressoché nulla da aggiungere a ciò che Seneca disse (questa caratteristica si attenua nella seconda edizione, che reca il segno di un faticoso rifacimento, anche se il giudizio complessivo su Seneca non muta).
Quanto a Tacito, il La Penna ha, come si è visto, indicato le ragioni per cui questo patriota, imperialista, conservatore in politica interna ha tuttavia profondamente interessato Marchesi. Oserei dire che, per alcuni aspetti (soprattutto per l'acutezza di certi giudizi politici, cfr. La Penna, p. 65 s.), il Tacito è superiore al Seneca proprio perché l'identificazione fra il critico e il suo autore è meno immediata. Forse, però, Marchesi ha visto troppo poco in Tacito la coscienza (ad un livello piú profondo del livello « patriottico ») dell'iniquità dell'imperialismo romano e del suo avviarsi alla decadenza,, nonostante l'età « aurea » di Nerva e di Traiano. Egli accenna — ed è vero — che Tacito narra senza un moto di pietà i massacri di barbari compiuti dai soldati romani; soltanto tardi, negli Annali, si farebbe strada talvolta un moto di « ammirazione e di riverenza a quei barbari eroici » (p. 165, 2a ed. p. 158); ma an[...]
[...]a » espresso dall'arte, quale Marchesi ritrovava nei suoi amati Petronio e Marziale, un'altra è il vitalismo affermatosi tra fine Ottocento e prime) Novecento. « Volontà di potenza », « slancio vitale » sono concetti e sentimenti estranei a chi sentiva tutta la propria vita dominata da « ansietà e sazietà », a chi diceva: « le cose, appena le tocco, mi diventano vecchie » (cfr. Franceschini, op. cit., p. 21), a chi si identificava soprattutto in Seneca (in quel Seneca cosí poco amato da Nietzsche), ossia in un « preparatore alla morte ». Con molte riserve parlerei anche di estetismo, perché Marchesi non ha mai pregiato l'arte per l'arte, ma ha visto in essa, come s'è detto, un modo di rappresentare il dramma umano e di consolare (parzialmente) dall'infelicità. Chiamerei estetizzanti solo alcune prose meno felici di Marchesi, quelle (frequenti soprattutto nel Libro di Tersite) in cui l'autore si rivolge a una non meglio identificata signora, con un tono fra il galante e lo gnomico. Ma queste pagine non aggiungono alla figura di Marchesi nessun tratto import[...]
[...]onografie », erano aspetti della sua personalità che — uso una felice espressione del La Penna, p. 78, a proposito della Storia della letteratura latina — « convergevano con una certa impostazione idealistica ». E infatti, come ricorda ancora il La Penna, la Storia fu lodata da Croce (cfr. Storia della storiografia italiana nel sec. XIX, ir, Bari 19473, p. 197) ed ebbe ottima accoglienza nella cultura italiana degli anni Trenta. Prima ancora, il Seneca era stato accolto da Gentile nella collana di « Studi filosofici » da lui diretta presso Principato, ed era stato recensito assai favorevolmente da Adolfo Omodeo (Tradizioni morali e disciplina storica, Bari, Laterza, 1929, pp. 107117). A sua volta, Marchesi, pur non desistendo mai dalle sue puntate contro la filosofia « incapace di consolare », non s'impegnò mai in polemiche esplicite contro l'idealismo crociano e gentiliano e contro l'estetica crociana 10; non è improbabile che,
Io Una sua replica a Croce di argomento politico, assai rispettosa e tendente a conciliare piú che ad accentuare[...]
[...]ibro di La Penna, vorremmo dire qualcosa è l'attività di Marchesi come filologo classico, e più precisamente come critico testuale. Il La Penna (cap. III) valuta, in complesso, severamente le edizioni critiche o semicritiche (chiamo cosi i commenti scolastici muniti di piú o meno sporadici contributi criticotestuali: un genere ibrido, ma nel quale dettero alcune buone prove il Terzaghi, il Galante ed altri) dell'Orator di Cicerone, del Tieste di Seneca, del De magia di Apuleio, dell'Ars amatoria di Ovidio; .considera con maggiore benevolenza alcune ricerche su codici di autori antichi (molte di piú, e piú fruttuose, il Marchesi ne compi su codici di autori medievali e umanistici) e in particolare mette in risalto il valore degli studi sugli scolii a Persio (SM, II, pp. 907983); sottolinea che un progresso criticotestuale assai notevole fu compiuto dal Marchesi con l'edizione di Arnobio (Torino 1934, 19532). Tuttavia anche riguardo a quest'ultima il La Penna ammonisce che « va lodata con misura », e vi ravvisa il difetto di tutta la critica [...]
[...] suoi interessi era altrove.
Su due punti, tuttavia, mi sembra necessaria una precisazione. Per quel che riguarda il primo periodo dell'attività criticotestuale di Marchesi (cioè fino all'Arnobio escluso), mentre le edizioni dell'Orator, del De magia e dell'Ars amatoria vanno abbandonate senza rimpianti al giudizio negativo del La Penna — si potrà sempre discutere su qualche singolo passo, ma il quadro d'insieme non muta —, quella del Tieste di Seneca è un'edizione che presenta alcune imprecisioni di metodo nella trattazione sui codici, alcune scelte di varianti erronee o discutibili, purtroppo anche un terribile manes in fine di trimetro giambico (al v. 93: fra i « guasti » segnalati dal La Penna a p. 27 manca questo, che è certamente il piú spiacevole, tanto più in quanto rappresenta l'unica congettura che il Marchesi, critico conservatore, introdusse nel testo: magari fosse stato, questa volta, conservatore, e avesse lasciato stare manus, che va benissimo!); e tuttavia, in confronto alle edizioni del Leo e di PeiperRichter che allora er[...]
[...]stizione, fino a considerare tutte le varianti della numerosissima famiglia A come frutto di con gettura, e a far tutto il possibile per non accoglierle nel testo nemmeno come congetture, e a introdurre molte congetture sue e del Wilamowitz, quasi tutte infelici (il Leo piú tardi eccelse anche nella critica testuale, come editore di Plauto; ma buon congetturatore non fu mai; e il Wilamowitz non era buon critico di testi latini, e meno che mai di Seneca). Il Peiper e il Richter nell'edizione del 1902 (dovuta principalmente al Richter, per la prematura morte del Peiper) si accorsero che i codici A, accanto a numerosissime banalizzazioni e alterazioni arbitrarie (altre, del resto, ne aveva anche E, benché in molto minor misura), presentavano lezioni sicuramente giuste e non congetturali; e cercarono di districare la genealogia dei codici A. Ma questa operazione doveva riuscire soltanto assai piú tardi (e pur sempre imperfettamente: gli studiosi piú recenti, certo molto meritevoli, ostentano tuttavia troppa baldanza); e le lezioni di A accolte [...]
[...]recenti, certo molto meritevoli, ostentano tuttavia troppa baldanza); e le lezioni di A accolte dal Richter erano ancora, di gran lunga, troppo poche, e troppe le congetture, non piú felici di quelle del Leo. Perché apparisse chiaro quanto di buono si poteva ancora ricavare da A (anche senza affrontare il problema dei rapporti genealogici all'interno di questa famiglia) e di quante congetture inutili andasse sbarazzato il testo delle tragedie di Seneca, dovevano venire, dal 1926 in poi, gli studi di Gunnar Carlsson, che rimangono fondamentali, sebbene in alcuni casi il Carlsson si sia spinto troppo oltre.
Marchesi non aveva nel 1908 e non ebbe nemmeno piú tardi l'attitudine ad affrontare complessi problemi di genealogia dei codici (non la ebbero nemmeno, è bene ricordarlo, filologi suoi coetanei o suoi predecessori della forza di Cornparetti, Piccolomini, Vitelli, Sabbadini, Castiglioni; il gusto per problemi stemmatici si fece strada lentamente in Italia); è doveroso aggiungere che, anche se avesse avuto interessi di questo tipo, non avre[...]
[...]vo della possibilità di lunghi soggiorni all'estero e basandosi sul solo Tieste, dare un contributo alla stemmatica dei piú di 300 codici della classe A; e non si può nemmeno deplorare che egli abbia rinunciato alla sua vocazione fondamentale di critico letterario per ingolfarsi in un lavoro specialistico che, anche a saperlo fare, avrebbe richiesto anni e anni. L'immagine complessiva che egli aveva della tradizione manoscritta delle tragedie di Seneca (cfr. p. 28 s.) è quella che prevaleva quando egli compi la sua edizione, con un'accentuazione maggiore di quella del Richter a favore di A (e qui, già prima del Carlsson, egli vedeva giusto), ma senza smarrire la consapevolezza della superiorità di E. Volendo, comunque, dare un contributo alla conoscenza di alcuni codici A piú o meno contaminati, egli dette una sommaria notizia dei manoscritti fiorentini, soffermandosi con particolare predilezione sul Riccardiano 526 (sec. xiii: cfr. pp. 29, 3337). A proposito delle lodi che il Marchesi tributa a questo codice, il La Penna fa un'osservazione[...]
[...]itate). Al v. 715 tantum scelus di A (preferito dal Marchesi contro saevum scelus di E e degli editori) non è sicuro, tuttavia ha, nella sua indeterminatezza, maggior forza enfatica, e l'ipotesi del Marchesi sulla genesi dell'altra lezione non è trascurabile. Al v. 563
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concordo col La Penna (e con tutti gli editori tranne Marchesi) nel ritenere che l'ordine delle parole di E sia piú consono allo stile di Seneca; eppure il confronto addotto da Marchesi con l'ordine delle parole nel modello virgiliano non è privo di finezza, e la lezione che egli preferisce non è tramandata dal solo Riccardiano, ma dall'intera classe A.
Questa mia difesa dell'edizione del Tieste va considerata, intendiamoci, come una difesa ben delimitata: i grossi difetti a cui già abbiamo accennato restano, e l'edizione rimane il lavoro di uno studioso non privo di qualità anche in critica testuale, ma immaturo.
Diverso è il caso dell'edizione di Arnobio. Su essa il La Penna si sofferma ampiamente, mostrandosi ottimo conoscitore d[...]
[...]all'italiana », che in gran parte era rinuncia a interpretare il testo, tendenza a giustificare tutto in ossequio alla « tradizione », rivendicazione grottescamente patriottica di una sorta di « buon senso italico » contro le folli audacie dei filologi tedeschi. Di questo tipo era stato il conservatorismo di Marchesi nelle edizioni anteriori a quella di Arnobio (il che non esclude, come si è visto, che in parecchi casi, a proposito del Tieste di Seneca, egli avesse ragione): sia pure con minore virulenza di un Romagnoli, aveva anch'egli accolto la connotazione patriottica del proprio indirizzo criticotestuale: nell'introduzione al Tieste il Leo e il Richter sono chiamati, in contesti polemici, « gli studiosi tedeschi », « gli editori tedeschi » (pp. 29, 38), e di « pernicioso influsso germanico », di « metodiche aberrazioni della cultura germanica » a cui gli italiani devono opporre « una cultura latina [ ... ] fondata sul "buon senso" ch'è sapientia » si parla con insistenza — riferendosi anche alla critica testuale — in Filologia
e filol[...]