Brano: Porta San Paolo
derazione » degli Alleati. Roma fu il luogo dove si espresse una prima forma di riscatto da parte di un popolo deciso a prendere in mano il proprio destino e fu il primo « laboratorio » della Resistenza. Fu anche il luogo in cui, nella carenza delle autorità statuali, la Resistenza si fece governo, attraverso il Comitato centrale di liberazione nazionale (modello ispiratore degli analoghi comitati locali) e dove i partiti antifascisti sperimentarono i loro ancora sparuti drappelli, che diventeranno poi !’« esercito » della Resistenza.
La preparazione
Nei 45 giorni del governo Badoglio la città, per la concomitante preoccupazione di garantire l’incolumità e la sicurezza della monarchia, del papato, del governo, era stata quasi « fortificata », dotata di una specie di « cintura di sicurezza », costituita da numerose Divisioni. (« Piave », « Ariete », « Piacenza », « Granatieri »), ulteriormente rafforzata nei primi giorni di settembre con unità ritirate da fronti esterni e qui concentrate (Si veda Armistizio e difesa di Roma).
In più, tra la fine di agosto e i primi di settembre, con l’avallo di Badoglio, i partiti di sinistra, soprattutto
il P.C.I. ma anche il P.d’A. e il P:S.I., avevano cominciato a darsi a Roma una prima organizzazione militare, singolarmente e poi anche comune.
Il 30 agosto era nata la Giunta militare, in cui Luigi Longo, Mauro Scocci mar ro e Giorgio Amendola rappresentavano il P.C.I.; Riccardo Bauer, Ugo La Malfa ed Emilio Lussu
il P.d’A., Pietro Nenni e Giuseppe Saragat il P.S.I..
C’erano stati anche i primi addestramenti militari ed era stato trascritto sulla carta il potenziale militare antifascista. Longo aveva steso per il Comitato delle opposizioni un « promemoria », in cui si esprimeva la necessità di « formare e armare 'unità popolari »; si erano stabiliti contatti fra il generale comandante del Corpo d’armata motocorazzato di Roma, Giacomo Carboni, e i rappresentanti dei partiti antifascisti. Insomma era in corso nella Capitale un serio tentativo, da parte degli antifascisti, non soltanto di presentarsi come forza sollecitatrice e proponitrice a livello politico (contro i ritardi, le incertezze e la politica sostanzialmente antipopolare del governo Badoglio), ma anche di prevedere l’immediato corso degli eventi e di prepararsi allo scontro armato con i
tedeschi. Gli antifascisti, addestratisi negli anni della clandestinità, dell’esilio e della guerra di Spagna vedevano ben oltre la « piccola » politica di Badoglio.
La battaglia
All’alba del 9 settembre il re, il governo e le autorità militari abbandonarono Roma, preoccupati unicamente delle loro persone e fecero spostare le Divisioni « Ariete » e « Piave » su Tivoli, con il chiaro intento di essere protetti nella fuga (v. Pescara, Fuga c/i). Essi lasciarono i loro diretti collaboratori senza ordini, dimenticando di confermare persino le vaghissime indicazioni di lotta antitedesca prefigurate nell’ambigua circolare O.P. 44 del 2 settembre, unico frutto della inerte e colpevole strategia degli Alti Comandi.
Alla periferia di Roma i soldati combatterono per due giorni, fino alla mattina del 10 settembre. Poi, intorno a Porta San Paolo, dopo una disperata quanto vana resistenza tentata dalla Divisione Granatieri intorno al ponte della Magliana, nonché nel popolare quartiere della Montagnola e al Forte Ostiense, fra un susseguirsi di ordini e contrordini, i soldati si opposero ancora ai tedeschi.
A Porta San Paolo si attestarono i superstiti della Divisione Granatieri che combattè ininterrottamente dalla notte del 9, sostenuta dai Lancieri del Genova Cavalleria, da reparti della Divisione « Sassari », da militi della P.A.I. (Polizia Africa Italiana) e da truppe dei depositi, tutti giunti peraltro tardivamente.
Intorno alle antiche mura, al riparo di vetture tranviarie rovesciate, dietro barricate erette con pietre divelte dal selciato, accanto ai soldati si trovarono lavoratori e militanti antifascisti di varia estrazione.
Militari e civili si apprestano a resistere ai tedeschi a Porta San Paolo. A destra, in borghese: Raffaele Persichetti (10.9.1943)
Al comando d’un plotone si trovò il professore Raffaele Persichetti (v.) che fece proprie le armi di un caduto. Tra i dirigenti del movimento antifascista, furono a Porta San Pao
lo i comunisti Longo, Antonello Trombadori, Fabrizio Onofri; gli azionisti Lussu, Cencio Baldazzi, La Malfa; i socialisti Sandro Pertini, Eugenio Colomi, Zagari, Achille Corona, i cattolici comunisti Romualdo Chiesa e Ossicini; il dirigente sindacalista Bruno Buozzi e tanti altri. Ma, accanto a questi, furono la parte migliore della classe operaia, popolani, studenti, soldati non inquadrati. Lungo gli antichi bastioni venne improvvisato un fronte di resistenza.
Il plotone di Persichetti si dispose a ridosso delle Mura aureliane, a difesa della via Ostiense, fino ai Mercati generali. Uno squadrone del Reggimento Genova Cavalleria, agli ordini del tenente colonnello Enzo Nisco, si schierò insieme a una trentina di cavalleggeri guidati dal tenente colonnello Franco Vannetti Donnini. Un altro reparto, al comando del tenente Francesco SaintJust, si attestò come in una trincea sulle alture di San Saba, mentre alcune decine di granatieri del capitano Giulio Gasparri sbarrarono l’accesso al popolare quartiere di Testaccio, difeso anche dai carri leggeri e dalle camionette del capitano Camillo Sabatini.
Sulla linea del fuoco arrivarono i civili, armati nei modi più disparati. La storia dell'accanita caccia alle armi dei giorni precedenti (armi prima concesse dal generale Carboni e accantonate in depositi, poi sequestrate, infine riprese dagli antifascisti) fu un aspetto non secondario del contraddittorio modo di procedere delle varie aut[...]
[...]ome in una trincea sulle alture di San Saba, mentre alcune decine di granatieri del capitano Giulio Gasparri sbarrarono l’accesso al popolare quartiere di Testaccio, difeso anche dai carri leggeri e dalle camionette del capitano Camillo Sabatini.
Sulla linea del fuoco arrivarono i civili, armati nei modi più disparati. La storia dell'accanita caccia alle armi dei giorni precedenti (armi prima concesse dal generale Carboni e accantonate in depositi, poi sequestrate, infine riprese dagli antifascisti) fu un aspetto non secondario del contraddittorio modo di procedere delle varie autorità militari, strette fra condiscendenza ad armare un « esercito » popolare e paura di una iniziativa popolare armata. Alcuni civili arrivarono a piedi, altri su camion superando gli ostacoli incontrati anche durante il percorso (due camion carichi di socialisti furono fermati dai carabinieri a Piazza Venezia e i patrioti dovettero insistere parecchio per non essere disarmati).
La difesa di Roma era però condannata, prima ancora che dalla inferiorità nu[...]
[...]e riprese dagli antifascisti) fu un aspetto non secondario del contraddittorio modo di procedere delle varie autorità militari, strette fra condiscendenza ad armare un « esercito » popolare e paura di una iniziativa popolare armata. Alcuni civili arrivarono a piedi, altri su camion superando gli ostacoli incontrati anche durante il percorso (due camion carichi di socialisti furono fermati dai carabinieri a Piazza Venezia e i patrioti dovettero insistere parecchio per non essere disarmati).
La difesa di Roma era però condannata, prima ancora che dalla inferiorità numerica dei difensori, dallo spontaneismo e dalla mancanza di coordinamento. L’anziano marescial
lo d’Italia Enrico Caviglia (v.) che, nell’assenza di tutti i Comandi, si era arrogato una sorta di « diritto di supplenza » militare ottenendo dal re rifugiato a Brindisi l’avallo alle sue iniziative, fin dal 9 settembre trattava con i tedeschi.
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