Brano: SAGGI E STUDI
QUANDO È IL PRESENTE? RILKE DI FRONTE ALLE PAROLE
A Cita e Sergio Nordio
Nel racconto Im Gespräch, che piú tardi Rilke doveva rinnegare insieme alle altre novelle giovanili, si parla dell'oro dell'infanzia. D'oro sono le cose, le forme del castello incantato nel quale la vita sembra abitare, ma quando il padre le nomina queste forme s'irrigidiscono e muoiono, le cose scoprono di non appartenere a se stesse e di non esistere di per sé bensí di essere posate in modo che ognuno possa maneggiarle. L'oro dell'infanzia, prosegue il racconto, subisce una progressiva svalutazione via via che il padre dice la realtà e si riduce infine a cartamoneta, a sua volta intaccata da un'inflazione crescente che precipita in una[...]
[...]lori. Il linguaggio è contraddittorio, perché è insieme stabile gerarchia, che impartisce un ordine al caotico fluire del molteplice e lo racchiude in un'unità definita, ed irrequieta immobilità mercuriale, che scambia e sostituisce ogni cosa con un'altra, con tante altre possibili. Il linguaggio dice, come suona il celebre passo della Nona Elegia, parole precise e irrevocabili: casa, ponte, fontana, anfora, porta, ciliegio, finestra. Al giovane Rilke, non ancora ritiratosi nell'assolutezza e nell'autosufficienza della parola come nelle Elegie, questa compiutezza definitiva appare un arbitrio, una violenza imposta alla vita che è fluire, trascorrere, svanire, indistinto fluttuare e pulviscolo impalpabile. L'unità che il linguaggio ritaglia dal trascorrere indifferenziato rilutta all'individualità — e cioè al confine — che le viene imposta e ch'essa sente quale carcere, quale pietra tombale. Casa, ponte e fontana — le parole casa, ponte e fontana — scindono la trascolorante unità della vita in arbitrarie distinzioni, rigidamente separate co[...]
[...]UDIO MAGRIS
campi delle famiglie stesse. L'autorità del padre, nel racconto citato, possiede le cose nell'atto stesso del nominarle — ossia definirle — e con ciò le uccide. Ma il linguaggio, sistema di segni che stanno per le cose, è lo strumento per eccellenza dello scambio, come e piú del denaro, trasmuta le cose l'una nell'altra, è un veicolo della loro circolazione e della loro trasformazione; è — come il denaro — l'anima del commercio, che Rilke, avverso all'anonimo livellamento industriale, ammirava per la sua « originalità e gioventú », per la sua capacità di collegare i continenti ed accostare il vicino al lontano.
Le parole appaiono dunque sia cose ritagliate dal tutto della vita — come gli abitanti di quel paese visitato da Gulliver, che anziché dire « pietre » indicano e prendono in mano delle pietre — sia monete che sostituiscono le cose. In entrambi i casi, tuttavia, esse distruggono o perdono la vita. In una delle poesie giovanili si dice che le parole sono soltanto dei muri, dietro i quali brilla il senso; la vita, prosegu[...]
[...]on linguistica, che non gerarchizza il molteplice né sostituisce la sua immediatezza, bensí coincide col loro apparire, con il loro presentarsi: il fiore, nel Malte, non dice di appartenere all'una o all'altra classe o sottoclasse di vegetali né sta per alcun fiore, ma dice soltanto « rosso », esibisce con evidenza la propria den sità semantica al di là di ogni convenzione e sostituzione segnica. La crisi del linguaggio sembra dunque indirizzare Rilke, come Lord Chandos, alla ri
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cerca di un'altra lingua « in cui parlino le cose mute », di un'epifania del senso non riconducibile alle articolazioni del linguaggio. Letta con quest'intonazione d'animo, la famosa ed ambigua frase che conclude il Tractatus di Wittgenstein — di ciò di cui non si può parlare si deve tacere — finirebbe per significare che oltre i limiti del dicibile si colloca non l'irrilevante, ciò che è indegno di venir considerato, bensí l'essenziale, il senso della vita. La semantica, la dimensione del senso, non sarebbe riconducibile ad una semiologia, a un'organizzazione dei s[...]
[...]bensí l'essenziale, il senso della vita. La semantica, la dimensione del senso, non sarebbe riconducibile ad una semiologia, a un'organizzazione dei segni, e ancor meno alla linguistica, come vorrebbe Barthes.
La vita e la parola sembrano cosí contrapporsi o almeno divaricarsi; il senso è prigioniero della parola, che — nella lirica citata — viene definita quale dominio. Attento e calcolatore nell'arte di cancellare le tracce delle sue letture, Rilke amava presentarsi quale nonlettore di libri — tranne pochi, scelti ed esibiti secondo una strategia precisa — e proclamava soprattutto di non leggere filosofi. Fra gli autori parzialmente rimossi o nascosti c'è anche Nietzsche, nonostante le postille dedicate da Rilke alla Nascita della tragedia. La lezione di Nietzsche è presente, nell'opera di Rilke, anche nell'ambiguo accento del rapporto fra la vita e la parola. Nietzsche scorge in ogni parola un « pregiudizio » ossia una sistemazione gerarchica precostituita, che irrigidisce la vita e ne soffoca il selvaggio brulicare; la conoscenza, che vorrebbe fissare lo sguardo nel fluire dionisiaco non ancora immobilizzato dalla forma, inciampa in « parole dure come sassi » e finisce per « rompersi una gamba ». Se ci si vuole liberare di Dio, dice colui che vuole trasvalutare tutti i valori, occorre soprattutto liberarsi del soggetto psicologico e sintattico, che organizza e sclerotizza la vita n[...]
[...] MAGRIS
campi delle famiglie stesse. L'autorità del padre, nel racconto citato, possiede le cose nell'atto stesso del nominarle — ossia definirle — e con ciò le uccide. Ma il linguaggio, sistema di segni che stanno per le cose, è lo strumento per eccellenza dello scambio, come e piú del denaro, trasmuta le cose l'una nell'altra, è un veicolo della loro circolazione e della loro trasformazione; è — come il denaro — l'anima del commercio, che Rilke, avverso all'anonimo livellamento industriale, ammirava per la sua « originalità e gioventú », per la sua capacità di collegare i continenti ed accostare il vicino al lontano.
Le parole appaiono dunque sia cose ritagliate dal tutto della vita — come gli abitanti di quel paese visitato da Gulliver, che anziché dire « pietre » indicano e prendono in mano delle pietre — sia monete che sostituiscono le cose. In entrambi i casi, tuttavia, esse distruggono o perdono la vita. In una delle poesie giovanili si dice che le parole sono soltanto dei muri, dietro i quali brilla il senso; la vita, prosegu[...]
[...]non linguistica, che non gerarchizza il molteplice né sostituisce la sua immediatezza, bensí coincide col loro apparire, con il loro presentarsi: il fiore, nel Malte, non dice di appartenere all'una o all'altra classe o sottoclasse di vegetali né sta per alcun fiore, ma dice soltanto « rosso », esibisce con evidenza la propria densità semantica al di là di ogni convenzione e sostituzione segnica. La crisi del linguaggio sembra dunque indirizzare Rilke, come Lord Chandos, alla ri
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cerca di un'altra lingua « in cui parlino le cose mute », di un'epifania del senso non riconducibile alle articolazioni del linguaggio. Letta con quest'intonazione d'animo, la famosa ed ambigua frase che conclude il Tractatus di Wittgenstein — di ciò di cui non si può parlare si deve tacere — finirebbe per significare che oltre i limiti del dicibile si colloca non l'irrilevante, ciò che è indegno di venir considerato, bensí l'essenziale, il senso della vita. La semantica, la dimensione del senso, non sarebbe riconducibile ad una semiologia, a un'organizzazione dei s[...]
[...]bensí l'essenziale, il senso della vita. La semantica, la dimensione del senso, non sarebbe riconducibile ad una semiologia, a un'organizzazione dei segni, e ancor meno alla linguistica, come vorrebbe Barthes.
La vita e la parola sembrano cosí contrapporsi o almeno divaricarsi; il senso è prigioniero della parola, che — nella lirica citata — viene definita quale dominio. Attento e calcolatore nell'arte di cancellare le tracce delle sue letture, Rilke amava presentarsi quale nonlettore di libri — tranne pochi, scelti ed esibiti secondo una strategia precisa — e proclamava soprattutto di non leggere filosofi. Fra gli autori parzialmente rimossi o nascosti c'è anche Nietzsche, nonostante le postille dedicate da Rilke alla Nascita della tragedia. La lezione di Nietzsche è presente, nell'opera di Rilke, anche nell'ambiguo accento del rapporto fra la vita e la parola. Nietzsche scorge in ogni parola un « pregiudizio » ossia una sistemazione gerarchica precostituita, che irrigidisce la vita e ne soffoca il selvaggio brulicare; la conoscenza, che vorrebbe fissare lo sguardo nel fluire dionisiaco non ancora immobilizzato dalla forma, inciampa in « parole dure come sassi » e finisce per « rompersi una gamba ». Se ci si vuole liberare di Dio, dice colui che vuole trasvalutare tutti i valori, occorre soprattutto liberarsi del soggetto psicologico e sintattico, che organizza e sclerotizza la vita n[...]
[...]enza e dominio, il linguaggio anche affascina Nietzsche, gli sembra non certo espressione della vita — della sua verità, del suo senso — bensí forza capace di soggiogare la vita o, com'egli dice, « estensione dello sguardo su maggiori moltitudini e vastità [ ... ] espressione di una volontà vittoriosa, di un coordinamento intensificato, [ ... ] di una spinta di gravità infallibilmente perpendicolare ».
Dietro le parole vi può quindi essere, per Rilke, il senso della vita che riluce inattingibile oppure la materia bruta da plasmare; le parolemuri appariranno ostacoli da superare, oltre i quali gettare lo sguardo nostalgico verso la vita, o superbi strumenti di dominio che bastano a se stessi. Dal pendio della montagna, nella Nona Elegia, il viandante non reca a valle un pugno di terra o una genziana, bensí « ein erworbenes Wort », la parola genziana. Il cammino di Rilke procede dalla parola che si protende nostalgica verso la vita ed il senso alla parola che li esclude e si pone, quale realtà assolutamente autosufficiente, in luogo di essi, cosí come la regola di gioco della scacchiera basta a se stessa e non cerca altrove, fuori di sé, il suo senso. Il giovane Rilke sembra invece desideroso di arrampicarsi sulla parolamuro, per affacciarsi sul brillare del senso che risplende sulle vette lontane. Rilke non può certo definire questa vita misteriosa e luminosa, perché la colloca dietro le parole e d'altronde, per definirla, non ha a sua disposizione che parole. Tale vita può venire indicata solo per via negativa, quale privazione e assenza: è la Mulde di cui Rilke parla cosí spesso, la forma cava e vuota che le parole circoscrivono e aggirano senza penetrare, è il negativo di cui l'opera d'arte può essere solo un calco.
Se la morte, come scrive Rilke il 10 novembre 1925 a Witold Hulewicz, è l'altra faccia della vita, « il lato della vita rivolto altrove da noi, non illuminato da noi », la vita in sé, pura e scevra dalle determinazioni particolari che la qualificano e delimitano, assomiglia alla morte, è morte in quanto è puro spazio vuoto e indeterminato, assenza e concavità. « Quando è il presente? » si chiede Rilke in una lettera a Lou AndreasSalomé dell'11 febbraio 1922. Jacobsen, verso il quale Rilke dichiara ripetutamente il suo debito e la sua ammirazione, gli aveva insegnato che il presente, cioè la vita, non è mai. Niels Lyhne attende sempre di partire « verso le terre di Spagna della vita », è avvolto dall'alone di tutto ciò che gli manca, sogna il « riflesso della magnificenza e il tintinnio delle monete della vita », che ballano nella sua tasca senza che egli possa spenderle mai. La canzone popo
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lare boema, e forse l'infanzia o l'adolescenza slava che il giovane Rilke identifica miticamente con Praga, sono il palpito di quest'intensità della vita vissuta quale assenza. Alla fine dell'infanzia, come dicono i parenti al fittizio protagonista dell'Ermellino a Cernopol di Rezzori, si entra nella vita, della quale essi gli decantano le gioie e le soddisfazioni che egli, tuttavia, ha l'impressione non lo riguardino, come se fossero le mercanzie dell'emporio Dobrowolski & Dobrowolski magnificate dai titolari della ditta.
Rilke è un grande poeta di questo iato che, nella letteratura e nella realtà moderna, s'è aperto fra l'io e la vita, per cui quella non è piú l[...]
[...]fica miticamente con Praga, sono il palpito di quest'intensità della vita vissuta quale assenza. Alla fine dell'infanzia, come dicono i parenti al fittizio protagonista dell'Ermellino a Cernopol di Rezzori, si entra nella vita, della quale essi gli decantano le gioie e le soddisfazioni che egli, tuttavia, ha l'impressione non lo riguardino, come se fossero le mercanzie dell'emporio Dobrowolski & Dobrowolski magnificate dai titolari della ditta.
Rilke è un grande poeta di questo iato che, nella letteratura e nella realtà moderna, s'è aperto fra l'io e la vita, per cui quella non è piú la sua vita, ma un territorio nel quale egli non riesce a penetrare e ad insediarsi. L'esistenza di Malte è un'estraneità che non gli appartiene ed alla quale egli non sente di appartenere, una continua fuga di qualcosa ch'egli non ha mai posseduto, e che quindi non è suo, ma di cui egli ha nostalgia, come se l'avesse perduto. Malte vive nella nostalgia della vita: non di una sua forma particolare e determinata di cui egli lamenti la mancanza, o di qualche be[...]
[...]ua vita è tutta e soltanto il « rimpianto senza nome / muto in me della vita », di cui dice una lirica di Hofmannsthal, è un vedere allontanarsi la vita.
La nostalgia di Malte va ad un'esistenza che non c'è stata mai, a una pienezza di senso e di felicità che il bambino soltanto attendeva e l'adulto soltanto rimpiange. Vivere, per Malte, significa estraniarsi alla vita, prendere ininterrottamente congedo da essa. Quando è il presente, si chiede Rilke, cosí come Oblomov s'era chiesto: quando si vive? Per Malte l'unico presente è quello delle parole, ch'egli scrive ricordando o immaginando la vita, non quello della vita ricordata (cioè passata) o immaginata (ossia futura) e dunque mai presente. La vita non è mai. Scrivere significa, all'inizio, arginare o differire questo mai. La metropoli ovvero la civiltà moderna, nella quale Malte si disgrega, non sembra conoscere il presente ma soltanto un trascorrere, un divenire che non è un itinerario a una meta, il quale dia senso ad ogni tappa del cammino, bensí un dileguare, un continuo nonessere.[...]
[...]ta un paese inabitabile: « nel mondo spiegato e interpretato — dice la prima Elegia — noi non siamo di casa ». La parola che spiega, specialmente quella scritta, isterilisce e dissecca quel terreno vitale nel quale l'individuo vorrebbe affondare le proprie radici, legarsi organicamente col tutto onde poter veramente abitare, essere a casa nella vita.
L'aridità che segue al Malte, la siccità spirituale che avvolge gli anni
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successivi e che Rilke piú volte confessa, deriva forse anche da questa scissione fra la spiegazione ed il senso, la parola e la vita. Con radicale e dolorosa coerenza Rilke opterà per la rinuncia al senso, accogliendo la lezione piú pura del pensiero negativo fiorito con particolare rigore nella cultura danubiana. La crisi che investe le scienze — soprattutto la matematica — e la filosofia, distruggendo la possibilità di fondarle oggettivamente, conduce — con Hertz e Boltzmann e specialmente con Wittgenstein — a ridurre il fondamento a mera convenzione operativa. L'immagine trova la sua validità non nell'eventuale accostamento a un valore, bensí nella funzionalità del suo meccanismo, come una pedina nel gioco degli scacchi; la parola diviene pura regola di gioco[...]
[...]anza. Non esiste il nucleo dell'Azione Parallela di Musil né il centro dell'anello che Clarisse si sfila dal dito, non esiste la ji — 1, ma il segno i, che indica qualcosa d'inesistente e serve per calcoli utili a fini pratici. Il Sagen rilkiano diviene un gesto assoluto, che non rimanda ad alcun senso bensí soltanto alle proprie regole ed alla propria tecnica; la genziana strappata alle tenebre è la parola « genziana ».
Ogni poesia diverrà per Rilke veramente una cosa, una cosa fra le cose anziché una loro espressione che cerca di dirle. La vita che si ritira nell'invisibile — nota Cacciari —, che si fa parola, non le affida una sua essenza ma svanisce dal mondo. « Noi siamo forse gli ultimi che abbiano ancora conosciuto tali cose », scrive Rilke; tali cose sono semplicemente la vita — la casa, la fontana, la vite — che precipita nell'invisibile. Questa trasformazione, di cui tutti — anche e particolarmente i poeti — sono responsabili, è la grande alienazione dell'occidente, il suo nichilistico destino che lo vota all'oblio del senso e dei valori — Heidegger direbbe all'oblio dell'essere. Tale trasformazione è « tremenda », come l'angelo che l'annuncia, ma Rilke, conscio che « questi trasformatori della terra siamo noi », considera un dovere accettare il tremendo e far fronte a questo compito di trasformazione, cui l'esistenza ormai « abilita » l'intellettuale ed il poeta.
L'ultima fase della vita di Rilke è tutta votata, come indicano specialmente le lettere da Muzot, all'eroica dedizione a questo unico scopo, a ridurre la vita e a trasformarla in lavoro. Piú volte egli ribadisce, nell'epistolario, di « appartenere tutto a una sola cosa: al suo lavoro » e di dovere perciò « respingere molto di grande e di buono » ossia la vita. La sua febbrile ed assillante attività epistolare gli serve non già a congiungersi con gli altri, ma a tenerli lontani; è anch'essa una muraglia cinese ossessiva e fatale, le cui pietre murarie sono le parole, anonime e interscambiabili come le impersonali intestazioni:[...]
[...]rve non già a congiungersi con gli altri, ma a tenerli lontani; è anch'essa una muraglia cinese ossessiva e fatale, le cui pietre murarie sono le parole, anonime e interscambiabili come le impersonali intestazioni: « Liebe, gnädigste Frau, lieber, guter Freund;
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CLAUDIO MAGRIS
Verehrte Freundin; Meine teuere Fürstin; Liebe Baronesse ». Dietro le lettere di Kafka a Milena c'è, inconfondibile, il volto di Milena; dietro le lettere di Rilke non c'è nessuno, c'è il volto, sostituibile a piacere, di tutti e di nessuno — di quell'opaco nessuno cui si riduce, nel nostro mondo, la falsa universalità dei « tutti ». Soltanto Lou AndreasSalomé, nota Alberto Destro, ha la forza di irrompere in questa trincea, di lasciar intravvedere un viso, di essere una persona.
Le parole stanno fra Rilke e la vita, come le casse di libri lungo la Senna, posate — egli scrive a Hermann Pongs — « sull'orlo della vita ». Rilke è un mistico, ma nel senso inteso da Wittgenstein, per il quale il mondo è un Tutto — limitato e le cose sono soltanto le cose cosí come sono: « Non come il mondo è, è il mistico, ma che esso è ».
Il lavoro — e la trasformazione della vita in lavoro — è perfettamente autarchico, non vuole intermediari né, soprattutto, interpretazioni: Rilke non vuole mai leggere gli scritti su di lui e non vuole nemmeno medici che si spingano come cunei fra lui e il suo stesso corpo. Quando avviene, come nella malattia, quest'incrinatura, l'unità precaria dell'individuo crolla, ma crolla verso l'interno. La distruzione dell'uomo si configura per Rilke non nelle figure tradizionali dell'esplosione e della disgregazione centrifuga, ma in quelle dello scoppio all'interno e verso l'interno, della violenta contrazione. La fine si annuncia quale buco nero, che risucchia tutto nel suo vortice. Le parole puntellano dall'interno l'edificio, tanto piú efficaci quanto piú reificate nella loro perfezione segnica. E l'io che le dispone vuole spersonalizzarsi anch'esso, essere « strumento cieco e puro » di un'operazione verbale che trascende l'individualità. Certo Rilke sa che Wera, la fanciulla morta in memoria della quale egli scrive i Sonetti ad Orfe[...]
[...]egazione centrifuga, ma in quelle dello scoppio all'interno e verso l'interno, della violenta contrazione. La fine si annuncia quale buco nero, che risucchia tutto nel suo vortice. Le parole puntellano dall'interno l'edificio, tanto piú efficaci quanto piú reificate nella loro perfezione segnica. E l'io che le dispone vuole spersonalizzarsi anch'esso, essere « strumento cieco e puro » di un'operazione verbale che trascende l'individualità. Certo Rilke sa che Wera, la fanciulla morta in memoria della quale egli scrive i Sonetti ad Orfeo, è « dentro e dietro » le parole, com'egli dice in una lettera. Caparbiamente egli cerca di mantenersi invece « di fronte alle parole » e di maneggiarle senza chieder loro dei segreti; afferma di essere « del tutto senza curiosità di fronte alla vita » e di coltivare « libertà e schiettezza verso ciò ch'è morto ». Tutto ciò, ancora una volta, è lavoro, è la trasformazione tecnica della vita in oggetto. Se la poesia di Rilke può dialogare col pensiero di Heidegger, ciò accade perché essa pone in opera quel do[...]
[...]i scrive i Sonetti ad Orfeo, è « dentro e dietro » le parole, com'egli dice in una lettera. Caparbiamente egli cerca di mantenersi invece « di fronte alle parole » e di maneggiarle senza chieder loro dei segreti; afferma di essere « del tutto senza curiosità di fronte alla vita » e di coltivare « libertà e schiettezza verso ciò ch'è morto ». Tutto ciò, ancora una volta, è lavoro, è la trasformazione tecnica della vita in oggetto. Se la poesia di Rilke può dialogare col pensiero di Heidegger, ciò accade perché essa pone in opera quel dominio della tecnica, quella trasformazione della vita in tecnica che Heidegger scorge nella svolta storica dell'occidente. Ma il lavoro vuol essere sempre lavoro già compiuto, non è gioia di fare ma smaniosa ansia di aver già fatto, di avere già l'opera — cioè la vita, se l'opera riassume tutta la vita — alle proprie spalle. La dedizione al lavoro è desiderio segreto di morte, di aver già esaurito la vita, cosí come il suicida compie talora il suo gesto per il desiderio di aver il più presto possibile già die[...]
[...]i avere già l'opera — cioè la vita, se l'opera riassume tutta la vita — alle proprie spalle. La dedizione al lavoro è desiderio segreto di morte, di aver già esaurito la vita, cosí come il suicida compie talora il suo gesto per il desiderio di aver il più presto possibile già dietro a sé, compiuta e non piú temibile, la morte che lo spaventa. Nel lavoro il presente non è mai; c'è soltanto il futuro, la corsa nel futuro per
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bruciare piú presto possibile la vita che si teme, per averla quanto prima già vissuta, come sogna il dottor Kien di Canetti. L'epistolario rilkiano è pervaso da questa febbre di finire le Elegie, di portar a compimento questo lavoro e di esaurire la vita nel lavoro di questo portarla a termine.
Ma se Rilke, per coerenza, sembra quasi porsi quale capostipite di quella famiglia di poeti che compongono Texte anziché Gedichte, costruzioni verbali anziché espressioni della vita, attraverso questo rigore egli si affaccia su quel silenzio, su quell'indicibile che il pensiero e la poesia non possono cessare di voler dire pur sapendo di non potervi mai integralmente riuscire. Oltre l'isola della Darstellung, osserva Tito Perlini, sta l'oceano dell'inespresso e la parola, se non vuole appagarsi della sua tautologia, si protende verso l'inesprimibile, ne accetta il rischio e la sfida. Cantare è essere, di[...]