Brano: PERDITA DELLA PRESENZA E CRISI DEL CORDOGLIO
Nel Mondo Magico (Einaudi, Torino 1958, T ed.) fu da parte nostra tentato di fermare il concetto di crisi della presenza come rìschio di non poterci essere nel mondo, o piò, esattamente in nessuna possibile storia umana. Nel corso delle nostre ricerche storicoreligiose sul pianto rituale antico, e sul passaggio dal lamento pagano a quel modello culturale del cordoglio che è rappresentato dal « pianto di Maria » e dalla figura della cristiana « Mater Dolorosa », ci è stata offerta Vopportunità di approfondire il concetto di una presenza che rischia di smarrirsi nel mondo e che mediante le creazioni culturali si protegge da tale rischio: il che ci ha indotto ad alcune analisi e teorizzazioni di cui il presente scritto vuol essere un saggio, anticipando la trattazione storica dispiegata che vedrà la luce nel volume Dal lamento pagano al pianto di Maria, di prossima pubblicazione nella collana di studi etnologici e storicoreligiosi delle Edizioni Scientifiche Einaudi.
1. La presenza malata.
Per analizzare il rischio della presenza posseggono valore euristico le esperienze ed i comportamenti della presenza malata. Senza dubbio la presenza malata è —' dal punto di vista della storia culturale dell’umanità — una astrazione, poiché la cultura è il frutto della lotta vittoriosa della sanità contro l’insidia della malattia, cioè contro la tentazione di abdicare alla stessa possibilità di essere una presenza inserita nella società e nella storia. Ma proprio questa astrazione è la minaccia mortale per eccellenza: onde l’analisi della malattia trionfante presenta il vantaggio metodologico di collocarci davanti al rischio quando esso, diven50
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tando egemonico, si sottrae a quella potenza dialettica per cui, nella presenza sana, sta soltanto come momento negato e variamente redento nell’opera attuata e nel valore conseguito. Presenza malata significa — in generale — presenza che una volta, in qualche determinato momento critico dell’esistenza, ha rinunziato a farlo passare, risolvendolo nel valore, ed è invece passata con esso. Ogni contenuto critico sta per la presenza in quanto trasceso nella oggettivazione formale, e ogni presenza si mantiene rispetto a un contenuto critico nella misura in cui dispiega il suo margine formale di trascendimento: ciò significa che una presenza caduta in crisi di oggettivazione o di trascendimento passa essa stessa in luogo di far passare, perdendo se stessa nel contenuto e il contenuto in se stessa, ed entrando pertanto in una contradizione esistenziale che manifesta vari modi di profonda inautenticità. Il modo estremo è la assenza totale o la degradazione dell’ethos della presenza nella scarica meramente meccanica di energia psichica: ma vi è tutta una gamma di inautenticità esistenziali in cui si manifesta la crisi patita e non risolta. Dalla esperienza critica non decisa la presenza può riemergere vulnerata. L’ombra del passato che non è stato fatto passare si distende sul progresso del fare, spia la occasione per riproporsi: ma a cagione della interruzione che vulnera la durata della presenza non torna nella dinamica unitaria della memoria attiva e risolvente, sì bene nella estraneità irrelativa del sintomo morboso. La presenza malata si manifesta allora come presenza apparente, che sta nel presente in modo inautentico, poiché vi patisce il ritorno mascherato e irriconoscibile di un identico passato in cui è rimasta impigliata. Per questa disarticolazione della dialettica del tempo il maggior numero di comportamenti morbosi della presenza in crisi non appare per l’osservatore sano in rapporto diretto con momenti oggettivamente critici, ma con situazioni del tutto irrilevanti: in realtà per la presenza malata il « presente » perde la sua autenticità esistenziale e la sua attualità storica, e tende a configurarsi a vario titolo come simbolo cifrato del passato non oltrepassato, operante dalPERDITA DELLA PRESENZA E CRISI DEL CORDOGLIO 51
di fuori, irriconoscibile e indominabile. Se la malattia della presenza può prendere corpo in occasioni che sembrerebbero banali, ciò dipende dal fatto che quelle occasioni insorgono nel malato come iterazione senza soluzione di un momento critico nel quale la presenza, una volta, si è smarrita. In altri termini la presenza che, in qualche dove della sua biografia, è passata con ciò che passa, resta in varia misura incapace di un autentico presente, esposta al rischio di patire il ritorno insolubile della situazione rescissa e di dover sostituire al rapporto formale con il presente storicamente determinato il rapporto senza soluzione col passato perduto: la presenza che non ha deciso la sua storia quando doveva farlo, sta ora destorificata, cioè fuori del rapporto reale con la storia concreta del mondo culturale in cui è inserita e in cui è chiamata continuamente ad esserci.
L’analisi della perdita della presenza attraverso le manifestazioni morbose della vita psichica può essere condotta da diversi punti di vista: il nostro non sarà ovviamente quello diagnostico della classificazione dei vari quadri nosologici e neppure quello terapeutico della determinazione della dinamica individuale della malattia, cioè dei momenti critici iniziali e reali che non furono oltrepassati e di quelli simbolici e secondari in cui la malattia attualmente si manifesta. Giova invece ai nostri fini l’analisi fenomenologica di alcuni caratteristici sintomi della perdita della presenza, prescindendo da ógni considerazione din[...]
[...]ta: il nostro non sarà ovviamente quello diagnostico della classificazione dei vari quadri nosologici e neppure quello terapeutico della determinazione della dinamica individuale della malattia, cioè dei momenti critici iniziali e reali che non furono oltrepassati e di quelli simbolici e secondari in cui la malattia attualmente si manifesta. Giova invece ai nostri fini l’analisi fenomenologica di alcuni caratteristici sintomi della perdita della presenza, prescindendo da ógni considerazione dinamica individuale e da ogni riferimento al carattere reale o simbolico dei momenti critici in cui ha luogo la insorgenza morbosa. Particolarmente istruttive sono, a questo riguardo, le esperienze di un sé spersonalizzato, sognante, vuoto, automatizzato, inattuale e simili. Una malata di Janet diceva: « Io mi sono smarrita, è orribile avere lo stesso volto e lo stesso nome e non essere la stessa persona... Voi non avete ancora visto la vera Letizia, se sapessi dov’è ve la farei vedere, ma non la posso trovare » (1). E un’altra malata: « Di tanto in tanto[...]
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ridicola, ma è come se un velario cadesse e tagliasse in due la mia personalità. Le altre persone non se ne accorgono perché io posso parlare e rispondere correttamente. In apparenza per voi io sono la stessa, ma per me le cose non stanno così » (2). E ancora un altro malato: « Ciò che mi manca sono io stesso, è terribile sfuggire a se stesso, vivere e non essere se stesso» (3). A queste esperienze della perdita della presenza fanno riscontro quella della perdita del mondo, che è avvertito come strano, irrelativo, indifferente, meccanico, artificiale, teatrale, simulato, sognante, senza rilievo, inconsistente, e simili. Diceva un malato di P. Janet: « Io intendo, vedo, tocco, ma non sento come un tempo, gli oggetti non si identificano col mio essere, un velo spesso, una nuvola cambia il colore e l’aspetto dei corpi » (4). E un altro malato: « Voi non siete che un fantasma, come ce ne sono tanti: e non potete pretendere che si abbia obbedienza ed affetto per qualcuno di cui non si avverte la realtà » (5). Ancora un [...]
[...]ano fantasmi che circolavano in questa pianura infinita, oppressi dalla luce spietata della elettricità. Ed io ero perduta là dentro, isolata, fredda, nuda sotto la luce e senza scopo. Un muro di bronzo mi separava da tutto e da tutti... » (7).
(2) Op. cit., p. 55.
(3) Op. cit., p. 56.
(4) Op. cit., p. 47.
(5) Op. cit.y p. 49.
(6) Op. cit., p. 62.
(7) A. Sechehaye, Journal d’une schizophrène, Paris 1950, p. 20 sg.PERDITA DELLA PRESENZA E CRISI DEL CORDOGLIO
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In tali esperienze ciò che viene registrato senza soluzione è il vuoto dei valori, l’impotenza del trascendimento e della oggettivazione, la inattualità dell’esserci: in questa inattualità affiora l’insolubile problema della astratta possibilità di sé e del mondo, al di qua della scelta concreta che fonda e autentica il sé e il mondo. Pur nella varietà delle loro espressioni questi malati esprimono lo straniarsi di sé a sé, la perdita di sé come potenza oggettivante e del mondo come risultato della oggettivazione. D’altra parte gli oggetti che « non stanno in sé[...]
[...]insolubile problema della astratta possibilità di sé e del mondo, al di qua della scelta concreta che fonda e autentica il sé e il mondo. Pur nella varietà delle loro espressioni questi malati esprimono lo straniarsi di sé a sé, la perdita di sé come potenza oggettivante e del mondo come risultato della oggettivazione. D’altra parte gli oggetti che « non stanno in sé », ma vanno oltre in modo irrelativo, riflettono e denunziano il perdersi della presenza che non riesce ad andar oltre le situazioni, e a gettarle davanti a sé, per entro un determinato valore operativo. Col venir meno della stessa funzione oggettivante gli oggetti entrano in un rischioso travaglio di limiti, per cui appaiono accennare ad un oltre inautentico, vuoto, estraneo: in realtà questo oltre improprio è la potenza oltrepassante della presenza che in luogo di fondare l’oggettività sta diventando essa medesima un oggetto, si sta alienando con l’oggetto e nell’oggetto. Per questo starnarsi della potenza oggettivante, il mondo e i suoi oggetti sono sperimentati in atto di non essere più «nel loro quadro», cioè nella memoria di una determinata tradizione di significati e nella prospettiva di una possibile operazione formale della presenza. Il mondo diventa irrelativo, senza eco di memorie e di affetti, simile a uno scenario. Gli oggetti perdono rilievo e consistenza (la luce accecante e la mancanza di ombra), si pongono fuori della realtà storica (il paese lunare, minerale, immobile). Tale estraniazione e destorificazione del mondo si riflette nell’esperienza di una estraneità radicale, che chiede perentoriamente rapporto e che non può assolutamente trovarlo: una estraneità irraggiungibile, perduta in lontananze astrali, separata da un muro di bronzo.
La crisi di oggettivazione non si riflette soltanto nelle esperienze di s[...]
[...]raggiungibile, perduta in lontananze astrali, separata da un muro di bronzo.
La crisi di oggettivazione non si riflette soltanto nelle esperienze di spersonalizzazione e di incompletezza di sé, e di fissità inconsistenza e artificialità del mondo, ma anche nella esperienza di una forza o tensione cieca in sé e nel mondo. Gli oggetti che non stanno in limiti oggettivi (riflettendo in tal modo l’alienarsi della stessa energia oggettivante della presenza) sono avvertiti qui come54
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forze in atto di scaricarsi, come oscure tensioni spianti la più piccola occasione per frantumare le barriere che li trattengono, e per fondersi e confondersi in caotiche coinonie. Gli oggetti che « non sono più nel loro quadro » non si presentano più in questo caso con la valenza della artificialità e della lontananza, e come vulnerati da una perdita di prospettiva e di rapporto, ma si configurano piuttosto in atto di agire come potenze cieche ed estranee, che si scaricano disarticolando il reale, e incombendo minacciosamente sulla presenz[...]
[...]antumare le barriere che li trattengono, e per fondersi e confondersi in caotiche coinonie. Gli oggetti che « non sono più nel loro quadro » non si presentano più in questo caso con la valenza della artificialità e della lontananza, e come vulnerati da una perdita di prospettiva e di rapporto, ma si configurano piuttosto in atto di agire come potenze cieche ed estranee, che si scaricano disarticolando il reale, e incombendo minacciosamente sulla presenza: alla lontananza astrale si oppone, in una vicenda irrisolvente, la prossimità irrelativa degli oggetti fra di loro e del mondo oggettivo rispetto alla presenza, onde crolla la stessa possibilità di mantenere gli oggetti distinti gli uni dagli altri, e di contrapporre sé al mondo. Si ha allora la terrificante esperienza dell’universo in tensione, sul punto di annientarsi in una immane catastrofe. Racconta la malata di A. Sechehaye: « Chiamavo [la follia] il paese dell’illuminazione a causa della luce vivissima, abbagliante e fredda, astrale, e dello stato di tensione estrema in cui si trovavano tutte le cose, me compresa. Era come se una corrente elettrica d’una potenza straordinaria attraversasse tutte le cose, e aumentasse sempre più la sua tension[...]
[...]icarsi. Restavo in attesa, trattenendo il respiro, smarrita nell’angoscia, e non accadeva nulla. L’immobilità si faceva ancora più immobile, il silenzio ancora più silenzioso, gli oggetti e le persone con i loro gesti e il loro rumore ancora più artificiali, staccati gli uni dagli altri, senza vita, irreali. E la mia paura aumentava, sino a diventare inaudita, indicibile, atroce» (8).
Il rischio dell’alienarsi della potenza oggettivante della presenza può essere avvertito o nel dominio del divenire oggettivo, o per singoli pensieri e affetti, ovvero in rapporto alla presenza in quanto tale. Il rischio di alienazione del dominio oggettivo com
(8) Sechehaye, op. cit., p. 21.PERDITA DELLA PRESENZA E CRISI DEL CORDOGLIO
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porta l’esperienza di una disposizione maligna delle cose e degli eventi, di un « esseragitoda » che si sostituisce « all’agire su » della oggettivazione. Si apre così una vicenda di oscuri disegni e di subdole macchinazioni, di rimproveri e di accuse, di insidie e di influenze: e le cose diventano cause, non già nel senso fisico del termine, ma propri in quello giuridico di cause intentate ai danni del malato. L’alienarsi di singoli pensieri o affetti dà luogo alla interpretazione che altri li manovrino, li influenzino, li rubino, o ne siano padroni: a un grado[...]
[...] di cause intentate ai danni del malato. L’alienarsi di singoli pensieri o affetti dà luogo alla interpretazione che altri li manovrino, li influenzino, li rubino, o ne siano padroni: a un grado più profondo di alienazióne si avvertono i propri pensieri in atto di staccarsi dal flusso interno del pensare, per ripetersi per loro conto, a guisa di eco psichica, sino a risuonare pubblicamente anche se non comunicati con la parola. L’alienarsi della presenza e l’esperienza immediata della impotenza di qualsiasi scelta formale si rispecchia infine subiettivamente come colpa altrettanto mostruosa quanto immotivata: si tratta infatti della colpa di non potersi motivare, che è — per essenza — radicale e senza motivo. La depressione melancolica è pertanto da interpretare, considerata in questa prospettiva, come l’esperienza di abiezione estrema e di incomparabile miseria che accompagna il senso di sé nel recedere della energia di oggettivazione su tutto il possibile orizzonte formale.
Il rischio radicale della perdita della presenza è segnalato — a[...]
[...]nto mostruosa quanto immotivata: si tratta infatti della colpa di non potersi motivare, che è — per essenza — radicale e senza motivo. La depressione melancolica è pertanto da interpretare, considerata in questa prospettiva, come l’esperienza di abiezione estrema e di incomparabile miseria che accompagna il senso di sé nel recedere della energia di oggettivazione su tutto il possibile orizzonte formale.
Il rischio radicale della perdita della presenza è segnalato — almeno sin quando la presenza resiste — a una reazione totale che è l’angoscia. Se depuriamo questo concetto da tutte le interpretazioni non pertinenti alimentate da determinate suggestioni metafisiche, o dalla crittogamia con la esperienza religiosa o dai vari idoleggiamenti alimentati da una inerzia morale in atto, e se al tempo stesso ci tratteniamo dal cadere nella empirica della psicopatologia corrente, troviamo come risultato che l’angoscia si determina come reazione davanti al rischio di non poter oltrepassare i suoi contenuti critici, e di sentirsi inattuale e inautentica nel presente. Ciò equivale a dire che l’an[...]
[...]tesso ci tratteniamo dal cadere nella empirica della psicopatologia corrente, troviamo come risultato che l’angoscia si determina come reazione davanti al rischio di non poter oltrepassare i suoi contenuti critici, e di sentirsi inattuale e inautentica nel presente. Ciò equivale a dire che l’angoscia è il rischio di perdere la possibilità stessa di dispiegare l’energia formale dell’esserci. L’angoscia segnala l’attentato alle radici stesse della presenza, denunzia l’alienazione di sé a sé, il precipitare della vita culturale nella vitalità56
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senza orizzonte formale. L’angoscia sottolinea il rischio di perdere la distinzione fra soggetto e oggetto, fra pensiero ed azione, tra forma e materia: e poiché nella sua crisi radicale la presenza non riesce più a farsi presente al divenire storico, e sta perdendo la potestà di esserne il senso e la norma, l’angoscia può essere interpretata come angoscia della storia, o meglio come angoscia di non poter esserci in una storia umana. Pertanto quando si afferma che l’angoscia non è mai di qualche cosa, ma di nulla, la proposizione è accettabile, ma soltanto nel senso che qui non è in gioco la perdita di questo o di quello, ma della stessa possibilità del quale come energia formale determinatrice di ogni questo o quello: e tale perdita non è il nonessere, ma il nonesserci, l’annientarsi de[...]
[...]goscia della storia, o meglio come angoscia di non poter esserci in una storia umana. Pertanto quando si afferma che l’angoscia non è mai di qualche cosa, ma di nulla, la proposizione è accettabile, ma soltanto nel senso che qui non è in gioco la perdita di questo o di quello, ma della stessa possibilità del quale come energia formale determinatrice di ogni questo o quello: e tale perdita non è il nonessere, ma il nonesserci, l’annientarsi della presenza, la catastrofe della vita culturale e della storia umana. E infine: l’angoscia è esperienza della colpa, perché la caduta della energia di oggettivazione è, come si è detto, la colpa per eccellenza, che chiude il malato in una disperata melancolia.
Nelle stesse trattazioni della psicopatologia questo carattere dell’angoscia si fa luce talora vincendo le empirie e le superficialità della ordinaria esperienza clinica. « Il malato non ha angoscia di qualche cosa, egli è l’angoscia, senza aver coscienza né di un oggetto, né di un soggetto». «L’oggetto è l’utilizzazione ordinata dell’eccitazion[...]
[...]si trova minacciato nella sua stessa esistenza » : queste proposizioni di Kurt Goldstein (9), sebbene inadeguate, tro
(9) Kurt Goldstein, Zum Problem der Angst in Allg. àrtzliche Zeitschrift fiir Psychotherapie und Psychische Hygiene, Bd. II (1929) Heft 7, pp. 409 sgg. Per un panorama sulla concezione dell’angoscia nella moderna psichiatria (e neiresistenzialismo) è da vedere il libro di Juìiette Boutonier, L’angoisse, Paris 1949.PERDITA DELLA PRESENZA E CRISI DEL CORDOGLIO
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vano la loro elucidazione e la loro verifica nella teoria dell’angoscia come reazione totale al rischio radicale della perdita della presenza. Che cosa infatti può significare la perdita della distinzione fra soggetto e oggetto, l’essere immediatamente l’angoscia, il rovesciamento indicibile che comporta il pericolo supremo di non potersi adattare all’ambiente, che cosa può essere il sentirsi « in seine Existenz bedroht» se non appunto la catastrofe dell’esserci nel senso che abbiamo chiarito? La angoscia indica che la presenza resiste alla sua disgregazione: ma le resistenze e le difese che hanno luogo in regime di crisi hanno il carattere comune di essere sostanzialmente improprie, in quanto non ripristinano la signoria del mondo dei valori e non valgono a reintegrare in modo attivo nella realtà storica di cui si fa parte. La dialettica del « non fare » e del « fare » si disarticola: per la carenza del riscatto formale il «non fare» si orienta verso la paradossale ricerca delPassenza vuota assolutamente di contenuti e di impegni formali, ed il fare si dissolve nella egemonia dialettica del vitale, che pretende in [...]
[...]oria del mondo dei valori e non valgono a reintegrare in modo attivo nella realtà storica di cui si fa parte. La dialettica del « non fare » e del « fare » si disarticola: per la carenza del riscatto formale il «non fare» si orienta verso la paradossale ricerca delPassenza vuota assolutamente di contenuti e di impegni formali, ed il fare si dissolve nella egemonia dialettica del vitale, che pretende in vani conati di ricostruire fittiziamente la presenza. I modi dell’assenza sono conati di destorificazione irrelativa, cioè di evasione totale dalla storicità dell’esistere: tali sono la reazione stuporosa, il ritualismo protettivo ed il simbolismo protettivo. Ostilità persecutoria del mondo, abiezione della presenza in crisi e terrore del fare possono spingere alla reazione, tipicamente contradditoria e irrisolvente, della ricerca dell’assenza totale. L’aggravarsi della crisi restringe sempre più il margine della possibile iniziativa, finché in un supremo conato di rinunzia a sè e al mondo la volontà entra in un blocco spasmodico, restando come sospesa al gioco di una assoluta ambivalenza, in cui ogni «sì» richiama perentoriamente e polarmente il «no». Nei casi più avanzati questo instabile equilibrio di stimoli si riduce a una polarità praticamente automatica, accompagnata da flessibilità cerea, da ecol[...]
[...]della possibile iniziativa, finché in un supremo conato di rinunzia a sè e al mondo la volontà entra in un blocco spasmodico, restando come sospesa al gioco di una assoluta ambivalenza, in cui ogni «sì» richiama perentoriamente e polarmente il «no». Nei casi più avanzati questo instabile equilibrio di stimoli si riduce a una polarità praticamente automatica, accompagnata da flessibilità cerea, da ecolalia e da ecomimia: ma nei casi meno gravi la presenza ha ancora un margine sufficiente per avvertire il profilarsi della crisi. Uno schizofrenico di Arieti si rendeva conto, con crescente ansietà, che insormontabili difficoltà si opponevano alla sua azione: ogni movimento che si apprestava a compiere gli si confi58
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gurava come rischiosa possibilità di compiere un atto nocivo o inefficace, e pertanto questo malato, dominato dall’angoscia, preferiva non mangiare, non vestirsi, non lavarsi, per ridursi infine alla immobilità assoluta dello stupore catatonico (10). Il carattere estremamente contradditorio e irrisolvente di [...]
[...]o o inefficace, e pertanto questo malato, dominato dall’angoscia, preferiva non mangiare, non vestirsi, non lavarsi, per ridursi infine alla immobilità assoluta dello stupore catatonico (10). Il carattere estremamente contradditorio e irrisolvente di tale reazione è che l’assenza delle esperienze estatiche connesse alla vita magicoreligiosa della storia culturale umana: l’assenza dello stupore è infatti sulla linea di quella stessa perdita della presenza che costituisce il rischio della malattia, e la clamorosa contradizione del «farsi assente per terrore dell’azione» può metter capo soltanto al nuovo e più grave sintomo morboso del blocco spasmodico della volontà. Il secondo modo della destorificazione irrelativa della crisi è costituito dal ritualismo dell’agire. Mentre nella reazione stuporosa il conato si dirige verso l’assenza totale dalla realtà storica attuale, nelle stereotipie e nei manierismi dell’agire soltanto determinati settori più o meno ampi e prolungati dell’agire vengono sottratti alla storicità, chiusi al dialogo con essa, [...]
[...]erso l’assenza totale dalla realtà storica attuale, nelle stereotipie e nei manierismi dell’agire soltanto determinati settori più o meno ampi e prolungati dell’agire vengono sottratti alla storicità, chiusi al dialogo con essa, e irrigiditi in una iterazione dell’identico che è la negazione del mobile divenire storico e della necessità di rispondere ad esso con iniziative formalmente determinate. Nei manierismi e nelle stereotipie dell’agire la presenza in crisi si chiude in un miserabile regime di risparmio vuoto di valore: chiusa nelle rigide barriere protettive del ritualismo in quanto tale, essa « sta nell’esistenza senza starci», poiché qualunque cosa accade essa contrappone all’accadere lo stare immobile nelle proprie iterazioni.
Il rapporto col momento rituale della magia e della religione è soltanto apparente, perché nella magia e nella religione la ritualità dell’agire media, attraverso l’orizzonte mitico, una piena reintegrazione culturale, mentre le stereotipie e i cerimoniali della presenza malata, sostanzialmente chiusi nella[...]
[...]otettive del ritualismo in quanto tale, essa « sta nell’esistenza senza starci», poiché qualunque cosa accade essa contrappone all’accadere lo stare immobile nelle proprie iterazioni.
Il rapporto col momento rituale della magia e della religione è soltanto apparente, perché nella magia e nella religione la ritualità dell’agire media, attraverso l’orizzonte mitico, una piena reintegrazione culturale, mentre le stereotipie e i cerimoniali della presenza malata, sostanzialmente chiusi nella loro vicenda privata, si esauriscono in un vuoto tecnicismo dell’assenza, e perciò non si sollevano dalla crisi di oggettivazione, ma la ribadiscono e la aggravano. Il terzo modo della destorificazione irrelativa della crisi consiste nella destorificazione per simboli protettivi, a cui affida il compito di ridischiudere l’azione. I simboli protettivi o allusivi, ansio
(10) Arieti, Interpretation of schizophrenia, New Jork 1955, p. 126.PERDITA DELLA PRESENZA E CRISI DEL CORDOGLIO
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samente cercati o costruiti, rappresentano il conato di occultare a[...]
[...]vicenda privata, si esauriscono in un vuoto tecnicismo dell’assenza, e perciò non si sollevano dalla crisi di oggettivazione, ma la ribadiscono e la aggravano. Il terzo modo della destorificazione irrelativa della crisi consiste nella destorificazione per simboli protettivi, a cui affida il compito di ridischiudere l’azione. I simboli protettivi o allusivi, ansio
(10) Arieti, Interpretation of schizophrenia, New Jork 1955, p. 126.PERDITA DELLA PRESENZA E CRISI DEL CORDOGLIO
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samente cercati o costruiti, rappresentano il conato di occultare a sè la storicità del reale, e quindi la responsabilità personale delle iniziative, in modo che il fare effettivo sia nient’altro che iterazione del già deciso e fatto su un piano metastorico. Anche i simboli protettivi, in quanto dovrebbero proteggere l’azione anticipandone il corso in un mondo a sè, non vulnerato dalla decisione personale, rappresentano, al pari del ritualismo dell’agire, un modo di « stare nella storia senza starci», e un disperato tentativo di rischiudersi
— attraverso ques[...]
[...]subì un miglioramento, «anche perché — come osserva l’Arieti — nell’ospedale tutto si svolgeva secondo ordini, il che lo alleggeriva delle sue responsabilità» (11). Anche la destorificazione per simboli allusivi sembra ricordare i miti della vita magicoreligiosa: ma i veri miti della vita magicoreligiosa ridischiudono, come si è detto, determinati valori sociali, politici, morali, poetici e conoscitivi, mentre i simboli allusivi a cui ricorre la presenza malata sono conati individuali del tutto vuoti di prospettiva culturale, e perciò sterili anche sul piano tecnico sul quale si muovono.
(11) Arieti, op. cit., p. 121 sg.60
ERNESTO DE MARTINO
Analoghe considerazioni valgono per le difese improprie orientate verso il «fare». Qui i conati di recuperare la presenza riescono solo ad una caricatura ed una contraffazione della esigenza del trascendimento, in quanto ciò che dovrebbe stare sempre come materia, la vitalità, pretende di assolvere compiti formali. Così il « far passare nel valore », che comporta ima appropriazione interiore a un far morire ideale, cede il luogo, in questa forma della crisi, alla appropriazione materiale di oggetti privi di significato attuale, alla mania del raccogliere e del conservare, alla incorporazione nelle cavità naturali del corpo, alla fame insaziabile di cibo e alla ingestione di oggetti anche non commestibili, allo s[...]
[...]e distruttivo e omicida. I momenti delFinnalzamento alla forma, cioè l’appropriazione, la conservazione ed il superamento formali, sono qui contraffatti sull’improprio piano materiale della vitalità in atto, chiusa in sé stessa e adialettica rispetto al destino formale dell’uomo: diabolus simia Dei. La egemonia del vitale che pretende di surrogare la risoluzione formale si manifesta nel modo più netto nella cosiddetta eccitazione maniaca. Qui la presenza in crisi si limita a prestare alla accelerazione vitale l’inerte contenuto di rappresentazioni e di sentimenti che simulano, ma non sono, valori reali. Lo psichiatra Giorgio Dumas riferisce di un tal Victor, capitano dell’esercito francese e appartenente a una famiglia tradizionalmente legata al culto della gioire e della patrie, il quale nei suoi eccessi maniaci si abbatteva al suolo, ventre a terra, gridando: «A me il granito! », alzandosi poi lentamente e guardando intorno a sè con aria di sfida. Interrogato successivamente dal Dumas, durante un periodo di remissione, gli rese questa spieg[...]
[...] vecchia terra francese, riboccavo di amor patrio e desideravo farne mostra ». Un’altra volta il capitano Victor accolse il Dumas ruggendo come un leone e roteando furiosamente gli occhi. Ecco la sua spiegazione successiva: « Sì, è così, era in onore di mio padre, ufficiale prima di me nelParmata d’Africa. Ruggendo come un leone africano credevo di incarnare il patriottismo della nostra famiglia, quello di mio padre ed il mio: oggiPERDITA DELLA PRESENZA E CRISI DEL CORDOGLIO
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però la dimostrazione mi sembra debole». In altra occasione il capitano Victor aveva detto al Dumas che cercava di sentirgli il polso: «Prendi la mia pelle, se vuoi!». Spiegazione successiva: «Era il sacrificio della mia vita che io offrivo al mio paese ». È sin troppo evidente che, in un caso come questo, determinati valori culturali come la gioire e la patrie stanno nel contesto in modo del tutto apparente e strumentale: ciò che predomina è la pura accelerazione vitale che si scatena senza nessun rapporto con la reale situazione del momento, dandosi a pretesto[...]
[...]n troppo evidente che, in un caso come questo, determinati valori culturali come la gioire e la patrie stanno nel contesto in modo del tutto apparente e strumentale: ciò che predomina è la pura accelerazione vitale che si scatena senza nessun rapporto con la reale situazione del momento, dandosi a pretesto i vuoti nomi di valori politici e morali.
2. La vita religiosa come tecnica protettiva mediatrice dei valori.
Per quanto la crisi della presenza non abbia in sè storia culturale (essa è infatti per definizione la destorificazione della presenza, il non esserci in una storia umana) il numero, la qualità e la intensità dei momenti critici a carattere pubblico è determinabile solo per entro concrete società storiche. In società in cui il distacco dalle condizioni naturali non va oltre la caccia e la pesca ed alcuni strumenti litici, o in cui il regime economico si è sollevato all’agricoltura primitiva alla zappa o alla pastorizia o aH’agrieoltura all’aratro la sfera dei momenti critici è di fatto intensissima ed amplissima appunto perché ciò che passa senza e contro l’uomo si manifesta in una misura che noi a mala pena riusciamo ad imm[...]
[...]mpiezza delle realizzazioni civili in tutti i domini, e gli abiti morali e le persuasioni razionali che ne abbiamo acquistato, ci fanno molto più preparati a superare i momenti critici dell’esistenza, patendo senza dubbio il rischio, ma non più nei modi così estremi che nelle civiltà primitive e nel mondo antico minacciano di continuo la vita dei singoli e quella della comunità. Infatti nelle civiltà primitive e nel mondo antico il rischio della presenza assume una gravità, una frequenza e una diffusione tali da obbligare la civiltà a fronteggiarlo per salvare se stessa. Nelle civiltà primitive e nel mondo antico una parte considerevole della coerenza tecnica dell’uomo non è impiegata nel dominio tecnico della natura (dove del resto trova applicazioni limitate), ma nella creazione di forme istituzionali atte a proteggere la presenza dal rischio di non esserci nel mondo. Ora la esigenza di questa protezione tecnica costituisce la origine della vita religiosa come ordine miticorituale.
Già vedemmo come il rischio della presenza sia essenzialmente costituito da una destorificazione irrelativa che si manifesta in vari modi di inautenticità esistenziale. Il carattere fondamentale della tecnica religiosa sta nel contrapporre a questa destorificazione irrelativa una destorificazione istituzionale del divenire, cioè una destorificazione fermata in un ordine metastorico (mito) col quale si entra in rapporto mediante un ordine metastorico di comportamenti (rito). Con ciò è offerto un orizzonte per entro il quale siPERDITA DELLA. PRESENZA E CRISI DEL CORDOGLIO
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compie la ripresa delle possibili alienazioni individua[...]
[...]irrelativa che si manifesta in vari modi di inautenticità esistenziale. Il carattere fondamentale della tecnica religiosa sta nel contrapporre a questa destorificazione irrelativa una destorificazione istituzionale del divenire, cioè una destorificazione fermata in un ordine metastorico (mito) col quale si entra in rapporto mediante un ordine metastorico di comportamenti (rito). Con ciò è offerto un orizzonte per entro il quale siPERDITA DELLA. PRESENZA E CRISI DEL CORDOGLIO
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compie la ripresa delle possibili alienazioni individuali e la loro risplasmazione nei valori culturali. Il carattere dialettico nel nesso che lega il rischio della perdita delia presenza e la sfera del sacro è illustrato con particolare evidenza da un’opera che ha avuto una notevole efficacia nel dominio della filosofia e della storia delle religioni: il Sacro di R. .Otto. Si tratta, com’è noto, di un’opera religiosamente impegnata, e tuttavia proprio per questo capace di fornirci indicazioni preziose sul nesso in questione. Naturalmente ad un patto: che la problematica cominci per noi proprio lì dove Rudolf Otto ritiene di aver raggiunto l’ultima Thule, cioè l’esperienza viva del nume che è presente. La connotazione caratteristica, profondamente irrazionale, di questa presen[...]
[...]storia delle religioni: il Sacro di R. .Otto. Si tratta, com’è noto, di un’opera religiosamente impegnata, e tuttavia proprio per questo capace di fornirci indicazioni preziose sul nesso in questione. Naturalmente ad un patto: che la problematica cominci per noi proprio lì dove Rudolf Otto ritiene di aver raggiunto l’ultima Thule, cioè l’esperienza viva del nume che è presente. La connotazione caratteristica, profondamente irrazionale, di questa presenza del nume sarebbe, secondo l’Otto, il « radicalmente altro » e quindi il blinde Entsetzen, il dàmonische Scheu che in cospetto del nume si impadronisce della presenza, soggiogandola. Ora questo « radicalmente altro » che sgomenta chi ne fa esperienza è appunto il rischio radicale di non esserci, l’alienarsi della presenza. L’alterità profana è sempre relativa, inserita nel circuito formale, qualificata: ma quando comincia a diventare eccentrica, a isolarsi, e la presenza non è più capace di mantenerla come altra, e di conservare il proprio margine rispetto ad essa, allora comincia ad apparire quel carattere «radicale» dell’alterità che è da interpretare come segnale della crisi della presenza. Anche il blinde Entsetzen è eloquente: entsetzen ha il duplice significato di « spossessare » e di « inorridire » o « essere pieno di raccapriccio », il che significa che qui si sta a consumare la perdita della energia formale, e appunto da tale spossessamento radicale nasce l’orrore caratteristico che individua la crisi. Ma il carattere dialettico del rapporto crisiripresa della esperienza del sacro è illustrata altresì dalla espressione dàmonische Scheu: infatti se l’accento batte su Scheu si ha qualche cosa di praticamente identico a un puro stato ansioso, al blinde Entsetzen patologico, [...]
[...]camente inserita nel mondo storico nel quale si vive, e aperta al valore.64
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Considerazioni analoghe possono farsi a proposito dell’altro momento polare del numinoso, il fascinans. La paradossia di questa polarità non costituisce affatto un nesso misterioso, da rivivere nella sua immediatezza, ma racchiude una trasparente dialettica: ciò che nella crisi repelle e soggioga, il tremendum dell’alienarsi e del perdersi della presenza, tuttavia attira e chiama al rapporto, alla ripresa, alla reintegrazione nell’umano, e questo attirare o chiamare in modo perentorio è il fascinans del radicalmente altro. Nella limitazione della esperienza religiosa ciò che chiama è il nume, ma per il pensiero giudicante ciò che chiama è la alienazione della presenza che reclama reintegrazione in una storia umana. O anche: è il non deciso, l’ambivalente, che esige decisione nel valore. La differenza tra l’ambivalenza patologica e quella religiosa sta unicamente nel segno del movimento per entro il quale essa si manifesta: l’ambivalenza patologica è un sintomo di una disgregazione che va recedendo verso modi sempre più compromessi, onde sta in modo irrisolvente in un regresso che distacca sempre più la presenza dalla realtà storica e che sempre più si chiude al significato e al valore che in quella realtà possono essere riconosciuti; l’ambivalenza religiosa invece è inserita in un movimento di ripresa e di reintegrazione, che dalla crisi si solleva al valore, e che perciò va mediamente ristabilendo col mondo storico i rapporti in pericolo. O anche: nella malattia l’ambivalenza prospetta una destorificazione irrelativa in atto, un compito di decisione e di scelta al quale si abdica, un non esserci in nessuna possibile storia umana; nella vita religiosa l’ambivalenza è già il numinoso, immagine mitica[...]
[...]valente che va decidendo il suo valere. In un modo o nell’altro l’ambivalente religioso è incluso in un processo che ferma nella metastoria mitica l’alienazione irrelativa della crisi e che realizza la reintegrazione del divino nell’umano.
Ma il sacro manifesta la sua coerenza tecnica anche in altro modo: in quanto nesso miticorituale esso maschera il divenire storico nella iterazione rituale di modelli mitici in cui su un pianoPERDITA DELLA PRESENZA E CRISI DEL CORDOGLIO
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metastorico il mutamento è ammesso e al tempo stesso reintegrato: ne nasce così un particolare regime di esistenza protetta, nel cui ambito per un verso si entra in rapporto con le alienazioni della crisi, mentre per un altro verso si inaugura una dinamica che sospinge alla riconquista delle forme di coerenza culturale a vari livelli — storicamente determinati — di autonomia e di consapevolezza. Questa dialettica di ripresa e reintegrazione dei rischi di alienazione è caratterizzata dalla coerenza tecnica della destorificazione miticorituale che si fa mediatrice[...]
[...]amente determinati — di autonomia e di consapevolezza. Questa dialettica di ripresa e reintegrazione dei rischi di alienazione è caratterizzata dalla coerenza tecnica della destorificazione miticorituale che si fa mediatrice del ridischiudersi delle altre forme di coerenza culturale, dalla economia aH’ordinamento sociale, giuridico e politico, al costume, all’arte e alla scienza.
Il concetto di sacro come tecnica miticorituale che protegge la presenza dal rischio di non esserci nella storia e media il ridischiudersi di determinati orizzonti umanistici consente di considerare sotto una nuova luce la vexata quaestio del rapporto fra magia e religione. Senza dubbio ogni forma di vita religiosa, in quanto fondata sulla destorificazione miticorituale, comporta un momento tecnico insopprimibile, che ne costituisce la sfera più propriamente magica; d’altra parte la tecnica magica più rudimentale, quando sia dotata di vitalità storica e organicità culturale, non si esaurisce mai nel semplice tecnicismo, ma media e dischiude un determinato orizzont[...]
[...] della vita e del mondo. Nei nostri studi poi un concetto di religione come quello formulato dal Croce può introdurre soltanto una serie di equivoci dannosi, o quanto meno vale a restringere il compito dello storiografo soltanto a quel settore circoscritto che è l’enuclearsi della ' visione del mondo ' dal mito, lasciando fuori della considerazione proprio la ierogenesi come tecnica, e decurtando e oscurando in tal modo il processoPERDITA DELLA PRESENZA E CRISI DEL CORDOGLIO
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dialettico della vita religiosa così come è stato qui sommariamente delineato.
Se tuttavia è da respingere la tendenza panlogistica che risolve la religione in una sorta di philosophia inferior non è nemmeno da accogliere la esigenza irrazionalistica di una autonomia formale della vita religiosa. La religione, ove sia intesa correttamente come nesso miticorituale, non è un apriorv. il tentativo di R. Otto di completare le tre critiche kantiane con una quarta attinente al ' sacro ' deve considerarsi fallito. Apriori però è certamente la potenza tecnica dell’uo[...]
[...]ove sia intesa correttamente come nesso miticorituale, non è un apriorv. il tentativo di R. Otto di completare le tre critiche kantiane con una quarta attinente al ' sacro ' deve considerarsi fallito. Apriori però è certamente la potenza tecnica dell’uomo, sia che si volga al dominio della natura con la produzione dei beni economici, con la fabbricazione di strumenti materiali e mentali del pratico agire, sia che invece si volga ad impedire alla presenza di naufragare in ciò che passa senza e contro l’uomo. Sulla linea di questo secondo impiego della potenza tecnica si trova la religione, che resta definita dal carattere particolare del suo tecnicismo, cioè dalla ripresa e dalla reintegrazione umanistica dei rischi di alienazione, mediante la destorificazione miticorituale. La risoluzione tecnica della vita religiosa non è certamente nuova, se già Platone in un passo famoso del Fedone non esitava a considerare il mito delle anime dopo morte come un incantesimo per rassicurare il fanciullino che in ciascuno di noi si angoscia davanti alla mort[...]
[...]iosamente procuratori di morte, in noi e con noi, dei nostri morti, sollevandoci dallo strazio per cui « tutti piangono ad un modo » a quel saper piangere che, mediante l’oggettivazione, asciuga il pianto e ridischiude alla vita e al valore. Tuttavia questa aspra fatica può fallire: il cordoglio si manifesta allora come crisi irrisolvente, nella quale si patisce il rischio del progressivo restringersi di tutti i possibili orizzonti formali della presenza.
La crisi del cordoglio, come si è detto, appartiene alla condizione umana: tuttavia la civiltà moderna l’ha di molto ridotta di intensità e di pericolosità, fornendole il soccorso di tutta la energia morale maturata nel vario operare civile, e — per i credenti — contenendola e lenendola mercè la prospettiva delle consolanti persuasioni della religione cristiana. Nel mondo antico (per tacere naturalmente delle civiltà primitive) la crisi del cordoglio assume invece ordinariamente, sia nell’individuo che nella collettività, modi estremi che hanno riscontro nella nostra civiltà solo in casi [...]
[...]he per certi aspetti riproducono ancora condizioni di esistenza in qualche modo simili a quelle del mondo antico. Così ove prescindano dalla risoluzione poetica di Omero, la crisi di Achille per la morte di Patroclo si manifesta
(12) Sul concetto di sacro, vita religiosa, destorificazione miticorituale, e sui rapporti fra religione e magia, e fra religione e storiografia religiosa ci permettiamo rinviare alle nostre due monografie Crisi della presenza e reintegrazione religiosa, in « AutAut », 1955, n. 31 e Irrazionalismo e storicismo nella storia delle religioni in « Studi e Materiali di Storia delle Religioni», XXVIII, 1957, fase. I, pp. 89 sgg.PERDITA DELLA PRESENZA E CRISI DEL CORDOGLIO
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in modi « eccessivi » che noi oggi non saremmo disposti a concedere a un uomo « normale », e che possiamo al più tollerare con varia disposizione d’animo nelle contadine dell’Italia meridionale o della penisola balcanica. Tuttavia noi qui dobbiamo analizzare proprio i modi « eccessivi » della crisi del cordoglio, cioè il rischio che essa comporta quando tocca per così dire il fondo.
Quando la caduta della potenza oltrepassante consuma sino in fondo il suo rischio, la contradizione esistenziale in cui la presenza si irretisce assume il modo estremo della assen[...]
[...]edere a un uomo « normale », e che possiamo al più tollerare con varia disposizione d’animo nelle contadine dell’Italia meridionale o della penisola balcanica. Tuttavia noi qui dobbiamo analizzare proprio i modi « eccessivi » della crisi del cordoglio, cioè il rischio che essa comporta quando tocca per così dire il fondo.
Quando la caduta della potenza oltrepassante consuma sino in fondo il suo rischio, la contradizione esistenziale in cui la presenza si irretisce assume il modo estremo della assenza totale e della degradazione dell’ethos della presenza nella scarica meramente meccanica di energia psichica. In generale la situazione luttuosa è tale solo nell’atto o nel tentativo del trascendimento formale, e d’altra parte la presenza si distacca da questa situazione, e si costituisce come presenza, nella misura in cui va dispiegando lo sforzo del trascendimento. Ciò significa che nel crollo completo della potenza oltrepassante la situazione luttuosa si rescinde e scompare per la presenza, la presenza dilegua nel contenuto critico che non riesce a gettare davanti a sè come « oggetto » qualificato, e lo ethos del trascendimento si va annientando nel meccanismo convulsivo. Di tale assenza totale in cospetto dell’evento luttuoso rendono frequente testimonianza, in via di esempio, le Chansons de Geste, dove le dame e i cavalieri, ma talora lo stesso re Carlo, se pasment in presenza del cadavere o per notizia di morte, cioè « perdono la presenza» nella forma dell’assenza totale: la perdono Sebille alla morte del marito Baudoin {quant Sebille l’entant, li sans li est muez, / la véne lui troble, si a les danz serrez, / contre terre se pasme, ne peut sor piez ester), Carlo alla morte del figlio Lohier (Commi? Charles l’entent, si se set que il die, / il est cheiis pasmés devant sa baronie, / si qu’ìl ne pot parler d’une lieu et demi), i cavalieri di Aymeri alla morte del loro signore (fa et la gisent li chevalier pasmé), centomila franchi alla morte di Rolando (cent mìle Frane s’en pasment contre teré) (13).
(13) Cfr. O. Zimmermann, [...]
[...] morte del loro signore (fa et la gisent li chevalier pasmé), centomila franchi alla morte di Rolando (cent mìle Frane s’en pasment contre teré) (13).
(13) Cfr. O. Zimmermann, Die Toten\lage in den altfranzasischen Chanson de geste, Berlin 1899, p. 9 sgg.70
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L’assenza totale rappresenta il limite estremo della crisi del cordoglio: ma al di qua di tale limite stanno tuttavia determinate inautenticità esistenziali della presenza, caratterizzate dal recedere verso l’assenza, e dall’irrisolvente patire e dibattersi per questo recedere. Sulla linea di tale recessione, ma al di qua del suo termine estremo, si trova uno stato psichico che in concreto può manifestarsi con varie sfumature individuali, ma che tipologicamente resta definito da una ebetudine stuporosa senza parola e senza gesto, e senza anamnesi della situazione luttuosa: uno stato simile, designato dal comune linguaggio con la espressione « impietrito (o folgorato o raggelato) dal dolore », si riflette — com’è noto — nel mito di Niobe. Si tratta però di una c[...]
[...]oratezza, che da un momento all’altro può dirompersi in un planctus irrelativo, cioè in un comportamento orientato ad arrecare offese anche mortali alla propria integrità fisica. Questa polarità di ebetudine e di planctus denunzia una crisi profonda nella quale in luogo della decisione formale si instaura la paradossia estremamente contradditoria di un « non fare per farsi vuoti di contenuto» ovvero di un furore che annienta materialmente quella presenza che dovrebbe invece oltrepassare formalmente la situazione. In particolare nel planctus il furore autodistruttivo si accompagna al sentimento patologico di una miseria
o anche di una colpa smisurate che può ricevere nella coscienza varie motivazioni fittizie, ma che in realtà nasce dalla esperienza critica di non potersi dare nessuna motivazione reale secondo valore, e di chiudersi nella situazione invece di oltrepassarla. Appena un po’ al di qua di questa irrisolvente polarità di ebetudine e di planctus sta la sgomenta coscienza di essere immerso in tale polarità e di non poterla padroneg[...]
[...]planctus sta la sgomenta coscienza di essere immerso in tale polarità e di non poterla padroneggiare. Al senso angoscioso del duplice rischio di cadere nell’ àfZYjxavta o nel caotico jcotcstóc, si ispirano le parole di Admeto al ritorno dei funerali di Alcesti: « Ahimè, ahi ahi, / Dove andare? Dove stare? / Che dire? Che tacere? / Come morire?...» (14). Del pari nelle Troiane Ecuba che giace a terra an
(14) Eur., Ale., vv. 861864.PERDITA DELLA PRESENZA E CRISI DEL CORDOGLIO
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nientata, prima di inaugurare la lamentazione pronunzia analoghe parole di smarrimento: «Che debbo tacere? / Che cosa non tacere? / Su che lamentarmi...» (15).
Nella carenza della energia formale della presenza i tentativi di ripresa si risolvono in vani conati, in trascendimenti impropri, in cui la vitalità prevarica la funzione formale che non le può mai spettare: così il «far morire i morti in noi», che è un faticoso processo interiore e ideale, si può manifestare nella modalità più impropria, cioè nella aggressività contro il cadavere, o nel bisogno di vendicare il morto con una nuova uccisione operata su altri, o con l’insorgenza di un indiscriminato furore distruttivo; l’interiorizzazione del morto mercè dell’appropriarsi della sua opera per continuarla ed accrescerla si può degradare nella in[...]
[...]o ed invece si mette in moto il furore, la fame e la libidine.
Un’altra serie di sintomi di crisi si riferisce più particolarmente al centro della situazione luttuosa, cioè al cadavere. In effetti lo scandalo di tale situazione, la sua pietra d’inciampo e il suo segno di contradizione, è costituito dal cadavere, dalla spoglia corporea che, dopo il trapasso, sta davanti ai sopravvisuti. Nella misura in cui abdica la potenza oltrepassante della presenza il cadavere comincia ad « andar oltre » in modo irrelativo: e suo « oltre » irrelativo riflette il rischio della stessa potenza oltrepassante che invece di
(15) Eur., Troiane, vv. 110 sg. Nella ripresa istituzionale del lamento funebre questo momento di smarrimento è diventato spesso un modulo: p. es. ite naro? Ifispero? (che dico, che spero?) nel lamento funebre sardo o come vogghìe fa? Come agghia fa? (che cosa fare?) del lamento funebre lucano.72
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« andar oltre » alle rappresentazioni relative a questo suo contenuto, oggettivandole nel valore, comincia essa stes[...]
[...]ontagia»: infatti, nel suo andar oltre irrelativo e senza soluzione, comunica caoticamente il proprio vuoto ad altri ambiti del reale, e al tempo stesso i più disparati ambiti del reale, con progressione minacciosa, spiano l’occasione più accidentale per farsi simbolici rispetto al cadavere, e per ripeterlo in una eco multipla senza fine. Il cadavere « torna come spettro » : infatti esso sta nella crisi dei sopravvissuti come contenuto in cui la presenza è rimasta impigliata e prigioniera, onde torna a riproporsi in modo inautentico nella estraneità e nella indominabilità della rappresentazione ossessiva o della allucinazione. Il cadavere è « ambivalente », si dibatte per i sopravvissuti nella infeconda polarità di repulsione e attrazione: infatti il suo scandalo respinge in quanto centro di crisi e di dispersione, ma al tempo stesso comanda perentoriamente il rapporto, in una vicenda irrisolvente. E infine la stessa attrazione, nella carenza della decisione formale, finisce col convertirsi nella esperienza del cadavere che malignamente « att[...]
[...]nto centro di crisi e di dispersione, ma al tempo stesso comanda perentoriamente il rapporto, in una vicenda irrisolvente. E infine la stessa attrazione, nella carenza della decisione formale, finisce col convertirsi nella esperienza del cadavere che malignamente « attira a sè i vivi » : infatti il cadavere, come oggetto in crisi, non soltanto non mantiene le distanze rispetto agli altri oggetti, ma non rispetta neanche la distanza rispetto alla presenza, e incombe su di essa catturandola e trascinandola via con sè, come Glauca morta il padre Cleonte, allorché esso volle sollevarsi dalla cara spoglia:PERDITA DELLA PRESENZA E CRISI DEL CORDOGLIO
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...Quando ebbe finito di piangere e di singhiozzare, volle risollevare il suo vecchio capo. Ma come l’edera ai rami d’alloro, restò preso nel peplo leggero: cercava di rimettersi in piedi, ed essa, in senso inverso, lo tratteneva. Tirava con violenza? Le sue vecchie carni si strappavano dalle ossa. Infine vi rinunciò e rese l’anima, impotente ad aver ragione della sciagura. Giacquero morti la figlia e il vecchio padre, lato a lato — catastrofe fatta per alimentare il pianto (16).
Infine la crisi della presenza in occasione del cordoglio può assumere i modi di[...]
[...]isollevare il suo vecchio capo. Ma come l’edera ai rami d’alloro, restò preso nel peplo leggero: cercava di rimettersi in piedi, ed essa, in senso inverso, lo tratteneva. Tirava con violenza? Le sue vecchie carni si strappavano dalle ossa. Infine vi rinunciò e rese l’anima, impotente ad aver ragione della sciagura. Giacquero morti la figlia e il vecchio padre, lato a lato — catastrofe fatta per alimentare il pianto (16).
Infine la crisi della presenza in occasione del cordoglio può assumere i modi di un delirio di negazione dell’evento luttuoso: senza compiere il necessario lavoro di interiorizzazione del morto e di trascendimento delPevento luttuoso la presenza malata cerca di instaurare un comportamento come se il morto fosse ancora in vita, concentrando magari su un qualsiasi surrogato l’organizzazione del proprio delirio. In una certa misura ciò può accadere anche nel normale lavoro del cordoglio, come provano gli infiniti espedienti cui talora si ricorre per cancellare o attenuare l’asprezza dell’inaccettabile « mai più » e per guadagnare il tempo necessario a compiere il distacco e la risoluzione degli affetti che il morto aveva mobilitato in noi quando era in vita. Ma se il lavoro del cordoglio riesce, questi espedienti stanno nella dinamica d[...]
[...]gomento di progressivo distacco dalla realtà; e ancorché può sembrare che talora si tratti degli stessi espedienti adoperati nel lavoro efficace, la considerazione della dinamica in cui sono inseriti ci rende avvertiti che il segno nei due casi è opposto, e che i valori della vita umana nel primo caso si stanno drammaticamente ridischiudendo, e nel secondo si stanno dileguando. In un’ultima istanza in questi deliri di negazione si avverte che la presenza non ri
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solve la situazione luttuosa, ma semplicemente l’ha perduta, e non vi spende intorno nessun lavoro produttivo. Ciò appare particolarmente evidente in quelle ancor più gravi crisi in cui tutta la situazione luttuosa è colpita da un patologico oblio, e la presenza riemerge dalla rescissione in modo apparente, onde nasce una inautenticità esistenziale nella quale la presenza si dibatte divisa fra la perdita della attualità del reale e il ritorno irrelativo del passato rescisso, il quale torna nel modo più inautentico, cioè senza appartenere alla stessa presenza, e quindi senza poter essere ripreso nella dinamica del « far passare ». Ad illustrazione di questo stato morboso basterà ricordare una malata di Janet che dimenticò tutti i particolari relativi alla malattia, alla morte e alla inumazione della madre, e che dal momento della amnesia smarrì Fattualità del reale e la possibilità di inserirsi in esso con azioni adatte: al tempo stesso l’evento luttuoso rescisso tornava, con le memorie relative, nel corso di crisi periodiche in cui la malata minava le scene obliate come se ancora si trovasse a viverle, cioè come se appartenessero al presente e no[...]
[...]ttuoso come tale non giustifichi una considerazione psicologicamente unitaria, potendo occasionare a seconda delle disposizioni individuali le più diverse nevrosi o psicosi. Tuttavia la moderna psicocologia ha talora toccato il problema del cordoglio e delle reazioni anormali alla morte della persona cara. Pierre Janet interpreta
(17) La descrizione del caso si trova in P. Janet, L’état meritai des hystérìques, 19233, pp. 55 sg.PERDITA DELLA PRESENZA E CRISI DEL CORDOGLIO
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la crisi del cordoglio come il prodotto della necessità di sopprimere un certo numero di condotte ormai non più impiegabili verso la persona morta, e di instaurare nuovi comportamenti che tengano conto del fatto della morte: ora questa soppressione e questa instaurazione comporterebbero un lavoro, che può non riuscire, in quanto o si continua ad agire come se il morto fosse ancora in vita o si perde troppo presto la memoria dell’evento luttuoso, per improvvisa amnesia (18). Questa interpretazione della crisi del cordoglio non offre nessun criterio sicuro per dis[...]
[...]capacità di « accrescersi per raggiunzione e assimilazione di elementi nuovi » (19): il che significa che la crisi del cor
(18) P. Janet, De Vangoisse à Vextase, II, 1928, p. 350, 367; cfr. p. 281.
(19) P. Janet, L'état mentale des hystériques, 1931, p. 82.76
ERNESTO DE MARTINO
doglio è tale nella misura in cui spezza la « durata » della vita spirituale, pietrificandola in un « atomo psichico » che compromette la fluidità stessa della presenza, e che è fonte di inautenticità esistenziale. Relativamente più impegnata e complessa di quella del Janet è la teoria psicoanalitica del cordoglio, che fu inaugurala dal Freud nel suo scritto Tauer und Melancolìe. Il Freud volle scorgere un differenza fra il cordoglio e la melancolia per il fatto che « mentre nel cordoglio è il mondo ad essere povero e vuoto, nella melancolia lo è l’io stesso» (20). Una seconda differenza starebbe nel fatto che mentre il cordoglio si riferisce « alla perdita cosciente di un oggetto amato » la melancolia è in rapporto con una perdita «che si sottrae in qualche[...]
[...]svolge un lavoro per liberare la libido dal legame con l’oggetto amato, rendendola disponibile per nuovi impieghi: ma mentre nel cordoglio tale lavoro si svolge prevalentemente nella sfera della coscienza e mantiene la distinzione fra io e oggetto perduto, nella melancolia il processo di distruzione
(20) Freud, Ges. Schr., V, p. 538.
(21) Freud, Op. cit., 1. c.
(22) Freud, Op. cit., p. 537.
(23) Freud, Op. cit., p. 542.PERDITA DELLA PRESENZA E CRISI DEL CORDOGLIO
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e di svalutazione si svolge nell’inconscio, finché le cariche libidiche, al termine rei processo, ridiventano libere dando luogo all’accesso di mania (24). Questa prima interpretazione del Freud subì successivamente alcune modificazioni, nel senso che le differenze fra cordoglio e malincolia furono in parte attenuate e in parte diversamente atteggiate. Fu osservato che anche nel cordoglio, al pari che nella melancolia, aveva luogo la identificazione con l’oggetto amato e perduto, come quando i sopravvissuti riproducono — nel gesto, nella inflessione della voce, [...]
[...]edizione di « vendetta », o con un’orgia sessuale o alimentare. Allo stesso modo la zoofobia e il totemismo sarebbero stati un altro modo di proiettare all’esterno, in questo caso sull’animale, il conflitto interno (27).
Più recentemente Melarne Klein ha ripreso il problema del cordoglio al di fuori delle istanze prevalentemente etnologiche che
(27) Geza Roheim, Nach dem Tode des Urvarter, in « Imago », IX (1923), pp. 83 sgg.PERDITA DELLA PRESENZA E CRISI DEL CORDOGLIO
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avevano indotto il Roheim a formulare la sua interpretazione. Per la Klein ogni lutto rinnova in generale il bisogno di restaurare dentro di sé la persona amata e perduta, così come avevano già detto il Freud e l’Abraham: ma al tempo stesso ogni lutto mette in pericolo gli oggetti amati per primi — in ultima analisi i « buoni genitori » — e pertanto obbliga a restaurare in sé anche il mondo interno, che sta perdendo il suo equilibrio e sta andando in rovina. Il cordoglio è un lavoro che provvede a questa duplice restaurazione: ma vi provvede riattivando e ripete[...]
[...]cabile, chiamare chi non può rispondere, sentire il tocco della mano che ci è sfuggita per sempre', vedere il lampo di quegli occhi che più non ci sorrideranno e dei quali la morte ha velato di tristezza tutti i sorrisi che già lampeggiarono. E noi abbiamo rimorso dì vivere, ci sembra di rubare qualcosa che è di proprietà altrui, vorremmo morire con i nostri morti: codesti sentimenti, chi non li ha, purtroppo, sofferti o amaramentePERDITA DELLA PRESENZA E CRISI DEL CORDOGLIO
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assaggiati? La diversità o la varia eccellenza del lavoro differenzia gli uomini: l’amore e il dolore li accomuna; e tutti piangono ad un modo. Ma con l’esprimere il dolore, nelle varie forme di celebrazione e culto dei morti, si supera lo strazio, rendendolo oggettivo. Così cercando che i morti non siano morti, cominciamo a farli effettivamente morire in noi. Né diversamente accade nell’altro modo col quale ci proponiamo di farli vivere ancora, che è il continuare l’opera a cui essi lavorarono, e che è rimasta interrotta... (29).
In effetti questo passo del [...]
[...]etta e secondo itinerari culturali dimostrabili. D’altra parte la interpretazione del Croce non vale soltanto per la civiltà cristiana, e per il cristiano culto dei morti, ma può essere estesa a tutte le possibili civiltà religiose. Anzi la più sicura conferma della sostanziale verità della formulazione del Croce sembra provenire addirittura dalle cosiddette civiltà primitive, ove i rituali funerari mostrano nel modo più crudo e diPERDITA DELLA PRESENZA E CRISI DEL CORDOGLIO
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retto il momento dell’oblio dell’evento luttuoso, e l’espressione simbolica — nel rito come nel mito — della separazione del morto dai viventi e della difesa dei viventi dalle funeste insidie del morto. Presso i Feugini p. es. il tema dell’oblio trova espressione in numerosi tratti del rituale funerario. « Niente deve ricordarci più il nostro morto», dicono, gli indigeni (30): e in conformità a questo proposito immobilizzano il cadavere affinché non torni come spettro a tormentare i viventi, cercando in vario modo di dissimulare e di rendere irriconoscibile il l[...]
[...]iale con quei popoli è anche augurabile che avvenga), ma comporta ad ogni modo una fatica « molesta e grave » — per dirla col Vico — ed il superamento di ostacoli notevoli sia nella formulazione dell’esatto problema storiografico, sia nel reperimento dei documenti necessari per la ricostruzione, Cfr. la nostra monografia Religionsethnologic und Historizismus in « Paideuma» Mitteilungen zur Kulturkunde, Bd. II, Héft 4/5, Sept. 1942.PERDITA DELLA PRESENZA E CRISI DEL CORDOGLIO
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che comunque gravitarono verso questo piccolo mare così importante per la storia dell’uomo. La civiltà cristiana si riattacca immediatamente a queste civiltà, ed è anzi sorta come loro vibrante negazione polemica: in tale polemica noi siamo ancora in un certo senso impegnati, e ne portiamo il documento interno nelle nostre persuasioni e nei nostri comportamenti, nelle nostre avversioni e nelle nostre preferenze. Si tratta di un passaggio avvenuto una sola volta nella storia, e che vive nella nostra coscienza culturale come conflitto fra cristianesimo e paganesim[...]
[...]irettamente proveniamo o che ci siamo appena lasciati alle spalle, la dispersione e la follia che minacciano l’uomo colpito da lutto furono istituzionalmente moderate nel rito, ridischiuse alle figurazioni del mito, e drammaticamente redente nel vario operare umano, cioè nell’ethos delle memorie e degli effetti, nei significati sociali, politici e giuridici, nell’autonomia della poesia e dei gravi pensieri sulla vita e sulla morte:PERDITA DELLA PRESENZA E CRISI DEL CORDOGLIO
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finché, compiuto il suo ciclo storico, il pagano lamento cedette il luogo ad un nuovo e diverso modello culturale di comportamento davanti alla morte, il modello di Maria.
6. Maria come modello del cordoglio cristiano
In perfetta coerenza con la solenne affermazione della vittoria di Cristo sulla morte e con la polemica contro la lamentazione pagana, il Nuovo Testamento non conosce un pianto di Maria. In Giovanni 19. 2527 Maria appare alla croce come muta spettatrice, e l’evangelista non pone sulla sua bocca nessuna espressione di dolore: Maria madre di Ge[...]
[...]merò il mio dolore per la tua morte? O voi che lasciaste la terra di Galilea, o mie compagne cui, ignare dei misteri, attrasse Gesù che ora giace nella tomba, non intonate i soliti lamenti, ma pian
(37) Si vedano gli Acta Pilati nella edizione del Vannutelli, Roma 1938. Le lamentazioni sono più brevi in Acta Pilati A e B, più lunghe in C. Per alcune lamentazioni tralasciate dal Vannutelli, cfr. la edizione del Tischendorf, p. 306.PERDITA DELLA PRESENZA E CRISI DEL CORDOGLIO
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getelo con un sommesso pianto: con lieti canti lo celebrerete quando tornerà, re della vita, affinchè si avveri la mia sicura speranza (38).
Come noto il Christòs pàschon è in parte un centone di versi di Eschilo, di Licofrone e di Euripide, ed ha un valore letterario scarsissimo: ma da punto di vista storicoreligioso è un documento notevole poiché ci mostra una Maria che pur assumendo i modi della lamentazione pagana appare in un certo senso come l’ultima lamentatrice in atto di patire la morte di colui che vince la morte, e al tempo stesso di annunziare nel[...]
[...]o in coro dai fedeli, specialmente dalle donne del popolo, e che riecheggia un tema del lamento funebre di madre a figlio, il ricordo dei nove mesi di gestazione:
.... te portai nillu meu ventre
.... quando te bejo... (lo) co presente
.... nillu teu regnu agirne ammette (a mmenteP) (41)
(40) Young, op. cit.t n, p. 506 sg.
(41) D. M. Inguanez, Un dramma della passione del secolo XII, Badia di Montecassino 1936, p. 38.PERDITA DELLA PRESENZA E CRISI DEL CORDOGLIO
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Analogo rapporto può intravedersi nella più ampia ed elaborata drammatizzazione della passione inclusa nei Carmina Burana, dove alla remissione dei peccati fatta da Gesù segue — con poca coerenza, come nota lo Young — un lamento di Maria che si inizia con le disperate parole: awe, awe, daz ich ie wart geborn (42). A proposito della famosa lauda di Jacopone «Donna del Paradiso» il Toschi ha osservato come determinate espressioni del corrotto («Figlio, amoroso giglio», «Figlio, occhi giocondi», «Figlio di mamma scura», «Figlio de la sparita, figlio attossicato», «[...]