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ANTEPRIMA MULTIMEDIALI

Il segmento testuale Odi è stato riconosciuto sulle nostre fonti cartacee. Questo tipo di spoglio lessicografico, registrazione dell'uso storicamente determinatosi a prescindere dall'eventuale successivo commento di indirizzo normatore, esegue il riconoscimento di ciò che stimiamo come significativo, sulla sola analisi dei segmenti testuali tra loro, senza obbligatoriamente avvalersi di vocabolarii precedentemente costituiti.
Nell'intera base dati, stimato come nome o segmento proprio è riscontrabile in 27Analitici , di cui in selezione 1 (Corpus autorizzato per utente: Spider generico. Modalità in atto filtro S.M.O.G.: CORPUS OGGETTO). Di seguito saranno mostrati i brani trascritti: da ciascun brano è possibile accedere all'oggetto integrale corrispondente. (provare ricerca full-text - campo «cerca» oppure campo «trascrizione» in ricerca avanzata - per eventuali ulteriori Analitici)


da Sebastiano Timpanaro, Il Marchesi di Antonio La Penna in KBD-Periodici: Belfagor 1980 - novembre - 30 - numero 6

Brano: [...]e al Bellum Catilinae di Sallustio, Messina 1939, p. v.). Su Marchesi mediocre traduttore in versi, ottimo in prosa (e ben presto egli predilesse la prosa, discostandosi dalla linea RomagnoliBignone), cfr. LA PENNA, p. 37 s. e, piú ampiamente, E. PIANEZZOLA nel vol. collettivo La traduzione dei classici a Padova, Padova, Antenore, 1976, p. 23 ss. Fra le poche traduzioni in versi riuscite, giustamente il Pianezzola (pp. 3638) cita e riporta la monodia di Tieste nell'omonima tragedia di Seneca e una parte del coro delle Troades sulla morte come annullamento.
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incomprensione, credo anche antipatia personale. Forse l'unica allusione a Pasquali (finora, che io sappia, non notata) si trova appunto in Filologia e filologismo, e riguarda ancora quella che a Marchesi sembrava una stortura nella moderna ricerca delle fonti, il voler rintracciare fonti diverse dalle poche dichiarate e confessate dagli stessi autori antichi: « Cosí non è creduto Orazio quando dichiara che i suoi ispiratori sono fra i lirici classici della G[...]

[...]omini. Il resto è oscurità e silenzio ») e, con ancor piú recisione, nel saggio su Livio e la verità storica (in Voci di antichi, pp. 119121). Per via d'indagine razionale, dice Marchesi, la storia si frantuma in tante visioni, tutte vere e tutte false; c'è una sola « forza unificatrice: è quella dell'arte: sola infrangibile verità ». Lo storicoartista dischiuderebbe il segreto di una personalità del passato anche attraverso la narrazione di episodi in tutto o in parte inventati; di fronte a un racconto liviano di particolare efficacia rappresentativa, Marchesi esclama: « A chi mai — se non a un infelice pedante — può venire in mente di chiedere se l'episodio sia nei suoi particolari abbastanza documentato? ». Si potrebbe obiettare che Marchesi stesso talvolta non crede ai suoi prediletti storiciartisti: rivaluta Catilina contro Sallustio, Tiberio contro Tacito (cfr. La Penna, pp. 9 s., 68 s., che giustamente mette in rilievo il notevole valore di queste rivalutazioni). Qui la passione politica « di sinistra » nel primo caso, una consonanza autobiografica con la tristezza di Tiberio nel secondo, hanno portato Marchesi a dissentire; ma a dissentire, se ben si guarda, mettendosi egli stesso in gara, come storicoartista e storicopsicologo, con Sallu[...]

[...] di antichi, p. 15; e ancora, p. 18: « Tutti victi, tutti sconfitti, in questo mondo virgiliano dominato dal dolore »). E cosi l'Orazio amato dal Marchesi non è l'Orazio « romano », ma l'Orazio « privato », scettico, antirigorista, saggio di una saggezza che è l'opposto della presuntuosa e dogmatica filosofia (rimane tuttavia strano che Marchesi si sia accorto troppo fuggevolmente dell'esistenza di un Orazio tutt'altro che « romano » anche nelle Odi; se ho ben visto, un capolavoro della lirica mondiale come Difugere nives, il cui valore non sfuggi a Perrotta e meglio ancora fu messo in luce da La Penna in « Annali della scuola normale » xviii, 1949, p. 32 sg., e aveva già suscitato la commozione profonda di un filologopoeta come Housman 4, non attrasse mai l'attenzione di Marchesi). Piú difficile era conciliare con questa prospettiva l'ammirazione (certo eccessiva, e talvolta sfociante in una certa retorica della romanità) per Livio come storicoartista; e tuttavia non manca nel capitolo della Storia dedicato a Livio una riserva (ii`, p. [...]

[...]versità di Padova, ripubblicato poi nel Cane di terracotta) il giudizio è ancor piú elogiativo. Dove La Penna ha senz'altro ragione, è nell'osservare che
« nella poesia augustea gli aspetti romani, "imperiali", non sono affatto sopravvalutati » (p. 76 s.); non lo sono neanche nel discorso del 1938. Ma, appunto, se alla poesia non competeva di trasformarsi in celebrazione retoricopatriottica, l'u o m o politico Augusto compiva, senza bisogno di Odi romane e di Carmi secolari, il suo compito di dissolutore dello « Stato cittadino », e in quanto tale preparava il terreno alla poesia puramente umana.
La difesa che Marchesi fa di Tiberio, la sua sia pur cauta rivalutazione di Domiziano (nel profilo di Marziale) si collocano su un altro piano: non come imperatori « forti » essi sono apprezzati da Marchesi, ma come uomini tristi, soli, incompresi (bene il La Penna, p. 68). Ma nell'introduzione al cap. vi della Storia (II', p. 323 s.: « Da Adriano a Diocleziano ») ritorna ancora una volta il nesso tra impero come assolutismo e impero come cos[...]

[...]o tra impero come assolutismo e impero come cosmopoli: « Il potere imperiale, ormai prossimo anche nella forma all'assolutismo monarchico, si faceva sempre piú personalmente sollecito della prosperità e del benessere di tutti i paesi soggetti, e i vinti dimenticavano la loro indipendenza di fronte ai benefici della pace e degli onori e senti
I1 giudizio su Cesare, tuttavia (caso raro in Marchesi, che fu di solito molto costante nei suoi amori e odi per artisti e personaggi politici), oscillò fortemente da uno scritto e da un'occasione all'altra. Nella Storia, dalla prima all'ultima edizione, domina l'esaltazione senza riserve. Nel discorso su Livio del 1942 (= Voci di antichi, p. 117; dr. LA PENNA, p. 34) l'esaltazione è seguita da una nota di profonda incertezza se la grandezza di Cesare sia stata benefica o distruttiva. In un articolo politico del 1952 (Umanesimo e comunismo, p. 81), di contro alla tirannia di Mussolini e di Franco tornava a esaltare la tirannia di Cesare, certo con ragione quanto all'abissale distanza, ma senza espri[...]

[...]hi: vedi la commemorazione del Marchesi in Divagazioni, Venezia, Neri Pozza, 1951, p. 127 ss.). Altri, come il Rapisardi, furono sempre combattuti fra materialismo con violente punte anticlericali e ansie religiose che tuttavia, dinanzi all'« antiprovvidenzialismo » cosí evidente nella realtà tutta quanta, non giunsero mai a placarsi. Perfino il Pascoli, che pareva il piú predestinato a finire nel cristianesimo, non vi fini, e nella prefazione a Odi e inni scrisse, accanto a banalità antisocialiste, parole dignitose di replica a chi lo sollecitava a una conversione. Ma in verità, se si confrontano gli scritti dei
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convertiti (per esempio il famoso Per una fede di Arturo Graf) con quelli dei non convertiti, si vede che non c'è quasi nessuna differenza: anche i convertiti continuarono a sentire piú il mistero, con le sue ansie, che la fede o la certezza. E ciò conferma quanto abbiamo già detto, sulle orme del La Penna, riguardo alle forzature dell'interpretazione cattolica della personalità di Marche[...]

[...]izzanti solo alcune prose meno felici di Marchesi, quelle (frequenti soprattutto nel Libro di Tersite) in cui l'autore si rivolge a una non meglio identificata signora, con un tono fra il galante e lo gnomico. Ma queste pagine non aggiungono alla figura di Marchesi nessun tratto importante.
Anche la dicotomia, ben osservata dal La Penna (p. 55 s.), tra una filologia strettamente e un po' aridamente tecnica (quante pure e semplici collazioni di codici, ora raccolte in SM, nel primo quindicennio di attività!)
e una critica letteraria aliena da ogni filologia va messa in rapporto, a mio avviso, con una pratica di lavoro frequente in molti filologi classici o, ancor piú, italianisti o romanisti della « scuola storica », che alternavano a un'erudizione troppo arida una saggistica fin troppo divulgativa, con tendenza allo psicologismo e al « bello scrivere », spesso anche alla retorica. Naturalmente si sottraggono a tale caratterizzazione capolavori come il Virgilio nel Medio Evo del Comparetti; ma non vi si sottrae del tutto il Carducci (a [...]

[...]le scelte politiche, si poteva appartenere al PCi o fiancheggiarlo rimanendo « borghesi ». Intellettuali di questo stampo oggi sono legione: si può dire che ormai l'unica vera difficoltà ad aderire al Pci, per un cittadino italiano, è di avere idee comuniste e di aspirare a metterle in pratica. Nel '45 erano molto meno. Beninteso, Marchesi, con tutte le sue contraddizioni, non può in
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alcun modo essere confuso con certi odierni universitari del Pci: a suo modo, era appassionatamente comunista davvero, e, benché incapace di ogni atteggiamento coerente di opposizione interna al PCI togliattiano, fu anche, talvolta, un militante « scomodo »: non votò, unico tra i parlamentari del PCI, a favore del famigerato art. 7 della Costituzione; insisté piú volte, senza far nomi ma con un tono abbastanza marcatamente polemico (cfr. Umanesimo e comunismo, passim), sulla necessità di non degradare la cultura a propaganda di partito (la cultura, s'intende, era per lui l'espressione dell'« umanità eterna »; ma quella polemica ave[...]

[...]o sul meno faticoso ma piú « meritevole » lavoro intellettuale!), Marchesi afferma il proprio diritto ai « sorrisi amari » e a « reclamare sempre [ ... ] il divorzio spirituale dalle moltitudini ». E per le « moltitudini », per la « plebe », per la « folla » (parole con cui Marchesi designa, indifferentemente, ora le classi subalterne dei tempi di Orazio, ora il proletariato del secolo xx) lo scrittore ha insieme un disprezzo « spirituale » e un odiotimore fisico. Parla (riportando, con forzature, espressioni oraziane, e condividendole, e andando al di là di Orazio) di « schifo della folla », di « puzzo di gregge e di becco » che da essa emana; afferma che « dov'è un popolo, là è una turba di ladri, di avventurieri, di ruffiani » (p. 546). Afferma sarcasticamente (ibid.) che « nessun liber uomo del popolo » si è mai battuto per la tutela dei « diritti individuali » (quando, poi, Stalin fece quel che fece dei « diritti individuali », Marchesi plaudi).
Passata la fase violenta della rivoluzione, sarà la « moltitudine » capace di creare un[...]

[...]ico testuale. Il La Penna (cap. III) valuta, in complesso, severamente le edizioni critiche o semicritiche (chiamo cosi i commenti scolastici muniti di piú o meno sporadici contributi criticotestuali: un genere ibrido, ma nel quale dettero alcune buone prove il Terzaghi, il Galante ed altri) dell'Orator di Cicerone, del Tieste di Seneca, del De magia di Apuleio, dell'Ars amatoria di Ovidio; .considera con maggiore benevolenza alcune ricerche su codici di autori antichi (molte di piú, e piú fruttuose, il Marchesi ne compi su codici di autori medievali e umanistici) e in particolare mette in risalto il valore degli studi sugli scolii a Persio (SM, II, pp. 907983); sottolinea che un progresso criticotestuale assai notevole fu compiuto dal Marchesi con l'edizione di Arnobio (Torino 1934, 19532). Tuttavia anche riguardo a quest'ultima il La Penna ammonisce che « va lodata con misura », e vi ravvisa il difetto di tutta la critica testuale marchesiana, l'indirizzo troppo conservativo, di cui fornisce (a p. 30 e in un'appendice a pp. 101103) parecchi esempi, discutendo intelligentemente vari passi e proponendo anche qualche [...]

[...]ione. Per quel che riguarda il primo periodo dell'attività criticotestuale di Marchesi (cioè fino all'Arnobio escluso), mentre le edizioni dell'Orator, del De magia e dell'Ars amatoria vanno abbandonate senza rimpianti al giudizio negativo del La Penna — si potrà sempre discutere su qualche singolo passo, ma il quadro d'insieme non muta —, quella del Tieste di Seneca è un'edizione che presenta alcune imprecisioni di metodo nella trattazione sui codici, alcune scelte di varianti erronee o discutibili, purtroppo anche un terribile manes in fine di trimetro giambico (al v. 93: fra i « guasti » segnalati dal La Penna a p. 27 manca questo, che è certamente il piú spiacevole, tanto più in quanto rappresenta l'unica congettura che il Marchesi, critico conservatore, introdusse nel testo: magari fosse stato, questa volta, conservatore, e avesse lasciato stare manus, che va benissimo!); e tuttavia, in confronto alle edizioni del Leo e di PeiperRichter che allora erano le sole disponibili, segna un progresso non indifferente.
IL « MARCHESI » DI AN[...]

[...]congettura che il Marchesi, critico conservatore, introdusse nel testo: magari fosse stato, questa volta, conservatore, e avesse lasciato stare manus, che va benissimo!); e tuttavia, in confronto alle edizioni del Leo e di PeiperRichter che allora erano le sole disponibili, segna un progresso non indifferente.
IL « MARCHESI » DI ANTONIO LA PENNA 663
È noto che il Leo, dalla constatazione ovvia (e già fatta dal Gronovius) della superiorità del codice Etrusco (E), era giunto ad una assurda superstizione, fino a considerare tutte le varianti della numerosissima famiglia A come frutto di con gettura, e a far tutto il possibile per non accoglierle nel testo nemmeno come congetture, e a introdurre molte congetture sue e del Wilamowitz, quasi tutte infelici (il Leo piú tardi eccelse anche nella critica testuale, come editore di Plauto; ma buon congetturatore non fu mai; e il Wilamowitz non era buon critico di testi latini, e meno che mai di Seneca). Il Peiper e il Richter nell'edizione del 1902 (dovuta principalmente al Richter, per la premat[...]

[...]glierle nel testo nemmeno come congetture, e a introdurre molte congetture sue e del Wilamowitz, quasi tutte infelici (il Leo piú tardi eccelse anche nella critica testuale, come editore di Plauto; ma buon congetturatore non fu mai; e il Wilamowitz non era buon critico di testi latini, e meno che mai di Seneca). Il Peiper e il Richter nell'edizione del 1902 (dovuta principalmente al Richter, per la prematura morte del Peiper) si accorsero che i codici A, accanto a numerosissime banalizzazioni e alterazioni arbitrarie (altre, del resto, ne aveva anche E, benché in molto minor misura), presentavano lezioni sicuramente giuste e non congetturali; e cercarono di districare la genealogia dei codici A. Ma questa operazione doveva riuscire soltanto assai piú tardi (e pur sempre imperfettamente: gli studiosi piú recenti, certo molto meritevoli, ostentano tuttavia troppa baldanza); e le lezioni di A accolte dal Richter erano ancora, di gran lunga, troppo poche, e troppe le congetture, non piú felici di quelle del Leo. Perché apparisse chiaro quanto di buono si poteva ancora ricavare da A (anche senza affrontare il problema dei rapporti genealogici all'interno di questa famiglia) e di quante congetture inutili andasse sbarazzato il testo delle tragedie di Seneca, dovevano venire, dal 1926 [...]

[...] senza affrontare il problema dei rapporti genealogici all'interno di questa famiglia) e di quante congetture inutili andasse sbarazzato il testo delle tragedie di Seneca, dovevano venire, dal 1926 in poi, gli studi di Gunnar Carlsson, che rimangono fondamentali, sebbene in alcuni casi il Carlsson si sia spinto troppo oltre.
Marchesi non aveva nel 1908 e non ebbe nemmeno piú tardi l'attitudine ad affrontare complessi problemi di genealogia dei codici (non la ebbero nemmeno, è bene ricordarlo, filologi suoi coetanei o suoi predecessori della forza di Cornparetti, Piccolomini, Vitelli, Sabbadini, Castiglioni; il gusto per problemi stemmatici si fece strada lentamente in Italia); è doveroso aggiungere che, anche se avesse avuto interessi di questo tipo, non avrebbe comunque potuto, privo della possibilità di lunghi soggiorni all'estero e basandosi sul solo Tieste, dare un contributo alla stemmatica dei piú di 300 codici della classe A; e non si può nemmeno deplorare che egli abbia rinunciato alla sua vocazione fondamentale di critico lette[...]

[...]no, è bene ricordarlo, filologi suoi coetanei o suoi predecessori della forza di Cornparetti, Piccolomini, Vitelli, Sabbadini, Castiglioni; il gusto per problemi stemmatici si fece strada lentamente in Italia); è doveroso aggiungere che, anche se avesse avuto interessi di questo tipo, non avrebbe comunque potuto, privo della possibilità di lunghi soggiorni all'estero e basandosi sul solo Tieste, dare un contributo alla stemmatica dei piú di 300 codici della classe A; e non si può nemmeno deplorare che egli abbia rinunciato alla sua vocazione fondamentale di critico letterario per ingolfarsi in un lavoro specialistico che, anche a saperlo fare, avrebbe richiesto anni e anni. L'immagine complessiva che egli aveva della tradizione manoscritta delle tragedie di Seneca (cfr. p. 28 s.) è quella che prevaleva quando egli compi la sua edizione, con un'accentuazione maggiore di quella del Richter a favore di A (e qui, già prima del Carlsson, egli vedeva giusto), ma senza smarrire la consapevolezza della superiorità di E. Volendo, comunque, dare u[...]

[...]lo fare, avrebbe richiesto anni e anni. L'immagine complessiva che egli aveva della tradizione manoscritta delle tragedie di Seneca (cfr. p. 28 s.) è quella che prevaleva quando egli compi la sua edizione, con un'accentuazione maggiore di quella del Richter a favore di A (e qui, già prima del Carlsson, egli vedeva giusto), ma senza smarrire la consapevolezza della superiorità di E. Volendo, comunque, dare un contributo alla conoscenza di alcuni codici A piú o meno contaminati, egli dette una sommaria notizia dei manoscritti fiorentini, soffermandosi con particolare predilezione sul Riccardiano 526 (sec. xiii: cfr. pp. 29, 3337). A proposito delle lodi che il Marchesi tributa a questo codice, il La Penna fa un'osservazione che, del tutto giusta in moltissimi casi, non mi sembra giusta nel caso specifico: « Una curiosa trappola riservata ai conservatori in critica del testo è nel sostenere lezioni manoscritte solo perché manoscritte, anche quando sono frutto di emendamenti di copisti dimostrabili in base alla storia del testo ». Ora, il Marchesi (p. 29) non loda il Riccardiano in quanto trasmettitore di lezioni risalenti all'archetipo o comunque a un ramo di tradizione genuina: loda il co pi s t a del Riccardiano in quanto assennato editore medievale, che, attenendosi fondamenta[...]

[...]ina: loda il co pi s t a del Riccardiano in quanto assennato editore medievale, che, attenendosi fondamentalmente ad A ma attingendo anche ad E o a suoi apografi,
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e talvolta congetturando con prudenza (« introdusse di suo emendamenti congetturali e ritocchi »), dette un buon testo eclettico, precorrendo talvolta congetture di filologi successivi. Lezioni come involvet al v. 624 (giusta, trovata poi dal Giardina in due codici piú tardi), potui al v. 1040 (non indispensabile di fronte a potuit della tradizione, ma tutt'altro che spregevole, e congetturata piú tardi dal Gronovius), preces movebunt al v. 302 (congetturata piú tardi dall'Avantius, cfr. La Penna, p. 27 e n. 18) sono chiaramente designate dal Marchesi come « varianti congetturali » (p. 29), ottenute talvolta mediante « accordo » a « conciliazione » di E con A. Il Marchesi asserisce (ibid.) che il Riccardiano
« nulla ci dà di nuovo [dal « nuovo » egli esclude le congetture ottenute mediante
« combinazione » delle lezioni di A e di E, come il già cita[...]

[...]icato sforzato come appare a p. 41 e nel commento, è lezione di nessun valore, nemmeno congettura ma mera banalizzazione, e gerunt non fa difficoltà) il Marchesi abbia pensato a tradizione genuina; tuttavia la designazione che ne dà a p. 41 (« tra le piú felici risoluzioni del passo tormentatissimo ») lascia anche qui incerti. Ad ogni modo, il giudizio complessivo del Marchesi sul Riccardiano rimane quello che abbiamo detto (l'unica ingenuità metodica consiste nell'affermare che il Ricc. conferma « molte lezioni di E, che con quella arida testimonianza di un sol codice ci lascerebbero assai perplessi », dopo aver detto a tutte lettere che il copista del Ricc. è « un collazionatore », « un redattore » che accorda E con A, e quindi non accresce per nulla la fides documentaria di E; ma qui il compiacimento della bella frase, unito a non sufficiente sicurezza di metodo, ha tradito il Marchesi). E le collazioni di questo e di altri codici fiorentini, se non servono a restituire tradizione genuina, servono, come in parte si è visto, a « retrodatare » congetture attribuite a filologi posteriori; da questo punto di vista, è stato un torto degli editori piú recenti non averne tenuto conto.
Se, poi, diamo uno sguardo all'« Indice dei luoghi in cui la presente edizione differisce dalle edizioni del Lea e del Richter » (p. 125 s.), e prendiamo a confronto l'edizione piú recente e migliore di cui per ora disponiamo, quella del Giardina (Bologna 1966), notiamo che in molti passi (vv. 26 nec, 47 fratris, 93 sacra, 110 stetit, 111 qui[...]

[...] che non esclude, come si è visto, che in parecchi casi, a proposito del Tieste di Seneca, egli avesse ragione): sia pure con minore virulenza di un Romagnoli, aveva anch'egli accolto la connotazione patriottica del proprio indirizzo criticotestuale: nell'introduzione al Tieste il Leo e il Richter sono chiamati, in contesti polemici, « gli studiosi tedeschi », « gli editori tedeschi » (pp. 29, 38), e di « pernicioso influsso germanico », di « metodiche aberrazioni della cultura germanica » a cui gli italiani devono opporre « una cultura latina [ ... ] fondata sul "buon senso" ch'è sapientia » si parla con insistenza — riferendosi anche alla critica testuale — in Filologia
e filologismo (SM, in, pp. 1237, 1241; cfr. La Penna, p. 54). Ben diverso, anche se ebbe i suoi occasionali eccessi, era il conservatorismo criticotestuale della scuola svedese. Esso partiva dallo studio dei testi latini tardi, dai fatti lessicali e sintattici che da un lato anticipavano molti sviluppi delle lingue romanze, dall'altro si riconnettevano al latino arcaic[...]

[...]ebba anche all'influsso degli allievi dell'università di Padova, di uno soprattutto, il solo vero allievo che Marchesi abbia avuto, Ezio Franceschini, che è poi diventato un insigne medievalista. Franceschini ha sempre parlato di Marchesi come di un maestro « irraggiungibile », che, nonostante la grande umanità e la sostanziale modestia, poco o nulla poteva imparare dai suoi scolari. Tuttavia nel suo Marchesi il Franceschini ci ha narrato un episodio significativo (p. xit s.). Nel 1926, sul finire di una lezione sulla tradizione medievale dell'Etica Nicomachea (di cui si era occupato a lungo da giovane), Marchesi accenna a un testo, il
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Liber philosophorum moralium antiquorum, che era sempre rimasto per lui un enigma quanto all'autore, alle fonti, alla lezione di molti passi. Vuole qualcuno dei suoi scolari prenderlo come argomento di tesi di laurea? Si fa avanti Franceschini, sí fa affidare da Marchesi quel lavoro, si ripresenta a Marchesi, dopo aver lavorato da solo, un anno dopo e gli espone i risultati: quel[...]

[...]r lui un enigma quanto all'autore, alle fonti, alla lezione di molti passi. Vuole qualcuno dei suoi scolari prenderlo come argomento di tesi di laurea? Si fa avanti Franceschini, sí fa affidare da Marchesi quel lavoro, si ripresenta a Marchesi, dopo aver lavorato da solo, un anno dopo e gli espone i risultati: quel testo è la versione latina di un'opera araba composta nel 1053; ne esistono anche versioni in altre lingue, ed esistono molti altri codici della versione latina, ignoti a Marchesi. « Mi ascoltò silenzioso, con segni evidenti di stupore e d'interesse. Poi mí chiese: "Ma come ha fatto, scusi, a giungere a questi risultati?". Risposi: "Chiedendomi semplicemente se della questione non si fossero mai interessati gli studiosi tedeschi". Ero partito infatti da quella domanda, avevo fatto ricerche in quella direzione ed ora gli potevo presentare una lunga lista di autori a lui ignoti e le loro conclusioni. ».
Un fatto di questo genere (e non è detto che sia stato l'unico) dovette far riflettere Marchesi, probabilmente piú di quanto a[...]

[...]pressioni già da noi riportate) con la convinzione, piú o meno esplicita, che la forza d'intuizione latina avesse poco di importante da imparare dalla pedanteria teutonica. Sul finire degli anni Venti accadde evidentemente in lui un ripensamento, senza il quale non sarebbe immaginabile l'edizione di Arnobio. Il Franceschini, filologo di prim'ordine ma non disposto a esprimere sul suo Marchesi alcuna riserva e quindi nemmeno a compiere alcuna periodizzazione, riconosce nell'Arnobio il culmine della filologia di Marchesi ma considera eccellenti anche le edizioni critiche anteriori (op. cit., pp. 267, 308309); tuttavia testimonianze dello stesso Franceschini come: « Ricordo le lunghe discussioni sulla scelta di una variante, le ragioni valide per l'una o per l'altra parola, le ricerche lessicali e stilistiche, e ancora i dubbi e le incertezze, prima della decisione » (p. 94 s.); o: « Quante volte lo incontrai dopo una notte passata insonne per lo studio di una variante! » (p. 130, e ancora p. 167) non possono riferirsi che all'Arnobio (per [...]

[...]i una variante, le ragioni valide per l'una o per l'altra parola, le ricerche lessicali e stilistiche, e ancora i dubbi e le incertezze, prima della decisione » (p. 94 s.); o: « Quante volte lo incontrai dopo una notte passata insonne per lo studio di una variante! » (p. 130, e ancora p. 167) non possono riferirsi che all'Arnobio (per « varianti » il Franceschini intenderà, insieme alla lezione tramandata, le varie proposte congetturali, ché il codice di Arnobio, come si sa, è uno solo) o forse a esercitazioni di seminario su testi medievali: non certo, per ovvie ragioni cronologiche, alle edizioni degli anni 190418, quando Marchesi non aveva ancora quel gusto per la filologia « puntuale » che gli venne piú tardi. Io suppongo, diversamente da Franceschini (op. cit., p. 157), che sia stata questa svolta a non fargli ripubblicare in alcuno dei suoi volumi piú tardi la prolusione Filologia e filologismo, e, aggiungo, a fargli apprezzare lavori di filologia « arida » come gli Studi sui Topici del Riposati (dr. Franceschini, p. 44). Ma, detto[...]

[...]non disposta a capitolare, Antonio La Penna è oggi un rappresentante di primo piano, non solo in Italia. Nelle sue opere (nelle maggiori che ben conosciamo e ammiriamo, e in questa che soltanto per la mole, non per la forza dell'ingegno, è « minore ») l'obiettività della ricostruzione e del giudizio storico e la partecipazione a una battaglia politicoculturale non si contraddicono mai, ma si potenziano a vicenda. Perciò mi piace, al di là di episodiche divergenze su punti particolari, esprimergli ancora una volta il mio sostanziale accordo.
SEBASTIANO TIMPANARO


Grazie ad un complesso algoritmo ideato in anni di riflessione epistemologica, scientifica e tecnica, dal termine Odi, nel sottoinsieme prescelto del corpus autorizzato è possible visualizzare il seguente gramma di relazioni strutturali (ma in ciroscrivibili corpora storicamente determinati: non ce ne voglia l'autore dell'edizione critica del CLG di Saussure se azzardiamo per lo strumento un orizzonte ad uso semantico verso uno storicismo μετ´ἐπιστήμης...). I termini sono ordinati secondo somma della distanza con il termine prescelto e secondo peculiarità del termine, diagnosticando una basilare mappa delle associazioni di idee (associazione di ciò che l'algoritmo isola come segmenti - fissi se frequenti - di sintagmi stimabili come nomi) di una data cultura (in questa sede intesa riduttivamente come corpus di testi storicamente determinabili); nei prossimi mesi saranno sviluppati strumenti di comparazione booleana di insiemi di corpora circoscrivibili; applicazioni sul complessivo linguaggio storico naturale saranno altresì possibili.
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