Brano: [...]tutto la donazione delle lettere di Verdi a Boito, che quest’ultimo aveva piamente conservato e poi, morendo senza eredi diretti, affidato al proprio esecutore testamentario Luigi Albertini, ultimo direttore del « Corriere della Sera » prima del fascismo. Questi aveva sposato la seconda figlia di Giuseppe Giacosa, legato a Boito da lunga amicizia, e tra la giovane coppia e il vecchio poeta e musico s’era stretto un legame d’affetto che durò fino alla scomparsa del maestro, nel 1918. Fu il 4 novembre 1973 che i figli di Luigi Albertini, Leonardo ed Elena, consegnarono il prezioso lascito all’istituto di studi verdiani nella sua sede di palazzo Marchi a Parma. Si trattava di 141 lettere.
Altre lettere di Verdi a Boito, precisamente trentuno, vennero all’istituto dal lascito del musicologo inglese Frank Walker, molto legato all’istituto stesso, tanto che dopo la sua morte il fratello consegnò all’istituto una cassa delle sue carte. Essa conteneva tra l’altro e qui mi servo delle parole di Mario Medici nella Prefazione « un notes di appu[...]
[...]lstaff, nonché il rifacimento del Simon Boccanegra. Le ultime trattano diffusamente dei Quattro pezzi sacri, per la cui esecuzione, prima a Parigi, poi a Milano e altrove, Boito si batté insistentemente contro la riluttanza e, diciamo pure, la musoneria dell’ottuagenario maestro.
E restava, infine, da trovare i fondi per la costosa pubblicazione. Questa fu resa possibile grazie all’assegnazione all’istituto d’uno dei Premi Mattioli, elargiti dalla Banca commerciale italiana, su proposta congiunta dell’economista Sergio Steve e dello storico Franco Venturi, sobillati con molesta insistenza da chi scrive questo articolo. Ecco dunque riunite 176 lettere di Verdi; in numero un po’ minore quelle di Boito. Ci sono tutte? No, e nella prefazione di Mario Medici si citano casi evidenti di lettere che « dovevano » esserci, ma che sono sparite.
Come in esergo, e riprodotta in facsimile, una lettera di Verdi che non fa parte del carteggio 18801900, ma è molto anteriore. È la lettera che Giuseppe Verdi scrisse a Boito nel 1862 per accompagnare i[...]
[...]iventato un giorno tanto importante. Ecco un caso tipico di lacuna sicura.
Tra questo preambolo ed il corpus vero e proprio del carteggio sta come un macigno l’episodio che per lunghi anni tese un velo d’incomprenl’antico e il progresso nel carteggio tra verdi e boito
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sione, se non di ostilità, tra i due artisti. Un anno dopo la casuale collaborazione di Verdi e Boito nell’inno delle Nazioni, Pii novembre 1863, si era rappresentato alla Scala I profughi fiamminghi, prima opera di Franco Faccio, 23 anni, esponente della « giovane scuola » lombarda. In un banchetto per celebrare il successo, contrastato, dell’opera, Arrigo Boito, giovane, scapigliato fautore di quello che allora si diceva l’avvenirismo, avrebbe improvvisato seduta stante la Ode saffica col bicchiere alla mano, dove si brinda « Alla salute dell’Arte italiana! / Perché la scappi fuora un momentino / Dalla cerchia del vecchio e del cretino ». E si aggiungeva: « Forse già nacque chi sovra l’altare / Rizzerà Parte, verecondo e puro, / .Su quell’altar bruttato come un muro / Di lupanare ». Con riferimento al festeggiato Faccio, ma fors’anche con un segreto pensierino a se stesso e all’embrionale progetto del Mefistofele.
Purtroppo la cosa non si fermò 11, nell’allegria un po’ goliardica d’un banchetto fra giovani artisti. L’Ode venne pubblicata, il 22 novembre, nel « Museo di famiglia » dell’editore Treves. Verdi la lesse e incassò. In una lettera a Tito Ricordi commentò asciutto asciutto: « Se[...]
[...]ulio Ricordi, che dopo YAida e le ripetute asserzioni del maestro di avere chiuso col teatro, mal si rassegnava a perdere i prodotti di quella gallina dalle uova d’oro. Come abbia agito piano piano per ristabilire un contatto tra Verdi sdegnato e Boito, che nel frattempo aveva versato alquanto acqua fresca nel vino dei suoi entusiasmi avanguardistici, lo ricostruisce assai bene Mario Medici nella prefazione.
Il 26 gennaio 1871 (Boito lavorava alla revisione del Mefistofele dopo il fiasco alla Scala, ma già aveva adocchiato quel soggetto del Nerone che gli fu poi croce di tutta la vita) Ricordi scrive a Verdi:
Le spedii un libretto dell’Amleto\ ed a proposito entro di botto in un Gran progettoW... eh'Ella sa ch’io rumino peggio di un bue!!... Dunque Ella mi fece motto due o tre volte del Nerone... e vidi che questo soggetto non le spiaceva.
Ieri Boito fu da me, ed io pumfl sparai la cannonata: Boito mi domandò una notte di riflessione, e stamane fu qui, e si trattenne lungamente meco di questo affare. La conclusione si è che Boito si riputerebbe l’uomo il più felice.154
M[...]
[...]nto » (si trattava del libretto per VAmleto di Faccio).
« Ma voi conoscete abbastanza bene le cose mie, ed i miei impegni... Non ho il coraggio di dire: facciamo, né oso rinunciare a così bel progetto. Ma ditemi, caro Giulio, non potremmo lasciare sospeso per qualche tempo questo affare, e riprenderlo più tardi? » (prefazione, pag. xxvixxvn).
Non se ne fece nulla, ma intanto il grande ostacolo era rimosso. Otto anni più tardi Ricordi torna alla carica col nuovo progetto di Otello, probabilmente mettendo sotto Boito con una certa brutalità d’uomo di affari, senza nemmeno essere ben sicuro che Verdi fosse d’accordo. Certo è che nell’estate 1879 Boito informava ripetutamente il Tornaghi, uomo di fiducia di Ricordi, dei rapidi progressi nella stesura del libretto. « Dirai a Giulio che sto fabricando il ciocolatte » (prefazione, pag. xxvn). E il 24 agosto: « Domani o posdomani affronterò i primi versi dell’ultimo Atto. Tutto sarà finito in tempo » (ibidem). E un mese più tardi: « Se io non consegno a Giulio questa settimana Desdemona str[...]
[...]con Boito (prefazione, pag. xxvii).
Che la lettera sia da riportare a ottobre, piuttosto che a settembre, pare convalidarlo anche una lunga lettera di Ricordi a Verdi, il 5 settembre, che rispecchia uno stadio non ancora cosi avanzato delle trattative. Con molti salamelecchi l’editore indugia ancora a persuadere il maestro dei sentimenti di devozione che quei giovani scapestrati Boito e Faccio
nutrono per lui. « So, se la memoria non mi falla, che Boito ebbe qualche torto verso di lei; ma carattere nervoso, bizzarro, scommetto che non seppe di commetterlo, o non trovò mai modo di rimediarvi ». Adesso, assicura Ricordi, è tutto diverso: « Nei frequenti nostri ritrovi Boito parlò sempre di Verdi con venerazione ed entusiasmo; se altrimenti, non mi sarebbe amico ». Non solo, ma quando vengono i due compagnoni, Boito e Faccio, nel suo ufficio dove campeggia un grande ritratto di Verdi, lo sogguardano esclamando: « Ma e quello li, proprio non scriverà più? » (prefazione, pag. xxvm).
Le fatiche, un poco untuose, di Ricordi andarono a[...]
[...]di Ricordi andarono a buon porto:156
MASSIMO MILA
Questa camicia di Nesso dell’editore mi mette sempre in una ambigua posizione!!... poiché per un sentimento di delicatezza temo sempre ch’Ella possa credere che sia Vaffarista che parla!!... e ciò mi ripugna. Certo sarebbe soverchia ingenuità il dirle che un’opera di Verdi non sia una vera fortuna materialmente parlando!!... ma questa idea è cento volte sorpassata e per così dire oscurata dalla immensa indicibile emozione che mi dà il pensiero di un lavoro che renderà sempre più glorioso, s’è possibile, il di lei nome, e farà risplendere di nuova luce quella carissima Arte italiana (ibidem).
Verdi conosceva bene i suoi polli, ossia i suoi editori, italiani e francesi, ed era l’ultima persona a lasciarsi abbagliare da simili sparate, ma questa volta abbassò prudentemente qualcuna delle sue barriere difensive. Il 10 novembre 1879 accusava pacatamente ricevuta del libretto a Ricordi. « Ricevo in questo momento il ciocolatte. Lo leggerò stasera, perché ora ho la testa imbrogliata d’a[...]
[...]ersona a lasciarsi abbagliare da simili sparate, ma questa volta abbassò prudentemente qualcuna delle sue barriere difensive. Il 10 novembre 1879 accusava pacatamente ricevuta del libretto a Ricordi. « Ricevo in questo momento il ciocolatte. Lo leggerò stasera, perché ora ho la testa imbrogliata d’affari » (prefazione, pag. xxix).
Poi si chiuse nel mistero di un lungo silenzio, almeno allo stato attuale dei documenti. Passano nove mesi di qui alla prima lettera del nostro Carteggio, che reca la data del 15 agosto 1880. Ricordi friggeva. Il 24 luglio scriveva a Boito: « È necessario svegliare un poco il nostro Verdi! (...) Io ho il presentimento che Verdi abbia messo un po’ a dormire il moro! » (prefazione, pag. xxx).
Una lettera di Giuseppina Verdi Strepponi a Ricordi, volta a ritardare la decisiva visita di Boito, tanto patrocinata da Ricordi, illustra bene la situazione:
Ella sa, come avvenne l’affare per questo perfido Jago. Si può dire che Verdi è entrato alla cieca e senza volerlo in questa specie di rete. Una cosa ne ha chi[...]
[...]di friggeva. Il 24 luglio scriveva a Boito: « È necessario svegliare un poco il nostro Verdi! (...) Io ho il presentimento che Verdi abbia messo un po’ a dormire il moro! » (prefazione, pag. xxx).
Una lettera di Giuseppina Verdi Strepponi a Ricordi, volta a ritardare la decisiva visita di Boito, tanto patrocinata da Ricordi, illustra bene la situazione:
Ella sa, come avvenne l’affare per questo perfido Jago. Si può dire che Verdi è entrato alla cieca e senza volerlo in questa specie di rete. Una cosa ne ha chiamata un’altra e da un niente, da una semplice parola lanciata col bicchiere dell’allegria alla mano, è nato un libretto. Verdi lo ha preso, e benché senza impegno l’ho più volte sentito dire, non senza malumore; Io mi lego troppo
— le cose vanno troppo avanti ed assolutamente non voglio esser costretto a fare, quello che non vorrei, etc. etc. (note alla Lettera 2).
(Si noti, incidentalmente, in questa lettera l’espressione « da una semplice parola lanciata col bicchiere dell’allegria alla mano ». Può darsi che sia una sopravvivenza inconscia. Ma Giuseppina era abbastanza donna e abbastanza malignetta per non ricordarsi che il famigerato brindisi di Boito s’intitolava: Ode saffica col bicchiere alla mano).
In realtà, e sebbene Giuseppina esorti a « lasciare, almeno pel momento, le cose come sono, facendo intorno al Moro il più gran silenzio possibile », la prima lettera del carteggio introduce già in medias res. La progettazione del dramma occupa interamente lo spirito del compositore,l’antico e il progresso nel carteggio tra verdi e boito
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la cui attenzione si appunta sul finale dell’Atto ni, vero punctum dolens dell’opera, come Boito aveva riconosciuto in una lettera a Ricordi, e da questi poi riferita, l’8 novembre 1879, alla moglie di Verdi: « C’è ancora il terzetto dell[...]
[...]no, facendo intorno al Moro il più gran silenzio possibile », la prima lettera del carteggio introduce già in medias res. La progettazione del dramma occupa interamente lo spirito del compositore,l’antico e il progresso nel carteggio tra verdi e boito
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la cui attenzione si appunta sul finale dell’Atto ni, vero punctum dolens dell’opera, come Boito aveva riconosciuto in una lettera a Ricordi, e da questi poi riferita, l’8 novembre 1879, alla moglie di Verdi: « C’è ancora il terzetto dell’Atto 3, pezzo capitale, che mi fa disperare. Di tanto in tanto lo abbandono per mandare avanti qualche altra scena, poi ritorno al terzetto e lo ritrovo più arcigno che mai! » (prefazione, pag. xxix).
Sono cinque le lettere, dal 15 agosto al 2 dicembre 1880, in cui si sviluppa il confronto di librettista e compositore su questo finale terzo di Otello. Poi subentra il progetto di rifacimento del Simon Boccanegra, che occupa 24 lettere, da una lunghissima di Boito del 6 dicembre, fino al 15 febbraio 1881. Seguono alcune lettere d’argomento vario[...]
[...]unghissima di Boito del 6 dicembre, fino al 15 febbraio 1881. Seguono alcune lettere d’argomento vario, tra cui l’opposizione di Verdi ad avere il proprio busto nel ridotto della Scala e la machiavellica sottigliezza delle sue argomentazioni per non contribuire di tasca propria a quello di Bellini, quindi ritorna sul telaio YOtello per una cinquantina di lettere, ma con una lunga interruzione, durante la quale il carteggio ovviamente si dirada, dalla fine d’agosto 1881 fino alla drammatica, ma benefica crisi dell’aprile 1884, quando Boito, a Napoli, anche qui in un banchetto d’artisti, s’era forse lasciato scappare qualche parola imprudente, oppure era stato frainteso dal corrispondente del giornale « Roma », che gli attribuì il rammarico di non poter musicare lui stesso il Jago. Verdi, venutone a conoscenza, incaricò Franco Faccio di dire a Boito « che io, senz’ombra di risentimento, senza rancore di sorta gli rendo intatto il suo manoscritto. Più ancora, essendo quel libretto di mia proprietà, glielo offro in dono qualora egli intenda musicarlo » (note alla Lettera[...]
[...]e qualche parola imprudente, oppure era stato frainteso dal corrispondente del giornale « Roma », che gli attribuì il rammarico di non poter musicare lui stesso il Jago. Verdi, venutone a conoscenza, incaricò Franco Faccio di dire a Boito « che io, senz’ombra di risentimento, senza rancore di sorta gli rendo intatto il suo manoscritto. Più ancora, essendo quel libretto di mia proprietà, glielo offro in dono qualora egli intenda musicarlo » (note alla Lettera 46).
La lunga e un po’ contorta lettera di scuse che Boito gli rivolse è documento commovente della sua devozione. Assicura il maestro d’avere scritto questo libretto « solo per la gioja di vederlo riprendere la penna per causa mia, per la gloria di esserle compagno di lavoro per l’ambizione di sentire il mio nome accoppiato al suo ». Quasi antiveggendo e confutando in anticipo certe illazioni critiche dei giorni nostri, che vorrebbero attribuire all’influenza di Boito un’azione indebita, e non interamente propizia, sulla natura artistica del maestro, sulla sua spontaneità, Boito p[...]
[...]quell’altro linguaggio mille volte più intimo e più possente, il suono ». Per convincere Verdi con la sua appassionata protesta Boito non esita a rilasciare una commovente confessione della propria impotenza creativa.158
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Maestro, ciò che Lei non può sospettare è l’ironia che per me pareva contenuta in quell’offerta senza sua colpa. Veda: già da sette od otto anni forse lavoro al Nerone (metta il forse dove vuol Lei, attaccato alla parola anni o alla parola lavoro) vivo sotto quell’incubo; nei giorni che non lavoro passo le giornate a darmi del pigro, nei giorni che lavoro mi dò dell’asino e così scorre la vita e continuo a campare, lentamente asfisiato [sic] da un Ideale troppo alto per me. Per mia disgrazia ho studiato troppo la mia epoca (cioè l’epoca del mio argomento) e ne sono terribilmente innamorato e nessun altro soggetto al mondo, neanche l’Otello di Schakespeare [sic], potrebbe distogliermi dal mio tema (...). Giudichi ora Lei se con questa ostinazione potevo accettare l’offerta sua. Ma per carità Lei non abbandoni l’Otello, no[...]
[...]era dicendo: « Questo Falstaff o Comari che era due giorni fà nel mondo dei sogni, ora va prendendo corpo, e può diventare una realtà? Quando? Come?... Chi sa! » (Lettera 118). Secondo un articolo di Giulio Ricordi nella « Gazzetta Musicale di Milano » del 30 novembre 1890, il progetto era nato « nell’estate dello scorso anno 1889 », durante una presenza di Verdi a Milano. « Parlando con Arrigo Boito appunto dell’opera comica, questi afferrò la palla al balzo e propose a Verdi un soggetto, e non solo propose, ma con rapidità meravigliosa si può dire che in poche ore abbozzò e presentò al maestro una tela: Falstaff» (note alla Lettera 118).
Questa volta Verdi, a cui l’intenzione di scrivere un Falstaff su libretto di Ghislanzoni era già stata affibbiata più di vent’anni prima, tra il Don160
MASSIMO MILA
Carlo e il rifacimento della Forza del destino, e lui aveva smentito all’amico Arrivabene: « Non scrivo Falstaff », questa volta Verdi si accostò al lavoro con entusiasmo quasi impaziente, basti dire che il giorno dopo ritornava già sull’argomento con una nuova lettera destinata ad esaurire formalmente le solite perplessità, i soliti se e ma, « Voi nel tracciare Falstaff avete mai pensato alla cifra enorme[...]
[...]più di vent’anni prima, tra il Don160
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Carlo e il rifacimento della Forza del destino, e lui aveva smentito all’amico Arrivabene: « Non scrivo Falstaff », questa volta Verdi si accostò al lavoro con entusiasmo quasi impaziente, basti dire che il giorno dopo ritornava già sull’argomento con una nuova lettera destinata ad esaurire formalmente le solite perplessità, i soliti se e ma, « Voi nel tracciare Falstaff avete mai pensato alla cifra enorme dei miei anni? », e poi lo scrupolo che magari Boito, scrivendo Falstaff, dovesse « distrarre la mente » dal suo ormai mitico Nerone.
Ora come superare questi ostacoli?... Avete Voi una buona ragione da opporre alle mie? Lo desidero, ma non lo credo. Pure pensiamoci (e badate di non far nulla che possa nuocere alla vostra carriera) e se voi ne trovaste una per una parte, ed io la maniera di levarmi dalle spalle una diecina d’anni, allora... Che gioja! Poter dire al Pubblico: «Siamo qui ancora!! A noi!!» (Lettera 119).
Era chiaro che non chiedeva di meglio che d’essere contraddetto, e Boito lo intese a meraviglia. Due giorni dopo (a quei tempi le lettere viaggiavano con una prontezza incredibile) gli rispondeva tutto quello che lui desiderava sentire:
Non penso mai alla sua età né quando le parlo, né quando le scrivo, né quando lavoro per Lei.
Lo scrivere un’opera comica non credo che la affatic[...]
[...]a) e se voi ne trovaste una per una parte, ed io la maniera di levarmi dalle spalle una diecina d’anni, allora... Che gioja! Poter dire al Pubblico: «Siamo qui ancora!! A noi!!» (Lettera 119).
Era chiaro che non chiedeva di meglio che d’essere contraddetto, e Boito lo intese a meraviglia. Due giorni dopo (a quei tempi le lettere viaggiavano con una prontezza incredibile) gli rispondeva tutto quello che lui desiderava sentire:
Non penso mai alla sua età né quando le parlo, né quando le scrivo, né quando lavoro per Lei.
Lo scrivere un’opera comica non credo che la affaticherebbe.
La tragedia fa realmente soffrire chi la scrive, il pensiero subisce una suggestione dolorosa che esalta morbosamente i nervi.
Ma lo scherzo e il riso della commedia esilarano la mente e il corpo.
Lei ha una gran voglia di lavorare, questa è una prova indubbia di salute e di potenza. Le Ave Marie non le bastano, ci vuol dell’altro.
Lei ha desiderato tutta la sua vita un bel tema d’opera comica (...). C’è un modo solo di finire meglio che colYOt[...]
[...]i Boito, « era meglio quando si lavorava insieme, Lei col vecchio Shakespeare e me; andavamo così d’accordo tutti due anzi tutti tre! » (Lettera 289). Era l’ottobre 1900. Boito aveva imparato a scrivere Shakespeare correttamente. A Verdi non restavano che tre mesi di vita.
Si potrebbe indugiare lungamente a rintracciare, attraverso le lettere, la pittoresca storia esterna dei rapporti culturali ed umani tra i due amici, e dei capolavori nati dalla loro collaborazione. Ma da un punto di vista più propriamente critico, quali prospettive apre questa pubblicazione?
Si tenga presente che non si tratta, per lo più, di inediti. Su 301 lettere sono totalmente inedite 81, e non delle più importanti, salvo una mezza dozzina. Spesso sono biglietti brevi degli ultimi anni, qualche volta162
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dispacci telegrafici. Le altre, quelle più significative, sono note in tutto o in parte, o perché pubblicate isolatamente, o perché citate parzialmente — sbocconcellate, per così dire — dagli studiosi che hanno avuto la fortuna di prendern[...]
[...]orrotto la solare spontaneità.
Mario Medici mette il dito sulla piaga quando afferma nella prefazione: « Si avverte quanto il proverbiale predominio dell’operista nei confronti dei suoi librettisti vada qui affievolendosi, fin quasi a sparire, se non a subire ». Queste ultime parole sono di troppo, e inaccettabili. Possiamo anche essere d’accordo sulla proposizione principale, specialmente per quanto riguarda il Falstaff, sebbene subito, fin dalla prima lettura del soggetto, Verdi si sia accorto della debolezza del terz’atto e l’abbia segnalata a Boito nella lettera del 6 luglio 1889: « Peccato che l’interesse (non è colpa vostra) non aumenti sino alla fine. Il punto culminante è al finale del Second’Atto (...). Temo anche che l’ultimo Atto, malgrado quel po’ di fantastico, riesca piccolo con tutti quei piccoli pezzi Canzoni Ariette et. et. » (Lettera 118). E così è rimasto, malgrado l’ingegnosa giustificazione di Boito che invocava il diverso regime teatrale di comico e tragico (« Nella commedia quando il nodo sta per sciogliersi l’interesse diminuisce sempre perché il fine è lieto», Lettera 119, scritta a Milano il giorno dopo di quella di Verdi da Montecatini!), e malgrado gli sforzi spesi dai due artisti per rimediare al difetto. L’occh[...]
[...]bbio, neanche dai dubbij che Lei stesso accampava » (Lettera 4). Ed ancor prima, a Giuseppina Verdi, in una lettera finora inedita: « Oggi ho ricevuto una interessantissima lettera del Maestro e l’ho già letta e riletta dieci volte e meditata; non avrò pace con me medesimo finché non avrò realizzato il concetto di quello scritto (...). Mi riservo a rispondergli quando potrò presentargli il frutto dei germi ch’egli seminò nel mio pensiero » (note alla Lettera 2).
Altro che sopraffazione di Boito su Verdi! Tra l’altro, si badi, tutte le discussioni, proposte, soppesamenti, battono solo sul versante drammaturgico dell’operazione. Mai che Boito metta bocca sull’aspetto specifico della creazione musicale. Verdi fa, disfà, innova, conserva, tutto per conto suo. Anzi, a volte Boito era costretto a chiedere di poter sentire qualcosa. Nove ottobre 1885, quando il quarto Atto à!Otello era finito, ma il dannatissimo terzo no: « Io non potrò compier bene quel breve lavoro di connessione che Lei aspetta da me, per quella scena, senza prima aver udi[...]
[...]are che essi ripiglino la via della morte dobbiamo poi rinchiuderli da capo nella camera letale, ricostruire l’incubo, ricondurre pazientemente Jago sulle sue prede e non ci resta più che un atto solo per rifare tutta questa tragedia da capo » (Lettera 4).
Una lezione magistrale di drammaturgia che Verdi si legò al dito, anche se Boito aveva poi l’aria di consentire tutto: « Un melodramma non è un dramma, la nostra arte vive d’elementi ignoti alla tragedia parlata. L’ambiente distrutto si può crearlo da capo, otto battute bastano a far rivivere un sentimento, un ritmo può ricomporre un carattere: la musica è la più onnipossente delle arti, ha una logica sua propria, più rapida più libera della logica del pensiero parlato e più eloquente assai ».
In realtà, nulla della « trovata » verdiana passò nel libretto. Da Shakespeare si accoglie la bellissima espressione dello stupore di Ludovico,l’antico e il progresso nel carteggio tra verdi e boito
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l’ambasciatore veneto: « La mente mia non osa / pensar ch’io vidi il vero », e poi[...]
[...]smo di Gabriele Adorno quando sospetta nel Doge l’« uom possente » ch’era stato mandante del ratto di Amelia: «T’acqueta! il reo si spense / Pria di svelarlo (...) Pel cielo! / Uom possente tu se’! ». Siamo già all’altezza e allo stile di Otello.
Per contro Verdi boccia gentilmente, con molti elogi, un’idea abba166
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stanza strampalata di Boito, quella d’un penultimo atto nella chiesa di S. Siro piena d’armati col Boccanegra alla testa, irruzione del Fiesco, zuffa, Boccanegra ferito a un braccio, Paolo che lo fascia con una benda avvelenata! « L’atto da Lei ideato nella chiesa di S. Siro è stupendo sotto ogni rapporto. Bello per novità bello per colore storico bello dal lato scenico musicale; ma mi impegnerebbe troppo, e non potrei sobbarcarmi a tanto lavoro » (Lettera 7). Forse Verdi rideva sotto i baffi nell’atto di ricusare questa complicata macchinazione, che faceva il paio con la sua idea di mettere un assalto dei Turchi nel terz’Atto di Otello.
Un’altra volta, da musicista a musicista, dà una piccola lezion[...]
[...]il poeta eseguisce, versificando le parole messe giù in prosa dal musicista e limando le frasi più volte, a richiesta. « Otto versi son troppi per Amelia (...). Per me vanno benissimo i primi quattro, ma Ella forse vorrà cambiare il secondo per la rima » (Lettera 22). La stesura del libretto è interamente governata e determinata dall’invenzione musicale. Nel Finale primo, scrive Verdi, « l’orchestra rugge, ma rugge piano. È necessario, però, che alla fine anche l’orchestra faccia sentire la sua formidabile voce (...). Avrei quindi bisogno di due versi, per far gridare tutto il mondo. Che in questi versi non manchi la parola Vendetta! » (Lettera 23).
Di Boito è invece la saggia esortazione a « evitare il cambiamento di scena » nel primo Atto (dopo il Prologo) per il dialogo dell’agnizione tra Amelia e Boccanegra. Primo, perché « tre scene in un atto mi pajono troppe, distruggono quell’impressione di unità così necessaria alla vita bene organizzata dell’atto ». Ma soprattutto: « Pensi che di tutto il dramma questo giardino è la sola scen[...]
[...]ntire la sua formidabile voce (...). Avrei quindi bisogno di due versi, per far gridare tutto il mondo. Che in questi versi non manchi la parola Vendetta! » (Lettera 23).
Di Boito è invece la saggia esortazione a « evitare il cambiamento di scena » nel primo Atto (dopo il Prologo) per il dialogo dell’agnizione tra Amelia e Boccanegra. Primo, perché « tre scene in un atto mi pajono troppe, distruggono quell’impressione di unità così necessaria alla vita bene organizzata dell’atto ». Ma soprattutto: « Pensi che di tutto il dramma questo giardino è la sola scena ridente. Tutte le altre sono gravi, solenni o cupe. Vi abbondano troppo gli interni: Sala del Consiglio, Camera del Doge, aula Ducale. Poiché in questo principio del prim’atto siamo all’aria aperta, restiamoci più che possiamo » (Lettera 16). È un’accorta riflessione teatrale, che va alla radice dei difetti da lui impietosamente segnalati nel vecchio libretto di Piave, con la lunga lettera dell’8 dicembre 1880: « Il nostro compito, Maestro mio, è arduo. Il dramma che ci occupa è storto, pare un tavolo che tentenna (...). Non trovo in questo dramma nessun carattere di quelli che vi fanno esclamare: è scolpito!L’ANTICO E IL PROGRESSO NEL CARTEGGIO TRA VERDI E BOITO
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Nessun fatto che sia realmente fatale cioè indispensabile e potente, generato dalla ineluttabilità tragica » (Lettera 6).
Ma d’altra parte per restare ancora un momento al duetto AmeliaBoccanegra da man[...]
[...]lui impietosamente segnalati nel vecchio libretto di Piave, con la lunga lettera dell’8 dicembre 1880: « Il nostro compito, Maestro mio, è arduo. Il dramma che ci occupa è storto, pare un tavolo che tentenna (...). Non trovo in questo dramma nessun carattere di quelli che vi fanno esclamare: è scolpito!L’ANTICO E IL PROGRESSO NEL CARTEGGIO TRA VERDI E BOITO
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Nessun fatto che sia realmente fatale cioè indispensabile e potente, generato dalla ineluttabilità tragica » (Lettera 6).
Ma d’altra parte per restare ancora un momento al duetto AmeliaBoccanegra da mantenere nel giardino dei Grimaldi fuori di Genova Boito sbagliava per comprensibili ragioni d’opportunità pratica. La natura di quel dialogo, e di conseguenza anche la musica che Verdi ci ha messo su, postula il raccoglimento d’una camera chiusa, e non si assisterà mai senza un certo imbarazzo a tutte quelle spiegazioni e rievocazioni e ricostruzioni d’un passato intimo e familiare, a cielo aperto.
Quando i due artisti riprendono il lavoro per Otello, l’indispensabile me[...]
[...]posto, sull’opportunità o meno di introdurre anche voci femminili nel coro del Brindisi (primo Atto), si può assumere come criterio universale valido per tutta la composizione dell’opera. « La ragione musicale è quella che deve decidere » (Lettera 83). Ne viene decisamente smentita la curiosa opinione manifestata dal traduttore inglese del libretto, Francis Hueffer, redattore musicale del « Times », che nell 'Otello Verdi avesse « saputo aderire alla verità del dramma e del declamato con una abnegazione di se stesso così coerente e meravigliosa, potrei dire patetica » (note alla Lettera 98). È l’impressione volgare che ebbero i contemporanei quando non ritrovarono nell’Otello le cabalette del Trovatore ed è l’origine di tutti i malintesi che ancora si perpetuano anzi, presentemente si ravvivano sulle ultime due opere di Verdi.
La fine del lavoro ad Otello fu sentita dai due artisti con « la tristezza che segue l’opera compiuta », come dice Boito (Lettera 89), facendo eco alla malinconia di Verdi: « Povero Otello, Non tornerà più qui!! » (Lettera 88). Ancora due anni dopo sentivano quel gran vuoto. « Basta », scriveva Boito dalla villeggiatura canavesana di San Giuseppe, il 9 ottobre 1888, « Vorrei che ritornasse quel tempo quando ogni nostra lettera aveva per tema lo studio d’una grande opera d’arte » (Lettera 107). Verdi si baloccava con la scala enigmatica d’un’Ave Maria, e Boito quasi lo prendeva in giro: « Molte Ave Maria ci vogliono perché Lei possa farsi perdonare da S. S. il Credo di Jago » (Lettera 115). Salta fuori perfino (nota alla Lettera 117) la notizia sorprendente del progetto verdiano d’un poema sinfonico su La notte dell’innominato, ne parlò in un articolo su Manzoni e Verdi ne « La Lettura » nel giugno 1923, un misterioso X. Y., che asseriva di tenerne il racconto da Boito, con particolari circostanziati sulla trama sonoranarrativapsicologica del lavoro.
Perciò si capisce la prontezza con cui fu accolta da Verdi la proposta del Falstaff, sapientemente architettata da Ricordi con la complicità di Boito. « Facciamo addunque Falstaff! Non pensiamo pel momento agli ostacoli, all’età, alle malattie! Desidero anch’i[...]
[...]ntemente architettata da Ricordi con la complicità di Boito. « Facciamo addunque Falstaff! Non pensiamo pel momento agli ostacoli, all’età, alle malattie! Desidero anch’io di conservare il più profondo segreto (...): nissuno deve saperne nulla! (...). Intanto Voi, se vi sentite in lena, cominciate pure a scrivere » (Lettera 122).
Nessun dubbio che in quest’opera la presenza di Boito sia stata più autorevole e minore la partecipazione di Verdi alla stesura del libretto, vuoi che Boito si fosse ormai totalmente immedesimato nella mentalità del compositore, vuoi che questi, per la grave età, cominciasse a mostrare minor lena, soprattutto in una operazione letteraria così complessa coL’ANTICO E IL PROGRESSO NEL CARTEGGIO TRA VERDI E BOITO
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m’era la mescolanza delle Allegre comari di Windsor con le altre apparizioni di Falstaff nei drammi storici shakespeariani.
Se Verdi individuò subito la debolezza del terz’Atto (che non ci fu mai verso di sanare totalmente), accettò primo e secondo in blocco. « Nei primi due Atti non vi è nu[...]
[...]L’ANTICO E IL PROGRESSO NEL CARTEGGIO TRA VERDI E BOITO
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m’era la mescolanza delle Allegre comari di Windsor con le altre apparizioni di Falstaff nei drammi storici shakespeariani.
Se Verdi individuò subito la debolezza del terz’Atto (che non ci fu mai verso di sanare totalmente), accettò primo e secondo in blocco. « Nei primi due Atti non vi è nulla da modificare all’infuori, forse, del Monologo del marito geloso che starebbe meglio alla fine della Prima Parte, che al Principio della Seconda. Avrebbe più calore ed efficacia » (Lettera 122). Strana idea, che Boito fece benissimo a non accogliere. Verdi pensava qui ancora in termini di opera tradizionale. Nel monologo delle corna vedeva l’occasione di un buon finale d’Atto, finale a voce sola, ma potente, d’effetto, sul tipo del Finale primo nelle Nozze di Figaro, « Non più andrai, farfallone amoroso ». Quanto è più originale, invece, che il monologo delirante sia racchiuso, come in una parentesi, nel tempo in cui Ford resta momentaneamente solo, poi Falstaff rientra, tutto agg[...]
[...]ond’Atto non sarà ancora finito
lo finirò durante la settimana che starò a Sant’Agata », Lettera 130) quasi si scusava con l’amica per l’assenza (i loro incontri erano rari e difficili per la professione errabonda dell’attrice), e lei gli dava il suo benestare. « Andate dal vostro Galantuomo di Sant’Agata. Di quello mi fido. È il solo dei vostri amici che non giudica, né in bene né in male, i fatti degli altri ». (Curioso che Boito, scrivendo alla Duse, le dava del tu, chiamandola con dolci nomignoli d’alcova, Bumba, Buscoletta, e lei invece gli dava, pudicamente dannunziana, del Voi. Quanto a Verdi e Boito, il musicista passò dal Lei al Voi dopo 24 lettere, in un rapido dispaccio del 7 febbraio 1881; Boito rimase sempre fermo al Lei, Ella, con tanto di maiuscole, e due volte sole, forse per un lapsus, firmò solamente Arrigo, senza il cognome.)L’ANTICO E IL PROGRESSO NEL CARTEGGIO TRA VERDI E BOITO
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È curioso sentire Verdi che, a opera quasi ultimata, s’informa da Boito se Falstaff vuole l’accento sulla prima sillaba o sulla [...]
[...]. L’indole di questo verso porterebbe l’accento sulla sesta mentre la parola Norfolk va accentuata sulla prima sillaba come Windsor e Falstaff ecc.
Mi sono provato varie volte di correggere questo verso ma se aggiustavo l’accento guastavo il verso ed ho preferito fra i due mali falsare l’accento della parola.
Il gargantuesco personaggio era entrato come una realtà concreta nella vita dei due autori. « Il pancione è sulla strada che conduce alla pazzia », informava Verdi il 12 giugno 1891. «Vi sono dei giorni che non si muove, dorme ed è di cattivo umore; altre volte grida, corre salta, fà il diavolo a quattro... » (Lettera 173). E Boito di rimando: « Evviva! Lo lasci fare, lo lasci correre, romperà tutti i vetri e tutti i mobili della sua camera, poco importa, Lei ne comprerà degli altri, sfracellerà il pianoforte, poco importa, Lei ne comprerà un altro, vada tutto a soqquadro! ma la gran scena sarà fatta! Evviva! “Dài! Dài! Dài! Dài! / Che pandemonio!!”» (Lettera 174).
Sarebbe stato difficile immaginare questa ebbrezza, questa v[...]
[...] Milano », 5 luglio 1891). E a un giornalista francese ch’era venuto a visitarlo a Genova e per due ore lo aveva interrogato sui suoi propositi, attribuendogli l’intenzione di musicare un Romeo e Giulietta (« Vous en mourez d’envie »), non solo aveva potuto onestamente smentire questa ipotesi, ma aveva anche avuto la faccia tosta di non dire una parola sul Falstaff a cui stava lavorando: « Je vous affirme qu’Otello est ma dernière oeuvre » (note alla lettera 147).172
MASSIMO MILA
Chissà come s’era divertito a dire sostanzialmente la verità, perché certo, finché il Falstaff non fosse finito, VOtello era la sua ultima opera!
Subentrano poi problemi di scene, di costumi, di regìa e di cantanti. Verdi spedisce Boito di qua e di là, ad ascoltare soprani e contralti (la parte del protagonista era da sempre destinata a Maurel, anche se Verdi gliela faceva cader dalPalto). Come Quickly, Boito avrebbe visto bene la giovane Guerrina Fabbri, che infatti lo diventerà, ma assai più tardi, con Mugnone e poi con Toscanini. Per la « prima » Ver[...]
[...]le per me che ho finito, e poi io non ci bado come non vi ho badato mai: Ma è un male per i giovani che si possono facilmente trascinare a fare quello che non sentono di fare. Difatti tutta la musica che si fà ora sia da Noi, come in tutti gli altri paesi manca di naturalezza e non è sincera.
Eppure non era sempre così passatista. Subito dopo la prima rappresentazione volle apportare due varianti, sulle quali informano esaurientemente le note alla Lettera 203. Una era nel concertato del il Atto, che Verdi volle accorciare di 10 battute, lasciando molto perplessi Ricordi, Mascheroni e Boito. Singolarissima la motivazione, in una lettera a Ricordi del 7 marzo 1893: « in scena quello squarcio è lungo, ed ha troppo l’aria d’un pezzo concertato ». Ossia, d’una forma chiusa, magari rossiniana. Ecco un caso in cui Verdi aveva imparato bene la lezione boitiana.l’antico e il progresso nel carteggio tra verdi e boito
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Difatti l’opera, andata in scena alla Scala il 9 febbraio, lasciò molti ascoltatori perplessi, anche se un mese dopo Bo[...]
[...]e accorciare di 10 battute, lasciando molto perplessi Ricordi, Mascheroni e Boito. Singolarissima la motivazione, in una lettera a Ricordi del 7 marzo 1893: « in scena quello squarcio è lungo, ed ha troppo l’aria d’un pezzo concertato ». Ossia, d’una forma chiusa, magari rossiniana. Ecco un caso in cui Verdi aveva imparato bene la lezione boitiana.l’antico e il progresso nel carteggio tra verdi e boito
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Difatti l’opera, andata in scena alla Scala il 9 febbraio, lasciò molti ascoltatori perplessi, anche se un mese dopo Boito si affannava ad assicurare il maestro del contrario. « I nostri buoni Milanesi sono diventati oramai tutti cittadini di Windsor e passano la loro vita all’albergo della Giarrettiera (...). Io non ricordo e credo che non si sia visto mai, un’opera la quale abbia saputo penetrare come questa nello spirito e nel sangue d’una popolazione » (Lettera 203).
In realtà, invece, Boito doveva rendersi conto ch’era penetrata ben poco e che s’era trattato d’un successo di stima, soprattutto di ammirazione per la tarda [...]
[...]l’albergo della Giarrettiera (...). Io non ricordo e credo che non si sia visto mai, un’opera la quale abbia saputo penetrare come questa nello spirito e nel sangue d’una popolazione » (Lettera 203).
In realtà, invece, Boito doveva rendersi conto ch’era penetrata ben poco e che s’era trattato d’un successo di stima, soprattutto di ammirazione per la tarda età del maestro. Di qui la sua insistenza, nella medesima lettera, perché Verdi presenzi alla rappresentazione di Roma (per Otello non ci era andato). « Una forma d’arte novissima com’è questa del Falstaff non deve essere abbandonata dall’autore dopo un primo esperimento (...). Creda, Maestro, la sua presenza è necessaria. Io non ho detto questo per l’Otello ma lo dico ora perché la manifestazione del Falstaff è ancora, e di molto, superiore a quella dell’Otello, è una vera rivelazione e non bisogna abbandonare il pubblico di Roma e lasciarlo solo davanti a questa opera d’arte così profondamente nuova ».
Boito valutava benissimo l’anticipo enorme che il Falstaff segnava sulle consu[...]
[...]iarlo solo davanti a questa opera d’arte così profondamente nuova ».
Boito valutava benissimo l’anticipo enorme che il Falstaff segnava sulle consuetudini della musica italiana in quel tempo e non si faceva illusioni sulla possibilità che venisse allora veramente compreso. Scriveva al Bellaigue, forse nel gennaio 1894: « Comme Vous avez raison d’aimer ce chef d’oeuvre! et quel bienfait pour l’art quand tous arriveront à le comprendre! » (note alla Lettera 203). Il « bienfait pour l’art » ci fu, ma non subito, e non, per il momento, in patria né in Francia. Fu in Germania che il Falstaff fece drizzar le orecchie a qualcuno: il primo « bienfait pour l’art » si chiamò Der Rosenkavalier. E poi da noi arrivò Gianni Schicchi.
Verdi predicava male e razzolava bene. Era sempre 11 a intonare le sue geremiadi: « Torniamo all’antico e sarà un progresso ». Di fatto, poi, a ottant’anni dava una tale spinta alla musica italiana, e la scagliava così avanti, che ci volle l’opera di tutta una generazione per raggiungerla, e c’è da dubitare a quel c[...]
[...]203). Il « bienfait pour l’art » ci fu, ma non subito, e non, per il momento, in patria né in Francia. Fu in Germania che il Falstaff fece drizzar le orecchie a qualcuno: il primo « bienfait pour l’art » si chiamò Der Rosenkavalier. E poi da noi arrivò Gianni Schicchi.
Verdi predicava male e razzolava bene. Era sempre 11 a intonare le sue geremiadi: « Torniamo all’antico e sarà un progresso ». Di fatto, poi, a ottant’anni dava una tale spinta alla musica italiana, e la scagliava così avanti, che ci volle l’opera di tutta una generazione per raggiungerla, e c’è da dubitare a quel che spesso càpita di leggere ancor oggi che tutti ci siano veramente arrivati.
Massimo Mila