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tipologia: Analitici; Id: 1549959


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Tipologia Periodico
Titolo Aniello Coppola, Pirelli: una vittoria dell'inventiva operaia [sopratitolo: La potente tecnocrazia di un padrone moderno demistificata e battuta da una lotta di tipo nuovo]
Riferimento diretto ad opera
Aniello Coppola, Pirelli: una vittoria dell'inventiva operaia [sopratitolo: La potente tecnocrazia di un padrone moderno demistificata e battuta da una lotta di tipo nuovo] {Aniello Coppola, Pirelli: una vittoria dell'inventiva operaia [sopratitolo: La potente tecnocrazia di un padrone moderno demistificata e battuta da una lotta di tipo nuovo]}+++   istanza descrittiva+++   
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Aniello Coppola+++
  • Coppola, Aniello
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[Didascalia p. 13: SI RIBELLANO A PIRELLI
La prima pagina del giornale della sezione comunista della Pirelli Bicocca] [trafiletto p. 14: Nella graduatoria dell’autorevole rivista americana Fortune il gruppo Pirelli si piazza al 54° posto tra le duecento grandi società non americane di tutto il mondo, con 67.739 dipendenti, un fatturato di circa 530 miliardi di lire all’anno e un profitto netto annuo valutato nell’ordine di 15 miliardi di lire.
La sola Pirelli SpA (« Pirellona ») nel 1967 aveva immobilizzi tecnici per 186 miliardi immobilizzi finanziari per 152 miliardi, un fatturato di 205 miliardi di lire e 24 mila dipendenti.
La Pirelli SpA, solo in Italia ha 22 stabilimenti; il gruppo estero (Société Internationale Pirelli) ha impor­tanti impianti in Inghilterra, Spagna, Brasile, Argentina, Messico,. Canada, Turchia, Grecia, Perù.] [didascalia p. 14: Settimo Torinese: Giorgio Lo Turco, della segreteria della Commissione interna, parla a un’assemblea operaia all’interno degli stabilimenti Pirelli ]
Il via, secondo alcuni, lo diede — inconsapevolmente — l’operaio che per primo fece un segnale con tre dita: voleva dire che bisognava interrompere il lavoro, improvvisamen­te, alle tre: il gesto si propagò di reparto in reparto fino a quando si ritrovarono in più di tremila sul piaz­zale che collega le due fabbriche Pi­relli di Settimo Torinese. Oggi quell’episodio è passato alla storia come « lo sciopero delle tre dita ».
C’è invece chi colloca il momento cruciale a Milano, nella più grande fabbrica Pirelli, la Bicocca, il secondo stabilimento industriale d’Italia dopo la FIAT. Lì, l’estate scorsa, alle quattro del mattino, gli operai del turno di notte realizzarono a forza l'assemblea sindacale all’interno del­ l’azienda: una posizione perduta (alla Pirelli, come altrove) venti anni fa, veniva riconquistata sul campo con un’azione di massa creando un pre­cedente decisivo per iscrivere questo diritto nel contratto che sta per esse­ re definito. (E c’è già un effetto dii dimostrazione: il contratto dell’Alfa Romeo, il più avanzato che sia stato firmato in questi anni, ha sancito pro­prio sabato scorso il diritto di assem­blea, questa rivendicazione-chiave delle nuove generazioni operaie e studentesche) .
C’è chi ne attribuisce la paternità al « Comitato di base » (questo organismo nuovo, nato spontaneamente nella fabbrica nel corso della lotta) e chi a un sindacalista più sveglio degli altri, che colse nell’aria il potenziale esplosivo accumulato dalla rabbia operaia: le testimonianze sono contrastanti. Sull’azione del « Comi­ tato di base » non combaciano sempre i pareri dei comunisti milanesi: alcuni dei quadri tradizionali di fabbrica lo giudicano negativamente so­prattutto per Fazione critica svolta nel confronti dei sindacati e c’è chi avrebbe voluto risolvere il problema che ne è derivato anche con misure disciplinari nei confronti dei comu­nisti che ne fanno parte (insieme con cattolici di sinistra, socialisti, lavoratori indipendenti e studenti) ; è prevalsa però un’opinione che ci sembra più realistica, e che considera il Comitato una componente significativa, anche se criticabile, della spinta operaia. La valanga — mi dicono all'Unità di Milano — cominciò a muo­versi in un reparto della Bicocca, quando esplose improvvisa la collera di quei robot umani che producono le carcasse del famoso « cinturato Pirelli », a un ritmo tale e in un’atmosfera così calda che attorno a loro, per terra, si forma come un cerchio di sudore.
L’inizio, insomma, è avvolto nella leggenda: nella quale entra anche un prete, un prete-operaio che lavora al « Centro controllo qualità » della Pi­relli di Settimo Torinese. All’avvio dell’agitazione, questo sacerdote scri­ve ai sindacati che non è giusto deci­dere dall’alto le forme della lotta per il rinnovo del contratto, ma bisogna consultare gli operai, magari con un referendum. Il sindacato unitario, che a Settimo è molto forte, non si risente ma reagisce positivamente a questa critica. Di lì — questa è almeno la opinione di molti operai — prende le mosse la più originale e difficile forma di lotta che sia stata combat­tuta vittoriosamente in una grande fabbrica moderna: la riduzione omogenea dei ritmi di lavoro, scientificamente organizzata dagli operai stessi, l’autogestione della lotta per cambia­ re il cottimo. E’ un capolavoro di autocoscienza e anche di abilità tecnica realizzata da operai e da ope­raie in gran parte giovanissimi, con un livello di istruzione elementare, arrivati per lo più a Torino con la grande fiumana dell’emigrazione. Di­nanzi ai cancelli della fabbrica, in un impasto babelico del piemontese con tutti i dialetti meridionali, raccontano al capolista comunista riconosciuto soprattutto grazie alla tele­ visione, come sia stato facile e insieme difficile diventare un po’ tutti dei maestri (ne hanno l’orgoglio e il compiacimento) di quella difficile di­sciplina che è la lotta di classe. (Gli operai che inventarono i soviet del resto non leggevano Dostojevskij).
L’apparato coercitivo, i condizionamenti fisici e psicologici, l’intiera struttura gerarchica e tecnica di una grande fabbrica (dai marcatempo agli ingegneri) sono stati non soltanto messi in mora, come accade sempre nel corso di uno sciopero riuscito, ma demistificati e sostituiti dall’inventiva, dall’abnegazione, dall’auto­ controllo simultaneo e prolungato di migliaia di operai. Tutto questo è durato settimane. E’ come se un’orche­stra fosse riuscita a suonare armonicamente una difficile sinfonia senza il direttore, a un ritmo concordato e regolato dai suonatori dei singoli stru­menti. Meglio, per restare nell’ambiente, è come se i ferrovieri lottas­sero non bloccando i treni ma riuscendo da soli a farli camminare per settimane sempre più lentamente, per di più variando la velocità a seconda del comportamento dell’azienda. E tutto ciò senza provocare né uno scontro né la paralisi del traffico.
Se è incerto chi ha acceso la scintilla, certo è stato un complesso di circostanze tutt’altro che casuali a rendere possibile, in concreto, quella autogestione della lotta. Innanzitutto le condizioni oggettive del lavoro nelle fabbriche Pirelli. I padroni di questo impero industriale beneficiavano da anni di una divisione tra i sindacati che aveva seriamente indebolito le capacità contrattuali dei lavoratori: gli ultimi contratti erano stati firmati solo dalla CISL e dalla UIL, che ave­ vano una forza considerevole proprio alla Bicocca. (Potetti, deputato social­ democratico, ieri segretario e oggi protettore della UIL milanese, è stato un impiegato di Pirelli). In conseguenza di questa divisione (e dell’ef­fetto frenante che ha finito per avere sulla stessa CGIL), il malcontento operaio per i ritmi ossessionanti, per la nocività dell’ambiente, per i salari più bassi che nelle altre fabbriche della gomma, non aveva potuto tradursi in un’adeguata carica di lotta.
Ma sii era accumulato e, in certi momenti, era esploso in reazioni incon­tenibili di collera.
Negli ultimi anni Pirelli era riuscito a bloccare la dinamica del cottimo. Questa forma dii retribuzione a rendimento restava cioè ferma anche quando aumentavano la paga-base e la contingenza. E intanto, con il taglio dei tempi, giustificato — manco a dirlo — sulla base delle esigenze oggettive della produzione e degli ammodernamenti tecnologici, l’azienda riusciva a far produrre il più alto numero di pezzi, a realizzare cioè il massimo sfruttamento, con variazioni minime del compenso per il cotti­mo. Più si stringevano i tempi, più gli operai dovevano faticare per rag­giungere il massimo della produzione, stabilito al di fuori di ogni loro controllo.
La leva per far saltare il sistema del supersfruttamento che aveva raggiunto livelli intollerabili stava dunque nel ritmo del lavoro. Tuttavia, per manovrare questa leva occorreva non soltanto elaborare una piattaforma rivendicati va, renderne partecipi gli operai, superare lo scoglio della divisione tra i sindacati, ma porre concretamente il problema di un controllo dei tempi di lavorazione e di una regolazione da parte dei lavora­ tori dei ritmi di lavoro: e cioè rivendicare la conoscenza e il controllo — attraverso la costituzione di appositi strumenti sindacali con il riconoscimento di delegati sindacali dei lavoratori — dei tempi di lavorazione scomposti. In altri termini, porre il problema della conoscenza delle motivazioni, se ve ne sono, per cui. determinati ritmi di lavoro sono con­cretamente imposti ai lavoratori, e della parte di questi tempi di lavorazione che sono destinati non al la­ voro ma al recupero delle energie.
Cioè a dire di quanto il tempo strettamente necessario a eseguire una lavorazione è maggiorato per tener conto — se l’esempio può servire — che se un uomo in bicicletta può anche percorrere in un’ora 48 chilometri, ciò non è possibile a tutti gli uomini. Perché non tutti gli uomini possono correre a questo ritmo per sette ore e mezzo consecutive al giorno, per cinque o sei giorni alla settimana, per 49 o 50 settimane all’anno, di tutti gli anni di una vita di lavoro.
Per manovrare la leva che comandava il sistema di supersfruttamento gli operai dovevano, dunque, non soltanto proporsi questo obiettivo ma conquistarlo nel corso della stessa azione sindacale creando, attraverso la lotta, gli strumenti nuovi di controllo sui' tempi. Bisognava cioè ottenere, nella pratica del lavoro ancor prima che nelle clausole di un con­ tratto più avanzato, forme capillari di potere sindacale e di democrazia sindacale. Non bastava dunque pro­ clamare scioperi di 24 o 48 ore. Le esplosioni improvvise non servivano allo scopo. Se Pirelli — come era prevedibile — teneva duro, fino a che limite gli operai avrebbero potuto insistere con gli scioperi generali? Le capacità di resistenza di un gigante industriale, dinanzi al rischio di veder sconvolto il suo regime di fabbrica e il suo sistema di potere interno, si sarebbero tese al massimo, con l’obiettivo di fiaccare la combattività degli operai, di giocare sulla divisione e quindi sulla debolezza dei sindacati. La via degli scioperi totali di fabbrica rischiava dunque di finire in un vicolo cieco. E poi si trattava di paralizzare non soltanto gli stabilimenti di Settimo ma tutto il complesso Pirelli, a cominciare dalle officine della Bicocca, dove la CGIL non arriva alla maggioranza assoluta e la divisione sindacale aveva inciso sulle capacità di lotta della maestranza. C’era infine il rischio che Pirelli scompaginasse ili fronte operaio con qualche concessione salariale.
E’ in questa fase che, soprattutto a Milano, si sconta il peso della divisione sindacale e di travagliate di­scussioni tra vecchie e nuove generazioni operaie. II lavoro per il superamento di questa situazione è difficile, ma ha sbocchi positivi. Positivo è anche il ruolo svolto da piccoli com­mandos unitari giunti da Torino. Si svolgono grandi « assemblee di marciapiede » in viale Sarca, cortei operai dilagano verso il centro di Milano, assediano il famoso grattacielo della ditta, premono sulle forze po­litiche, impegnano il Consiglio comunale. Ma la partita è in Fabbrica che si decide, sia a Milano sia a Torino.
La svolta si ha nell’autunno avanzato, quando gli operai di Settimo Torinese, in lotta dalla fine di giugno, si rendono conto che se fossero riu­sciti a regolare essi stessi il ritmo del lavoro, il sistema di cottimo si sarebbe ritorto come un boomerang contro Pirelli. Tagliando i tempi, Pirelli riusciva a sfruttare al massimo il rendi­ mento dell’operaio senza aumentargli proporzionalmente la retribuzione. Bastava che, all’inverso, gli operai fossero riusciti a prolungare i tempi di lavorazione, e Pirelli avrebbe avuto un danno proporzionalmente ben più rilevante della decurtazione salariale che ne derivava per i lavoratori. « Gioacchino facette a legge... » mi dice un emigrato alludendo inconsape­volmente alla tragica storia di Murai.
Il problema però non era semplice come sembra: si trattava di riuscire a regolare nell’interesse degli operai il ritmo di una grande e complessa fabbrica moderna, e tutto ciò senza (anzi contro) l’apparato tecnico, il sistema gerarchico, gli strumenti di condizionamento di cui dispone il capitalista e facendo solo affidamen­to sulla coscienza di classe, sullo spirito di solidarietà, sull’autocontrollo, sull'’unità di migliaia di operai. Ognuno dei quali — si badi bene — avrebbe potuto sottrarsi a questa forma di autodisciplina, senza correre neanche i rischi che il crumiro corre nel mo­mento in cui resta a lavorare mentre la massa abbandona la fabbrica.
Ognuno degli operai avrebbe potuto occultare la propria debolezza o giustificare la propria viltà con le difficoltà pratiche di regolare da solo un ritmo che, in tempi normali, viene fissato e controllato da un intiero sistema di tecnici che hanno alle loro spalle la scienza dell’organizzazione del lavoro nella fabbrica capitalistica.
Orbene, alla Pirelli di Settimo è avvenuto questo fatto straordinario: gli operai (anche quelli con il livello di istruzione più basso, anche gli analfabeti, anche le donne alla prima esperienza di fabbrica) sono stati capaci di compilare giorno per giorno da soli la bolla di cottimo che, in tempi normali, è il prodotto di un apparato tecnico-disciplinare complesso e potente, sono stati capaci di applicarla scrupolosamente, di organizzare un sistema collettivo di controllo, di regolare cioè i tempi di produzione in modo concertato squadra per squadra, reparto per reparto, officina per officina. In questo modo, con questa autogestione democratica della lotta, sono riusciti a infliggere a Pirelli una riduzione della produzione fino al 70% del totale, subendo una decurtazione di sole 10 mila lire al mese (su un salario me­ dio di 80-90 mila lire). Qui si ha la prova che la democrazia sindacale non è un’esigenza astratta, non è una « concessione » alle spinte dei tempi nuovi ma una necessita strettamente funzionale alla buona conduzione delle lotte. Senza la più ampia e reale democrazia sindacale, una lotta come questa non avrebbe potuto nè iniziarsi né svilupparsi con successo.
Pirelli, in verità, non sa neanche manovrare con l’agilità che bisogna riconoscere alla FIAT. Non si accorge che l’unità sindacale si andava ricomponendo sotto la spinta irresistibile di una pressione unitaria di base che coinvolgeva anche gli operai non iscritti a nessuno dei tre sin­dacati. Così dà una vecchia risposta a una situazione aziendale completamente nuova. Propone un aumento di 9 lire orarie che incollerisce gli operai: e ora è costretto a concederne 32, molte di più delle 20 lire che rappresentavano l’aumento contrattua­le medio degli ultimi mesi (oggi il contratto dell’Alfa Romeo è arrivato a 40 lire di aumento: un record).
Minaccia una multa di tre ore e ordina perfino una serrata a Milano e poi è costretto alla ritirata da un ul­teriore e generalizzato calo dei ritmi.
Favorisce insomma involontariamente l’estendersi nelle altre aziende del gruppo, a cominciare dalla Bicocca, della forma di lotta applicata negli stabilimenti di Settimo Torinese. Contribuisce, suo malgrado, a dare alla massa degli operai la coscienza della propria forza. Nel corso di questa lotta esemplare si forma una nuova leva di militanti sindacali e politici, anche in coloro che sono più distaccati dal movimento si accende una febbre di partecipazione, una carica di consapevolezza critica caratteristica di tutta la nuova generazione operaia, che non tollera più né autoritarismo né paternalismo. Un’aria nuova circola anche ai ver­tici sindacali. Francesco Pozzo, ex­operaio della Michelin e ora segretario nazionale del sindacato della gomma, parla con la grinta di un contestatore. Dice che gli operai era­no stufi del « sindacato balia » e « volevano fare piazza pulita » di un metodo di direzione che non li faceva partecipare alle decisioni riguardanti le lotte che essi poi avrebbero do­vuto condurre. Giorgio Lo Turco, il leader forse più autorevole della Com­missione interna, arringa senza appunti gli operai ammassati sabato pomeriggio nella storica Società ope­raia di mutuo soccorso attorno a Gian Carlo Pajetta. La Società è stata fondata nel 1852, è molto malan­data e la frequentano di solito i vecchi operai. Oggi i giovani sono moltissimi.
Lo Turco parla di « stupenda esperienza », di « meravigliosa lotta », dice che « è bello ricordare come le nostre donne si organizzavano », annuncia ridendo che il PCI alla Pi­relli è « entrato in crisi ». Non è più possibile continuare come prima: una piccola cellula di cento iscritti, con pochi attivisti, ha già reclutato 75 nuovi comunisti. Bisogna fondare una sezione di fabbrica. 31 li ha tesserati da solo uno degli emigrati più combattivi e loquaci, Salvatore Augello, un siciliano che si esprime così: «Mangio, mi vesto, lavoro Pirelli.
Ma riesco ancora a pensare per conto mio, con la mia testa ».
Quello che tengono a esprimere, ognuno a suo modo (in tanti dialetti, dice Lo Turco, che a volte non ci capiamo nemmeno) è la fierezza di una dignità recuperata, di una nuova volontà di contare, nella fabbrica, nel sindacato, nel partito : « Le condizioni dei lavoratori debbono essere decise dai lavoratori », « i sindacati hanno vinto perché hanno rifiutato di sottoscrivere accordi senza l’approvazione delle assemblee », « nella fabbrica dobbiamo essere noi a comandare », « abbiamo dimostrato a Pirelli che pur vivendo nell’epoca dei robot, non siamo dei robot ma gente che si sa far rispettare », « o riusciremo a imporre le commissioni operaie addette al controllo dei tempi, o non potremo difendere quello che abbiamo conquistato ».
Il giorno avanti, proprio arrivando a Torino, ho visto squillare sull' Unità il titolo della grande avanzata della FIOM alla FIAT. Non mi emoziono più come una volta: è la naturale conseguenza degli scioperi che dalla primavera in poi hanno reimmesso i centomila della FIAT nelle prime file del movimento operaio attivo, prima per la vertenza contrattuale, poi per e pensioni, più recentemente per reagire all’eccidio di Avola. Ma qualsia­ si episodio della lotta operaia a To­rino è influenzato dalla situazione della FIAT e si pone a confronto con essa. Nel caso della Pirelli la con­nessione è diretta. All’indomani del­la guerra, il controllo sui tempi e la regolamentazione operaia dei ritmi di lavoro erano la base dell’impegno sin­dacale nelle grandi fabbriche, in un contatto e in una solidarietà profon­da tra tutti i lavoratori, garantiti an­ che da forme capillari di potere sindacale e di democrazia sindacale nelle grandi fabbriche, come i « commis­sari di reparto » della FIAT. Poi que­ste conquiste furono compromesse da una controffensiva padronale che utilizzò le discriminazioni politiche e le rappresaglie, una certa demoralizzazione della classe operaia, la rottura dell’unità sindacale e le sconvolgenti modificazioni tecnologiche degli anni cinquanta con il conseguente mu­tamento delle condizioni di lavoro nei reparti. La lotta della Pirelli segna un decisivo progresso su uno dei temi essenziali che erano stati al cen­tro della stessa vertenza FIAT in pri­mavera: la conquista di posizioni di controllo e di potere sindacale che servano a mutare le condizioni di la­ voro nella grande fabbrica moderna.
Che si arrivi a ripetere e a far dilagare il grande successo della Pirelli è di decisiva importanza. Ed è altret­tanto decisivo che ci si arrivi alimentando lo spirito di rivolta, la carica di insubordinazione e la tensione unitaria, in un processo sempre più ampio di ricostruzione dal bas­so di una coscienza di classe. Il pa­dronato non resterà certo indifferente di fronte a questo straordinario sommovimento sociale che assilla fino all’angoscia l’onorevole Moro e coinvolge tutte le componenti del centro-sinistra in una operazione di potere che sembra la sublimazione del doroteismo. Di qui l’importanza di un esempio comprovante la concreta pos­sibilità di attestare la classe operaia attorno a conquiste capaci di accrescere il suo peso nella società, contendendo al padronato lo spazio politico a cominciare dalla fabbrica. E ciò sia attraverso una capillarizzazione degli organismi di potere dal basso, sindacali e politici, sia demistificando e sconfiggendo tra le masse lo interclassismo socialdemocratico e lo interclassismo cattolico che al vertice si avviliscono nei compromessi intessuti da Rumor.
 


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in: Catalogo KBD Periodici; Id: 32711+++
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Area unica
Testata/Serie/Edizione Rinascita | settimanale ('62/'88) | ed. unica
Riferimento ISBD Rinascita : rassegna di politica e cultura italiana [rivista, 1944-1991]+++
Data pubblicazione Anno: 1968 Mese: 12 Giorno: 20
Numero 50
Titolo KBD-Periodici: Rinascita 1968 - 12 - 20 - numero 50


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