Area della trascrizione e della traduzione metatestualeTrascrizioni | Trascrizione Non markup - manuale o riveduta: [riquadro p. 4] Nemo propheta in patria «Il Governo britannico ha fatto sapere all’ambasciatore italiano a Londra che i circoli ufficiali inglesi tengono il presidente Saragat in altissima stima» (dal Corriere della Sera) [tondo] Quali sono i risultati politico-sociali (in senso lato) della lotta dei metalmeccanici? Che cosa è cambiato nella coscienza di questi operai nel corso di una memorabile battaglia contrattuale? Quali esperienze e quali trasformazioni molecolari si sono verificate in questo reparto d’avanguardia del movimento di classe? Le domande non sono di poco peso: l’importanza oggettiva del settore, il numero e la qualità dei protagonisti, il modo con il quale la lotta è stata preparata e gestita, il braccio di ferro impegnato dalla Confindustria hanno contribuito a far assumere alla vittoria dei metalmeccanici un significato che va ben al di là degli orizzonti di una categoria sia pure decisiva e rappresenta una sorta di coronamento e di garanzia per le acquisizioni contrattuali e per la maturazione politica di tutto il vasto fronte operaio che si è mosso in questo autunno e che non si è ancora fermato. Una risposta esauriente a tali interrogativi presuppone certo un’analisi ben più complessa di una rapida indagine giornalistica e deve tener conto di alcuni elementi di giudizio che saranno disponibili soltanto quando sarà conosciuto nei particolari l’esito della consultazione della categoria cui spetta la ratifica del contratto e quando si affronteranno nel concreto i problemi derivanti dall’applicazione del contratto stesso. (Si pensi, ad esempio, che la riduzione dell’orario a 40 ore settimanali e quindi a meno di otto ore al giorno implica l’aumento da tre a quattro turni e quindi una riorganizzazione profonda dell’impiego della manodopera). A rendere difficili le generalizzazioni semplificatrici si aggiungono poi i dislivelli di maturità e di tradizione sindacale, di consapevolezza politica, di esperienza di lotta, di forza organizzata riscontrabili in oltre un milione di lavoratori distribuiti in centinaia e centinaia di fabbriche sparse su un territorio politicamente e socialmente non omogeneo. Ciononostante, proprio il carattere non fortuito ma coerente di quella che senza dubbio è la più straordinaria esperienza di lotta vissuta dalla classe operaia nell’ultimo quarto di secolo consente anche all’osservatore più cauto di registrare macroscopiche novità. Le conquiste salariali e normative sancite dal nuovo contratto sono le più sostanziose che gli operai italiani abbiano conseguito in una vertenza contrattuale e superano la media dei miglioramenti ottenuti in altri paesi capitalistici dove pure il livello salariale è tuttora più elevato che in Italia. Orbene, quello che i sindacati, con legittimo orgoglio, definiscono «il più importante successo contrattuale che la categoria ha conosciuto dalle sue origini» è stato conquistato in un tempo relativamente breve. Questo è vero non soltanto per le categorie che avevano già concluso i nuovi contratti ma anche per i metalmeccanici che per essere in posizione-chiave hanno dovuto lottare più a lungo e più intensamente degli altri. Monetizzando i benefici salariali e normativi si raggiunge una cifra di 20 mila lire al mese: il doppio di quanto i metalmeccanici ottennero nel 1964 e più dell’intera somma dei miglioramenti previsti in tutti i contratti di questo dopoguerra. La conquista delle 40 ore settimanali è stata paragonata alla storica conquista delle otto ore del 1919. Ma per altre conquiste non ci sono neanche i termini di paragone: non ha analogie la parità normativa con gli impiegati per i trattamenti di malattia e di infortunio; e lo stesso deve dirsi per il complesso dei nuovi diritti (l’assemblea, i delegati di reparto, ecc.) che concretizzano un mutamento della «distribuzione dei poteri» (sono parole di Donat Cattin). Ebbene, per arrivare a questi risultati, la lotta è durata poco più di tre mesi (lo spazio di un autunno, appunto) con una media di 12 ore settimanali di sciopero su 44. Sei anni fa la lotta contrattuale durò ben dieci mesi e con una media di tre giornate di sciopero alla settimana, il che implicava una perdita di quasi mezzo salario. Va poi tenuto presente che a questo scontro contrattuale molti operai sono giunti sull'onda dei successi (e delle conquiste economiche) conseguiti grazie alle lotte articolate della primavera. Il primo risultato politico della battaglia contrattuale sta dunque nel valore senza precedenti delle conquiste economiche e normative: siamo qui di fronte a un segno evidente dell’aumento del peso politico della classe operaia. C’è un confronto quasi d’obbligo che conferma tale giudizio, quello con il maggio francese. Le differenze non stanno soltanto nella diversa intensità e durata dell’offensiva operaia ma nei risultati: in Francia conquiste soltanto salariali (in gran parte riassorbite dal sistema attraverso l’aumento dei prezzi e l’inflazione), con la contropartita negativa del riflusso moderato e di un aggravamento delle divisioni sindacali e politiche della classe operaia; in Italia conquiste salariali sostenute da acquisizioni di potere e da un’accelerazione del processo unitario. Il che sottolinea, anche da questo punto di vista, la precarietà e la insostenibilità della soluzione politica conservatrice che si cerca di realizzare con il rilancio del quadripartito di centro-sinistra. Senza contare che l’autunno non è finito né socialmente né politicamente e che l'effetto di dimostrazione delle vittorie conseguite dai metalmeccanici, dagli edili, dai chimici (per stare alle categorie più numerose e importanti) non è esaurito: siamo alla vigilia della battaglia dei tessili. Ma, per restare nell’ambito contrattuale, un'altra novità destinata a incidere nella coscienza operaia riguarda la procedura della contrattazione. Non intendiamo riferirci soltanto alla lunga e attenta preparazione della piattaforma contrattuale che ha registrato una mobilitazione e una partecipazione di massa finora senza eguali; né semplicemente alle caratteristiche «vietnamite» (così si è detto) delle rivendicazioni: infatti non si chiedeva cento per ottenere cinquanta ma si chiedeva — come fanno i vietnamiti — quello che si riteneva giusto e possibile conquistare. Tutto questo è abbastanza noto. Ci riferiamo piuttosto alla tattica contrattuale adottata dai sindacati che ha ristretto lo spazio per le manovre dilatorie e per il defatigante temporeggiamento del padronato. In passato era una prassi l’arresto dell’azione sindacale prima dell'apertura delle trattative. Se gli scioperi non venivano sospesi, gli industriali non accettavano di aprire la discussione. E anche l'intervento della mediazione governativa implicava la sospensione della lotta. Nel momento cruciale una «nota industriale» (quelle che solo 24 Ore ha pubblicato integralmente) ha lamentato l'attuazione di un programma di sciopero «mentre è in corso la mediazione del governo, fatto questo assolutamente nuovo e al quale, fino a ora, nessun mediatore ufficiale si era piegato». A questa novità, tuttavia, si è «piegato» non soltanto il «mediatore» Donat Cattin, contro cui era diretta la frecciata confindustriale, ma la stessa Confindustria. E’ stata stabilita una nuova prassi. Non si lotta più per ottenere il diritto di trattare o di arrivare a una mediazione. Si lotta e si tratta per ottenere il contratto. Dunque un rilevante risultato politico della lotta dei metalmeccanici sta nella quantità e nella qualità delle conquiste realizzate. Ma il modo con cui si è giunti a questi risultati è anch’esso del tutto nuovo ed è inscindibile dallo sbocco della lotta. Si può dire, anzi, che se non si fosse lottato in questo modo tali risultati sarebbero stati inconcepibili. Non è la prima volta che si sottolinea l’importanza e le conseguenze a lungo termine dei cambiamenti intervenuti nella battaglia contrattuale. Qui troviamo la conferma del carattere d’avanguardia della categoria e qui si misura lo straordinario patrimonio accumulato dalle tre organizzazioni sindacali che non a caso assolvono a una funzione di punta, anche politica, all’interno delle rispettive «centrali». Ma non è certo superfluo, in un bilancio come questo, mettere in evidenza in che cosa consistono le novità di cui possono menar vanto i metalmeccanici: la capacità di elaborazione e di direzione collettiva del movimento, la crescita di una presenza operaia nella preparazione della piattaforma rivendicativa, la ricomposizione dell’unità di classe, la formazione nella fabbrica — nel corso stesso della lotta — di un nuovo tessuto di potere operaio che partendo dall’assemblea si articola in nuove istituzioni di democrazia proletaria (i delegati di reparto, i comitati, i consigli dei delegati), lo stabilirsi di un rapporto nuovo tra sindacati e lavoratori, l’accelerazione del processo unitario, la capacità di iniziativa politica fuori dei luoghi di lavoro, nelle grandi sfilate di Torino, di Napoli, di Milano, di Roma, nelle manifestazioni contro la RAI-TV, nel rapporto nuovo con gli enti locali e con il movimento studentesco. Carica libertaria e forza organizzata Ognuno di questi elementi meriterebbe un discorso a sé. Anche perché la semplice elencazione rischia di dare un quadro sommario e un po’ uniforme di quello che è un processo ancora in corso e destinato a svilupparsi, in una dialettica tra vecchio e nuovo, tra spontaneismo e organizzazione, tra fantasia creativa e conservatorismo che produce tensioni e difficoltà e accresce la domanda politica che il movimento sindacale pone ai partiti. Ma tutto ciò non deve affatto oscurare il risultato decisivo di questi mesi di lotta: l'esser riusciti all’interno della fabbrica ad aprire una crisi nel sistema gerarchico, nell'autorità, nell’impalcatura del potere padronale. E tutto ciò non soltanto per effetto della carica libertaria, dell’insofferenza, del ribellismo — che pur vi sono stati — sprigionatisi da tutta una nuova generazione operaia in un processo di politicizzazione spontaneo assai rapido, e quindi fragile. Ma anche per il fitto che questa esplosione si è accompagnata a uno sviluppo dell’organizzazione operaia, a una crescita della consapevolezza che l’organizzazione e la disciplina, anzi l’autodisciplina, sono una necessità. Le fabbriche italiane non hanno registrato l’eruzione di un magma travolgente e informe ma l’aggregarsi di una massa d’urto fortemente strutturata, capace di scegliere e di affinare i metodi e i tempi di lotta, di muoversi con duttilità e con intelligenza, portando alla ribalta una nuova generazione di militanti e una nuova leva di dirigenti. Una rappresentazione fisica di questo sviluppo la si è avuta nel corso delle grandi sfilate di novembre e di dicembre. Il sindacato non era l’onnipotente e misterioso regista capace di portare nelle strade delle maggiori città italiane cortei lunghi chilometri e chilometri e durati a volte intiere giornate. Il sindacato — il meglio del sindacato — era la coscienza, il senso di autodisciplina, la capacità di organizzazione, la fantasia di centinaia di migliaia di protagonisti. Solo questo può spiegare perché una massa così ingente di operai riusciva a fondere in una esperienza collettiva una grande varietà di apporti politici e culturali, una grande ricchezza di motivazioni personali, senza appiattimenti e senza uniformità. Come testimonia la ricchezza e l’originalità delle parole d’ordine o la sorprendente agilità sonora dei cortei che raggiungevano il diapason del fragore e anche del folklore dinanzi alle sedi del potere statale e padronale ma rispettavano il silenzio più assoluto al passaggio dinanzi a un ospedale. Il fatto è che l’organizzazione articolata e calibrata delle manifestazioni esterne non era che la proiezione di una organizzazione costruita e provata sui luoghi di lavoro. Come avveniva all’indomani della Liberazione, solo se è fortemente organizzata in fabbrica la classe operaia riesce a organizzarsi anche in piazza. A cose fatte (ma nella lotta tra le classi nessuna acquisizione è mai definitiva) può sembrare che tutto ciò sia il frutto di uno sviluppo naturale, graduale, senza traumi e che dunque, allo scadere dell’«autunno caldo», non si tratti che di cogliere questi frutti giunti a maturazione al momento giusto. In verità la cosa che meno rassomiglia a una serra è proprio la fabbrica capitalistica. E non soltanto perché c’è il padrone dentro, e fuori c’è il suo sistema, ma per le difficoltà interne alla classe operaia stessa, derivanti dalla sua esperienza politico-sociale, dal suo livello culturale, dalla sua formazione ideale. Il sindacato ha dovuto affermarsi non soltanto contro il padrone ma contro una contestazione che agiva in mezzo ai lavoratori, ha dovuto battersi contro l'estremismo sceverando tra certe esigenze giuste proposte in modo sbagliato e le esercitazioni schematiche di chi considera la classe operaia oggetto di esperimenti decisi e proposti dall’esterno. Il sindacato ha allargato gli orizzonti, ha unificato le esperienze, ha combattuto le spinte corporative, ha fatto scoprire ai più giovani il gusto della lotta politica, la forza e il potere enorme dell’organizzazione di classe, ha rappresentato l’elemento coagulante della omogeneità e della compattezza sociale che la classe operaia ha dimostrato in due o tre momenti davvero cruciali. Si deve a questa omogeneità e a questa compattezza certamente superiori alle previsioni se i tentativi di utilizzare come diversivi le provocatorie rappresaglie decise dalla FIAT e dall’ILVA di Bagnoli, la morte di Annarumma, gli attentati terroristici, la minaccia di una crisi di governo si sono spuntati contro la decisa reazione e contro la fredda determinazione operaia di non scendere sul terreno di scontro preferito dall’avversario di classe. Il punto di svolta : la contrattazione articolata Tutto ciò, ripetiamo, non è maturato in una sola stagione, per «calda» che sia stata. Il punto di partenza di questo processo deve essere collocato nell’emergere di una nuova generazione di lavoratori e nella riflessione che tutta la classe operaia è andata facendo in questi anni sui prezzi pagati, nel periodo della guerra fredda, per la divisione e per la discriminazione tra i lavoratori. Ma il punto di svolta è rappresentato dalle lotte, dalle conquiste e dalle esperienze della contrattazione in fabbrica. Non a caso, proprio contro la contrattazione articolata (che ancor prima della vertenza contrattuale aveva portato a ben duemila accordi aziendali con consistenti miglioramenti per i lavoratori) si è ostinata in forma pregiudiziale la Confindustria, ma senza riuscire a spuntarla. Si capisce bene perché. Quale sindacato avrebbe mai potuto accettare di tagliare quella che l’esperienza aveva già dimostrato essere la radice principale della propria recuperata forza? E’ in questa fase che sono state gettate le basi per le conquiste di oggi. In questa fase si è avviato quel mutamento dei rapporti tra sindacati e massa operaia cui gli stessi dirigenti della FIOM, della FIM e della UILM attribuiscono — e a ragione — un significato decisivo. Qui è avvenuta la riscoperta e la valorizzazione della soggettività operaia, il superamento delle forme tradizionali di delega e di mediazione, la ricostituzione dell’unità di classe nella piena coscienza delle forme comuni di sfruttamento. Sindacato moderno, la rivista della FIOM, descrive con efficaci espressioni la svolta verificatasi in fabbrica: « E’ l’operaio che vive, discute con il collettivo dei suoi compagni di reparto tutti gli aspetti della propria condizione di lavoro, che decide sulla propria prestazione e la valuta in termini di quantità, di energia spesa e di qualità; che riconsidera il processo produttivo, l’organizzazione del lavoro, i ritmi che gli sono imposti, non come dati oggettivi, ma come scelte del padrone che possono essere non accettate, cambiate, contrattate». Nel corso di questo processo, abitudini paternalistiche, incrostazioni burocratiche e in qualche modo anche autoritarie nel rapporto tra sindacati e lavoratori, vengono messe in crisi. Certe tendenze a mobilitare dall’alto gli operai più che a suscitarne l’organizzazione non reggono più dinanzi all’atteggiamento nuovo degli stessi protagonisti delle lotte. La crisi del vecchio rapporto di delega fa sì che anche nella fase della trattativa aumenta l’incidenza della volontà operaia, diventa il fattore decisivo. Si può dire che se pure gli industriali, per una ipotesi paradossale, fossero riusciti a rendere «ragionevoli» i sindacalisti (peraltro, tra i meno malleabili che abbiano incontrato), non sarebbero stati in grado di imporre soluzioni accomodanti. Certe novità non sono solo formali. La categoria è stata costantemente al corrente dello stato della trattativa. Le consultazioni sono state e sono dei veri e propri dibattiti con partecipazione altissima (in molti casi, la totalità degli addetti al reparto). Le votazioni non si sono svolte prò forma. Del resto, nonostante la fatua piattezza di certe trasmissioni della TV, forse anche i telespettatori si sono accorti che nel salone delle riunioni al ministero del Lavoro accadeva qualcosa di straordinario: centinaia — diciamo centinaia — di dirigenti sindacali di ogni parte d’Italia hanno passato decine di giornate e nottate in quella sala per testimoniare anche con la loro presenza che gli industriali dovevano vedersela con una nuova realtà sindacale e non soltanto con alcuni leaders. I quali, d’altra parte, non hanno nulla di carismatico ma sono venuti confermandosi dirigenti di tipo nuovo per aver saputo interpretare ed egemonizzare un movimento estremamente complesso e vitale e in una situazione politica molto difficile. Per intenderci, si può parlare di gestione di massa della lotta. La maggioranza dei lavoratori l'ha infatti combattuta da protagonista. Il che significa che sono state liquidate o ridotte zone di inerzia, di passività, di sfiducia, sono state costruite (con le assemblee, con l’elezione di parecchie migliaia di delegati di linea, con i comitati di reparto) le strutture portanti di un sindacato nuovo e unitario, sono stati impegnati in una esperienza di lotta di classe strati tradizionalmente moderati per ragioni sociali, come gli impiegati e i tecnici, o per ragioni storico-politiche, come certe fasce operaie di orientamento cattolico abituate dall’ottica interclassista ad identificare la democrazia con il sistema capitalistico. E’ stata davvero una straordinaria stagione quella vissuta dai metalmeccanici. La maggioranza della categoria ha per la prima volta partecipato a un’esperienza politica autonoma (e con questa espressione non si vuol dire che il dato prevalente sia stato lo spontaneismo), ha cominciato ad avvertire il nesso tra rivendicazioni contrattuali e problemi di politica economica e questioni di riforma, ha discusso il modo per prepararsi al prevedibile contraccolpo del sistema, ha visto i sindacati cambiare linguaggio, trasformarsi, discutere superando vecchi formalismi e tradizionali divisioni di corrente o di «centrale», ha capito il valore straordinario dell’unità di classe, in primo luogo sul terreno sindacale ma anche (embrionalmente) sul piano politico. La UIL non rientra nella patria di origine Basta pensare alla UIL: la carica unitaria che si è sprigionata anche all’interno di questa organizzazione ha impedito che la scissione riportasse questo sindacato di origine socialdemocratica nella patria politica di origine e ha spostato il 75 % dei militanti socialdemocratici nelle file socialiste (e non nella corrente nenniana). E’ la prima volta che l’unità di base si rivela più forte del condizionamento politico di vertice rovesciando la tradizionale, meccanica dipendenza delle correnti sindacali dalle matrici di partito. Stipulato il contratto, la vicenda è tutt’altro che chiusa. L’applicazione stessa delle clausole darà necessariamente luogo a contestazioni che risveglieranno, dopo un’inevitabile fase di rilassamento della tensione accumulata in questi mesi, la vigilanza degli operai. Il padronato farà di tutto per recuperare, direttamente e indirettamente, sul piano della microeconomia e su quello della macroeconomia, le concessioni che è stato costretto a fare. Infine, sono più che mai aperti i problemi politici derivanti dal modo stesso con cui è maturata questa esperienza di lotta, dalla costruzione di una nuova organizzazione operaia, dallo sviluppo del processo unitario, dalla repressione che sul piano poliziesco e giudiziario si è abbattuta in modo pesante sulla categoria. | |
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