Area della trascrizione e della traduzione metatestualeTrascrizioni | Trascrizione Non markup - manuale o riveduta: Gli anni sessanta si chiudono, nel nostro paese, e gli anni settanta si aprono, sotto il segno di una vittoria operaia. Il contratto dei metalmeccanici non rappresenta, certo, la conclusione di questa straordinaria stagione di lotte, che altre categorie lavoratrici sono costrette, ancora in questi giorni natalizi, a battersi duramente per i loro obiettivi, e altre ancora si apprestano a entrare a loro volta in azione. Tuttavia non v’è dubbio che l’accordo dei meccanici, dopo quelli dei chimici, degli edili e di altri settori, ha un significato di grandissimo rilievo: sia per il modo come è stato raggiunto sia per la sostanza delle conquiste ottenute. Il movimento operaio italiano segna un punto all’attivo, il rapporto di forze tra le organizzazioni dei lavoratori e il padronato si sposta. Anche se occorrerà approfondire compiutamente, in ogni sua implicazione, l’esito complessivo del grandioso movimento apertosi nella scorsa estate e tuttora in atto, alcuni dati di sicuro valore sono già disponibili. Innanzitutto l’estensione, l’unità e la compattezza della lotta, la quale si è sviluppata in maniera impetuosa ma al tempo stesso organica e «pensata», senza registrare cedimenti di sorta, in nessun punto dello schieramento. Nella sua ampiezza, il movimento di scioperi e di agitazioni, pur senza chiudersi dinanzi alle spinte nuove e alle nuove proposte provenienti sia dall’interno della giovane e rinnovata classe operaia sia dal complesso fronte giovanile delle scuole e delle università (e anzi accogliendone le istanze positive, la preziosa alleanza), ha praticamente finito col riassorbire le punte estremiste, che ne avrebbero ostacolato anziché trainato la marcia. L’esigenza di rafforzare l’organizzazione, a ogni livello della lotta, si è affermata alla luce dell’esperienza, e i sindacati hanno registrato uno sviluppo unitario che è andato al di là delle previsioni e in qualche caso delle intenzioni, causa ed effetto a un tempo della energia con cui lo schieramento operaio ha contrastato l’avversario. I risultati sono noti. Nelle fabbriche, al di là degli eccellenti traguardi salariali e normativi, sono state conquistate, e già sperimentate nel corso delle lotte, forme di rappresentanza e di controllo che consentiranno quell’azione articolata «tra un contratto e l’altro» che i padroni temono come la peste e che hanno fatto di tutto per scongiurare. Nell’insieme del paese, l’autunno operaio ha portato a maturazione una serie di grandi temi di riforma che finora — pur presenti nelle elaborazioni della sinistra di classe — erano apparsi obiettivamente slegati, nonostante ogni sforzo, dalle rivendicazioni immediate delle masse lavoratrici. Ciò ha portato a una generalizzazione senza precedenti, la cui manifestazione fisica si è avuta nello sciopero generale del 19 novembre. Sono costatazioni indiscutibili: a togliere ogni sospetto di facile trionfalismo, basta richiamare alla mente quanto sia stato lungo e difficile creare le premesse del successo di oggi, quale travaglio di scelte e di dibattiti abbia richiesto, quale faticoso processo di ricostruzione unitaria e di riedificazione organizzativa stia dietro quella totalità degli scioperi che oggi appare perfino ovvia. Le forze più reazionarie e le loro espressioni politiche, colpite dall’avanzata operaia e popolare e dal senso che ciò acquista nell’insieme della situazione italiana ed europea, dopo aver posto in atto ogni forma di resistenza per impedire la conclusione positiva delle vertenze sindacali, non rifuggono oggi dallo sfruttare provocatoriamente ogni possibile occasione di disordine e di sbandamento, ivi compresa quella offerta dai criminali attentatori di Milano e di Roma, strumenti — consapevoli? inconsapevoli? — della più bieca reazione di classe. Quale è stata la risposta, e quali le deduzioni da trarne? La Repubblica è più forte — è stato detto, in riferimento agli atroci attentati e alle torbide vicende che li hanno seguiti — la democrazia repubblicana ha resistito, andrà avanti. Affermazioni tutt’altro che retoriche, profondamente vere, e tali da meritare ulteriore analisi. E’ vero che, una volta di più, chi ha accarezzato la velleità di colpire e disarticolare le fondamenta della democrazia italiana è stato battuto, è stato costretto a rientrare nel suo guscio appena messo fuori il capo. C’è stato chi ha nutrito velleità del genere, la sensibilità pubblica lo ha avvertito. Forse queste forze sono state direttamente all’origine delle esplosioni delittuose (le incertezze e, si direbbe, le esitazioni degli inquirenti in direzione dei mandanti non sono certo tali da acquietare la sete di sapere; e le figure, i precedenti i contatti anche internazionali di alcuni degli indiziati giustificano ogni sospetto); certo si sono precipitate a sfruttare il crimine, ad approfittare del comprensibile disorientamento iniziale. L’alt è stato chiaro, immediato. Il muro delle tute operaie in Piazza del Duomo ha trovato un riscontro di indiscutibile dignità anche nell’aula del Parlamento. Si è sentita di nuovo la forza dell’unità antifascista, il segno di questa Repubblica nata dalla Resistenza. E’ un dato il cui peso soltanto l’infantilismo politico può sotto valutare o — peggio — irridere. E’ un’acquisizione di portata storica (un’acquisizione da ribadire e riconquistare giorno per giorno, naturalmente, e che sarebbe pericolosissima illusione considerare assicurata una volta per sempre) che dà al nostro paese un volto caratteristico, ne delinea un tratto tipico. La reazione aperta non è passata, non passa. E tuttavia anche di questa costatazione si sono date interpretazioni distorte, mistificanti; si è cercato (e si cerca tuttora) di trarne conseguenze involutive. Occorre andar cauti nello stabilire paralleli con i grandi sussulti democratici che, in precedenti momenti nodali di questo dopoguerra, hanno sbarrato la strada alle avventure anticostituzionali, il ’53, il ’60; occorre riguardare con attenzione all’estate del 1964. I termini in cui i problemi si pongono oggi sono profondamente diversi, le cose sono andate avanti, c’è stato il controllo delle elezioni del maggio ’68, esperienze nuove si sono accumulate. Rifarsi a quei precedenti significherebbe soprattutto trascurare il ruolo decisivo che ha avuto — in questo drammatico dicembre — nel mandare a vuoto ogni intenzione avventuristica, la classe operaia. Sta qui invece la più rilevante peculiarità di quanto è avvenuto. Le velleità reazionarie, i tentativi occulti e palesi di giocare sull’emozione provocata dal tritolo, erano e sono rivolti a frenare, a ricacciare indietro l’impetuoso movimento di lotte operaie, a vanificarne sul piano politico i vittoriosi traguardi. Reagendo a questi piani con pronta intelligenza, e con la medesima compattezza con cui ha condotto gli scioperi sindacali, la classe operaia ha dato nuova conferma di quella sua funzione democratica e nazionale che affonda le radici nella sua partecipazione in prima linea alla Resistenza, e che dette all’atto di nascita della Repubblica un senso avanzato e progressivo. Oseremmo dire che questa riconferma è tra i fatti di maggior peso dell’attuale fase politica italiana, coerente coronamento di un’aspra stagione di lotte. Ma se questo è il significato profondo di quanto è accaduto, appare in tutta la sua inaccettabile luce lo sforzo cui ora si assiste di dare invece un risvolto moderato alla chiara espressione di volontà democratica delle masse; di imbrogliare le carte per trarre, dalla risposta che il paese ha dato alle minacce anticostituzionali, conseguenze neocentriste; di dar spazio e soddisfazione, insomma, alla complessa e subdola manovra socialdemocratica. E’ infatti oggi che si tenta di dare una prima applicazione concreta alle prospettive per le quali fu compiuta, nella scorsa estate, la scissione tanassiana-ferriana. Prospettive pericolose, come fu subito osservato; e la vocazione socialdemocratica alla rottura e al disorientamento delle masse lavoratrici ha già avuto modo di esprimersi durante le lotte autunnali col reiterato ostacolo alle lotte stesse e addirittura con l’esplicito (e inascoltatissimo) «no» allo sciopero generale nazionale. Oggi non sorprende che, a suo modo e per i suoi fini di governo e di divisione, la socialdemocrazia abbia tentato e tenti di trar partito anche dalla tragedia milanese. La manovra appare per il momento arenata. Il rifiuto socialista di cedere al ricatto di destra e di fare «il quadripartito delle bombe» ha intralciato ai socialdemocratici l’agognata strada delle poltrone ministeriali: con tutto ciò che l’evento comporterebbe per l’equilibrio politico italiano. Non è dà dimenticare che quando nel ’64 Pietro Nenni presentò come gesto patriottico e democratico, di fronte allo spauracchio «golpista», il suo cedimento alle pressioni dell’ala più conservatrice della DC, egli in realtà aprì la strada a un processo involutivo che si concluse con la fine miseranda di tutta la sua lunga operazione politica. Oggi chi è tornato ad accarezzare idee «golpiste» — dentro o fuori i confini — è stato comunque prontamente disilluso: non da un ibrido schieramento conservatore, che non a caso Mauro Ferri vagheggia di estendere fino ai liberali; bensì, molto semplicemente, dalla forza delle masse. Dunque lo sbocco della crisi politica italiana è da ricercarsi nella direzione che le lotte stesse sono venute indicando, cioè affrontando con radicali riforme i nodi portati alla luce con tanta evidenza dal movimento degli scioperi: dalla casa alla sanità, dal sistema tributario alla scuola. E’ sulla base di queste esigenze, in un'quadro così largamente influenzato dall’accresciuto peso politico delle classi lavoratrici, che il problema del governo può essere posto concretamente, non già con la ricerca di formulette e meno che mai con appelli da unione sacra che in realtà nascondono (e neanche tanto) i consueti obiettivi anticomunisti, e soprattutto tendono a ricostruire il quadro politico adatto per le preventivate «reazioni del sistema» alle conquiste operaie. Quasi dovesse trattarsi di reazioni fatali, cui sarebbe a priori inutile opporsi, e che anzi sarebbe necessario favorire e gestire. Errore e illusione, anche questa. Non soltanto perché i lavoratori e le loro organizzazioni sono ben decisi a non farsi sorprendere dalle manovre volte a ritogliere loro le conquiste raggiunte, ma soprattutto perché si sono garantiti — nel contesto medesimo dei contratti — la necessaria libertà di sviluppo articolato delle lotte: proprio per far fronte, con le nuove forme di rappresentanza, coi nuovi poteri di controllo, ai ben noti processi con cui il padronato capitalistico tende, nel cuore del processo produttivo, a riassorbire i miglioramenti. Dunque sia sul generale piano politico sia nei punti più ravvicinati dello scontro di classe, chi sta operando per respingere all’indietro la situazione, mistificando il clima creatosi nel paese dopo gli attentati e ridando vita per questa strada a un quadripartito di centro-sinistra, non avrà davvero vita facile. Tuttavia tale sforzo è in atto, occorre esserne consapevoli, così come sono in atto iniziative molteplici per determinare uno stato di tensione sul quale poi far leva. La manifestazione più vistosa, e più odiosa, di tali intendimenti è l’ondata repressiva scatenata in tutto il paese, che colpisce indiscriminatamente, coi pretesti più diversi e a evidente scopo intimidatorio e diversionistico, militanti di sinistra. Quanto più sembra procedere con difficoltà e trovarsi avvolta in contraddizioni l’inchiesta che — sola — potrebbe tranquillizzare l’opinione pubblica, individuando senza ombra di dubbio gli autori materiali e i mandanti dell’esecranda strage di Piazza Fontana; quanto più risultano evidenti il danno provocato dalla unilateralità delle indagini e la confusione derivata dalla fretta; quanto più non si è in grado di dare spiegazioni adeguate di eventi assai inquietanti e oscuri, come quelli che hanno condotto alla morte l’«anarchico individualista» Giuseppe Pinelli; tanto più polizia e magistratura appaiono impegnate in un’autentica caccia alle streghe, che punta sui «reati» di opinione e adopera spregiudicatamente gli articoli purtroppo superstiti del codice fascista. Da Genova a Pontedera, da Milano a Napoli, da Roma alla Sicilia, si moltiplicano fermi, arresti e denunce di operai, sindacalisti, studenti, membri di partito e senza partito, aderenti o no a gruppi «extraparlamentari», dall’«Unione marxista-leninista» a «Potere operaio». Si rispolverano episodi vecchi di mesi, si formulano cervellotiche accuse di «cospirazione» e «sedizione», si operano sequestri e perquisizioni illegittime, si negano i diritti costituzionali di associarsi, di esprimere le proprie idee, di far propaganda scritta e orale. Pur nella differenza — spesso totale — di opinioni e di metodi di lotta che ci divide da alcuni dei gruppi presi particolarmente dì mira dall’apparato repressivo, scorgiamo in questa ondata di arbitrii polizieschi un disegno politico preciso, che interessa tutte le forze autenticamente democratiche. La lotta contro le repressioni, in difesa delle libertà elementari del cittadino (ivi compresa la sacrosanta libertà di proclamarsi rivoluzionari e di far propaganda rivoluzionaria), in sostegno dei diritti inalienabili della stampa, è un dovere preciso al quale certo non ci sottrarremo. Quando vediamo il direttore di un giornale condannato a una pesante pena e trattenuto in prigione per aver pubblicato le proprie idee; quando vediamo altri giornalisti denunciati per lo stesso motivo (e — di questi tempi! — è stato contestato loro perfino di aver stampato qualche parolaccia); e quando vediamo andarsene tranquillamente assolti o condannati a pene irrisorie e per di più subito ridotte con il condono, i responsabili della strage tremenda del Vajont, ebbene non si può non essere spinti a serie considerazioni sul comportamento di certi «corpi separati» delle istituzioni statali. | |
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