Area della trascrizione e della traduzione metatestualeTrascrizioni | Trascrizione Non markup - manuale o riveduta: [didascalia p.5: Mario Alicata venne eletto sindaco di Melissa all’indomani della lotta (ritratto di Renato Guttuso, 1941) ] [riquadro p. 6] Razionalismo «Abbiamo il dovere di tentare tutti i mezzi per far intedere alle masse la ragione » (da una dichiarazione del ministro degli Interni Restivo, riportata da Mario Missiroli sul Messaggero). Pudore «Sul piano della forza — ma è una parola che pronuncio con ritegno e amarezza — lo Stato ne ha fin troppa » (da una dichiarazione del ministro degli Interni Restavo, riportata da Mario Missiroli sul Messaggero). [tondo] Rinascita [corsivetto] Venti anni fa, il 29 ottobre 1949, al culmine di un grande movimento di lotta contro il latifondo e di occupazioni di terre, tre braccianti e contadini poveri — Angelina Mauro, Francesco Nigro e Giovanni Zito — furono uccisi a Melissa, nel feudo Fragalà, da una polizia ancora una volta posta al servizio della conservazione di un ordine sociale basato sull’ingiustizia e sulla sopraffazione. Non fu il solo eccidio, quello, compiuto per contenere e soffocare un moto che scuoteva nel profondo le regioni meridionali: a Montescaglioso, a Lentella, a Torremaggiore si era già pagato o si sarebbe pagato di lì a poco un altro tragico tributo di sangue al riscatto dei diseredati. Ma Melissa, per una serie di circostanze che anche qui vogliamo esaminare, finì per assurgere a simbolo di una fase storica, segnò un punto di rottura, rappresentò una svolta, impose un cambiamento dì qualità all’indirizzo delle classi dominanti che avevano avuto nel successo elettorale del 18 aprile 1948 la loro grande rivincita contro la Resistenza. Quale è stata la lezione di Melissa? Su questo tema abbiamo voluto aprire una discussione con alcuni dei compagni che, in diversi settori di lavoro, sono oggi impegnati sui problemi contadini e meridionali. Non abbiamo dunque voluto restare sul solo terreno della rievocazione, ma abbiamo voluto affrontare una discussione che, alla luce di quell’avvenimento storico, sollevi i problemi che sono andati maturando in questi venti anni nel Mezzogiorno e nelle campagne italiane e che impongono una riflessione approfondita sullo stato e sulle prospettive attuali del movimento operaio. [tondo] Reichlin A venti anni da Melissa osservando il panorama del Mezzogiorno, sarebbe facile abbandonarsi alla denuncia. I fatti parlano con una eloquenza straordinaria. Nell'ultimo anno l'emorragia degli uomini ha superato le nascite e così, per la prima volta nella storia recente, la popolazione meridionale è diminuita in assoluto; lo stesso apparato industriale dopo tanto parlare di «industrializzazione» è diminuito, rispetto a quell'epoca, in termini assoluti in Calabria, in Abruzzo, in Lucania, mentre nel complesso è diminuita la percentuale dell'industria meridionale rispetto a quella nazionale. Il Mezzogiorno si è caratterizzato sempre di più - come osservava Saraceno a Bari - come un «bacino di mano d'opera» al servizio del resto dell'Italia e dell'Europa. In sostanza credo si possa affermare che siamo arrivati ad un punto in cui è in causa l'integrità fisica, umana, culturale, di una intera comunità. Ma basta la denuncia? Il primo problema che vorrei porre è questo: da una denuncia così forte, non viene fuori l'idea dei venti anni perduti? E che quella lotta, quel sacrificio, quel sangue, furono inutili? Questo è il primo problema a cui noi dobbiamo rispondere. Si può rispondere osservando che, senza dubbio, in questi venti anni, il Mezzogiorno è profondamente mutato, e sostenendo, ben a ragione, che tutto ciò che è mutato nel Mezzogiorno è fondamentalmente uscito dal movimento popolare di cui noi siamo gran parte. Questo è vero. Si pensi alle grandi lotte popolari per l’industrializzazione e le riforme, alle lotte per l’imponibile di mano d’opera che hanno cambiato la faccia di intere zone, alla spinta contadina per la terra e alla loro immensa fatica per le trasformazioni agrarie. Ma ecco allora l’altro interrogativo. A questa affermazione — senza dubbio sacrosanta — si può replicare dicendo: sì, senza dubbio il Mezzogiorno è cambiato in questi venti anni; ma ciononostante oggi è più emarginato, oggi il suo ritardo, rispetto al resto del Paese, è più grande. Io pongo questo problema perchè sento che un simile interrogativo pesa sulla coscienza di certi strati della popolazione e dell’opinoine pubblica. E anche certi settori del movimento, rispetto a venti anni fa, hanno perso qualche cosa dal punto di vista della sicurezza, della fiducia nella possibilità di cambiare le cose. Io ritengo invece — e questa è la questione essenziale su cui vorrei aprire il dibattito — che, in realtà, questo ragionamento non sia giusto. Il Mezzogiorno è più emarginato? Il suo ritardo è più grande rispetto a venti anni fa? E’ una mezza verità. Cioè è vero se ragioniamo in termini di pura economia, ma è falso se ragioniamo, come dobbiamo, in termini storici, politici, sociali, cioè in termini di lotta. Il problema vero quindi è questo: in che misura, e perchè oggi le condizioni della lotta per il riscatto del Mezzogiorno sono potenzialmente più favorévoli? In che senso oggi possiamo porci obiettivi più avanzati rispetto a quelli del passato?
Caleffi Io credo che l'eccidio di Melissa rappresenti un punto di riferimento importante per poter affrontare, oggi, il discorso sul Mezzogiorno. A Melissa arrivammo con un grande movimento popolare per la conquista della terra e per la rinascita del Mezzogiorno, che si sviluppò contemporaneamente a una serie di grandi scioperi di salariati, braccianti e mezzadri nell’Italia centrale e nella Valle Padana. Quelle lotte di Melissa, della Calabria, del Mezzogiorno spezzarono un regime fondiario arcaico, ma indicarono anche a tutta la classe operaia italiana la strada della lotta, dopo il 18 aprile del ’48, dopo la rottura dell’unità antifascista e dell’unità sindacale. Proprio l’eccidio di Melissa rappresentò il punto di rottura della resistenza padronale e governativa al grande movimento per la terra e per la rinascita del Mezzogiorno ed aprì la strada all’approvazione delle leggi silana e stralcio di riforma agraria; e determinò una svolta all’interno delle stesse forze padronali e governative. Le leggi stralcio di riforma agraria aprirono infatti uno squarcio nel regime fondiario e agrario e cercarono di dare una risposta, sia pure limitata e distorta, alla esigenza dei lavoratori agricoli di avere un pezzo di terra da lavorare, che significava garanzia del pane e anche più libertà, e affermazione dei valori della Resistenza. Vitale Vorrei ricordare come, prima di Melissa, la DC si sia presentata in politica agraria con la legge Segni del ’47, di acceleramento della bonifica, con una legge cioè che era la continuazione della politica fascista di bonifica e trasformazione fondiaria affidata a consorzi di grossi proprietari terrieri, a consorzi di bonifica. Melissa rappresenta un colpo di rottura. Le leggi di espropriazione vengono dopo Melissa. Ma c’è un altro fatto nuovo: enti pubblici che assumono la direzione dello sviluppo economico in agricoltura. Tuttavia, allora, la maggioranza dei contadini non partecipò a quel movimento. Chiaromonte La lotta si concentrò nelle zone di latifondo traizionale. Vitale Noi non avevamo legami seri col resto del mondo contadino, laddove altri tipi di contadini avrebbero douto essere i protagonisti. E dico questo perché, secondo me, questo problema è, ancora oggi, in parte, un problema aperto nel momento in cui parliamo di nuove lotte per la trasformazione. Esposto Melissa ebbe un grande valore - e con Melissa tutto il movimento contadino per la terra, in quel periodo del ’49-’5O — come una specie di trasferimento dei valori della Resistenza nel Mezzogiorno. I contadini meridionali non avevano potuto partecipare, per condizioni oggettive, a questa guerra popolare e contadina che fu nella Valle Padana la condizione essenziale della base di massa della vittoria antifascista del 25 aprile. Dobbiamo ricordare questa circostanza, per fissare i valori di questo grande moto che ebbe certo in Melissa il momento più elevato, ma che ebbe già prima di Melissa alcuni morti: i morti della battaglia del Fucino, di Ortucchio, la stessa eroina che Grieco ricorda dedicandole il suo primo libro, Giuditta Levato. E poi gli altri morti. Questo movimento fu l’avanguardia del movimento dei contadini poveri, e non riuscì a collegarsi con certi strati di contadini già più vicini alle condizioni dell’azienda agraria. Nel Mezzogiorno questo viene più tardi, e anche in conseguenza delle vittorie di Melissa e delle riforme. Un approfondimento di questo tema comporta anche una certa riconsiderazione dei giudizi che il movimento, allora, dava del carattere della rivoluzione italiana. Allora non era chiaro che la nostra rivoluzione aveva carattere democratico e socialista insieme. Ci fu qualche incertezza su questa questione.
Reichlin Sì, è vero. Però bisogna dire anche con estrema chiarezza che il gruppo dirigente del partito che guidò quel moto (rileggiamo certi scritti di Amendola) sapeva invece benissimo che non si trattava del compimento della rivoluzione democratico-borghese; ma che il nodo che noi andavamo ad aggredire, cioè il nodo dell’arretratezza, era un modo di essere del capitalismo italiano e dello Stato italiano. Non era un’altra cosa. Perciò noi parlammo un linguaggio che fu nazionale e di classe nello stesso tempo. Perciò i moti meridinali furono diretti dal partito comunista e interessarono gli intellettuali e la classe operaia. Esposto Le idee del nostro partito furono certamente un punto di riferimento essenziale; fu la espressione concreta del mantenimento dell’unità delle forze popolari per la rinascita del Mezzogiorno in una visione di generale sviluppo democratico e anche di applicazione della Costituzione repubblicana. Le forze fondamentali — in questo caso i braccianti e i contadini poveri — davano il contributo che loro spettava di dare. Il partito comunista attuava in concreto l’insegnamento di Gramsci nel senso di funzione dirigente della classe operaia italiana che assumeva su di se tutti i problemi della società nazionale italiana e in primo luogo la questione meridionale come caratteristica della, questione agraria italiana. Reichlin Questione meridionale però come rivoluzione democratico-borghese ancora non compiuta, ma come momento della battaglia democratica e socialista. Esposto Questa azione introdusse nelle forze reazionarie un elemento di frattura; e i grandi agrari, i grandi proprietari terrieri meridionali furono in concreto abbandonati dalle forze che venivano assumendo il pieno controllo della direzione politica del paese. La DC tentò allora di rompere l’unità popolare nel Mezzogiorno, anche con le leggi di riforma fondiaria e con la loro applicazione. Ma proprio attorno a queste leggi e alla loro applicazione si sperimentò una caratteristica fondamentale del nostro movimento: quella di lottare per certe leggi, strappare alcuni risultati, lottare per l’applicazione e la trasformazione delle leggi strappate, e così andare avanti. Valenza Gli interrogativi che ha posto Reichlin sono giusti, legittimi. Io credo che oggi il movimento meridionalista di massa sia in forte ripresa, e di lotta e di coscienza, soprattutto nella sua componente operaia. La politica delle classi dominanti è in crisi irrimediabile nelle campagne, ma non meno nelle città meridionali; la rottura del vecchia blocco agrario operata dal moto contadino di venti anni fa, è risultata, in fondo, irreversibile, in quanto le classi dominanti non sono riuscite a creare nuovi e stabili equilibri conservatori puntando soprattutto sulla espansione del sistema urbano meridionale. Le lotte operaie di questi ultimi tempi - un momento elevato e di unificazione fra Nord e Sud si sta raggiungendo proprio in questi giorni — dimostrano che il disegno di apporre alla forza e alla riscossa operaia del « triangolo » le città terziarie del Sud, è un disegno destinato al fallimento. Conosciamo queste città che sono cresciute in modo patologico sotto la spinta della speculazione edilizia, senza un solido sviluppo industriale e fuori di una generale riforma agraria, per cui Torino esplode perchè la città non riesce a seguire l’espansione produttiva e l'afflusso degli emigranti, e Napoli esplode perchè la speculazione edilizia è surrogatoria della industrializzazione. Queste città di consumo avrebbero dovuto rappresentare la base del nuovo sistema di potere con cui le classi dominanti hanno cercata di sostituire, l’equilibrio del vecchio blocco agrario che è stato spazzato via dal moto contadino contro il latifondo. In questo disegno, la classe operaia doveva rimanere isolata non solo dalle campagne dissanguate dall’emigrazione, ma dal complesso stesso della città e rimanere, in un disegno di disarticolazione sociale, come sommersa dai ceti piccolo-borghesi e sottoproletari. Noi abbiamo invece a Napoli, e più in generale nelle città del Mezzogiorno, lo sviluppo di un potente movimento unitario della classe operaia, che supera già, per estensione e combattività, quello che si è avuto contro le gabbie salariali. Allora, constatammo un limite che era appunto quello delle fasce di sottosalario e di sottoccupazione. Oggi abbiamo invece un risveglio notevole non solo in questi settori (a Napoli il 90% dell’industria privata è costituita da piccole e medie industrie) ma anche nei settori del commercio, della distribuzione e negli stessi servizi privati. Mi sembra che si stia realizzando una saldatura fra il Nord e il Sud urbano. Anche se si tratta di vedere quali sono i limiti di questa saldatura, non solo fra Nord e Sud ma anche fra il sud urbano e operaio e il sud bracciantile, contadino. Chiaromonte Il movimento di occupazione delle terre che portò a Melissa, Montescaglioso, ecc., non fu certo una novità nella storia del Mezzogiorno. Movimenti di questo tipo si erano avuti qualche anno prima, nel 1944-'45, per non parlare di quelli dell'altro dopoguerra. E, in un certo senso, le spinte oggettive erano state le stesse. Eppure il movimento che portò a Melissa presenta una forte e netta differenza rispetto a tutti gli altri precedenti. La differenza sta, secondo me, nel suo carattere non spontaneo, ma organizzato e democratico. Prima di Melissa, noi abbiamo una grande e organizzata campagna per la costituzione di Comitati della terra in centinaia e centinaia di Comuni meridionali. In molti di questi Comuni, forse nella grande maggioranza, non esisteva prima alcuna organizzazione democratica, e i Comitati della terra furono la prima organizzazione popolare e democratica che sorgeva. Ci fu dunque, per questi Comitati della terra, una grande campagna nella primavera del '49, intorno ai cosiddetti « mandati »: Comitati della terra e « mandati » per l’Assemblea nazionale dei Comitati della terra che si tenne a Modena nel marzo ’49. E dal Mezzogiorno — questi dati sono impressionanti — la Puglia mandò a Modena 177.000 « mandati », la Calabria 117.000, la Campania 161.000, la Sicilia 69.000, la Lucania 39.000: un grande moto democratico, e di democrazia diretta. A questa costruzione democratica di tiponuovo dettero il loro contributo centinaia di giovani intellettuali e operai, inviati nelle campagne da Napoli, dalle altre città meridionali dal Nord. Da questa costruzione consapevole ebbe origine il movimento di massa per la terra. L'altro punto, già ricordato, riguarda i riflessi politici del movimento. Questo movimento avvenne dopo la rottura dei governi di unità nazionale, dopo il 18 aprile, dopo la rottura dell’unità sindacale. Aggiungo di più: dopo l’incrinatura grave che si verificò nell’ambito delle forze di sinistra, quando, dopo il 18 aprile, si sciolse il Fronte democratico popolare, e il Movimento dei consigli di gestione entrò in crisi. Punto di riferimento di unità politica delle forze di sinistra restò questo movimento dei Comitati della terra (diretto da Ruggero Grieco) e quello per la rinascita del Mezzogiorno. In un certo senso, la cosa è paragonabile, per importanza, a quello che ha significato, in questi anni di centrosinistra, il mantenimento dell'unità sindacale nella CGIL quando i partiti della classe operaia erano schierati su posizioni politiche diverse. II movimento unitario per la terra e per la rinascita del Mezzogiorno fu momento importante, e per alcuni aspetti decisivo, per sconfiggere lo « scelbismo », e per respingere il tentativo autoritario della legge truffa nel 1953: per mantenere cioè aperta, in Italia, la via dell’avanzata democratica e socialista. Mi sembra abbastanza evidente d’altra parte, che quell’inizio di riforma agraria nel Mezzogiorno sia stato un momento essenziale dell’allargamento del mercato interno in Italia, in quell’epoca, e della ripresa industriale. Tutti gli studi in proposito confermano questo giudizio. E qui sorge la questione, posta da Reichlin. Per chi abbiamo lavorato? Per il re di Prussia? A questo proposito, vorrei ricordare che la riforma agraria è una delle condizioni essenziali per uno sviluppo economico non aleatorio, diverso e nuovo: per questo, fra l’altro, ci battiamo anche oggi per una tale politica. D’altra parte, la lotta di allora non valse ad imporre una riforma agraria generale, ma solo uno stralcio. Più in generale, il movimento per la terra servì a respingere i tentativi reazionari, ma si svolse tuttavia in un quadro politico generale di restaurazione capitalistica. Anche a questa luce bisogna vedere, secondo me, la questione del carattere democratico e socialista della battaglia meridionalistica di quegli anni. Certo, non si può dire che ci fosse, allora, chiarezza in tutta il partita: ma il pensiero dei compagni che dirigevano il movimento non fu equivoco. Reichlin ha ricordato gli scritti e i discorsi di Amendola. Io voglio ricordare ancora quelli di Mario Alicata. Tornando alla questione degli effetti e dei risultati, io non svaluterei quello che è accaduto nelle zone dove c’è stata la riforma agraria. Anche se si sono avuti fenomeni contraddittori, è il volto stesso di quelle zone che è cambiato: si pensi a cosa era prima di allora il Metapontino — una landa desolata, quei baracconi dove vivevano come bestie i salariati —, il Fucino, lo stesso Crotonese. Seconda cosa da non sottovalutare: una diffusione indotta di aziende contadine nel Mezzogiorno. Su questo aspetto varrebbe la pena di approfondire il discorso economico e politico. E ancora il fatto, politico ed economico insieme, di aver dato un colpo mortale a un certo tipo di classi dirigenti agrarie. Il blocco industrialiagrari (di cui parlava Gramsci) era già in crisi profonda con la caduta del fascismo (e forse durante lo stesso fascismo). Tuttavia, se non c’è la lotta popolare, se non c’è uno spintone dal basso, è molto difficile pensare che, siccome era «interesse» del capitalismo monopolistico non avere più un certo tipo di regime fondiario, questo sarebbe sparita automaticamente. E, infine, l’elevamento della coscienza politica di grandi masse di lavoratori della terra del Mezzogiorno. Questo ha avuto un effetto nelle regioni del Sud: ma ha avuto anche risultati assai positivi (non dimentichiamolo!) nei centri industriali del Nord (il ruolo e il posto degli emigrati meridionali nelle battaglie politiche e sindacali). Reichlin Arrivati a questo punto, io ripropongo, sulla base delle cose dette da voi, il problema di oggi. Secondo me, a questo punto deve venir fuori, con maggiore chiarezza, quello che è il punto essenziale di novità e il compito fondamentale che, a mio parere, ci sta oggi di fronte nel Mezzogiorno. Schematizzando, mi pare che si possa affermare che veramente sono finite le due Italie. Erano finite anche prima ma adesso i rapporti di integrazione sono molto più stretti. Quale è il punto che voglio mettere in rilievo? Io vorrei partire da un dato strutturale e osservare questo: il modo stesso come il capitalismo italiano ha utilizzato, in questi venti anni, il Mezzogiorno ci aiuta a capire come sia possibile rovesciare dialetticamente questa situazione. In poche parole, si può ricordare che la espansione economica di questi venti anni è stata basata sul basso livello dei salari e dell'occupazione il quale, a sua volta, consente una forte esportazione che vive prevalentemente sul minor costo del lavoro italiano. Una linea quindi costituita a vantaggio dei banchieri e degli industriali e sulle spalle degli operai, degli emigrati — all'estero e all’interno — degli inoccupati e dei disoccupati, dei contadini, di tutto ciò che viene nascosto dal limite incredibilmente basso della popolazione attiva; sulle spalle, in modo particolare, del Mezzogiorno. Ma se questo è vero, noi dobbiamo dare coscienza a tutto il movimento del fatto che oggi sono altrettanto vere due cose: la prima è che una qualsiasi modifica nella condizione del Mezzogiorno provoca effetti assai superiori agli effetti pur così profondi provocati dalle lotte di Melissa (sono completamente d'accordo con i compagni che ne hanno messo in rilievo il significato e la portata). Ecco allora la questione che voglio sottolineare: meno che mai oggi la lotta meridionale è fuori gioco. Qui sta la risposta al quesito che ponevo all’inizio circa la questione dell’emarginazione e la necessità di affrontare il problema non da un punto di vista puramente economico, ma da un punto di vista strutturale, sociale, di lotta. Ogni modifica nella situazione meridionale, ogni lotta meridionalista, provoca effetti di gran lunga più importanti e decisivi nell’organismo vitale del capitalismo italiano. La FIAT non può più permettersi di avere l’atteggiamento di benevola neutralità che ebbe allora verso il movimento contadino. La seconda questione (e qui vengo ad alcune cose dette da Valenza) è che, se questo è vero, il ruolo delle masse povere e delle masse contadine meridionali, e non soltanto il ruolo della classe operaia, oggi è potenzialmente maggiore di quello del passato. Valenza Io non l'ho negato. Ho semplicemente osservato come stanno andando le cose. Oggi la classe operaia si sta battendo con più forza. Reichlin E’ così, ma dobbiamo stare attenti a non arrivare alla conclusione — a cui del resto Valenza non arrivava — che esiste una situazione oggettiva in cui non sia possibile ricollegare strettamente le masse della campagna alla classe operaia meridionale. Valenza Questo è il problema. Reichlin Detto questo, veniamo all'oggi. Non è affatto vero che nel Mezzogiorno non si stia lottando, non solo nelle città ma anche nelle campagne. E’ vero il contrario. Però domandiamoci — per ritornare a Melissa — se oggi non cominciano ad esserci nel Mezzogiorno le condizioni oggettive per avere un movimento che abbia quella carica, quella forza, quella estensione. Se è così — e io credo che sia così — che cosa fa ostacolo al suo dispiegarsi? Dove sono i nostri ritardi? Quale è la verifica critica che dobbiamo fare? Chiaromonte Vorrei dire qualcosa su questo problema della maggiore o minore emarginazione del Mezzogiorno. Sono d’accordo con quello che diceva Reichlin. Una lotta che raggiunga oggi successo nel Mezzogiorno (per l’occupazione, le trasformazioni, una diversa politica degli investimenti) è più incisiva politicamente ed economicamente delle lotte contro il latifondo tradizionale. Ma esistono le condizioni per uno sviluppo nuovo e impetuoso del movimento? Anch’io credo di sì. Innanzitutto per ragioni oggettive. Ci troviamo oggi, a mio avviso, in una situazione diversa da quella degli anni del « miracolo ». Allora ci fu uno svuotamento dal Mezzogiorno (e dalle campagne), e tuttavia ci fu un ritmo di espansione dell’occupazione industriale che era molto alto. Oggi la gente continua ad emigrare, ma sempre più alla disperata, perchè il ritmo di espansione dell’occupazione industriale è quello che è. Reichlin Ma il problema si pone oggi sempre più in termini europei, perché il limite della emigrazione non è più nel Nord Chiaromonte E' vero. Ma anche in termini europei il ritmo di espansione dell’occupazione industriale è diminuito. Nell’ambito delle forze di sinistra si va allargando la consapevolezza che il tipo di sviluppo economico attuale non è in grado di affrontare i due temi di fondo dell’occupazione e del Mezzogiorno. Questi, secondo me, sono i punti di partenza della nastra azione. Bisogna dare molta importanza alle lotte che ci sono state, negli ultimi tempi. Le lotte dei braccianti sono state un fatto assai rilevante: e il loro peso va al di là delle rivendicazioni sindacali. Ci sono state e ci sono altre lotte, di coloni, di fittavoli, di coltivatori diretti. Va avanti, soprattutto in alcune regioni, il movimento delle conferenze agrarie. Partendo dalle conquiste dei braccianti, dal movimento delle conferenze agrarie, dalle lotte che, come ad Irsina, scuotono anche il Mezzogiorno in un modo che è nuovo, si può fare avanzare, nelle campagne e in tutto il Mezzogiorno, la democrazia. E qui torno, ancora per un momento, al problema degli strumenti di democrazia diretta. Il movimento per la terra degli anni ’49-’5O fu, come abbiamo detto, un grande fatto di organizzazione e di democrazia. Perchè, nel corso degli anni, le posizioni acquisite, proprio sul terreno degli strumenti di democrazia diretta, si sono venute logorando? E’ un problema complesso, e la riflessione su di esso può riguardare anche le lotte di oggi, e i loro obiettivi, e i loro sbocchi. Una riflessione su questo punto: gli strumenti di democrazia diretta, che le masse popolari riescono a conquistare e costruire, nel corso di un movimento e di una lotta, come possono «durare» e diventare strumenti permanenti? Sembra a me che l’esperienza del movimento per la terra del ’49-’5O ci suggerisca due considerazioni. La prima riguarda il valore insostituibile degli strumenti organizzativi a carattere permanente delle masse lavoratrici: penso ai sindacati, alle associazioni contadine, alle cooperative, ecc. La debolezza di tali strumenti (che non riuscimmo a costruire e consolidare, in tante parti del Mezzogiorno) fu certo alla base dell’esaurirsi degli stessi strumenti di democrazia diretta. La seconda considerazione riguarda l’avanzamento generale della democrazia in tutti gli strati della società e in generale: al di fuori, o senza questo avanzamento (e al di fuori anche di una direzione politica del paese, sempre più democratica e avanzata) conquiste di democrazia diretta difficilmente potrebbero resistere e « durare ». Le masse popolari e contadine riuscirono, allora, a costruire strumenti nuovi di democrazia diretta, nel Mezzogiorno: ma nello stesso periodo altri strumenti come i consigli di gestione andarono in crisi, l’unità sindacale si rompeva, si era nel pieno di un’offensiva conservatrice che bisognava spezzare. Caleffi E’ mia opinione che noi facemmo molta fatica e impiegammo molto tempo a capire i fenomeni nuovi che, dopo l’applicazione contrastata delle leggi di riforma agraria, venivano avanti nell’agricoltura meridionale, in relazione al tipo di sviluppo economico nazionale. Facemmo fatica cioè ad aggiornare rapidamente la nostra politica di riforma agraria. Arrivammo soltanto intorno al 1956 — attraverso un dibattito abbastanza duro, complesso e lungo — a formulare una strategia di riforma agraria che in larga parte è ancora oggi valida. E la formulammo tenendo conto del carattere monopolistico dello sviluppo dell’economia nazionale, dei processi di integrazione tra industria e agricoltura, dello sviluppo capitalistico dell’agricoltura, ecc.: non solo per i problemi fondiario o contrattuale, ma anche per i problemi che riguardano il mercato e l’industria. All’interno di questa strategia non emergono tuttavia, con chiarezza, per molto tempo, due problemi: il problema salariale (il sottosalario che è sottosalario meridionale, ma che è fondamentalmente sottosalario economico, bassa remunerazione del lavoro contadino), e della sottoccupazione (non solo quella evidente, bracciantile, delle cento giornate all’anno, ma la sottoccupazione colonica e contadina). In verità, nel corso degli ultimi anni, noi abbiamo affrontato tali problemi quando abbiamo cercato di collegare meglio le azioni rivendicative per una più alta remunerazione del lavoro e per la difesa dell’occupazione, all’azione per modificare le strutture fondiarie e produttive, e quindi per un certo tipo di intervento pubblico, e per gli strumenti di tali interventi. Abbiamo cioè affrontato il problema che si chiama: potere sindacale e potere contadino. Potere sindacale che va esercitato e costruito all’interno delle aziende agrarie per affrontare i problemi della trasformazione agraria, portando a maturazione l’esigenza di estromettere il padronato. Potere contadino che va esercitato nella zona agraria per la elaborazione, unitamente con le altre forze contadine e operaie, del piano di sviluppo della zona. Qui ritorniamo agli elementi di democrazia diretta. Abbiamo, in questi ultimi anni, la fioritura di nuovi strumenti di democrazia diretta che si propongono il grande tema del rapporto fra elaborazione di massa e programmazione di carattere generale, fra intervento pubblico e strumenti dell’intervento pubblico: pongono cioè il problema della gestione contadina, operaia, popolare, degli strumenti dell’intervento pubblico. Una forte risposta è stata già data dalle grandi lotte. In primo luogo dalle lotte della classe operaia contro le « gabbie », che hanno inciso come un elemento fondamentale nel determinare l’atteggiamento anche nel mondo bracciantile, mezzadrile e contadino verso il sottosalario; e poi una risposta è stata data con le lotte bracciantili e coloniche nel corso dell’estate, che hanno conquistato strumenti di potere interni ed esterni alla azienda che possono essere punti di partenza importanti per tutta la prospettiva che abbiamo davanti. Tuttavia non ritengo che il problema sia ancora risolto, in quanto bisogna affrontare, nella situazione di oggi, il rapporto che intercorre tra lo sviluppo e la costruzione di questi strumenti di potere e quindi l’esercizio del potere bracciantile e contadino nelle aziende e fuori, e la battaglia politica a carattere nazionale. La risposta che bisogna dare passa attraverso il rapporto fra città e campagna, tra la classe operaia e la politica di riforma agraria. Reichlin Sono molto d’accordo con Caleffi. si potrebbe dire che noi avviamo a soluzione il problema del rilancio della lotta per la riforma agraria quando saldiamo occupati e disoccupati, lavoro e trasformazioni; intendo per lavoro sia il problema dell’occupazione, sia quello della remunerazione del lavoro e della valorizzazione del lavoro, problema, secondo me, acutissimo non solo per le fasce più povere, ma anche per i contadini che hanno trasformato. E’ per questa via che la lotta agraria si ricollega alla città e appare chiaramente non solo come un mezzo per lo sviluppo delle zone tagliate fuori dall’industrializzazione ma anche un modo per spezzare l’uso che della campagna e del Mezzogiorno fa fondamentalmente il capitale, e cioè come serbatoi di forza-lavoro, come fornitori di materie prime e di semilavoratori. E’ così che il problema del potere sollevato da Caleffi non si riduce solo a un fatto aziendale o di categoria ma acquista un significato politico e sociale più generale. Esposto Io convengo sulla valutazione che esistono oggi condizioni favorevoli ad uno sviluppo delle iniziative e delle lotte meridionalistiche: sui temi dell’occupazione, del carovita, della salute, delle crisi delle campagne, del sacrificio che dal Mercato Comune viene imposto al Mezzogiorno e alle campagna italiane. Anche la politica agraria comunitaria è il risultato di una imposizione delle forze monopolistiche, e in particolare della industria meccanica, siderurgica, chimica, per utilizzare l’agricoltura in un certo determinato modo anche nei rapporti internazionali, nel commercio estero, eccetera. Di fronte alla formazione della proprietà contadina nel Mezzogiorno, di fronte al progredire mirabile dei nuovi coltivatori, dei vecchi braccianti che sono divenuti imprenditori agricoli non solo nelle trasformazioni ma anche nel modo di organizzazione dell’azienda, di fronte a tutto questo non si può rispondere con la vecchia politica degli enti di riforma. Questa politica è stata battuta ed è profondamente in crisi così da indurre una parte importante dei tecnici e dei funzionari degli enti di riforma a sostenere, anche attraverso il loro sindacato, una riconsiderazione radicale della funzione degli enti di sviluppo e del loro posto nella conduzione dell’agricoltura, in particolare nel Mezzogiorno. Però questa risposta di lotta che c’è nel Mezzogiorno dobbiamo convenire che non è sufficiente allo stato attuale delle cose. Ed io credo che la ragione principale di questa insufficienza sta nel riconoscere che il posto fatto ai problemi agrari, non come problemi di settore ma come problemi della economia e della società nazionali, è un posto improprio, è un posto che rivela l’esistenza, anche nelle forze democratiche, di queste contraddizioni. (Si potrebbe fare un discorso di questo tipo anche per le riviste e i giornali di sinistra). L’attualità dell’insegnamento di Melissa ci può aiutare. Quelle erano lotte di massa, largamente unitarie. Allora, nonostante i limiti che abbiamo ricordato, il ruolo del Mezzogiorno e i problemi dell’agricoltura avevano una chiara significazione sociale, economica e politica nelle forze politiche, nei sindacati, nella società. Credo che dal superamento coraggioso delle contraddizioni di cui parlavo prima si possa trarre grande beneficio. Io sono d’accordo con le considerazioni di Chiaromonte sulla democrazia di base e vorrei fare riferimento specifico ai piani zonali. Qui c’è un elemento chiaro del ritardo. Avevamo ottenuto alla Camera un importante risultato: un impegno che i piani zonali fossero redatti nel 1969. La battaglia per questi piani è battaglia per la democrazia: per il controllo contadino e gli strumenti della politica agraria, per la costruzione di poteri nuovi attraverso i quali imporre questi problemi alla valutazione dei governi, delle forze politiche e della società nazionale. Attraverso questa lotta per i piani zonali si può concretizzare la partecipazione di base delle grandi masse contadine alla programmazione democratica col diretto contributo contadino anche alla trasformazione dello Stato nel processo di costruzione delle regioni. Vitale Vorrei dare una risposta alle questioni che poneva Chiaromonte. Io credo che noi siamo giunti a Melissa sulla base di un lungo allenamento alla lotta contro il padronato agrario: una lotta che, pur acquistando significati ideali diversi, di momento in momento, nella storia del Mezzogiorno, tuttavia aveva fondamentalmente il carattere di una lotta delle popolazioni povere del Mezzogiorno contro il padronato agrario. Tuttavia questa, col passare degli anni, divenne una visione parziale e fu forse alla base di un falso dilemma fra riforma agraria e industrializzazione. Il problema che si poneva sempre più era di saldare questa lotta fra braccianti e contadini poveri contro il padronato agrario con quella contro il capitalismo agrario e contro il blocco di potere della DC articolato su moltissimi strumenti, che nel Mezzogiorno veniva acquistando uno dei suoi centri fondamentali. Direi che c’è una seconda fase della politica della DC dopo Melissa (se non negli anni immediatamente successivi). La DC punta su alcune cose fondamentali: l’esodo dalle campagne, poi il tentativo di aiutare non più e non tanto il grande proprietario come tale, ma l’imprenditore agricolo, poi ancora le leggi a favore dello sviluppo, dell’ampliamento dell’area della proprietà contadina. (Non dobbiamo dimenticare che ci furono 500 e più mila ettari espropriati in base alle leggi Sila e stralcio). Infine, vi è stato un nuovo ruolo degli organi pubblici, un ruolo diretto dell’intervento pubblico, per cui l’ente di riforma acquista, senza la mediazione degli agrari (come era stato nel passato), la direzione della vita economica e produttiva nel Mezzogiorno. Tutto ciò — che in una parola significa sviluppo del capitalismo nell’agricoltura — ci pone problemi nuovi: analizzare per quali canali e per quanti rivoli avviene questa penetrazione, e contrapporre la nostra iniziativa, i nostri strumenti di democrazia di base a tutte le forme della penetrazione monopolistica nelle campagne. C’è una forza motrice che è la lotta salariale, la lotta per riprendere la questione agraria sul tema della trasformazione agraria fondiaria; ma vi sono da affrontare tutti i temi che vengono posti dal rapporto fra grande industria ed economia agricola meridionale. Noi non dobbiamo dimenticare che l’economia agricola meridionale è fortemente correlata all’industria. (Per esempio, quasi il 40 per cento della produzione agricola pugliese è una produzione che non va sul mercato se non passa attraverso l’industria che la lavora e la trasforma). Io credo che non si possa sviluppare la nostra lotta, se non si vedono le implicazioni che la penetrazione del capitalismo nelle campagne ha avuto su tutta l’economia nazionale. Ciò spiega perchè le conferenze agrarie, le associazioni dei produttori, diventano oggi strumenti essenziali di una battaglia per la riforma agraria che investe direttamente la struttura capitalistica e chiama in causa gli strumenti dell’intervento pubblico in agricoltura. Secondo me, il centro della nostra iniziativa deve tornare a essere la questione di piani zonali. Dobbiamo batterci perchè gli enti di sviluppo facciano i piani di zona; piani di produzione; piani che riportino l’industria di trasformazione negli stessi luoghi di produzione e affrontino tutto l’arco dei problemi contadini. Ponendo, in pari tempo il problema del controllo contadino, della gestione dal basso. Questo è il respiro che dobbiamo dare alla questione della riforma agraria oggi se vogliamo rilanciare tutta la lotta contadina nel Mezzogiorno. Valenza Ritengo non facile rispondere alla domanda che poneva Chiaromonte. A mio avviso c’è stata una certa separazione tra la lotta di classe e politica delle città e delle campagne. A impedire la necessaria saldatura hanno influito anche fatti di natura politico-ideologica. Ad esempio, la divisione delle sinistre nel Mezzogiorno, ha coinciso con una sottovalutazione del problema agrario, contadino. Sono venute avanti tesi terzaforziste che hanno avuto un peso anche nel movimento operaio proprio in relazione con questa divisione: la tesi secondo cui il problema meridionale è un problema di industrializzazione e poi anche di razionalizzazione. Le novità positive di oggi stanno, secondo me, nel contenuto e negli obiettivi qualitativamente nuovi della lotta della classe operaia la quale, per il tipo stesso di sviluppo che si è avuto, è portata a porre con forza i problemi non solo della sua condizione nella fabbrica, ma quelli della città e della società. La classe operaia per accrescere o difendere il livello del suo reddito non può limitarsi alla lotta salariale: deve affrontare la questione del carovita e dei prezzi, deve battersi per nuove possibilità di occupazione, ha bisogno di una organizzazione della città che si fondi sulle esigenze dei lavoratori, deve porre il problema di un nuovo assetto urbano che sia capace di superare la contraddizione città-campagna (nel senso che un assetto urbano è impossibile al di fuori di una sistemazione complessiva del rapporto città-campagna). Nello stesso tempo la classe operaia, di fronte alla durezza della lotta e ai tentativi di repressione, sente che deve combattere il rischio dell’isolamento e quindi ricercare gli alleati in una battaglia che ha la prospettiva del potere, cioè di una trasformazione rivoluzionaria della società. In questo esistono oggi condizioni più favorevoli per far assolvere un ruolo decisivo alla classe operaia nel suo complesso e alla classe operaia meridionale in particolare. In questi anni nel Sud sono cambiati i rapporti di forza e si sono create le basi per un movimento generalizzato e unitario che ponga il problema della riforma agraria nella campagna come leva non solo per un nuovo tipo di sviluppo, ma per nuovi rapporti di potere e per una trasformazione rivoluzionaria complessiva della direzione di quello che noi chiamiamo il blocco storico. Reichlin Che cosa è cambiato nella classe operaia meridionale che consente di creare un legame più organico tra la sua lotta e quella contadina? Ritorniamo per un momento alla analisi che faceva Gramsci delle città meridionali come strumenti di direzione del Nord nei confronti della campagna. Io ritengo che questo giudizio di Gramsci oggi debba essere modificato proprio in rapporto alle modificazioni avvenute nella classe operaia meridionale. Quel giudizio era valido quando la classe operaia meridionale era qualche cosa di molto diverso da quella del Nord non solo quantitativamente ma qualitativamente. Il fatto è che oggi, soprattutto dopo la rottura delle gabbie salariali e dopo i nuovi insediamenti industriali, la classe operaia meridionale si è parecchio unificata con quella del Nord; e nel momento in cui avviene questa relativa unificazione, salta il ruolo della città meridionale come strumento subalterno di direzione da parte del Nord, si rompono i precedenti equilibri fra città e campagna. Caleffi A me Pare che l'atteggiamento dei braccianti, dei coloni e di grandi masse contadine verso obiettivi avanzati di potere sindacale e di potere contadino, mettono in evidenza che vi è una presa di coscienza da parte dei lavoratori agricoli della impossibilità di risolvere, all’interno dell’attuale tipo di sviluppo, i problemi che riguardano la stabilità del lavoro, il salario, i problemi della democrazia e della libertà. Abbiamo oggi una crisi di credibilità, da parte dei lavoratori, sulle possibilità dell’attuale politica comunitaria e della attuale politica delle forze padronali e governative, di dare risposte, anche parziali, ai problemi che nascono dalla condizione di vita dei braccianti e contadini poveri. Direi che la crisi della politica agraria della DC e in generale della politica del padronato agrario e monopolistico, è talmente profonda che ha agito sulla coscienza dei lavoratori e ne ha modificato l’atteggiamento. C’è una presa di coscienza, nuova, che ha provocato anche una revisione critica nei sindacati; abbiamo qui la radice di un processo di revisione critica delle diverse politiche rivendicative e strutturali che facevano capo ai segretari della CISL e della stessa UIL e abbiamo nel contempo, all’interno stesso dei partiti che oggi sono al governo e che appoggiano l’attuale concezione governativa, un processo di revisione critica e quindi di ricerca di un’altra politica. Oggi i braccianti, i coloni, che hanno conquistato quelle posizioni di potere nella lotta dell’estate scorsa, affidano a quegli strumenti più poteri di quelli definiti nei contratti; cioè essi ritengono di aver trovato il modo di contare di più e, nell’esercizio di questo potere che deriva da questa strumentazione, di andare molto al di là di quello che è il semplice controllo dell’applicazione dei contratti e del mercato del lavoro per investire invece i problemi della trasformazione, i problemi della riforma agraria. Chiaromonte Vorrei aggiungere una sola cosa sulla questione dell'unificazione politica del movimento, fra operai e contadini, fra Nord e Sud. Io ritengo che in questi venti anni abbiamo avuto un livello di unificazione del tutto sconosciuto nella storia del movimento operaio e socialista in Italia: e qui sta un merito storico della politica e detrazione del PCI. Tuttavia questa unificazione non è stata tale da imporre un diverso tipo di sviluppo economico e politico. E qui torno a Melissa: questo movimento per la terra, contadino, meridionale, valse a imbrigliare e respingere un’offensiva reazionaria; esso si intrecciò con quelli possenti dei salariati e dei braccianti della Valle Padana, e con quelli mezzadrili. Ma nello stesso periodo la classe operaia del Nord attraversava grandi difficoltà sindacali e politiche. Avemmo inoltre (per motivi che non è qui il caso di esaminare) l’assenza delle masse dei coltivatori diretti. Dire questo oggi non è privo di attualità, nel pieno di lotte operaie così grandiose e imponenti. Ora, io non ritengo affatto automatico che i successi della classe operaia (per i quali noi ci battiamo perché ne comprendiamo tutto il grande valore politico) diventino successi e avanzate di altri strati sociali. Da qui l’importanza dell’azione politica sui temi generali dello sviluppo economico. Da qui anche l’importanza del lavoro paziente di costruzione di un movimento organizzato delle masse contadine (associazioni, cooperative, ecc.), e della lotta e dell’iniziativa per l’applicazione piena dei contratti bracciantili, per le conferenze agrarie, ecc. Tutte le questioni, cioè, che aumentino il peso contrattuate e politico delle masse contadine e popolari del Mezzogiorno: secondo un’ispirazione, quella gramsciana, che noi ribadiamo, a vent’anni da Melissa. Reichlin Vorrei fare infine alcune considerazioni sul ruolo del partito in questo movimento di masse, in questa crisi. Ruolo del partito soprattutto nel senso di creare sbocchi politici adeguati alla natura del movimento e ai problemi che pone. Ci si chiede: il partito è adeguato? Conosciamo i nostri gravi ritardi, difetti, vuoti. Ma questo problema non può essere posto in astratto, bensì in rapporto agli spazi politici nuovi, alle condizioni nuove create da questo tipo di movimento, alla domanda politica e organizzativa che esprime e alle soluzioni nuove che già indica in concreto (le Commissioni dei braccianti, per esempio, i comitati popolari tipo Irsina, ecc.). Era adeguato il partito al tempo di Melissa e della occupazione delle terre? No, non lo era. Ma la dialettica di allora fu: quel tipo, di movimento metteva in luce tutta l’arretratezza del partito di allora (vecchio massimalismo sommato alla presenza di strani tipi, notabili, ecc.) ma nello stesso tempo, proprio quel movimento creò la possibilità concreta di rinnovarlo. Sorse così da quelle lotte il nuovo quadro di massa che ha retto finora. Ritengo che dobbiamo pensare a una operazione analoga, nelle condizioni di oggi. E da questo punto di vista anche che bisogna molto insistere sul rapporto Nord-Sud e sul rapporto tra lotta operaia e questione meridionale, tra lotta operaia e lotta delle masse contadine e masse povere del Mezzogiorno. Il problema è fondamentale per le ragioni dette da altri e che non sto a ripetere. Non fu risolto nel ’49-’5O. Non fu risolto nel ’62-33. Dobbiamo risolverlo ora. C’è il rischio che le nuove strutture democratiche e di classe, i nuovi strumenti di lotta e di organizzazione ricadano su se stessi. Chiaromonte ha posto questo problema e ha detto: bisogna collegarli a una crescita generale della democrazia. Ecco il ruolo del partito. Ora a me pare che il problema essenziale della democrazia italiana resta quello di sottrarre al grande capitale, insieme alla possibilità di spadroneggiare in fabbrica, l’uso assoluto, incondizionato nelle forme più bestiali e di rapina del più grande mercato di manodopera esistente in Europa (un mercato fatto non più solo di braccianti analfabeti, ma di giovani, operai qualificati, diplomati, laureati). Si tratta di milioni di uomini. Le cifre sono note, ma quando questo fenomeno esplode nella rivolta di Battipaglia o nel dramma sociale dei quartieri degli immigrati di Torino, noi ci stupiamo ancora come di fronte a qualcosa che avviene nel sottosuolo. Mentre è chiaro che questo fenomeno condiziona tutta la lotta operaia per la casa, la salute, la qualifica, la scuola, per il controllo e la valorizzazione della forza-lavoro. D’altra parte — se è vero che in questo modo l’avversario utilizza e cerca di scaricare su di noi, sul movimento operaio, la contraddizione tra occupati e disoccupati, io credo che esistono tutte te condizioni oramai per rovesciare questa contraddizione. La ragione vera, profonda del fallimento di tutte te politiche governative sta in ciò: la miseria meridionale, la sua arretratezza, non sono la causa, ma la conseguenza della condizione umana dei lavoratori del Meridione. E’ per questo che le risorse meridionali non possono essere utilizzate, perché il lavoro non riesce ad affermarsi come il soggetto dello sviluppo e ad esprimere nuovi bisogni umani, civili, collettivi. Ma se questo è il ruolo del lavoro, se questo è il tipo di accumulazione, se questo è il ruolo del Mezzogiorno, proprio partendo dal lavoro, cioè dal concreto, dall’immediato, dalla protesta e dalla lotta di milioni di uomini si può rovesciare la situazione, incidere sulle strutture, contestare la logica del profitto, collegare insieme (e non in astratto), rivendicazioni immediate-riforma-potere, ritrovare la necessità del partito, della democrazia di base, dell’organizzazione, non alla maniera dei gruppetti estremisti che cercano di inventare un nuovo partito, ma riscoprendo tutto il valore di ciò che è stato costruito in questi decenni e nello stesso tempo rinnovandolo. Questo è il punto di partenza e l’ispirazione di fondo del nostro lavoro oggi nel Mezzogiorno. | |
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