Area della trascrizione e della traduzione metatestualeTrascrizioni | Trascrizione Non markup - manuale o riveduta: La massiccia adesione dei lavoratori metalmeccanici alla lotta contrattuale iniziata dai tre sindacati nazionali sin dai primi giorni di settembre, la loro capacità di sostenere in tutto il territorio nazionale uno scontro articolato ma saldamente governato nella sua intensità e nei suoi tempi, la sconfìtta delle posizioni corporative o « provinciali » sulle quali il padronato sperava di far leva sin dalle prime battute della battaglia d’autunno, tutti questi dati offrono ormai una prima risposta all’interrogativo che il padronato fingeva di porsi in queste settimane: che cosa è il sindacato in Italia; che cosa rappresenta? Che cosa sia il sindacato nell’autunno del 1969 lo hanno potuto capire i padroni e le forze di governo il 25 settembre quando più di cinquantamila metallurgici torinesi si sono incontrati con le migliaia di lavoratori delle altre città d’Italia per affermare, in un clima di entusiasmo che ha travolto per una giornata la città dell’automobile, la loro unità di lotta intorno agli operai della FIAT, per affermare cioè l’esistenza di fronte comune che nei fatti era capace di reagire ai colpi portati dall’avversario di classe in ogni punto dello schieramento di classe. In questa giornata, quando i cinque cortei operai paralizzavano Torino, quando i metallurgici di Milano, di Brescia, di Genova, del Veneto e dell’Emilia, della Toscana si abbracciavano con i loro compagni della FIAT, divenne palese, infatti, la crisi nella quale stava precipitando la politica di escalation del grande padronato metalmeccanico. Era una escalation che aveva oramai percorso tutte le sue tappe. Partita con l’invocazione accorata di un sindacato capace di arginare una « contestazione » di base (con la gonfiatura sistematica dei fenomeni di lotta extrasindacale che si erano verificati nell’estate scorsa) e con la profferta di nuovi poteri « protetti » da conferire senza indugio ad un sindacato « responsabile », l’iniziativa della Confìndustrìa si è fatta rapidamente più rozza e brutale. Il ricatto è divenuto esplicito: o i sindacati dei metalmeccanici accettano il ruolo di gendarme della tregua aziendale e « legittimano » quindi la repressione contro gli scioperi che il padrone giudica « illegittimi », oppure essi stessi diventano a irrecuperabili », il primo nemico da battere. I paterni consigli di Montanelli agli imprenditori italiani si rivelavano così nel giro di poche settimane per quello che erano sempre stati, ossia l’attacco al sindacato di classe nel momento in cui la sua crescita di potere e di prestigio, il suo rinnovamento interno, e la sua unità indicavano un processo le cui prospettive erano intollerabili per le forze a illuminate » del capitalismo nostrano. E dalla a blandizia » si è passati alla repressione; alla FIAT prima, alla Pirelli poi. I giovani padroni hanno dovuto ricorrere così all’aggressione antisindacale in forme che le stesse forze conservatrici della Confìndustrìa avevano sino ad ora evitato, con una certa dose di saggezza. Il passo ulteriore era il più scontato. Era il ritorno nel vecchio alveo della propaganda del padronato ottocentesco: i sindacati non rappresentano i lavoratori; coartano la loro volontà: sono il governo della minoranza. Era insomma l’appello alla divisione fra i sindacati; era l’invocazione di una destra sindacale che rompesse l’unità di classe, era la speranza di fare leva su certe zone di corporativismo per disgregare in qualche modo, magari in cambio di un po’ di soldi subito, il fronte dei lavoratori. Una dopo l’altra, la blandizia e la politica di integrazione, l’alternativa ricattatoria, la repressione, la politica di divisione hanno avuto la loro risposta in queste settimane. Una risposta di massa. Nello stesso tempo i nuovi strateghi della Confindustria non hanno neanche avuto la soddisfazione di potere costruire una loro iniziativa di recupero a partire dall’invocazione dello stato di emergenza, del caos; né possono più sperare che i lavoratori e i sindacati abbocchino all’esca di uno sciopero ad oltranza che logori rapidamente le loro forze. Gli scioperi continuano, incalzano, con i tempi e le forme che decidono insieme sindacati e lavoratori, ma con la regolarità di un orologio. Cesseranno con la firma del nuovo contratto. A noi sembra che a questo punto qualcuno debba forse rivedere i suoi conti e chiedersi se non conviene mutare cavallo. La « nuova linea» del padronato italiano ha bruciato in pochi giorni i suoi margini di manovra: il suo volto repressivo è apparso subito e ha determinato un inevitabile inasprimento dello scontro sindacale. L’unica alternativa che i « giovani leoni » del padronato hanno saputo opporre alla vecchia gestione della Confindustria è quindi una politica di avventura, il cui costo sale ogni giorno di più, non solo per loro ma per tutti i padroni. Sono i sindacati oggi a proporre la via della ragionevolezza, la via della trattativa. Certo, dopo le pregiudiziali opposte dalla Confindustria alle loro richieste, dopo l’evidente scomparsa di una autonomia contrattuale dell’Intersind la quale regola le sue mosse sulle disponibilità del grande padronato privato, essi hanno dovuto iniziare una lotta che non potrà cessare di fronte al semplice fatto di una ripresa di negoziati. Ma il negoziato è possibile. Ed è possibile se si vuole veramente entrare nel merito delle richieste dei sindacati — abbandonando l’illusione nefasta di volere imporre una ipoteca sulla contrattazione articolata e sul diritto di sciopero —, giungere anche rapidamente ad una intesa. Le parti si sono quindi singolarmente invertite rispetto agli schemi tradizionali. I sindacati sono pronti alla trattativa di merito sulle loro richieste, in qualsiasi momento. I padroni invece, la temono, contrappongono nuove pregiudiziali, invocano una mediazione politica che metta ordine magari nelle loro divisioni interne e tolga in ogni caso l’iniziativa alle forze sindacali. E si capisce bene perché è così. La saldatura fra sindacati e lavoratori si è realizzata. Il fronte sindacale è unità. Si fa strada un rapporto nuovo fra base e vertice dell’organizzazione di classe che associa direttamente i lavoratori alla direzione di ogni fase della vertenza. Si è espressa, cioè, nella fabbrica e nel paese una forza dell’organizzazione operaia che non si può certo più misurare soltanto con il numero delle ore di sciopero e che non ha forse precedenti nella storia di questo dopoguerra. Questa forza riflette infatti la grande maturità politica raggiunta dal movimento unitario dei metalmeccanici e delle altre categorie in lotta; una maturità che è innanzitutto consapevolezza del rapporto stretto esistente fra l’obbiettivo immediato da perseguire — il nuovo contratto di lavoro — e la strategia generale del sindacato. Solo così si spiega la volontà di massa di difendere ogni giorno la condizione operaia nella fabbrica e di costruire là le fondamenta di un potere nuovo del sindacato; e il rifiuto quindi di mettere in vendita, di barattare la contrattazione articolata. Solo così si spiega anche la volontà di massa di affrontare, subito, alcuni grandi temi della trasformazione della società, con obbiettivi e forme di lotta propri del sindacato; di costruire cioè un vasto fronte di lotta che trovi il suo momento di unificazione non in un accordo « quadro » o in altri esperimenti di centralizzazione contrattuale ma in grandi obbiettivi politici come quelli indicati dalla CGIL: dalla modifica dei criteri di classe che pesano sul sistema fiscale italiano, alla riforma urbanistica, al disarmo della polizia, alla lotta contro la « scuola dei padroni». E’ questa la forza unitaria che i metalmeccanici e altre categorie dell’industria e dell’agricoltura rappresentano nel 1969. Una forza che nasce quindi anche dalla capacità del sindacato di trasformarsi, di avviare, almeno, un processo di superamento delle sue remore burocratiche, delle sue vecchie routines; una forza che nasce dalla volontà di costruire nuove basi per l’unità d’azione e l’unità sindacale, con la creazione di veri e propri strumenti di autogoverno operaio nei luoghi di lavoro, come possono divenire i comitati sindacali unitari di fabbrica, i delegati unitari di squadra e di reparto, le consulte unitarie di provincia e di zona. E qui il discorso investe subito le forze politiche. Una esperienza di siffatta natura, che con tutti i suoi ritardi, le sue lentezze, le sue contraddizioni, è in atto nel vivo stesso delle lotte contrattuali, non può non costituire un nuovo punto di riferimento per tutte le forze che operano nel movimento operaio italiano. Non può non porre, cioè, l’esigenza di un impegno che vada ben al di là della solidarietà e che parta dalla Consapevolezza che una delle poste in gioco della lotta fra lavoratori e padroni intorno al contratto di lavoro è proprio la difesa e lo sviluppo di un nuovo tipo di democrazia operaia. Non casualmente, con lo sviluppo dell’esperienza unitaria a livello di massa, con l’avvio di un processo di unità dal basso, voluto dai sindacati, sono stati in gran parte superati certi vecchi steccati corporativistici così come i rigurgiti di un pansindacalismo antipartitico. La volontà legittima di conquistare giorno per giorno, sulla base del dibattito e del consenso, una egemonia del sindacato nella condotta delle iniziative rivendicative, di fabbrica e generali dei lavoratori coincide esplicitamente nelle posizioni assunte, per esempio, dalle tre organizzazioni dei metalmeccanici con il rifiuto di una sorta di monopolio protetto sui problemi operai. Il confronto di posizioni e il dissenso anche aspro che può esistere fra il sindacato e certe forze politiche (siano esse i partiti operai o dei movimenti o dei gruppi) non può fondarsi infatti sull’arido terreno delle divisioni di competenza o sull’inaccettabile pretesa di definire chi sono e chi non sono « gli addetti ai lavori». E’ un confronto di merito che si può e si deve aprire, un confronto che non sminuisce ma esalta invece l’autonomia del sindacato, mentre potrebbe schiudere la porta ad una nuova e feconda dialettica unitaria fra tutte le componenti del movimento operaio. Le lotte dell’autunno per le loro caratteristiche nuove costituiscono davvero una grande occasione di iniziativa e di dialogo per tutte le forze della sinistra italiana. E diciamo questo proprio perché siamo convinti che, per la loro natura intrinseca, queste lotte restano sindacali, e il loro sbocco non può essere che sindacate. Esse non possono essere strumentalizzate: né in funzione di una diplomazia di vertice per negoziare la natura e l’area di un futuro governo, né in funzione delle vicende interne dell’attuale partito di governo, né in funzione di una ipotesi estremista che si presenta oggi oltretutto camuffata dal corporativismo più banale. Sono lotte che invece richiedono un impegno delle forze politiche intorno ai problemi specifici della condizione operaia, della democrazia di base, della creazione di nuovi strumenti di potere e di partecipazione delle classi lavoratrici nelle fabbriche e nell’intiera società. Perché questo impegno vi sia toccherà anche al sindacato fare sino in fondo la parte che gli è propria. Per fare un solo esempio, c’è da chiedersi se non sia venuto il momento per il movimento sindacale e in modo particolare per le categorie in lotta di passare dalle prese di posizione ai fatti, su di una questione così esplosiva come quella della scuola. La lotta contro la scuola di classe è problema che investe direttamente i sindacati operai e non può ridursi per loro né all’attività del sindacato della scuola né ad una generica volontà di dialogo con un movimento studentesco, che oggi sconta con la crisi anche le conseguenze di un suo isolamento. Con gli scioperi di queste settimane, i sindacati operai hanno l’occasione di prendere loro l’iniziativa nei confronti delle centinaia di migliaia di studenti degli istituti professionali, delle scuole medie, delle università e di costruire con loro un rilancio di massa della lotta per il diritto allo studio e la riforma della scuola. Il grande patrimonio delle lotte unitarie dell’autunno del 1969 potrebbe così fare valere sino in fondo l’apporto vivificante che esso reca alla trasformazione della società italiana. | |
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