Area della trascrizione e della traduzione metatestualeTrascrizioni | Trascrizione Non markup - manuale o riveduta: Buona parte della stampa borghese è particolarmente impegnata, in questo periodo, nel tentativo di dimostrare che la classe operaia italiana è diventata improvvisamente orfana. Non solo non si lascia « dirigere » (« controllare » è anzi la parola prediletta) dalle organizzazioni sindacali e politiche « tradizionali » (leggasi CGIL e PCI, perchè tutte le altre non abbiamo ben compreso se non rientrano nella tradizione o se non vengono neppure prese in esame): ma tende anzi a distaccarsene, a creare un solco incolmabile tra se stessa e qualsiasi formazione organizzata. Rescisso ogni legame con la propria storia, gettato a mare il patrimonio delle proprie esperienze sindacali e politiche, ormai priva di ormeggi, la classe operaia — sempre secondo questa versione — naviga in un magma, in una sorta di limbo prepolitico: torna allo spontaneismo, è disposta a correre dietro al primo gruppetto di studenti (« anarchici » o « maoisti ») che passa dinanzi ai cancelli della fabbrica, riduce la propria presenza sociale alle prime reazioni istintive, epidermiche: rivendicazioni semplificate al solo salario, esplosioni di collera incontrollata, completo abbandono di ogni elemento di tattica, ricerca dello scontro frontale con la polizia, ecc. Rientra in questo quadro la quotidiana valorizzazione — sulle colonne della stessa stampa — di tutti i possibili episodi di estremismo, di tutti i gruppi e gruppetti « alla sinistra del PCI » fatti diventare artificiosamente protagonisti di tutto ciò che accade sulla scena sociale e politica, amplificati quando ci sono, inventati di sana pianta quando non ci sono. La cosa apparentemente singolare è che questa immagine delle lotte operaie offertaci dalla stampa borghese coincide nelle grandi linee (e talvolta persino nelle sfumature) con quella fornita degli stessi gruppi estremisti. Se si prende, ad esempio, la versione dei «fatti di Torino» (gli scioperi d’officina alla Fiat Mirafiori delle settimane passate, lo sciopero generale contro il caro-affitti del 3 luglio) pubblicata sulla Stampa, sul Corriere della Sera, o sull’Espresso, emerge a prima vista l’analogia con quella divulgata dalla miriade di fogli, di riviste o di volantini dei cosiddetti « gruppi universitari di sinistra ». A unificare le due versioni sono il disconoscimento delle « organizzazioni tradizionali » (o spesso dell'organizzazione tout court), l’esaltazione dello spontaneismo, la sottolineatura degli episodi di « violenza », di esplosioni « incendiarie », di tutto ciò che possa far apparire la classe operaia come priva di una strategia e di una linea di condotta elaborata. Macché conquiste normative, macché acquisizione di nuovi poteri contrattuali! Macché controlli sui ritmi produttivi, sulle condizioni ambientali, sulla salute! Gli operai vogliono solo aumenti salariali, e poi vogliono far saltare « il sistema » con la violenza. Salari e bombe. Ecco i due poli che dovrebbero racchiudere tutta la capacità di iniziativa della classe operaia, gli estremi di una « nuova » strategia della rivoluzione, i segni di una crisi definitiva della politica comunista. Ma quale è stato, davvero, il ruolo dei gruppi estremisti nei « fatti di Torino »? E più in generale, che significato hanno assunto gli avvenimenti torinesi, in quale logica sono rientrati, quale prospettiva hanno aperto? Per rispondere a queste domande, occorre in primo luogo demistificare i fatti stessi, ristabilirne la verità. La lotta articolata sviluppatasi in maggio e giugno alla Fiat si colloca non soltanto in una scelta strategica, ma in un concreto programma di iniziativa che il sindacato di classe aveva fissato da tempo. Gli sforzi per liquidare ogni residuo del vecchio regime aziendalistico avevano dato risultati cospicui particolarmente nel corso degli ultimi due anni. La prima importante lotta per la contrattazione integrativa d’azienda era stata combattuta e vinta nella primavera del '68, sui problemi dell’orario e del cottimo. Nei primi mesi di quest’anno, una vertenza aperta a livello di gruppo ha portato alla conquista della mensa aziendale (che comporta fra l’altro un’indennità oraria di 21,50 lire). Tra questi due momenti « aziendali », si collocano il successo degli scioperi generali per le pensioni, la piena riuscita di scioperi « politici » (contro gli eccidi di Avola e di Battipaglia), la vittoria della FIOM nelle elezioni delle commissioni interne. L’appuntamento con le lotte articolate d’officina era il più importante e insieme il più difficile, prima del rinnovo del contratto nazionale. Le difficoltà consistevano nel fatto che la lotta articolata, reparto per reparto, richiede per suà stessa natura un rapporto immediato e organico tra sindacato e lavoratori, una presenza estremamente capillare dell’organizzazione sindacale nella fabbrica, l’iniziativa di una fitta rete di quadri operai « sindacalizzati » in ogni reparto e in ogni squadra, capaci di elaborare rivendicazioni appropriate per ogni gruppo di lavoratori relativamente omogeneo, di individuare le forme di lotta più efficaci, di far vivere, operare, decidere l’organizzazione nel vivo del processo di produzione. Ma mentre alla Fiat più che altrove erano mature le esigenze e i contenuti peculiari della lotta articolata (per le stesse dimensioni dell’azienda e per la enorme difformità delle lavorazioni, che riduce al minimo la possibiltà di enucleare rivendicazioni valide per tutti), permaneva viceversa — nonostante alcuni progressi compiuti negli ultimi tempi — una situazione precaria dal punto di vista del rapporto organizzazione-lavoratori, e caratterizzata da una sostanziale carenza di nuovi quadri operai. Pesa tuttora, per molti versi, la storia degli ultimi quindici anni; pesa soprattutto la compatta e collaudatissima gerarchia aziendale, il cui minuzioso apparato repressivo appare come fuso con le più intime fibre del processo produttivo e « oggettivato » nello stesso rapporto di lavoro; pesano infine la composizione sociale e la mobilità estrema della manodopera (ogni anno entrano circa 15-20.000 assunti, la metà dei quali si licenzia entro i primi dodici mesi). Il sindacato di classe ha lavorato molto — negli ultimi anni — per superare questi ostacoli, per stabilire un rapporto il più capillare possibile con i lavoratori nei singoli punti del ciclo produttivo. Al momento dell’inizio della lotta articolata, erano state aperte con la Direzione 87 vertenze di reparto e di officina, sulla base di piattaforme rivendicative elaborate con i nuclei di lavoratori interessati (e ciò malgrado, vi erano ancora numerose officine nelle quali non era stato possibile elaborare rivendicazioni specifiche e aprire vertenze, per mancanza di rapporti con i lavoratori e quindi per carenza di conoscenze dirette). Questo lavoro preparatorio ha comunque fatto emergere tutto il valore di una strategia che fa della articolazione la condizione indispensabile per la crescita di nuove forme di partecipazione e di potere dei lavoratori. La stessa elaborazione delle piattaforme rivendicative di reparto ha indotto i sindacati a ricercare un rapporto immediato con i lavoratori e a unirsi tra di loro assai prima del momento dell’azione, sin dall’inizio del processo di formazione delle decisioni stesse (ciò spiega il fatto che, anche nei momenti di lotta più acuta, le organizzazioni sindacali hanno mantenuto e rinsaldato la propria unità). Ogni piattaforma rivendicativa di reparto, d'altra parte, ha teso a intrecciare strettamente la richiesta di miglioramenti immediati con istanze di controllo dei lavoratori su tutti quei fattori che in quel determinato segmento del ciclo produttivo si qualificano come decisivi ai fini del rapporto di lavoro (regolamentazione e controllo della velocità delle linee, degli organici, dei tempi di lavorazione; controllo sui passaggi di categoria in base all’effettiva qualità delle lavorazioni; controllo sull’ambiente di lavoro e sui suoi effetti sulla salute; ecc.). La rivendicazione del delegato di linea e di reparto ha assunto in questo quadro un valore preciso, quale strumento attraverso cui si esercita in ogni punto e in ogni momento del ciclo di produzione un controllo e un intervento dei lavoratori e delle loro organizzazioni. Il via alle lotte della Mirafiori fu dato, negli ultimi giorni di aprile, dall’officina 27 (collaudo motori): gli scioperi furono preparati e diretti da un gruppo di giovani attivisti del sindacato di classe, militanti del PCI, e dichiarati ufficialmente dai quattro sindacati. Nelle settimane successive entrarono in lotta le officine ausiliarie, le presse, i diciottomila operai delle linee di montaggio, e altri reparti ancora. (In giugno la lotta si è estesa oltre la Mirafiori, agli stabilimenti delle Ferriere, della SIMA, di Rivalta). E' emersa a questo punto un’altra delle caratteristiche essenziali che la lotta articolata assume in una grande azienda a ciclo integrale della produzione: basandosi su una « segmentazione » del ciclo, tendendo a sezionarlo reparto per reparto, essa si è rivelata l’arma più implacabile di cui gli operai possano disporre in un processo produttivo che — al contrario — fonda la sua efficienza sulla programmazione lineare delle lavorazioni (allineamento e assoluta interdipendenza dei vari reparti, forte incidenza dei sistemi autocratici di calcolo e di comunicazione). Si è dimostrata, cioè, una forma di lotta in grado di paralizzare completamente la produzione, costringendo in pari tempo il padrone a pagare gran parte del monte salari. Il fatto, ad esempio, che in determinate ore della giornata scendesse in sciopero un’officina collocata nella fase iniziale del ciclo, come le « grandi presse » (circa milleduecento operai), significava bloccare tutte le officine successive, comprese quelle terminali: significava in altre parole, bloccare il lavoro di tutti i 50.000 lavoratori della Mirafiori, ai quali tuttavia continuava a correre il salario (si verificava allora, assai spesso, il caso di « capi » che tentavano — per la verità con scarso successo — di convincere i lavoratori di queste officine... a scioperare anch’essi, in modo da indurli a rinunciare al salario). Nel giro di un mese — secondo un allarmato comunicato della Direzione Fiat — il fatturato ha subito una perdita di 40 miliardi, mentre il costo del lavoro ha mantenuto gran parte della sua incidenza. Proprio perché è venuta a trovarsi con le spalle al muro, di fronte a una lotta che faceva saltare non soltanto i programmi produttivi ma anche il consueto dispositivo gerarchico, e di fronte ad una pressione operaia resa più forte dalle conseguenze della tensione attuale sul mercato del lavoro di Torino che praticamente rende inoffensivo il vecchio ricatto sul posto di lavoro, la Direzione Fiat ha cercato di contrattaccare facendo ricorso a una manovra non nuova nel suo del resto ben fornito arsenale politico. Dovendo fronteggiare una posizione netta dell’organizzazione sindacale, che poneva al primo posto rivendicazioni irrinunciabili di potere contrattuale e di democrazia (come uniche conquiste in grado non solo di aumentare e difendere il salario, ma anche di contrastare lo sfruttamento e di aprire nuovi livelli di libertà e di dignità ai lavoratori), la direzione ha tentato di scaricare la grande pressione rivendicativa della classe operaia unicamente sul salario, dichiarandosi disposta a fare concessioni soltanto in termini monetari e avanzando la pretesa che eventuali aumenti salariali fossero considerati un « anticipo » sull’ormai imminente rinnovo del contratto nazionale. In varie officine, sono stati gli stessi « capi » a esortare gli operai a non « complicare le cose » con richieste « inutili » come i delegati o come la istituzione di controlli sull’ambiente di lavoro (« tutte diavolerie dei sindacalisti, da cui non vi verrà niente sulla busta paga ») e a insistere invece per ottenere subito 50 lire di aumento orarie: la Direzione è disposta a darvele senza bisogno di aspettare il contratto — dicevano — purché non venga messa in pericolo « la produttività »... Facendo leva su una fame autentica di salario, accentuata dalle conseguenze di una organizzazione sociale della città e dell’area metropolitana di Torino costruita su misura dalla Fiat stessa (e che proprio in questo periodo di rinnovata espansione della struttura industriale denuncia la sua profonda irrazionalità, portando ad un livello intollerabile i suoi costi umani e sociali), la direzione aziendale ha cercato di porre in difficoltà i sindacati creando elementi di disorientamento soprattutto tra i lavoratori entrati più recentemente in fabbrica e ancora privi di esperienze di lotta, o tra gruppi di operai ancora legati a vecchie concezioni aziendalistiche. Occorre anche rilevare che in alcuni momenti della lotta le organizzazioni sindacali non sono state in grado di reagire con prontezza ed efficacia a questa manovra padronale. Hanno pesato, in questo senso, non soltanto le già ricordate difficoltà organizzative, ma anche il permanere — proprio nei settori più avanzati del movimento sindacale — di uno stato d’animo e di una concezione dei rapporti aziendali maturati negli anni più duri della repressione padronale, negli anni della discriminazione e delle rappresaglie: uno stato d’animo da « perseguitati » tuttora diffuso tra i migliori quadri sindacali, e una concezione che porta talvolta a sopravvalutare le possibilità di manovra e di reazione della direzione aziendale, e a manifestare cautela e incomprensione verso le spinte spesso confuse e immature, ma sostanzialmente valide, delle più giovani leve operaie, che non hanno conosciuto il tradizionale « regime Fiat ». Queste difficoltà — determinate in primo luogo dalla manovra del padrone — hanno rappresentato l'unico efficace motivo di aggancio dei gruppi estremisti esterni alla fabbrica. Rispetto alla loro vecchia collocazione nel movimento di massa degli studenti caratterizza questi gruppi una più marcata fisionomia politica e una esasperata tendenza alla ideologizzazione. Ne fanno parte il gruppo torinese di « Potere operaio », vari frammenti del vecchio movimento torinese dei « Quaderni rossi », alcuni quadri dei movimenti di Roma e di Pisa giunti a Torino per l’occasione. Pur con diversità di posizioni, hanno finito con l’aggregarsi in una iniziativa comune, sotto la denominazione di « Operai e studenti » con cui firmavano i loro volantini. Essi si sono presentati in massa davanti ai cancelli della Mirafiori quando la lotta era già cominciata in varie officine. Si riaccostavano ai cancelli della fabbrica dopo circa un anno di assenza, e cioè dopo il tentativo attuato dal movimento studentesco di stabilire un rapporto con gli operai durante la lotta aziendale della primavera 1968. Rispetto alla sortita dello scorso anno, la novità di maggior rilievo che essi hanno presentato agli operai della Mirafiori è stato il completo abbandono delle vecchie parole d’ordine imperniate sul « potere operaio », sulla « democrazia diretta », sulla istituzione della « assemblea » e dei « delegati ». La loro agitazione si è concentrata essenzialmente sulla richiesta di forti aumenti salariali e sulla parola d’ordine « vogliamo un salario uguale per tutti ». Mentre nel 1968 la loro tesi fondamentale era che qualsiasi rivendicazione economica è integrabile nel sistema, nel 1969 hanno individuato il principale veicolo di integrazione nel sistema nelle rivendicazioni di controllo e di potere contrattuale: l’istituzione dei delegati è stata condannata come una diavoleria del capitale, un modo per consentire al padrone di « comprare » i migliori quadri operai. Giovani intellettuali di sinistra, noti per aver pubblicato elaboratissimi saggi sui consigli di fabbrica e sull’autogoverno operaio, hanno inalberato cartelli con la scritta: « vogliamo 70 lire di aumento ». Postisi sul terreno della più violenta polemica antisindacale, e della ricerca di un rapporto tanto demagogico quanto effimero con le frange meno politicizzate della massa operaia, hanno finito per muoversi su una prospettiva egemonizzata in partenza, oggettivamente, dall’azione padronale. Come sempre, in ogni caso, è stato ed è l’insegnamento vivo della lotta a decantare le posizioni. Le difficoltà stesse, le polemiche e lo scontro di posizioni hanno di fatto accelerato una travagliata quanto profonda maturazione della coscienza sindacale e politica di migliaia e migliaia di lavoratori. In poche settimane è diventato acquisizione di massa un processo di elaborazione che sinora era stato patrimonio di ristrette avanguardie. L’accordo firmato dai sindacati sancisce, oltre che consistenti miglioramenti salariali, prospettive radicalmente nuove di intervento diretto dei lavoratori e delle loro organizzazioni su tutti gli aspetti del rapporto di lavoro, officina per officina, reparto per reparto. La conclusione di una fase della lotta ne apre immediatamente una nuova, più avanzata e difficile al tempo stesso: per dispiegare pienamente tali nuove possibilità, per imporre l’applicazione dei nuovi istituti, per organizzare un nuovo livello di partecipazione operaia. E il fatto che in questi giorni migliaia di operai stiano procedendo alla elezione dei loro delegati di squadra (che affiancheranno i delegati di reparto e di linea sanciti dall’accordo) testimonia che la lotta sta facendo compiere un balzo della coscienza collettiva, sulla strada indicata dall’organizzazione di classe. Lo sciopero generale del 3 luglio, indetto unitariamente dalle organizzazioni sindacali su scala provinciale, si colloca nella stessa prospettiva strategica su cui si sono mosse le lotte articolate d’officina. Lo sciopero, come è noto, aveva come rivendicazioni immediate il blocco degli affitti e degli sfratti e la richiesta di misure concrete contro l’aumento del costo della vita. Più in generale, esso poneva il problema della riforma organica della politica della casa e dell’assetto del territorio, per affermare gradualmente il principio della casa come servizio sociale. Alla base della proclamazione di questo sciopero (che ha voluto essere l’inizio di una battaglia destinata ad andare avanti nell’immediato avvenire) vi sono essenzialmente due grandi fini: 1) collegare organicamente la lotta per mutare la condizione operaia interna alla fabbrica alla lotta per mutare la condizione esterna, determinata dalla organizzazione sociale della città; dare in tal modo uno sbocco positivo, non velleitario, alle rivendicazioni che nascono dai nuovi bisogni, dalla nuova espansione della vita sociale, e che non possono essere soddisfatte in puri termini salariali; esprimere la pressione rivendicativa e la partecipazione dei lavoratori sul terreno più avanzato, più politico, delle riforme di struttura (replicando efficacemente, in tal modo, al ricatto dell’inflazione, che già oggi il padronato sta mettendo in atto e che è senza dubbio destinato ad aggravarsi in vista delle grandi battaglie contrattuali di autunno); 2) stabilire un nesso immediato e organico tra fabbrica e città, tra processo produttivo e processo sociale, creando le condizioni affinché la classe operaia esprima concretamente — attraverso la lotta — la sua funzione di classe dirigente dell’intiera società. Ciò è tanto più significativo — e necessario — in una città come Torino, dove la tendenza del capitale monopolistico a unificare i due termini, e più precisamente a fare della città un elemento subordinato del processo di accumulazione, è emersa nel modo più compiuto in questi anni, sino a raggiungere l'evidenza di un paradigma. (Non si dimentichi — tanto per fare un esempio che riguarda da vicino i problemi affrontati dallo sciopero del 3 luglio che i colossali fenomeni di urbanesimo verificatisi a Torino negli ultimi 15 anni, hanno garantito alla Fiat non soltanto un mercato della manodopera su misura, ma anche la possibilità di lucrare centinaia di miliardi sul mercato delle aree e delle abitazioni, fornendole per questa via una quota non marginale di quel processo di autofinanziamento su cui la azienda ha costruito la propria espansione sino alle attuali dimensioni di grande trust internazionale). Lo sciopero del 3 luglio, in altre parole, ha rappresentato uno dei punti più alti cui possa giungere oggi la lotta operaia, a un livello di chiara consapevolezza politica e su una linea di attacco al meccanismo complessivo del moderno capitale monopolistico. La sua eccezionale riuscita di massa non ha fatto che confermare la validità di questa linea: la città e la provincia sono state completamente paralizzate nelle attività produttive, nel commercio, nei servizi. A fianco di 600.000 operai, sono scesi in lotta — abbassando le saracinesche — decine di migliaia di commercianti; non un ufficio ha funzionato, non un tram o un taxi ha circolato. Si è avuta così l’immagine fisica di un vasto blocco di forze sociali pronto a rispondere all’appello di lotta della classe operaia per una nuova politica di riforma, contro il dominio monopolistico e contro il governo. Eppure, anche in questa occasione i gruppi estremisti (i soliti « operai e studenti ») hanno trovato il modo di collocarsi al di sotto di questo livello politico e di lasciarsi egemonizzare — di fatto — dalla classe dominante e dalla sua stampa. Dopo aver criticato la proclamazione dello sciopero generale — presentata come una manovra dei sindacati per nascondere presunti « cedimenti » alla Fiat — essi hanno indetto per lo stesso giorno una manifestazione di piazza che al di là di qualche fumisteria parolaia (« Che cosa vogliamo? Tutto ») e del consueto tributo ai miti nuovi e antichi (ritratti di Mao e di Stalin, qualche motto in francese del Grande Maggio) si è qualificata in realtà per la sua impronta di polemica e di rottura verso le organizzazioni operaie promotrici dello sciopero (« Sindacati e padrone - accordo bidone »). L'obiettivo dello scontro con la polizia con conseguente manifestazione di « guerriglia cittadina », perseguito da alcuni esponenti di questi gruppi e presentato come la forma più avanzata di lotta, è apparso in realtà, in questa più che in altre circostanze, ottocentesco e — esso sì — sostanzialmente socialdemocratico di fronte a una gigantesca lotta di massa che tendeva a colpire ben altri meccanismi di dominio e di repressione sociale del moderno capitale monopolistico. Ma la polizia e la stampa padronale non aspettavano altro. Le « forze dell'ordine » dispiegano appieno la loro provocazione, coinvolgono un quartiere periferico,, mirano a colpire lavoratori e cittadini che non c’entrano niente (e che reagiscono con sacrosanto vigore all’aggressione poliziesca). Le solite auto bruciate che fanno tanto Quartiere Latino, inseguimenti, manganellate e bombe lacrimogene. Il giorno dopo tutti i giornali d’Italia pubblicheranno in prima pagina grandi foto dense di fumo e di poliziotti con visiere in plexigas, e annunceranno a caratteri cubitali una « giornata di tafferugli a Torino ». Soltanto i lettori de l’Unità avranno praticamente modo di apprendere che un’intiera metropoli, la città della Fiat, ha incrociato le braccia. I cosiddetti « gruppi minoritari di sinistra » si sono mossi in questi anni a cavallo di due sillogismi uguali e contrari (« La classe operaia è integrata perché è con il PCI e il PCI è integrato »; « La classe operaia non è integrata, vuol fare la rivoluzione e quindi è contro il PCI perché il PCI è integrato ») che contengono un unico nocciolo di irrazionalismo: il giudizio sul PCI e sulla sua strategia. L’aver accolto come comune denominatore un falso assioma mai dimostrato e mai dimostrabile, li induce a falsare ogni prospettiva, a porsi continuamente all’esterno delle lotte; li condanna, in ultima analisi — come dimostrano ormai i dieci anni della loro presenza, non certo caratterizzata da riservatezza o da scarsa attività pubblicistica —- a rimanere prigionieri di una logica di setta. Eppure, un atteggiamento più aperto e scientifico, meno viziato da apriori ideologici, li porterebbe a individuare proprio nella realtà della lotta di classe a Torino, di fronte ai problemi posti da un capitalismo giunto al culmine della sua maturità o dei suoi processi di integrazione, uno dei banchi di prova più importanti (e più ricchi di prospettiva) della presenza e della strategia del PCI. L'egemonia del grande monopolio dell'auto, che solo dieci anni orsono sembrava così assoluta proprio perchè riusciva a unificare la fabbrica e la città in un disegno organico, in una prospettiva di sviluppo che poggiava non soltanto su meccanismi apertamente autoritari, ma anche su una politica di riformismo paternalistico, su una base di massa, su un'area di consenso che estendeva le sue propaggini anche fra la classe operaia e in vasti settori popolari, oggi appare profondamente incrinata, posta in crisi contemporaneamente su entrambi i piani: la fabbrica e la città. Senza i comunisti, senza la loro politica, senza la loro iniziativa di massa, tesa a creare nuove forme di partecipazione, di potere operaio e popolare nelle officine e nei quartieri, questa crisi non sarebbe neppure concepibile. Così come senza i comunisti non potrebbe neppure essere concepita la nuova prospettiva che oggi si apre concretamente a Torino: quella di creare un nuovo rapporto fra fabbrica e città, che nasca da un mutamento profondo dell’organizzazione del lavoro e della organizzazione sociale e segni un nuovo livello di lotta e di egemonia della classe operaia. | |
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