→ modalità contenuto
modalità contesto
Modalità in atto filtro S.M.O.G+: CORPUS OGGETTO
ANTEPRIMA MULTIMEDIALI
ALBERO INVENTARIALE
Legenda
Nodo superiore Corpus autorizzato

Nodo relativo all'oggetto istanziato

NB: le impostazioni di visualizzazione modificabili nel pannello di preferenze utente hanno determinato un albero che comprende, limitatamente alle prime 100 relazioni, esclusivamente i nodi direttamente ascendenti ed eventuali nodi discendenti più prossimi. Click su + per l'intero contenuto di un nodo.


INVENTARICATALOGHIMULTIMEDIALIANALITICITHESAURIMULTI
guida generale
CERCA

tipologia: Analitici; Id: 1549908


Area del titolo e responsabilità
Tipologia Periodico
Titolo Alfredo Reichlin, Il nostro compito oggi nel Mezzogiorno [sopratitolo: Considerazioni sullo stato del movimento popolare] [sottotitolo: Un grande movimento di lotta intorno a obiettivi concreti che investa nella sua interezza il blocco dominante]
Responsabilità
Alfredo Reichlin+++
  • Reichlin, Alfredo
  autore+++    
Rubrica od altra struttura ricorsiva
Temi d'oggi [Rinascita] {Temi d'oggi [Rinascita]}+++  
Area della trascrizione e della traduzione metatestuale
Trascrizioni
Trascrizione Non markup - manuale o riveduta:
[didascalia p. 3: Le armi di Restivo (disegno di Gal)]
[didascalia p. 4: Un manifesto dei comunisti livornesi]
[didascalia p. 5: Battipaglia. Uno scudo e una sciarpa abbandonati dalla polizia nel corso dei tumulti.]
Possiamo dire — io credo — che i morti di Battipaglia segnano una data: non soltanto nel convulso sviluppo della politica nazionale — come tutti hanno avvertito — ma nella storia del Mezzogiorno. In che senso? Nel senso che come i morti di Melissa dissero nel 1949 che era finito il tempo del latifondo e del vecchio blocco agrario, oggi — esattamente venti anni dopo — i morti di Battipaglia dicono che è entrato in crisi ed è suonata l’ora anche per il nuovo sistema di potere che dopo di allora è stato costruito: il blocco industriale-agrario cementato dall’intreccio di profitto e rendita, alimentato dalla spesa pubblica e governato non più dai vecchi ascari ma da un nuovo clientelismo e dal sottogoverno dilagante all’ombra degli Enti di Stato.
Questo nuovo blocco ha scosso il vecchio assetto e disgregato il vecchio tessuto sociale ma, insieme, ha messo in movimento tutte le forze, ha cambiato la loro collocazione e i loro rapporti reciproci, ha dato vita a nuove aggregazioni. Su questo dobbiamo lavorare. Non è vero che la prospettiva e gli sbocchi della lotta si fanno più difficili. Le città, cresciute in modo abnorme come centri di consumo e di imprese caotiche e speculative, hanno acquistato un peso che nel Mezzogiorno non avevano mai avuto; ma in questo ambiente è andata di pari passo aumentando la importanza e l’influenza della classe operaia, sicché oggi il vecchio ruolo della città meridionale, quello di cerniera in cui si saldava il dominio del Nord sulle campagne, è messo in discussione dalla lotta di classe e dalla contestazione giovanile. Il mondo contadino meridionale è sconvolto da una crisi agraria profonda e che tenderà ad acutizzarsi. Si prospetta la fine della politica di sostegno dei prezzi, pilastro — ormai troppo gravoso — su cui si regge tutto un equilibrio sociale. Tende a prendere corpo una nuova tendenza (che il piano Mansholt esprime in qualche modo), che, travolgendo insieme le illusioni riformiste dell’azienda cosiddetta familiare e i miti dell’azienda capitalistica, configura una sorta di nuovo colonialismo per le campagne: l’agricoltura ridotta a piantagione dell’industria, e di un’industria di rapina con costi umani e sociali mostruosi quali l’aggravamento dell’esodo, la crisi e la desertificazione non più soltanto del Mezzogiorno dell’osso ma di antiche città e di secolari zone di insediamento civile come le fasce costiere agrumarie da Catania a Messina e quelle a olivo da Barletta a Monopoli.
Di qui le nuove proporzioni della crisi meridionale. Non basta più dire che il Mezzogiorno progredisce troppo lentamente. In verità si sta verificando l’ipotesi catastrofica accenna­ ta tempo fa dallo stesso ministro Colombo: il Mezzogiorno rischia non di arrivare in ritardo ma di esser tagliato fuori per sempre dallo sviluppo economico moderno, di essere emarginato e trasformato in una ap­ pendice inerte e passiva del sistema economico italiano.
Quest’anno, per la prima volta nella storia recente, il reddito complessivo prodotto nel Mezzogiorno è addirittura inferiore a quello dell’anno precedente mentre le bocche da sfa­ mare sono aumentate. I posti di lavoro sono diminuiti ancora ed è fortemente cresciuto il numero dei giovani in cerca di nuova occupazione.
Malgrado i quattro milioni di meridionali costretti ad emigrare al Nord o all’estero, il reddito per abitante dell’Italia meridionale che nel ’51 era la metà di quello dell’Italia nord-occidentale, nel 1966 era sceso addi­ rittura a meno della metà. Negli ultimi 15 anni l’occupazione nel Mezzogiorno si è ridotta da sei milioni e mezzo a sei milioni, di cui circa un milione sono occupati marginali. E non è neanche vero che, nonostante tutto, il Mezzogiorno, sia pure lentamente, si industrializzi, per cui i ritardi, le lacerazioni, gli squilibri di oggi potranno essere domani recuperati e risarciti. Al contrario, il Mezzogiorno si « terziarizza » invece di industrializzarsi, accentua il suo carattere di fornitore di materie prime e semi-lavorati. Qui è il dato più agghiacciante della realtà meridionale: dei tre milioni e mezzo di meridionali che si presenteranno sul mercato del lavoro da qui al 1980, solo un milione o poco più troveranno lavoro nel Sud se le tendenze attuali non cambieranno.
Questi dati di fatto chiamano in causa anche noi, il movimento di classe, il partito. Dobbiamo sapere che oggi e non domani a noi spetta dare una risposta adeguata alla di­ mensione nuova dei problemi e dei processi in atto nel Mezzogiorno. Al­ trimenti perplessità, inquietudini e interrogativi si faranno strada nelle file dello stesso movimento popolare.
Questa risposta non può consistere solo nella indicazione di una generica alternativa. I tragici fatti di Battipaglia, e il modo come si sono svolti, confermano invece che è urgente il compito di avviare in con­ creto la costruzione di un movimento - e di uno schieramento di forze polifiche e sociali amplissimo e articolato insieme, fondalo su una nuova unità politica delle sinistre laiche e cattoliche. Giò significa affrontare e risolvere sia il problema delle forme di lotta, sia quello della creazione di nuovi strumenti di democrazia e di potere dal basso, sia quello del rinnovamento profondo delle tradizionali strutture organizzative (partito, sindacato, ecc.). E questo non in astratto ma in rapporto alle condizioni concrete di lavoro e di vita delle grandi masse meridionali (operai, contadini, semi proletari, braccianti, disoccupati, giovani) che non sono le stesse del Nord, e in rapporto alle loro tradizioni e alle loro peculiari esperienze, e muovendo dai loro bisogni immediati.
Quale deve essere il punto di partenza? Innanzi tutto occorre tenere ben presente la connessione più stretta (ma anche diversa, non uguale al passato) tra situazione meridionale e situazione generale del paese. Se è vero che il movimento di massa ha caratteri non puramente rivendicativi né di generica protesta ma esprime mutamenti reali che sono avvenuti o che stanno avvenendo nei rapporti di classe; se è vero che dal profondo della nostra società viene avanti un movimento rinnovatore e nello stesso tempo profondamente positivo che vuole e può rappresentare una tappa fondamentale del lungo cammino dell’emancipazione, una tappa della complessa edificazione del nuovo blocco storico, è vero anche che il ruolo delle masse meridionali è oggi più che mai centrale. Per questo tutto il lavoro dei comunisti meridionali deve assumere un carattere sempre più politico, deve avere una più forte e più chiara ispirazione ideale.
Cosi è stato, del resto, per la battaglia contro le « gabbie » salariali, ed è anche per questo che il movimento ha avuto la carica, la estensione e l’ispirazione ideale che lo ha portato alla vittoria. Il primo e più concreto compito che ci sta di fronte è dunque, partendo dal successo ottenuto, rilanciare il movimento, garantendo la sua estensione e le sue basi di massa. Sappiamo che non sarà facile.
La lotta contro le « gabbie » salariali ha attaccato direttamente il blocco sociale conservatore che è nazionale e che è tenuto insieme dallo intreccio di profitto e rendita e non reggerebbe mai senza i bassi salari e l’inesauribile serbatoio della manodopera meridionale. L’attacco può e deve continuare. L’avversario, infatti, non sta fermo. Agnelli ha confermato dinanzi alla Commissione industria della Camera che le scelte della FIAT saranno guidate da una logica esclusivamente aziendale, cui sono del tutto estranee le esigenze di sviluppo del Mezzogiorno. La FIAT concentra i suoi in vestimenti a Torino e all’estero, ingaggia altri 15 mila uomini nelle piazze del Sud e, in conseguenza delle decisioni della FIAT, questo docile Stato dirotterà nei prossimi anni 4-5 mila miliardi dagli impieghi sociali verso investimenti in autostrade e in servizi legati allo sviluppo dell’automobile. Ecco una sollecitazione severa a evitare che — conclusa la vertenza per le « gabbie » e per le pensioni — il movimento si spezzetti in episodi isolati perdendo la sua carica generale rivendicativa e, insieme, rinnovatrice. Si tratta dunque di far si che una conquista salariale come quella delle zone non eluda o monetizzi il problema fondamentale che sta dinanzi alla classe operaia meridionale. Questo problema — lo sottolineiamo — è quello di contrattare tutti gli aspetti del rapporto di lavoro, aggravati in questi anni dai processi di sfruttamento e di riorganizzazione aziendale.
Ciò significa, innanzitutto, rilancia­ re la lotta articolata tenendo conto che in tutte quelle numerosissime medie e piccole aziende dove mancano, per ragioni ambientali e in specie per la pesantezza del mercato del lavoro, le condizioni esistenti nel Settentrione, occorre utilizzare in termini positivi l’aspra protesta che nasce dalla più chiara coscienza dello sfruttamento. Le basi di partenza si sono fatte più favorevoli perché la condizione operaia del Mezzogiorno sta cominciando ad apparire non solo alla coscienza dei lavoratori (e questo è merito anche dell’àttivismo studentesco) un fatto barbarico, insopportabile, esplosivo. Le zone salariali sono state abolite, è vero, ma il salario meridionale è ancora ben lungi dal toccare i livelli di quello del Nord. E non parliamo della violazione delle leggi sociali (in particolare per i ragazzi, i giovani, le donne), dei ritmi infernali di Taranto e Bagnoli rispetto alle analoghe fabbriche del Nord, degli antri in cui l’operaio del Sud lavora, delle condizioni degli alloggi e dei trasporti per i poveri pendolari delle fabbriche meridionali.
L’azione articolata della classe operaia per la conquista di un maggiore potere contrattuale e di controllo non può tuttavia restare isolata se non si vuol correre il rischio di un riflusso.
Sentiamo perciò la necessità di lanciare nella lotta le grandi masse urbane sottooccupate e semi-proletarie perché abbiamo la coscienza che elevare questa vasta zona sociale è indispensabile se vogliamo stringere le altre forze politiche e ottenere che i grandi temi politici ed economici si pongano finalmente in termini di chiare scelte di linea e non di rinnovate operazioni trasformiste e caritative, che in questa massa possono trovare ancora una base oggettiva.
E’ in tale prospettiva che andiamo organizzando a breve scadenza conferenze regionali e di zona degli operai comunisti meridionali. Con la precisa consapevolezza che le proposte e gli obiettivi di sviluppo economico, di riforma industriale, e in particolare di riforma dell’industria di Stato, debbono essere non il punto di partenza ma il punto di arrivo di un discorso che parte dalla difesa del posto di lavoro e dalla lotta per più alti salari, e di qui pone il problema della conquista di una nuova condizione operaia, di un più esteso controllo operaio sulla formazione della forza-lavoro, e quindi sullo sviluppo economico-sociale.
Anche le campagne meridionali non sono ferme. Si è lottato, e duramente (i morti di Avola ne danno testimonianza). Ma noi scontiamo la mancata soluzione di un problema centrale e decisivo per tutta la lotta meridionale: mutare per i lavoratori agricoli la condizione di esercito di riserva della manodopera. E’ un esercito di riserva di tipo vecchio, in quanto serve a tenere bassi i livelli salariali, ma anche nuovo, in quanto appare sempre più collegato a una nuova struttura dell’occupazione che moltiplica i ruoli ripetitivi, dequalificanti, senza carriera, e ha bisogno, accanto ai tecnici e agli operatori, di strati di forza-lavoro da consumare rapidamente (i contadini, appunto, e poi le donne, gli emigrati, gli studenti meridionali) come cascami del processo produttivo.
Se non si parte da qui non si comprendono le esplosioni di collera che scoppiano sempre più di frequente nel Mezzogiorno con la sollevazione di popolazioni intiere che occupano i municipi, bloccano le strade, interrompono le ferrovie. Questo è avvenuto a Rionero, a Venosa, a San Marco, ad Andria, nella Sardegna interna. Ciò che è nuovo è che non sono più le plebi di un tempo che si ribellano, ma masse di giovani e di lavoratori qualificati ridotti alla disperazione, giacché la crisi investe e degrada non soltanto le zone interne, dove solo una persona su cinque ha lavoro, ma anche le cittadine e le zone di recente sviluppo.
Di fronte a tale stato di cose non possiamo accettare una attenuazione dell'impegno politico sui problemi agrari. Certo, il giuoco dei prezzi che riduce all’osso il reddito contadino e si mangia il risultato delle faticate trasformazioni; il ricatto oggettivo esercitato sul bracciante dal mercato di piazza; il fatto che le scelte di investimenti e di indirizzi produttivi sfuggono sempre più al coltivatore, declassato al ruolo di lavorante a domicilio di una industria lontana e sconosciuta, e di postulante verso enti di Stato che sono al servizio dei potenti e dei parassiti: tutto ciò fa si che le rivendicazioni settoriali prese in sé non appaiano sufficientemente credibili e quindi non mobilitino come prima. Dobbiamo allora accettare che la lotta agraria passi in secondo piano e che ciò sanzioni un indebolimento di fatto del fronte meridionalista ?
Vediamo quali sono le dimensioni assunte dalla crisi agraria. Il signor Mansholt ce lo ha detto con estrema chiarezza: è avvenuto un salto di qualità. Queste dimensioni sono oramai tali che non esistono più soluzioni reali all’interno dell’agricoltura. Sono quindi finite le illusioni riformistiche, il vagheggiamento dell’azienda cosiddetta familiare. Ma è fallito anche l’altro grande mito: quello dell’azienda capitalistica.
Dunque avevamo ragione noi quando spostavamo il discorso sull’agricoltura oltre ogni limite settoriale e tecnicista (i prezzi, le dimensioni aziendali, le scelte culturali, ecc.) e ponevamo tutti i problemi in termini di mutamento dei rapporti tra agricoltura e industria, tra agricoltura e meccanismo di accumulazione, e quindi in termini di lotta per mutare con la riforma agraria tutti i rapporti sociali, il sistema del capitalismo di Stato e quindi la strategia generale dello sviluppo capitalistico. Mansholt fa lo stesso discorso nostro ma esattamente rovesciato. Vuole subordinare fino in fondo l’agricoltura alle leggi dei monopoli europei, la vuole cioè colonizzare, trasformarla in piantagioni dell’industria. Ma ciò comporta conseguenze enormi, la trasmigrazione di milioni di uomini, l’impoverimento di tutto un ambiente, la crisi di antiche città e di province intere.
Il piano Mansholt conferma con chiarezza che siamo a un bivio: o una riforma agraria come leva per mutare il tipo di sviluppo generale e cambiare il soggetto (dal profitto al lavoro) e i criteri di calcolo (dai costi aziendali a quelli sociali), oppure la desertificazione di intere zone agricole europee, puntando su una ulteriore concentrazione dello sviluppo economico e industriale.
Siamo perciò in presenza di una fase più avanzata di socializzazione del capitale ma, attenzione, non nel senso classico di uno sviluppo del capitalismo agrario e quindi di una soluzione per questa via dei problemi dell’arretratezza delle zone agrarie (eliminazione delle rendite, ecc.). No, la rendita viene difesa e conservata, mantenendo la separazione tra proprietà e impresa. Piuttosto di un neo-capitalismo si ha un neo-colonialismo, una agricoltura da piantagione, una sudamericanizzazione dell’agricoltura, specie meridionali e, rispetto alle compagnie industriali. Ciò, appunto, non significa solo liquidare i contadini ma distorcere tutto lo sviluppo economico e industriale del paese, concentrare ulteriormente l’industrializzazione, e quindi liquidare nel Mezzogiorno le basi e le condizioni stesse di uno sviluppo industriale futuro.
Ma se le cose stanno così, il giuoco si semplifica e si chiarisce. Certo, all’agricoltura — come dice Mansholt — occorre un orizzonte più vasto di quello aziendalistico tradizionale. Ma dove sta scritto che questo orizzonte debba essere poi delimitato dal profitto di rapina dell’industria monopolistica? Perché non smantellare invece il bastione della proprietà terriera, dare la terra a chi la lavora per passare cosi a forme di conduzione agricola sociale, che prima di tutto consentano l’iniziativa creatrice del contadino, in secondo luogo fondino un suo potere sull’intero ciclo agrario-industriale e in terzo luogo valorizzino così tutte le risorse dell'ambiente (fìsiche, materiali, umane) con la conseguenza di abbassare i costi collettivi e di avviare nuovi problemi di sviluppo organico?
A questo punto noi non possiamo avere più timidezze. Dobbiamo dire di « no » e dirlo in nome di una chiara alternativa. Le grandi « unità di produzione » di cui parla il vice-presidente della Commissione europea, così come sono concepite nel Piano, costituiscono delle utopie reazionarie.
Ma proviamo a concepirle come cooperative o associazioni di coltivatori: allora sì che hanno una fondata possibilità di divenire la base di un nuovo assetto dell’agricoltura. In sostanza, col piano Mansholt, tutto il discorso si sposta in avanti e si fa più chiaro. Diventa chiarissimo il fallimento della proprietà terriera, tanto che sono costretti a parlare di « gestione comune delle terre » e di « fusione dei patrimoni zootecnici ». Ma diventa anche chiaro che queste cose hanno un contenuto realistico solo nel quadro di un orizzonte politico-economico ben diverso da quello che offre oggi l’Europa capitalistica.
Ecco il significato, il respiro politico nuovo, delle conferenze agrarie per il lavoro e le trasformazioni che vogliamo lanciare su larga scala. Non vogliamo conferenze tra tecnici ed economisti, ma un grande movimento di lotta contadino e popolare (compresi i giovani e gli studenti) che parta dai bisogni imimediati: lavoro, salario. Ricordiamoci quello che fu il segreto dei grandi movimenti popolari del passato, quella che fu la carica politica e ideale che mosse le moltitudini meridionali nel dopo­guerra e le spinse all’attacco contro le vecchie strutture. L’obiettivo era chiarissimo : il latifondo; la forma di lotta anche: l’occupazione delle terre. E’ possibile adesso, in una situazione completamente diversa, muovere grandi masse intorno a idee altrettanto semplici e concrete (l’idea di una trasformazione che dia lavoro e insieme utilizzi le risorse), visibili, toccabili con mano, zona per zona, evitando il polverone, la manifestazione puramente dimostrativa che non intacca le strutture e lascia dietro di sé il vuoto? Sì, alla condizione (ecco il punto essenziale) che si veda la nuova controparte nella sua interezza (la proprietà terriera, il capitale monopolistico di Stato e l’industria fusi insieme) e la si affronti nella sua interezza, contrapponendogli uno schieramento di forze adeguato e una forma di lotta adeguata.
In questo chiaro e vasto orizzonte tutte le singole rivendicazioni si ricompongono come in un mosaico, acquistano coerenza e si rafforzano reciprocamente: quella dell’operaio con quella del bracciante e del contadino: la terra a chi la lavora con il potere sul mercato e sull’industria; l’associazionismo appare possibile in quanto diventa necessità di costruzione di un potere sociale sul mercato e sull’intero processo produttivo; la solidarietà cittadina diventa consapevolezza delle risorse da valorizzare nell’interesse di tutti; il Comune cambia il suo ruolo e diventa strumento effettivo di autogoverno, non una sede di ordinaria amministrazione o di rappresentanza politica formale, ma il punto di appoggio di una lotta di massa che dia un contenuto concreto e attuale all’auto governo popolare.
Tutto ciò non sarà facile perchè avvertiamo la debolezza e l’usura degli strumenti tradizionali di lotta, la mancanza di solide e articolate organizzazioni, il poco che abbiamo sul terreno degli organismi associativi capaci di gestire una lotta dal basso e di costruire fatti permanenti di potere. Ma intanto: proprio perchè si è creato un grande fatto nuovo di coscienza a livello dell’universo cittadino (sottolineo questo perchè è vero che i contadini che lavorano la terra sono diminuiti, ma l’Italia — compresi i giovani — che vive accanto e dentro la campagna, e in rapporto con la campagna, è immensa), proprio per questo si è rotto l’isolamento contadino e bracciantile e quindi anche le rivendicazioni particolari, quella del controllo del collocamento per esempio, che oggi è un obiettivo essenziale capace di mettere in moto tutto un processo come fu l’impossibile un tempo, o quella dei riparti, ridiventano credibili, possibili, necessarie, a portata di mano. E qui bisogna dire una parola sui giovani che noi dobbiamo assolutamente avere con noi e in prima linea in questa battaglia che è anche lezione dii concretezza rivoluzionaria. Parlare di strategie avanzate, di attualità del socialismo se non vuole essere solo vuoto estremismo significa affrontare oggi, subito, questi problemi, indicando le vie, i modi, le forme di lotta, le forze che si possono mobilitare.
Tutto ciò — è evidente — chiama in causa la logica del sistema che ha trasformato gli enti locali nel Mezzogiorno in passivi strumenti del potere monopolistico, in luoghi di organizzazione e di foraggiamento delle clientele locali che funzionano appunto da mediatori tra le masse e il potere. Tutto il nostro discorso rende concretamente visibile, possibile e necessario, un altro Comune, un’altra Regione, riapre concretamente e dal basso il tema di una nuova democrazia di popolo nel Mezzogiorno e dii un nuovo tempo e di un nuovo contenuto dell’autonomia locale. Al centro della prossima battaglia elettorale amministrativa sta dunque un problema cruciale, quello di dare alla lotta e al movimento per le riforme un nuovo sbocco politico-istituzionale, attraverso un disegno di lotta capace di incidere non soltanto ai livello delle strutture sociali, ma di orientare in modo nuovo e di spostare — questo è oggi decisivo più che mai — le forze politiche.
Ai nostri interlocutori della sinistra democratica diciamo che se vogliono calare nella realtà il tanto discusso tema dei nuovi rapporti con il partito comunista, è con il movimento che debbono stabilire un rapporto, è con la spinta delle masse che debbono trovare un collegamento. Si tratta di scegli!ere tra l’essere la componente di sinistra di uno schieramento di « ascari » per assolvere alla funzione di mediatori tra il potere monopolistico e le masse, e l’essere una forza autentica di sinistra, collegata a un grande movimento che tende a porre in discussione il ruolo dii sub ordinazione economica e politica in cui il Mezzogiorno è stato inchiodato.
Non è una richiesta da poco quella che avanziamo. Non è facile uscire da un meccanismo avvilente ma comodo per impegnarsi in un profondo processo di trasformazione democratica. Sappiamo che prezzi gravi debbono essere pagati per compiere questo salto. Si tratta — in parole chiare — di avviare un vero e proprio cambiamento della classe dirigente.
Ma non c’è altra strada. I processi politici, anche nel Mezzogiorno, si sono accelerati. Ed è il meccanismo stesso del sistema che, per autoconservarsi, cercherà di mettere in moto una spirale repressiva e di compromettere o travolgere una parte delle stesse forze democratiche.
Ci sembra però che se sapremo portare avanti una lotta e un processo di questo tipo riusciremo anche a evitare il « tutto o niente » e a creare lo spazio politico per incontri anche parziali, per costruire le tappe successive di un processo unitario, senza smarrire la prospettiva ma anzi rendendola via via più chiara, concreta, possibile.

 


(0)
(0)






in: Catalogo KBD Periodici; Id: 32729+++
+MAP IN RIQUADRO ANTEPRIMA


Area unica
Testata/Serie/Edizione Rinascita | settimanale ('62/'88) | ed. unica
Riferimento ISBD Rinascita : rassegna di politica e cultura italiana [rivista, 1944-1991]+++
Data pubblicazione Anno: 1969 Mese: 4 Giorno: 18
Numero 16
Titolo KBD-Periodici: Rinascita 1969 - 4 - 18 - numero 16


(0)
(0)










MODULO MEDIAPLAYER: ENTITA' MULTIMEDIALI ED ANALITICI





Modalità in atto filtro S.M.O.G+: CORPUS OGGETTO

visualizza mappa Entità, Analitici e Records di catalogo del corpus selezionato/autorizzato (+MAP)




Interfaccia kSQL

passa a modalità Interfaccia kSQL