Area della trascrizione e della traduzione metatestualeTrascrizioni | Trascrizione Non markup - manuale o riveduta: [[OCR FR15, rapida revisione manuale]] [didascalia p.6: Roma - Gli operai della FATME votano l'accordo conquistato con la lotta ] I protagonisti Da una parte la Rhodiatoce (sui cartelli, in gergo, Rodio), con SNIA e Chatillon uno dei tre grandi nel settore fibre artificiali. Dati segnaletici essenziali: 73 miliardi di fatturato, 8.200 dipendenti, al 34. posto nella graduatoria delle grandi imprese italiane, al 2. in quella del settore tessile. Ma per l’identificazione completa bisogna aggiungere che fa parte del gruppo Montedison. Siamo dunque di fronte a uno dei giganti dell’industria nazionale. Di Rodia ce ne sono quattro, oltre la sede degli uffici centrali a Milano: a Villa dossóla (700 operai), a Novara (850), a Casoria (1700) e a Verbania (4.200 operai e quasi 500 tra tecnici e impiegati). La lotta si è svolta nello stabilimento più importante. Ma quanti sono stati, effettivamente, i protagonisti, da questa parte? L’occupazione della fabbrica l’hanno decisa più di duemila lavoratori riuniti in assemblea, con votazione regolare per alzata di mano: ci furono tre voti contrari. Erano le 13,55 del 5 marzo. (Un’operaia ha tenuto un diligente diario dell’occupazione). Più o meno la stessa partecipazione si era avuta al momento in cui, il 27 febbraio, l’assemblea decise lo sciopero. I protagonisti non sono però soltanto i lavoratori che hanno contribuito a renderlo totale. Il 12 marzo, lo sciopero generale cittadino, proclamato dai tre sindacati per solidarietà con gli occupanti della Rhodiatoce, riesce a tal punto che il Corriere della Sera, sotto un titolo a tre colonne («Verbania paralizzata »), ne fa questa presentazione: « da Fondotoce a Premeno, deserte le fabbriche e le scuole, fermi i battelli sul lago e i trasporti urbani, sprangati i negozi (d’accordo l’Unione commercianti) e chiusi infine numerosi uffici ». Uno sciopero che arresta tutte le attività pubbliche e private di intere città, come è successo a La Spezia proprio la settimana scorsa e a Pisa qualche mese fa. Uno sciopero di quelli, per intenderci, che non lasciano neanche un bar aperto, neanche un negozio con la saracinesca alzata. Gli abitanti di Verbania superano i 30 mila, la popolazione adulta i 25.000; ma hanno scioperato anche tutte le scuole. L’annuncio della vittoria è stato dato dal suono delle campane. Anche i sagrestani, a Verbania, sono tra i protagonisti di questa lotta. La scintilla Un provvedimento disciplinare inflitto dalla direzione a tre operai accusati di aver malmenato un crumiro. E’ un pretesto dal momento che lo stesso crumiro smentisce di esser stato picchiato e spiega che si è trattato di uno scherzo. Ma la precisazione (o ritrattazione che sia) non induce affatto la direzione a miti consigli. I tre vengono sospesi dal lavoro in attesa della conclusione delle indagini. Il clima in fabbrica è teso. Da tempo è in corso una riorganizzazione di tutto il lavoro. L’azienda mira a razionalizzare il rapporto uomo-macchina attraverso la scomposizione delle mansioni e la parcellizzazione del lavoro. Il malcontento serpeggia tra i reparti. Gli operai avvertono che con questi nuovi sistemi basati sulla job evaluation, lavorano più intensamente di prima. Si sentono più sfruttati e temono che questo consenta alla Rodio, di ridurre l’occupazione di 300-400 unità lavorative. Hanno paura che parecchi di loro finiscano nei « reparti polmone », anticamera del licenziamento o delle dimissioni praticamente forzate, dove i « limoni spremuti » eseguono lavori di scarsa importanza. I licenziamenti nell’alto Novarese si contano già a migliaia. La direzione sente avvicinarsi la minaccia di uno sciopero che mi rerebbe a contestare questo tipo di riorganizzazione del lavoro. Come fronteggiarlo? Nessuno, naturalmen te, ne ha le prove, ma il pretesto disciplinare ha tutta l’aria di voler provocare gli operai a una lotta difensiva, di mera solidarietà con tre lavoratori puniti in modo ingiusto o troppo grave. Una di quelle lotte che è facile dichiarare ma è difficilissi mo sostenere a lungo, quando il pa drone tiene duro. Una di quelle lotte che, se pure mobilitano la massa operaia, si svolgono sul terreno scelto dalla proprietà e, nella migliore delle ipotesi, si concludono ripristinando lo status quo ante. L’ideale per distrarre gli operai dalla questione essenziale. Ma non andrà così. La piattaforma La sera stessa in cui l’azienda applica la punizione ai tre (è il 25 febbraio) scoppia uno sciopero spontaneo nel reparto filatura nylon. Due giorni dopo sindacati e assemblea met tono in sciopero tutta la fabbrica. Sem bra che gli operai siano caduti nella trappola. E* vero il contrario. Già dall’assemblea generale che decide lo sciopero a oltranza emerge una piattaforma rivendicati va che a ogni operaio e alla massa fornisce una ragione convincente per scioperare da protagonista, con obiettivi precisi da conquistare. Sin dall’inizio, questa è una lotta offensiva, non difensiva. La piattaforma, naturalmente, non è nata d’incanto. Ai problemi generali comuni a tutti i lavoratori della fabbrica (eliminazione delle differenze retributive derivanti dalle « zone salariali », riconoscimento del diritto di assemblea, revisione del regola mento di disciplina interna per con sentire ai rappresentanti dei lavora tori di controllare gli spostamenti e la definizione delle carriere) si collegano i problemi specifici dei diversi reparti: in complesso si tratta di undici punti, definiti concretamente in assemblee di reparto che motivano, sostanziano e fanno crescere dal basso la carica di lotta di tutti i settori della fabbrica. La direzione aziendale è disposta a trattare e a far concessioni su lutto, tranne che su un punto. Uno contro undici: perché non cedere? La questione, dopo tutto, tocca soltanto i 200 operai del reparto filatura nylon, quelli che hanno dato il via allo sciopero. Perché intestardirsi a volerla vinta su tutto? Non può bastare che l’azienda voglia cedere su dieci delle undici rivendicazioni? Il punto decisivo E’ solo l’ultima delle richieste, ma è quella decisiva. Riguarda il carico di lavoro di appena 200 lavoratori su 4.200, ma dal ritmo di questo reparto dipende quello dell’intiera fabbrica. Se la direzione riesce ad aver le mani libere qui, riuscirà a imporre i nuovi criteri di organizzazione del lavoro in tutta l’azienda. E per capire che cosa voglia dire, letteralmente, lasciare all’azienda il potere incontrollato di determinare i ritmi del lavoro bisogna precisare che in questo reparto ci sono 40-45 gradi di calore, l’umidità raggiunge il 70-75 per cento, nell’aria è abbondamente diffuso il polverino di monomero che si libera dai granelli di polimeri nel momento in cui le macchine li trasformano in pasta e poi in fili di nylon. Si tratta di un ambiente di lavoro così nocivo (gli svenimenti e le malattie professionali — dalle artriti agli eczemi — sono frequenti) che la presenza dell’operaio sulle macchine non può essere continua: su otto ore, pari a 480 minuti, per ogni operaio erano previsti fino a un anno fa 210 minuti (alternati da pause) di contatto con i blocchi nei quali avviene la trasformazione della materia prima. Con la riorganizzazione, l’azienda riesce a imporre 288 minuti di presenza ai pezzi: l’aumento è di oltre un terzo, più di un’ora. Erano naturalmente ragioni oggettive, organizzative, tecniche, se non addirittura scientifiche, a imporre questi ritmi. Ma l’oggettività ha una doppia faccia. Prendere coscienza che c’è una oggettività degli sfruttatori e una oggettività degli sfruttati è il punto di partenza per acquisire l’autonomia di classe. La produzione ha le sue leggi, dice la Rodia. Ma quali sono i limiti oltre i quali non si può tendere lo sforzo fisico di un operaio? Fino a che punto è tollerabile mettere a repentaglio la sua salute, la sua integrità psichica? L’operaio è solo l’ingranaggio di un sistema produttivo o è, innanzitutto, un uomo? Sono questi i termini del dibattito di massa che si svolge a Verbania durante venti giorni di sciopero e dodici di occupazione. I protagonisti si rendono conto che la risposta non spetta a un collegio arbitrale al di sopra delle parti, ma dipende dai rap porti di forza, dalla capacità e dal potere degli operai di incidere sul potere dei padroni. La « prova di forza » Di fronte alla riuscita dello sciopero e all’arco amplissimo di solidarietà cittadina che si va organizzando attorno alla Rodia, gli industriali adottano una tattica duttile: dichia rano che hanno bisogno di tempo per risolvere i problemi tecnici e organizzativi dai quali dipende l’intiero ciclo della produzione, promet tono che entro tre mesi miglioreranno le condizioni ambientali del reparto in modo che il nuovo carico di lavoro risulti più sopportabile, tendono a trasferire la trattativa lontano dalla fabbrica occupata, lon tano da questa città surriscaldata da una lotta in cui tutti si riconoscono e alla quale ognuno arreca il contributo che può (il diario segnala che la sottoscrizione cittadina ha superato i tre milioni, oltre i viveri e altre offerte in natura). I sindacati rispondono: hic et mine. Si tratta qui ed ora. A Verbania, e cioè nelle condizioni e nell’atmosfera create dalla lotta. Per togliere pre giudizialmente, a chiunque l’avesse, l’idea che i sindacati possano essere non l’espressione diretta dei lavoratori ma una sorta di mediatore tra le parti. E si tratta subito, per ridurre i carichi di lavoro immediatamente e non quando saranno cambiate (se mai lo saranno) le condizioni ambientali del reparto. Nella prova di forza entra a un certo punto la minaccia di estendere la lotta agli altri stabilimenti del gruppo Rhodiatoce. E’ probabilmente ciò che induce gli industriali, sabato scorso, a cedere anche sull’undicesimo punto, sul carico di lavoro, ovverossia sull’intensità dello sfruttamento nel reparto filatura nylon: i tempi di intervento, su otto ore, passano da 288 minuti a 260 e 240. Quello che ieri era oggettivamente impossibile alla luce della tecnica e della scienza dell’organizzazione, diviene dunque oggettivamente possibile. Si conferma che anche per i padroni l’oggettività è un dato non assoluto ma storicamente determinato e modificabile. Questa conquista sovrasta su tutte le altre perché rap presenta la contestazione di fatto del processo di riorganizzazione capitalistica che la Rodia voleva realizzare inasprendo lo sfruttamento. Ma anche gli altri risultati non sono da poco: il diritto di assemblea, il passaggio alla zona zero, la discussione sui tempi di lavoro in tutti i reparti, la parità di categoria tra donne e uomini nel reparto ordinatura nylon, e altri sostanziosi miglioramenti salariali e normativi. La gestione della lotta L’unico nome che ho segnato sul taccuino, prima di entrare nella fabbrica occupata (ma solo negli uffici della direzione, perché gli impianti sono rigorosamente vietati agli estranei e controllati dagli operai a turno, contro i rischi di incendio, di manomissione dolosa o di provocazione), il dirigente della lotta che vorrei incontrare più a lungo è proprio quello che potrò avvicinare solo fugacemente. Esce da un’assemblea alla mensa per infilarsi subito in una riunione del comitato d’occupazione (formato dalla Commissione Interna e dalle sezioni sindacali) e poi in una seduta del comitato di lotta, che è l’organismo di direzione più esterno, più largo e più politico: vi partecipano, attivissimi, anche elementi del movimento studentesco. Si chiama Gian Carlo Tartaro ed è il dirigente riconosciuto della lotta. Giovane perito tecnico, in Commissione Interna rappresenta la CGIL per gli impiegati, è comunista. Il suo emergere ai vertice del movimento segna la partecipazione alla lotta di classe di una nuova generazione di colletti bianchi, di questo nuovo settore del proletariato moderno, che è venuto prendendo coscienza di una condizione di sfruttamento sempre più assimilabile a quella dell’operaio vero e proprio. Trovarsi un comunista a rappresentare gli impiegati non deve essere stata una scoperta lieta per una direzione abituata a considerare i tecnici componente essenziale del potere proprietario. Fino a qualche tempo fa, la CGIL non riusciva neanche a presentare il candidato per gli impiegati. E non deve esser stato comodo trovarselo dall’altra parte del tavolo alle trattative: con le sue cognizioni, uno come Tartaro era in grado di contestare anche sul piano tecnico le tesi padronali. La direzione cercò di sbarazzarsene con un trasferimento che forse pre ludeva a un licenziamento. I lavoratori reagirono con uno sciopero e lo spostamento fu trasformato in promozione. Se faccio il suo nome non è per introdurre un elemento personale superfluo ma perché alla presa di coscienza dei colletti bianchi, soprattutto di quelli impegnati direttamente in produzione, ha contribuito in modo decisivo la rivendicazione di sindacare i criteri che decidono la mobilità interna e, in definitiva, la dinamica della carriera del personale tecnico e impiegatizio, abbandonata per troppo tempo all’arbitrio della direzione. Gian Carlo Tartaro non dirige né decide da solo. In questa lotta non c’è né un uomo né un gruppo né un organismo che abbia mai deciso da solo. Non c’è un sistema di democrazia delegata. Il potere di decidere sulle questioni decisive spetta all’assemblea. Ma non si può parlare neppure di gestione assembleare. C’è piuttosto un flusso continuo e informale di rapporti, un’osmosi pressoché in interrotta tra la base (e cioè l’assemblea degli operai e dei tecnici) e gli istituti rappresentativi della classe (dalla Commissione Interna alla sezione sindacale, agli organi sindacali superiori) nonché i nuovi organismi sorti proprio durante la lotta come espressione (a cominciare dai comitati di reparto) di una più attiva forma di partecipazione dal basso. E’ questo che ha reso saldissima l’unità sindacale e stimolato anche l’unità politica nei comitati cittadini. E’ questo che ha consentito ai lavo ratori impegnati nella lotta di esprimere, ' non contraddittoriamente, il massimo di democrazia al momento delle decisioni (in questo l’assemblea è stata sempre sovrana) e il massimo di agilità nella esecuzione della volontà collettiva. Questa spinta alla partecipazione può portare anche ad episodi curiosi: la reazione un po’ turbolenta ai metodi — diciamo così — tradizionali e paternalistici con cui si pretende di organizzare la visita di alcuni parlamentari in fabbrica. Anche in quel mo mento l’assemblea si sente sovrana e fa sentire la sua insofferenza per quella che le appare una sorta di im potenza del potere parlamentare. Poco più di un anno fa, alla fine del 1967, proprio all’inizio del processo di riorganizzazione del processo di lavorazione, i sindacati accettarono un accordo che impone ca richi di lavoro pesantissimi: nel reparto filatura nylon si arrivava fino alla punta massima di 300 minuti. Il passaggio da 210 a 300 minuti non avviene di colpo, ma gradualmente, man mano che procede il processo di riorganizzazione. Quando però si toccano i 300 minuti gli operai en trano in sciopero spontaneamente. E ottengono la riduzione del carico a 288 minuti. L’autocritica salutare Quell’accordo (stipulato sotto il ti more di 900 licenziamenti) fu un errore; bisognava consultare gli operai — mi dicono in fabbrica. Alla fine della conversazione scopro che a parlare cosi non è un operaio ribelle ma un sindacalista della CGIL. Non è uno più audace degli altri: la autocritica la FILCEA-CGIL l’ha fatta ufficialmente e schiettamente in un seminario svoltosi un mese fa a Meina per esaminare la contrattazione dei carichi di lavoro e il sistema di classificazioni del gruppo Rhodiatoce. « L'esame critico delle esperienze compiute ha portato a rilevare due limiti nella condotta dei sindacati, compreso il nostro — dice il documento che ne è uscito. — Il primo e più importante limite consisteva nell'inadeguato rapporto stabilito tra sindacati e lavoratori nello sviluppo delle vertenze sull'assegnazione dei carichi... ». E più oltre si insiste ancora: «Bisogna verificare con i lavoratori se il ritmo degli interventi con i tempi proposti dall'azienda sono accettabili... ». « Coi lavoratori bisognerà anche discutere quali sono gli organici... ». Di fronte a questo sciopero spontaneo, contro un accordo negativo sottoscritto dai sindacati, la reazione dei sindacalisti non è stizzosa nè dà luogo a ulteriori frizioni. Si prende coraggiosamente atto dell’errore compiuto non interpellando i lavoratori e se ne ricavano le conseguenze. L’autocritica non è formale. « Noi siamo riusciti a mettere la lotta e la vertenza sui binari giusti — dice più oltre il documento sindacale — solo quando siamo riusciti a far ricorso sistematicamente all'assemblea dei reparti interessati (svolta nella mensa aziendale) per tutte le decisioni da prendere nel corso della lotta ». Il risultato è una più forte spinta alla unità sindacale, la partecipazione sistematica alle trattative dei delegati di reparto, la garanzia che « in materia di organizzazione del lavoro nessun accordo può essere concluso dalle organizzazioni sindacali senza la decisione dell'assemblea dei lavoratori interessati ». Grazie a questo atteggiamento dell’organizzazione, la incomprensione iniziale si traduce in una più profonda e più autentica democrazia nei rapporti tra sindacati e lavoratori e, di conseguenza, in una più solida unità di base e di vertice. E si punta a nuove strutture, a una nuova rete di rappresentanti operai, per « mantenere un rapporto costante tra lavoratori del reparto e organizzazione sindacale... Non si tratta di nominare dei delegati permanenti, quanto di nominarli di volta in volta in rapporto ai problemi che di volta in volta si affrontano ». L’altro elemento che determina la svolta è la capacità dei sindacati, dei comunisti, di altre forze politiche di sinistra, di far maturare negli operai occupati una coscienza sociale più avanzata. Respingere il piano della Rodia significa anche impedire licenziamenti, creare nuove occasioni di lavoro. La lotta contro il supersfruttamento, in una zona duramente per cossa da chiusure di fabbriche, da ridimensionamenti, da licenziamenti che ascendono a migliaia, diviene così anche lotta di massa in difesa dell’occupazione. Lo sciopero degli operai si salda alla spinta dei disoccupati, all’inquietudine sociale dei giovani, alla tensione politica del movimento studentesco, pone problemi di potere nuovo a livello della società (si pensi, in primo luogo, al problema della gestione e del controllo sindacale del collocamento). Per la prima volta nel Verbano, la Montedison è davvero isolata totalmente. La Rodia non è più la mam ma di Verbania e un’azienda esemplare per il padronato. E’ diventata un esempio per la classe operaia.
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