Area della trascrizione e della traduzione metatestualeTrascrizioni | Trascrizione Non markup - automatica: Alla metà di febbraio avrà inizio a Trieste il processo 'per le stragi commesse nell’unico forno crematorio installato dai nazisti in Italia, nella Risiera di Trieste. E’ una storia quindi degli anni 1944-45, una storia vecchia che racchiude nei suoi segreti la morte di migliaia di perseguitati politici e razziali, di ebrei, ma anche — e forse soprattutto — di partigiani slavi e italiani in uno dei settori più tormentati della lotta al movimento antifascista, un settore nel quale la politica di snazionalizzazione delle popolazioni slave ad opera del regime fascista funse da fattore di singolare esasperazione e da presupposto della cieca ferocia con la quale dopo l’8 settembre ’43 gli occupanti nazisti si applicarono a realizzare la « soluzione finale » non soltanto contro gli ebrei ma anche contro le popolazioni slave e in genere contro tutti gli elementi antifascisti che si opponevano alla volontà di dominazione e di nazificazione dell’Europa. Si potrebbe perciò esprimere soddisfazione per il fatto che sia finalmente giunta a conclusione la lunga fase istruttoria avviata nel 1970 sulla base di segnalazioni fatte pervenire alcuni anni prima alla magistratura di Trieste dall’Istituto regionale :per la storia del moviménto di liberazione, se la sentenza di rinvio a giudizio depositata dal giudice istruttore in data 22 gennaio 1975 unicamente contro due dei principali responsabili dei fatti accertati, August Ernst Dietrich Allers, il quale oggi esercita liberamente la professione forense in quel di Amburgo, e Joseph Ober-hauser, oggi cameriere a Monaco di Baviera, non (ponesse gravi interrogativi sia per quanto concerne l’impostazione più propriamente processuale sia soprattutto sotto il profilo storico-politico. Merito principale della sentenza ci pare quello di avere denunciato le tergiversazioni e le manovre con le quali di governo militare alleato che ebbe il controllo di Trieste sino al 1954 riuscì a impedire che fosse fatta luce sulla vicenda. Ma chi si aspettasse che dalla denuncia della inerzia passata, una inerzia attiva, non pura passività e indifferenza, che ha delle precise motivazioni politiche, il giudice istruttore arrivasse a trarre conclusioni politiche altrettanto coerenti rimarrebbe profondamente deluso. Come cercheremo appunto 'di spiegare, il rischio è che di questo processo della Risiera di San Sabba, che deve essere un processo politico, perché tutta la sua sostanza è calata nella vicenda storica del nazifascismo e se «ha un senso riesumarla, oggi, non è soltanto per colpire determinate responsabilità individuali, che pur ci furono, ma per denunciare e colpire il sistema politico e l’ideologia che consentirono la realizzazione di quei crimini, si voglia fare, con una impostazione tipicamente riduttiva, un processo comune, che metta in evidenza crimini particolarmente efferati, ma pur sempre un processo spoliticizzato, privato cioè di ogni profonda motivazione morale, politica e sociale. E’ opportuno anzitutto riepilogare brevemente i fatti che sono all’origine della vicenda giudiziaria. Dopo l’annessione dì fatto del Friuli, delle province giuliane e della' « provincia » di Lubiana al Terzo Reich nel quadro del cosiddetto Addatiselo e s Kustenland (Litorale adriatico) dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 (1), i tedeschi alla fine di ottobre dello stesso anno adibirono a prigione il vecchio edificio della pilatura del riso alla periferia di Trieste, affidandone la gestione ad uno dei più famigerati reparti repressivi, il cosiddetto Einsatzkommando Reinhardt, trasferito nella zona alle dipendenze del generale delle Ss Odilo Globocnik, oriundo triestino, con il quale aveva già operato, dando prova di particolare ferocia, nella Polonia occupata, impegnato come fu nello sterminio di ebrei e di altri elementi «nocivi» secondo l’ottica nazista (2). Dall’inizio di aprile del 1944 incominciò a funzionare nella Risiera, ridotta quindi ad una piccola Auschwitz, un forno crematorio, che i tedeschi fecero saltare in aria nella notte tra il 28 e il 29 aprile del 1945, alla vigilia della capitolazione. Quante esattamente siano le vittime scomparse alla Risiera non si saprà mai. Valutazioni attendibili parlano di 4-5000 morti (la stessa sentenza istruttoria fa la cifra di circa duemila oltre alla vittime ebree) (3). Finirono nella Risiera molti esponenti dell’antifascismo; tra di essi il nome più noto è certamente quello di Luigi Frausiin, già membro del Comitato centrale del Pei e all’epoca del l’arresto rappresentante del Pei nel Cln triestino, ma vi scomparve anche il democristiano Paolo Reti, vi scomparvero i dirigenti sloveni Franz Seguliin e Franz Ursic, vi scomparvero Lorenzo Vidali, Antonio Strani e tanti altri. Ebbene, la sorte di tutti costoro non sembra rientri nelle competenze (o nelle convinzioni ideologiche?) del giudice i-struttore, il quale forse non a caso usa l’espressione « lotta di liberazione » appunto fra virgolette, per non dire apertamente, lui funzionario di uno Stato che dovrebbe essere stato ricostituito sulla esperienza della Resistenza, la cosiddetta « lotta di liberazione ». Spetta certamente al giudice istruttore il merito di avere contestato la giurisdizione del Tribunale militare di Padova, come confermato dalla Corte di cassazione, perché probabilmente in caso contrario saremmo andati incontro ad una conclusione ancora più riduttiva di quella offerta dall’attuale sentenza di rinvio a giudizio. Ma non possiamo dargli atto di avere visto e approfondito tutte le implicazioni politiche e storiche della vicenda, posto che sia possibile scindere queste ultime dall’aspetto tecnico-processuale, sul quale non sono evidentemente competente a intervenire e sul quale sono già del resto intervenuti, quali esperti dell’Associazione nazionale ex-deportati politici, Gianfranco Maris e Giorgio Marinucci (4). In breve, la conclusione giudiziaria, allo stadio attuale della vicenda, si materializza nel rinvio a giudizio con l’imputazione di omicidio plurimo aggravato dello Allers e dello Oberhauser dianzi citati, per avere essi, quali militari delle Ss, « incaricati di compiti di repressione e di persecuzione politica e razziale, appartenenti allo Einsatzkommando Reinhardt (...) soppresso, fuori di ogni ipotesi di applicabilità della leggge militare di guerra (...) un im-precisato ma rilevante numero di persone » nella Risiera di S. Sabba, « con l’aggravante ancora dell’essere state eseguite le uccisioni talvolta mediante sostanze venefiche (gasazione), talaltra mediante sevizie (colpi di mazza, sgozzamento, ecc.)». Apparentemente un risultato ineccepibile, in realtà un risultato estremamente riduttivo, anche a non considerare il numero estremamente limitato di parti civili di cui si ha notizia e che rientra nella difficoltà di portare avanti a trent’anni di distanza un processo del genere e di questa dimensione politica. Ma perché parliamo di risultato estremamente riduttivo? Per il semplice fatto ohe l’istruttòria pretende di tracciare un confine netto tra i fatti avvenuti nei confronti di persone non implicate in alcun modo in attività contro i tedeschi e quelli avvenuti viceversa contro quanti ii tedeschi combattevano. Non si esclude l’apertura di una separata istruttoria iper questi ultimi casi, ma tutto lascia prevedere che un secondo processo della Risiera non si farà mai e proprio per questo è più che mai necessario che il processo sia unico. Non è possibile in questa sede esaminare con la dovuta analiticità tutti i molti passi della sentenza istruttoria che urtano contro la realtà storica, contro lo stesso buon senso, contro ogni logica politica e sono perfino contraddittori rispetto alla stessa linea scelta dal giudice. Per questo dovremo limitarci a mettere in evidenza soltanto le principali tra le storture interpretative che fanno sì che molte delle affermazioni in base alle quali il giudice ha tratto le sue conclusioni non si possano non considerare aberranti. Io credo che sotto questo profilo sia sufficiente soffermarsi su tre degli aspetti, che poi sono tre dei motivi costanti e ricorrenti allo interno del discorso del magistrato, affrontati nella sentenza istruttoria: 1) il carattere dell’attività criminale esplicata dallo Einsatzkommand Reinhardt nella sua permanenza triestina; 2) la valutazione delle forze che si opponevano alla potenza di occupazione nazista; 3) la valutazione del cdllaboraziónismo locale nella Venezia Giulia. 1). Carattere delVattività criminale praticata dallo Einsatzkommando della Risiera. Tale carattere viene circoscritto dalla sentenza istruttoria alla persecuzione di un numero limitato di detenuti, in gran parte ebrei, e alla rapina dei loro beni. Se già di per sé é discutibile una limitazione del genere, addirittura aberranti, e non altrimenti, si devono definire le motivazioni che hanno condotto il magistrato a pervenire a una simile conclusione di « limitare l’esercizio dell’azione penale ai soli fatti di soppressione di persone che per certo non avevano avuto ad esplicare attività -contraria agli interessi militari dell’Autorità occupante ». Questa limitazione serve al magistrato per dimostrare in un certo senso l’assoluta gratuità dei crimini commessi, non necessitati cioè da esigenze belliche, ma essa, a parte il fatto che sembra legittimare la repressione antipartigiana, come vedremo meglio più avanti, lo costringe anche in una serie di contraddizioni veramente inestricabili. La prima consiste nell’affermazione che « l’uso della violenza (omicida) :si porge non già come il prodotto tipico di operazioni di guerra o derivanti da cause di guerra, ma come conseguenze di attività repressive collegate a ragioni di persecuzione politica e razziale in aderenza ad un programma del regime già enunciato sin dal tempo di pace ». Si riconosce cioè il movente politico-razziale della violenza ma si cerca di scinderlo dal fatto bellico, contrariamente alla verità storica di quella che è stata la realtà della guerra nazista e fascista, che fu appunto « guerra totale » (un concetto sul quale il magistrato certamente equivoca quando parla di « guerra totalitaria »), essendo le operazioni militari (nel senso più ampio, compresi i rastrellamenti e le azioni repressive di vario tipo) null’altro che fatti strumentali rispetto a un piano di dominazione imperialistica e razziale che prevedeva il soggiogamento alla potenza dominante dei popoli considerati inferiori e al limite la loro fisica estirpazione. Per sostenere sino in fondo questa tesi il magistrato non esita a cumulare affermazioni sempre più improbabili e incredibili. La più diffusa, in sostanza il cardine di tutta la sua impostazione, è che in pratica il reparto incriminato era « quasi ”cosa personale” » del gen. Globocnik, configurandosi praticamente come una associazione a delinquere. Il reparto non avrebbe mai trovato « collocazione nel quadro dell’apparato militare o almeno di polizia militare » nell’ambito della Zona d’operazione Litorale adriatico: « Anzi (...) conservò un carattere del tutto autonomo e speciale rispetto ogni altra formazione Ss o di polizia, venendo assegnato alle dirette ed e-sclusive dipendenze del gen. Globocnik »: il che è vero, con un piccolo particolare che il magistrato tace, essere cioè il gen. Globocnik capo supremo della polizia e delle Ss nelle province italiane del Litorale adriatico, per cui l’ipotesi che si trattasse di una sorta di formazione « selvaggia » è veramente priva di qualsiasi fondamento. A questo punto l’interprete rischia di non capire più nulla: ma come, se si trattava di reparti specificamente e istituzionalmente addetti all’eliminazione degli avversari ipolitici e razziali, come riconosciuto dalla giurisprudenza delle corti internazionali, sia del Tribunale internazionale di Norimberga sia della Corte statunitense che giudicò espressamente il caso delle Einsatzgruppen? (5). Il fatto è che qui si tenta di negare qudlo che ormai tutta la (migliore iStoriografia afferma, ossia lo inserimento organico e funzionale di questi reparti nell’apparato repressivo, poliziesco e militare insieme, ddl Terzo Reich. Purtroppo non è possibile richiamare qui tutti i precedenti che consacrano il carattere di ufficialità degli Einsatzkommandos in quel particolare contesto storico-politi-co-ideologieo-militare, ma il giudice se cita fonti come la documentazione di Norimberga e allude agli studi in proposito dovrebbe averne avuto conoscenza, a meno appunto che non sia in grado di dimostrare il contrario (6). Aberrante è infine l’affermazione ripetuta secondo la quale si tratterebbe di eccessi individuali avvenuti addirittura contro le leggi tedesche: ma ignora forse il giudice le disposizioni per la « soluzione finale »? C’è una frase specifica che induce a ritenere (proprio che i'1 magistrato non abbia compreso (non vorremmo arrivare alla conclusione che non l’abbia voluta capire) la natura intima dei meccanismi repressivi tipici del Terzo Reich, laddove ad esempio come prova della contrarietà alle leggi del Reich del comportamento e dell’iniziativa richiesta a-gli uomini degli Einsatzkmmandos constata candidamente «non per nulla essa era stata loro imposta a condursi clandestinamente! ». Sulla stessa linea viene considerato « abuso criminale » di Allers o di Christian Wirth (a suo tempo ucciso dai partigiani) l’eliminazione dei detenuti, degli schiavi costretti a lavorare al forno crematorio. Dove è chiaro in entrambi i casi che la logica del « segreto » o della sqppressione di testimoni scomodi che furono prassi generalizzata (7) e non « abuso criminale » di singoli individui ubbidivano ad una unica e precisa ispirazione, che nulla aveva a che fare con l'estraneità di questi comportamenti alle leggi naziste ma che mirava viceversa a coprire, a tutelare proprio i crimini nazisti dalla loro divulgazione per non offrire armi alla propaganda avversaria e non predisporre le popolazioni dei territori occupati e gli stessi deportati e detenuti ad azioni di resistenza. 2) V dut azione degli atti di resistenza. E’ questo in realtà uno degli aspetti fondamentali per capire la matrice ideo-logico-politica della sentenza istruttoria. Si afferma infatti a un certo punto che è necessario chiarire « il motivo per il quale non tutti gli (altri) episodi di uccisione di detenuti non ebrei (...) sieno egualmente censurabili » sotto il profilo degli « abusi criminali ». A proposito di tali casi, che appaiono « in numero non inferiore alle duemila unità» si perviene alla conclusione che « è invero emerso sicuramente che tali persone erano, di massima, appartenenti alle forze militari che operavano in questa regione ópntro Voccupante germanico ed i suoi alleati. Oppure appartenevano a quelle organizzazioni politiche che di tali forze erano il supporto » (il corsivo è del magistrato. Tutto il contesto del discorso sviluppato a questo proposito dal giudice istruttore sembra voler pervenire all’unica conclusione di non accomunare lo Eintaszkommando nella responsabilità per la repressione delPattività partigiana a proposito della quale si sottolinea il carattere di « proditorietà » probabilmente non tanto per definirne un dato tecnico ma piuttosto per dedurne una definizione di carattere morale. Nascondendosi sotto la complessità del problema della soppressione di persone operanti contro la potenza occupante, la sentenza finisce per conseguire due obiettivi: di assòlvere lo Einsatzkommando da questi aspetti persecutori (chissà perché l’attività del reparto a questo riguardo vie- ne degradata ad attività meramente esecutiva, con il risultato di apparire non passibile di punizione o addirittura caduta in prescrizione); e soprattutto di presentare quasi come attenuante della repressione nazista il fatto, che peraltro dimentica l’esistenza di formazioni par-tigiane italiane, « che nelle province giuliane del Litorale adriatico e persino in parte del territorio friulano operavano solo combattenti inquadrati nell’Armata popolare jugoslava (Nov), la quale era l'espressione armata di uno Stato belligerante ». La lotta contro di essa non era perciò qualificabile come « omicidio », Il grottesco è che non si smentisce che lo Eisatzkommando abbia proceduto ad esecutare un notevole numero di partigiani (i combattenti della « clandestinità ») ma che se ne deduca « carenza, allo stato delle conoscenze, delle premesse concrete di punizione attuale degli atti da loro commessi neireseguire quanto da altri disposto verso questi prigionieri ». In effetti se l’avere ucciso dei partigiani è già una prima attenuante a favore degli aguzzini della Risiera, una seconda e ben più pesante attenuante è rappresentata dal fatto che quei partigiani fossero in maggioranza persone « appartenenti alle forze armate e alle organizzazioni politiche proprie o aderenti alla linea di lotta dell’apparato istituzionale (d’allora) del nuovo Stato jugoslavo ». Quale è la conclusione che ne trae il giudice triestino? NuH’altro che la responsabilità del movimento di liberazione jugoslavo per l'inasprimento della lotta e quindi implicitamente della repressione. Non diverso ci appare infatti il significato di una affermazione come la seguente: « Infatti, per quanto grave e spietata anche nelle conseguenze di reazione e repressione da parte dell’apparato nazista e fascista fosse stata la lotta svolta nelle altre province del Litorale dagli altri organismi e dalle altre forze della Resistenza, ' l’attività, in queste terre giuliane, del fronte unitario di quelle entità politiche e militari che erano state create o si erano allineate sulla direttrice d’azione dèi nuovo Stato jugoslavo aveva determinato un conflitto con l’autorità occupante la cui natura, la cui portata d’effetti, 11 cui carattere erano stati non solo diversi ma, se possibile, ancor più aspri e tragici ». Omicidio comune quello verso gli ebrei e gli inermi malcapitati, neppure omicidio gli atti compiuti contro i partigiani combattenti, massime se slavi; in quest’ultimo caso gli imputati hanno « agito solo da boja, pag;hi del loro compito ma non responsabili di atto alcuno che l’abbia determinato e quindi non colpevoli di violazione di norme penali che possa essere ora qualificata come omicidio comune ». 3) Il collaborazionismo nella Venezia Giulia. Come in tutta l’Europa occupa- ta del «Nuovo Ordine» le forze della repressione nazista si servirono largamente del collaborazionismo neofascista locale. Al centinaio di uomini che componevano 10 Einsatzkommando Keinhardt si aggiunge un fólto stuolo di collaboratori e ausiliari italiani per i quali i tedeschi, con 11 pedantismo burocratico tipico dell’era nazista, pagarono regolarmente le quote Inam e Inps (alcuni di costoro compariranno come testi al processo). Ma quello che qui interessa sottolineare non è il caso di singole persone che possono avere in qualche modo collaborato con i tedeschi, bensì la valutazione generale che emerge dal documento istruttorio sul collaborazionismo nella Venezia Giulia, una valutazione con la quale si chiude il cerchio delle unilateralità che caratterizza la sentenza istruttoria. Se già è opinabile l’affermazione secondo la quale le autorità tedesche avrebbero agito in materia di caccia agli ebrei in conflitto con le autorità della Repubblica sociale italiana, quando è notorio l’aiuto che queste ultime diedero al rastrellamento degli ebrei, ancora più stravagante appare la tesi, proprio in relazione al Litorale adriatico, secondo la quale l’attività tedesca non fu mai intesa « manifestamente e definitivamente ad *” esclusione ” dell’ordinamento giuridico e politico Rsi». In presenza della costituzione del Litorale adriatico e delle conseguenze politiche, giuridiche e istituzionali che ciò comportò, è difficile capire le ragioni di queste affermazioni. A parte il fatto che lo stesso documento istruttorio deve riconoscere come una delle premesse della persecuzione antiebraica fosse rappresentata proprio dal materiale predisposto anteriormente al-l’8 settembre 1943 dal centro per lo studio del problema ebraico di Trieste (8), nulla esso dice a proposito delle delazioni e delle complicità dei fascisti repubblichini negli eccidi posteriori all’8 settembre. Viene ipotizzata l’inutilità per i tedeschi del ricorso alle autorità col-laiborazioniste (anche se in altra sede si parla dell’utilità dei collaboratori) ma non si spiega neppure in quale maniera i collaborazionisti difesero la città e la regione dalla pressione annessionistica e terroristica nazista. « Colui che era stato prefetto di Trieste per tutto il periodo della Zona d’operazione Litorale adriatico — si legge nel documento — ha dichiarato di avere bensì conosciuto delle massicce operazioni antiebraiche operate dall’apparato Ss germanico, di avere saputo di specifici ed assurdi eccessi nelle medesime consumati persino contro persone che — a rigore delle leggi del tempo — non avrebbero potuto esserne colpite e tanto meno travolte, di avere avuto notizia anche del funzionamento del forno crematorio. Ma ha negato che alcuno l’avesse mai informato delle uccisioni che vi erano connesse ». Ciononostante il « teste » rimase sempre al suo posto e coprì con la sua stessa presenza i crimini dei nazisti. Una sottigliezza che non poteva non sfuggire al magistrato, che ha preso per buone le testimonianze di due personaggi come il gen. Wolff, già comandante in capo delle Ss e della polizia in. Italia, il quale ha avuto il coraggio di affermare che « se operazioni contro gli ebrei sono avvenute nel Litorale adriatico, queste sono da ascriversi a violazione delle sue direttive » (quali?); o come, caso ancora più ineffabile, il gen. Harster, che fu capo del Sicherheitsdienst in Italia, a proposito del quale il magistrato, senza ombra di umorismo, non si perita di scrivere: « Il teste, quanto mai attendibile perché mai compromesso con operazio ni da Sonderkommando », e via dicendo. Ma sa il magistrato, che afferma con tanta sicurezza l’attendibilità di un simile teste, che il gen. Harster è stato tra i principali responsabili della deportazione degli ebrei olandesi? Limitare il procedimento all’uccisione di un numero limitato di ebrei e alla rapina dei loro patrimoni, stralciare dal processo la repressione antipartigiana specie per quanto riguarda la Resistenza jugoslava, salvare da ogni compromissione la rispettabilità della Repubblica sociale italiana: queste ci sembrano in sintesi le linee portanti del discorso aperto dall’istruttoria e dalla sentenza di rinvio a giudizio. Un risultato giuridicamente molto riduttivo rispetto all’imponenza dei fatti e alla loro qualità per il complesso dei fattori e per la molteplicità delle complicità che sono chiamate in gioco ma politicamente ancora più meschino, perché frutto del tentativo tenacemente compiuto di bloccare la complessa realtà locale della Venezia Giulia entro l’ottica del pregiudizio nazionalistico e del complesso antislavo, spoliticizzando al massimo la tragedia della Risiera, ridotta ad alffare personale di un generale delle Ss più folle forse di altri e di un gruppo di suoi accoliti dediti ad « abusi criminali », relegando nelle nebbie del passato la sostanza vera della storia, che è il prodotto della più generale politica di genocidio promossa daH’imperialismo nazista con l’assistenza di quello fascista. Fare il processo per i fatti della Risiera oggi ha un senso proprio se si restituisce alla vicenda la sua dimensione storica e politica, come proiezione locale della politica di sopraffazione e di estirpazione fisica praticata dal nazismo nei confronti delle « razze » cosiddette inferiori e come monito solenne contro il perpetuarsi della mala pianta del fascismo. Trieste, che ha un passato di gravi lacerazioni nazionali ma anche di gloriose tradizioni di solidarietà internazionalista, non merita un processo dimezzato. Soprattutto le forze dell’antifascismo e della Resistenza non possono accettare che dirottando -nell’ambito delle leggi di guerra la repressione del movimento di liberazione italiano e slavo si apra la via all’impunità per i massacratori di partigiani. Sotto il profilo tecnico è possibile che lo stesso ambito dibattimentale offra spazio per una rettifica deU’impostazione processuale; ma sotto il profilo politico e storico non è possibile non denunciare fin da adesso il pericolo che si profila che una assolutoria politica (indipendentemente dalla condanna o meno di singole persone) del genocidio della Risiera significhi in realtà l’assoluzione della stessa politica di oppressione e di snazionalizzazione praticata nella Venezia Giulia dal fascismo e della politica di aggressione contro la Jugoslavia (non dimentichiamo la « prò vincia di Lubiana »), che dell’occupazione nazista, della costituzione del Litorale adriatico e delle conseguenze che ne sono seguite anche sotto il profilo della repressione e del terrorismo furono il presupposto, l’origine e la matrice prima. (1) Sul quadro .generale di questa situazione ci sia consentito rinviare a E. Collotti, II Litorale adriatico nel Nuovo ordine europeo 1943-45, Milano, 1974. (2) Si cfr. nel volume sopra citato il saggio sugli Einsatzkommandos alle pagine 123 sgg. ed ivi le citazioni dalle fonti naziste e dalla letteratura specialistica in argomento. (3) Per una più ampia informazione sulla vicenda specifica della Risiera si veda il volume a cura dsH’Aned, Dallo squadrismo fascista alle stragi della Risiera. Trieste-Istria-Friuli 1919-1945, Trieste, 1974; in particolare il cap. IV. (4) Nel mensile ‘della stessa Associazione, Triangolo rosso, settembre-ottobre ’75, pagg. 2-4. (5) Esiste al riguardo uno specifico volume documentario a cura di Kazimierz Leszczynski. Fall 9. Das Urteil im Ss-Einsatzgruppenprozess gefàllt am 10. Aprii 1948 in Niirnberg vom Militargerichtshof II der Vereinigten Staaten von Amerika, Berlin. 1963. (6) Rinviamo ancora per ogni riferimento al saggio già citato alla nota 2. (7) E* questa una constatazione che si ritrova in tutta la letteratura sui campi di conc\°ntramento; se simili disposizioni talvolta non trovarono attuazione fu soprattutto perché ad esse si sottrassero o si opposero gli stessi schiavi asserviti dai nazisti: tale fu per esempio il caso di Mauthausen. su cui si veda il saggio di Gisela Rabitsch nel volume a cura di vari autori Stujdien zur Geschichte der Konzentrationslager, Stuttgart, 1970, pagina 83. (B) Si vQda in proposito la ricerca di S. Bon Gherardi, La persecuzione antiebraica a Trieste (1938-1945), Udine, 1972. | |
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