Area della trascrizione e della traduzione metatestualeTrascrizioni | Trascrizione Non markup - manuale o riveduta: Firenze fiore del mondo. Alcuni mesi or sono, e stava per scoppiare il maggio fiorentino, apparve nelle vetrine di via Tornabuoni, e non dei librai soltanto, ma dei camiciai di lusso, un libro intitolato a ‘Firenze fiore del mondo'. Su che traccia, da ‘città del fiore' o da ‘flos Etruriae', Firenze sia pervenuta alla nuova qualifica, questa è una bella passeggiata di quattro scrittori, troppo noti perché occorra nominarli, e scelti dall’editore e prefatore, in base al principio che, in questo caso (p. 6), ‘un'autorità anche specifica non bastava, se non era corroborata, diciamo così, dal sangue‘. E non si vorrà certo negare che codeste cinque orazioni sul genio, sulla letteratura, sull’arte, sulla religione, sulla storia di Firenze, non siano eloquenti. Se dell’eloquenza è fine la persuasione, esse ci persuadono infatti, e pienamente, del carattere (non diciamo del sangue) dei loro autori. Ma qui, in ‘Paragone‘ dispari, basterà restringersi a poche citazioni dal discorso sull’arte fiorentina. Una è sul suo ‘ceppo umbro o etrusco che dir si voglia‘: ‘un tallone vitale al quale si innestò la marza romana, che crebbe sul posto, fiorì, frondeggiò nell’alto Medioevo, dando poi i suoi frutti più buoni nel Trecento e nel Quattrocento con Nicola Pisano eccetera, con Arnolfo eccetera, con Paolo Uccello eccetera, con Masaccio ecceterone, come diceva S. Bernardino da Siena‘ (p. 39). Un’altra sul carattere dominante dell’arte fiorentina: ‘Difatti ciò che caratterizza l’anima fiorentina, e dunque l’arte che la manifesta, è proprio questo connubio di terrestre e di celeste, di parsimonioso e di naturalmente elegante, che in termini di estetica si esprime poi con le parole di realismo sintetico e di idealistica musicalità‘ (in termini di quale estetica poi, ci faremo dire dai rivenditori di teorie usate). Una terza sui committenti di Giotto che tutti credevamo re principi baroni cardinali banchieri usurai padri generali ecceterone, ed invece: ‘si sente che egli non lavora per una corte fastosa e tirannica o per una classe di voluttuari, ma per un popolo libero, per ordinazione di gente di chiesa, originaria per lo più essa stessa ed al servizio del popolo‘. E com’era questo popolo? Sui primi del Quattrocento ‘‘era nervoso, rissoso, becero, spiritoso, intelligente, intraprendente, e, a un bisogno, risoluto e moralmente e civicamente a posto‘ (p. 58). Popolo fiorentino, in piedi! O in ginocchio? Quanto alla religione, infatti, non dimenticare che ‘il popolo fiorentino è religioso a suo modo, cristiano in quanto il Cristianesimo rispecchia un certo suo fondo spirituale atavico fiore primordiale, preesistente si potrebbe quasi dire, sostanzialmente, alla stessa rivelazione cristiana’.. O che ci sia venuto a fare Cristo in terra, mi mondo domando. Ma qui forse è lo scivolone che ha fruttato l’assenza del ‘nihil obstat’ al quale il libro mostrava, per tanti segni, di aspirare. In altro ordine, sarà anche da rammentare quest’ultimo tratto. Il popolo e il comune credevano infatti pacifica la vera storia dello scempio di Ponte Santa Trinità. Ma a pagina 87 l’oratore ci mette una pulce nell'orecchio, dicendo che l’Ammannati creò ‘una serie di fabbriche mirabili... e soprattutto... il Ponte a Santa Trinità, meraviglia del mondo, ultimamente distrutto con vergogna eterna dei veri responsabili di tanto crimine’. Perché non dirci chi sono? Paura che tornino, o si tratta di altra interpretazione che sfugge al nostro intendimento? Comunque s’intenda, e tralasciando ormai, di Firenze, genio, storia, ordini religiosi, eccetera eccetera ecceterone, qui spira un’aria di Canapone. Per assottigliarla un poco, ecco un’altra citazione, che non ricorre, essa, ah no, nel libro dei quattro purosangue, ma che tutti i buoni fiorentini, quelli, intendo, che non ascoltano alla radio la rubrica del Cupolone, hanno certamente a memoria: ‘Però qualunque si ritrova essere di cosi disonesta ragione, che creda che il luogo della sua nazione sia il più delizioso che si trovi sotto il Sole, a costui parimente sarà licito proporre il suo proprio vulgare, cioè la sua materna locuzione, a tutti gli altri; e conseguentemente credere essa essere stata quella di Adamo. Ma noi, a cui il mondo è patria, sì come ai pesci il mare, quantunque abbiamo bevuto l’acqua d’Arno avanti chè avessimo denti, e che amiamo tanto Fiorenza, che per averla amata, patiamo ingiusto esiglio, nondimeno le spalle del nostro giudizio più alla ragione che al senso appoggiamo. E benché, secondo il piacer nostro, ovvero secondo la quiete del nostro sentimento, non sia in terra loco più ameno di Fiorenza; pure rivolgendo i volumi de’ poeti e degli altri scrittori, nei quali il mondo universalmente e particolarmente si descrive, e meditando fra noi i vari siti dei luoghi del mondo, e le abitudini loro tra l’uno e l’altro polo, e ’l circolo equatore, fermamente comprendo, e credo, molte regioni e città essere più nobili e deliziose che Toscana e Firenze ove son nato e di cui son cittadino e molte nazioni e molte genti usare più dilettevole e più utile sermone, che gli Italiani. ’ (Dante, ‘De vulgari eloquio’ nella traduzione del Trissino, I,7) | |
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