Area della trascrizione e della traduzione metatestualeTrascrizioni | Trascrizione Non markup - automatica: ROBERTO LONGHI UN MOMENTO IMPORTANTE NELLA STORIA DELLA NATURA MORTA 7 Mi sembrata coincidenza fortemente simbolica è sempre che, nelPultimo decennio del ’soo, Jan Bruegel ‘dei Vell si trovasse a Milano in cordiale contatto col collezionis cardinale Federigo Borromeo proprio mentre questi rice veva, o stava per ricevere, da Roma, in dono dal Car Del Monte, il ‘canestrino di frutta’ di Michelangelo da ravaggio, oggi all’Ambrosiana. Tra quel dipinto apparentemente modesto, e invece c toto ’ rivoluzionario, e le microscopie florali dipinte da J Bruegel per il Cardinal Federigo, si dibatte, da quegli a il destino della ‘natura morta’ nell’arte e nella critica. E non che il canestrino del Caravaggio fosse veramen compreso subito. Lo stesso marchese Giustiniani, mecen del grande pittore, mentre stava stendendo, forse verso 1620, le sue distinzioni sui modi della pittura ed elencand in grado ascendente, poneva in uno dei gradi più bas (il quinto su dodici!) il modo del ‘saper ritrarre fiori ed a cose minute ’ (sùbito dopo lo spolvero, la copia da pit altrui, la copia a matita o a penna e il ritratto come sem somiglianza). Tanto più sorprendente perciò che a que punto egli citasse in proposito un detto del Caravaggio sen avvedersi eh’esso veniva a sconvolgere, ad annullare an‘NATUREIMORTE’
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la sua accademica graduatoria: cEd il Caravaggio disse, che tanta manifattura gli era a fare un quadro buono di fiori come di figure5.
Cancellato così, con il semplice motto del Caravaggio, il criterio intellettualistico delle classi del rappresentabile, la distinzione del Giustiniani restava valida soltanto per il Bruegel. E tuttavia si è continuato ad usarla estensivamente nello studio generico della natura morta come ‘specialità*. Giovi riconoscere che la critica italiana, da circa quaranta anni, ha meglio inteso che fra la ‘natura morta5 come atteggiamento fiduciosamente ‘realistico ‘ del pittore di fronte a un brano naturale, e la ‘natura morta5 come sedulità descrittiva, come presunzione da erboristi o da scienziati di provincia, come sfoggio di tecnica diligenza, non era transito possibile. Ed è peccato che, per timore di non apparire a sufficienza idealistici, taluni di quei critici italiani si trattenessero dalFinterpretare il Caravaggio come inventore del realismo moderno.
Ma il piano restava sempre più elevato di quello sul quale si poneva lo Hoogewerff quando, nel suo studio su ‘Dedalo9, 1925, fissandosi di nuovo sulla ‘specialità5, finiva a far dipendere il canestrino caravaggesco da presunte ascendenze fiamminghe risalenti almeno fino a Joost van Cleve; mentre nulla era inteso dei ben più risolutivi fatti lombardi che, del resto, venivano criticamente resi espliciti soltanto qualche anno dopo come ‘precedenti5 del Caravaggio.
Ma, anche senza rimontare tanto addietro, non è dubbio che la ‘natura morta5 del ’soo, prima del Caravaggio, appartenga alle tipiche specificazioni intellettualistiche di quel secolo e abbia posto prevalentemente tra le ‘rariora et curiosa5 dei gabinetti di meraviglie; tali erano le strane composizioni a indovinello figurale delPArcimboldi e le inutili microscopie dei fiamminghi, estrema degenerazione dell’acutezza lenticolare del grande, ma pericoloso, ’400 nordico, che ora finiva di scadere a lavoro di pazienza da monache e da certosini. In che modo, senza scendere così in basso, queste pittoriche ‘patiences’ si incontrassero, sotto specie di divozione tecnica, con le tendenze ‘neomistiche’ della Contro-riforma e qui anzi producessero una migliore ibridazione è cosa ancora da studiare nei particolari. Su questo piano stanno per esempio la nature morte attente, ma come contristate, della trentina Fede Galizia, che presto figureranno nell’antologia della rivista; e tale venatura mistico-tecnica, pur con la notizia mediata dei nuovi avvenimenti caravagge36
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schi, continua in Ispagna e, più ancora, in Francia. È ora, anzi, di gran moda a Parigi parlare di Baugin, Linard, Louise Moillon, dello strasburghese Stosskopf e di altri simili. Ma i rapporti presunti con la ‘réalité5 di de La Tour o dei Le Nain sono, in verità, molto scarsi e come umiliati da quel velo di pazienza.
Dal Caravaggio aveva invece cominciato ben altro e, si può dire, la pittura moderna. Quando si dice che una natura morta del Caravaggio ‘sembra già5 Courbet o Manet, può sembrar che si adopri lo stivale delle sette leghe, ma resta che se non si intende subito perchè la caraffa di fiori della ‘suonatrice5 di Leningrado / tavola 12/ sia più vicina a quei moderni che non a Bruegel ‘dei Velluti5, la discussione non può che smarrirsi.
Il Bellori, che era il Bellori, e cioè l5accademico più incaponito della nostra critica d5arte, ebbe tuttavia il buon senso d5intendere e di affermare che dopo ‘i fiori e frutti sì bene con-trafatti5 del Caravaggio giovine, ‘da lui vennero a frequentarsi a quella maggior vaghezza che tanto oggi diletta5. Non sappiamo in che anno il Bellori giungesse a questa conclusione, stampata soltanto nel 1672. Se dovessimo tenerci a questa data, allora i conti non tornerebbero perchè Pallu-sione sarebbe a Mario dei Fiori o ad Abraham Bruegel, che di Caravaggio non sapevan più nulla; tante cose eran successe nel frattempo. Occorre perciò tornare indietro almeno fino al Baglione, che, per quanto nemico personale del Caravaggio, eppure non alieno dalPimitarlo, ci offre nel 1642 almeno tre passi importanti per il recupero delle prime vicende della natura morta post-caravaggesca.
Un passo è nella vita di Tommaso, detto Mao, Salini (protetto del Baglione e noto per le sue zuffe col Caravaggio), dove, dopo citati i quadri religiosi di una sua prima e ‘diligente5 fase, soggiunge: cQinest5uomo diedesi a ritrarre dal vivo, e varie cose dipingeva, ed assai bene le imitava5; poi specifica: ‘Si mise a fare de5 fiori e de5 frutti ed altre cose, dal naturale ben5espresse; e fu il primo, che pingesse ed accomodasse i fiori con le foglie ne5 vasi, con diverse invenzioni molto capricciose e bizzarre, i quali a tutti recavano gusto, e con gran genio sì bravamente li faceva, che ne trasse buonissimo guadagno5.
Per chi abbia pratica delle formule del Baglione, questo è il linguaggio eh5egli impiega soltanto per i caravaggeschi. E, che dimentichi il precedente del Caravaggio, mentre in un senso può svelare il suo malanimo, nelTaltro spinge ad‘ NATURE MORTE ’
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ammettere che, dopo i pochi esempi lasciati dal grande inventore prima del 1606, la prima e più intensa ‘ripresa5 fosse quella di Salini: e di tal forza da raffigurarlo quasi come secondo fondatore della natura morta ‘realistica5.
E poiché il Salini morì nel 1625 e il Baglione colloca la particolare attività che ci sta a cuore in una sua seconda fase (le parole ‘quest5uomo diedesi5 segnano infatti uno stacco temporale) dovremo credere che le nature morte del Salini fiorissero, per dir così, nelPultimo quindicennio della sua vita, tra il 510 e il 525 Un’altro passaggio significativo è nella ‘Vita di Gio. Battista Crescenzi’, nobile mecenate, pittore, architetto, che, recatosi in Ispagna nel 1617, subito dipinse per Filippo III0 ‘una mostra di cristalli variamente rappresentati, altri con appannamenti di gelo, altri con frutti entro Pacqua, chi con vini, e chi con varie apparenze e la diligenza di quest'opera meritò il gusto di quel Re9.
Siamo dunque negli stessi anni della ripresa caravaggesca rilevata nel Salini; i ‘cristalli5 della descrizione sembrerebbero pendere soltanto sulla diligenza alla fiamminga (sebbene ‘diligenza5 sia usato anche per il Caravaggio giovine), ma ‘gli appannamenti di gelo5 e i ‘frutti entro Pacqua5, ci riportano sicuramente in àmbito caravaggesco. Ciò che, del resto, può trovar conferma anche nel fatto che il Cre-scenzi, amico e patrono di tanti artisti, scegliesse per compagno del suo viaggio spagnolo proprio il caravaggesco viterbese Cavarozzi.
Il terzo brano si legge nella Vita di Pietro Paolo Gobbo da Cortona detto il Gobbo de5 frutti (e più tardi, per cattiva lettura del Malvasia, de5 Carracci; coi quali non sembra aver mai avuto contatti particolari). Nato verso il 1575, morto verso il 1635, il Gobbo si educò ancora nella solita cerchia di casa Crescenzi, ‘ e diedesi a dipingere i frutti dal naturale, e in quel genio non si poteva far meglio ; e quelli Signori avevano gusto di fargli trovare di bellissimi frutti, e d5uve diverse, acciocché al segno di valentuomo egli giungesse. Ritraeagli eccellentemente, sicché ne prese tal nome ch5egli il Gobbo de5 frutti chiamavasi. E di vero quest5uomo esprimevali bravamente con gran forza e con vivacità assai naturale, sicché veri, e non dipinti pareano 5
Anche questo brano è da ritenere, notando però che è difficile collegarlo coi dipinti riferiti al Gobbo dal Marangoni (1917) e che sembrano posteriori al 535, anno estremo della vita del pittore.33
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Questo della triade Salini-Crescenzi-Gobbo, fu dunque, ve n’è più che un sospetto, il momento principale della storia della natura morta caravaggesca; fin’oggi ancora da ritrovare nelle opere.
Non avevo infatti mai incontrato nulla che mi suggerisse la verosimiglianza di un ritrovamento, prima di vedere, recentemente, questi due eccezionali dipinti jtavole 13, 14/ che, in tutto l’àmbito della così detta ‘specialità’, suonano come un fatto nuovo, e di quei tempi.
Come non s’era più visto dopo il Caravaggio, la natura, prescelta ma non accomodata, appare com’è (o è come appare) : una rivelazione di umori, di materia mutevole, di linfe che gemono fra i contrasti della luce passante. La lezione del Caravaggio, dal ‘canestrino’ dell5Ambrosiana alla ‘natura morta sulla tovaglia’ di Washington, mi pare intesa come meglio non si poteva e, persino, portata più avanti. Perchè, qui il macchiato che annulla, e lì l’emergenza che rivela il tenero dei riflessi umidi e l’aspro dei nodelli dei piccioli; i corimbi di fiori fiammanti, le foglie sparse; ogni particolare insomma si scioglie in una felicità di contrasti che dalla severità del Caravaggio riesce ad un’eleganza irruente di tono popolare. Neppure un oggetto che sia scelto per il suo pregio, neanche le caraffe. Ora pensiamo ai fiamminghi, agli olandesi, ai francesi; quasi sempre riaffondano nella pazienza. Salvo qualche divagazione troppo insistita nei tralci, e la pienezza vitale quasi scoppiante da sembrare qua e là presagire l’abbondanza dei napoletani, questi due dipinti restano piuttosto in una stringatezza che non può, ci sembra, oltrepassare l’estremo del ’25; o superarlo di poco ove si volesse tenere aperta anche l’eventualità del Gobbo de’ frutti.
Se li abbiamo collocati bene, resterebbe ora da vederne il séguito. Ma ci poteva essere? Poco più di un decennio dopo, la folata barocca avrà investito anche la natura ‘morta’. Mario dei Fiori dipingerà ormai i festoni vegetali sulle specchiere dei principi romani. La ‘natura morta’ semplice è scaduta e sepolta assieme con lo spirito caravaggesco. E degli accozzi ‘compositi’ fra il ‘barocco’ e la vecchia seduli-tà nordica, che pur continuano, meglio tacere. I ‘fioranti’, come li si chiamava ormai, non pensano di potere mai più uscire dal rango della ‘inferior pittura’. Nel 1670, uno di essi, Abraham Bruegel, diceva infatti che ‘i pari suoi’ non contavano nel novero dei pittori; ‘bagattelle che quasi ognuno sa fare’. Il capovolgimento della elementare dichiarazione caravaggesca era completo. E non che a Napoli e a Genovae NATURE \MORTE ’
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non vi sia ancora qualcosa da scoprire fin verso la metà del secolo : incerto è, ad esempio, il caso del Porpora, allievo del Falcone; e a Genova il Vassallo, giungeva a dipingere quella ‘natura morta in cucina5 che nella Galleria Cook fu lungamente attribuita al Velazquez. Nulla però mai, che possa reggere al confronto del caso odierno.
Fuori d’Italia. Dopo la nota stringatezza del Cotàn, vi sono, s’intende, gli stupendi inserti di Velazquez nei suoi quadri popolari, ma non esempi ch’egli ci abbia voluto dare di nature morte sole. Tra il ’20 e il ’30, a Madrid opera anche il Van der Hamen y Leon coi suoi molti ‘floreros’ e ‘fru-teros’ e ‘bodegones’; e in questi due ! tavole 15, 16/, firmati nel ’26, che mi paiono fra i più belli, è da supporsi un ricordo dei ‘cristalli’ del Gavarozzi; ma la esposizione degli oggetti vi ritorna ‘classistica’, quasi rituale; e l’applicazione ai particolari è troppo più ‘saputa’ che ‘vista’. Nel decennio seguente poi, lo Zurbaran, caravaggista curiosamente ‘à re-bours’, sembra nuovamente deporre su invisibili altari le sue nature morte poderose e devotissime. E, anche a lasciar da parte il caso più complesso e squisito dell’Olanda, dove pur si attende sempre, e probabilmente invano, una natura morta della mano propria del Ver Meer; a parte anche i pittori di ‘inganni5 ottici, dei ‘trompe-l’oeil’, che dal misterioso Remps arrivano fino ad oggi, per trovare qualcosa di più valido entro il Seicento meglio è ancora tornare in Italia. Non è un caso se verso la metà del secolo, l’unico pittore che, nell’interpretazione, superi ampiamente la ‘specialità’, pur dopo essersela ritagliata nella ‘pittura di strumenti musicali’, è, come il Caravaggio, un bergamasco: Evaristo Baschenis.
Qualche umile fatto nell’Italia del Settecento. A Bologna nel ‘pittore di Rodolfo Lodi’; poi le ‘librerie’ del Crespi, e poche altre cose. Poi la grande giuntura di Chardin; poi le nature morte di Goya, di Courbet, Manet e ‘tutti gli altri’. Ecco perchè Caravaggio ‘sembrava già...’. | |
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