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tipologia: Analitici; Id: 1543269


Area del titolo e responsabilità
Tipologia Periodico
Titolo Roberto Longhi, Proposte per una critica d'arte
Responsabilità
Longhi, Roberto+++
  • ente ; ente
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Area della trascrizione e della traduzione metatestuale
Trascrizioni
Trascrizione Non markup - automatica:
ROBERTO LONGHI

PROPOSTE PER UNA CRITICA D'ARTE

Si ascrive di solito a pregio, o almeno a distinto carattere, della cultura italiana l’accordo che esisterebbe fra noi circa la perfetta identità di critica e di storia artistica. E sarebbe certo un punto importante se l’accordo esistesse, preventivamente, anche su quel che storia e critica, così conglomerate, abbiano ad essere. Ma dubito che sia così.

Per un esempio. In una storia della critica d’arte scritta recentemente da un italiano, si è pensato di far consistere il compito principale nella dichiarazione e, talvolta, ammetto, nella confutazione, di quella parte delle dottrine filosofiche che, d’epoca in epoca, avrebbe, per dir così, autorizzato il relativo giudizio critico sull’opera d’arte.

C’è però da domandarsi se, per questa strada, la migliore critica abbia ad incontrarsi spesso. Le dottrine procedono in assenza delle opere, o tutt’al più sbirciandole di lontano, la critica soltanto in presenza. Il loro convegno è perciò difficile e tutto a vantaggio delle parti astrattive che subito correranno a sforbiciare, ad amputare le facoltà più immediate e sensibili; tanto che i critici più diretti han preferito quasi sempre tenersi a buona distanza da quelle ‘nevi eterne del pensiero’ come le chiamava, con uno dei suoi motti più brillanti, il Thibaudet. E sarà vero che la critica dovrà pure sboccare al kantiano ‘giudizio subbiettivo con pretesa di validità universale’; purché si soggiunga, però, che vi sbocca per superfluità logica; quando già il suo percorso si è rivelato piuttosto illuminazione acerrima, terebrante, che non giudizio di esistenza: ove non sia quello soluto nella stessa bontà del discorso e presunto già nella scelta dell’opera da illuminare.

Così quella storia della critica d’arte, a rifarla sincera, potrebbe alla fine convertirsi in una storia di evasioni, riuscite o no, dalle chiuse dottrinali. E come non sarebbe se l’arte stessa ha dovuto faticare per sopravvivere ai principi che, lungo tanti secoli, ricusarono alla creazione figurativa una pur discreta autonomia? C’è bisogno di rifar la storia delle arti ‘servili’? Chi dice che anche Socrate non ne abbia qualche colpa con l’accenno al vasaio? Sopprimer l’arte è certo più difficile, tanto essa adorna6

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ed accarezza quasi ogni assetto sociale, ma la filosofia, quando riuscì a passare in istituzione, non mancò di provarsi anche in questo. Meno difficile invece impedire la critica; almeno in quei riflessi pratici, e pure di gran portata, che si traducono in cura e sollecitudine per la stessa sopravvivenza fisica delle opere d’arte. Catastrofi storiche alla fine del mondo antico non bastano, per esempio, a spiegare perchè le sculture di Fidia sian lasciate a sbriciolarsi al gelo per più di due millenni fino alla ra pina di Lord Elgin, che fu finalmente un atto critico rilevante dopo il più antico tentativo del nostro Morosini. E se vi fu anche un solo capraio greco che, in quel lungo tratto, lamentasse l’agonia di quei marmi, quel capraio fu certamente ‘in nuce5 un buon critico d’arte. Ma c’è stato? Fuor d’episodio, vi ha una parte di colpa anche quell’an-tica condanna platonica che, ove mai si fosse tradotta in sanzione, già ai garzoni di Fidia non restava che chiuder bottega ed attendere ad altro. E ci furono tempi anche più severi, chi pensi alle leggi che nella teocrazia bizantina ordinarono lo spezzamento delle immagini libere e non concessero che le più legate. Lotta per le immagini che divampò più volte anche in Occidente, con o senza editti visibili. Il congedo illimitato, anzi definitivo, proposto da Hegel per l’arte figurativa nella conclusione di una Estetica troppo ideale, ne è uno degli aspetti più noti; altri ne abbiamo avuto sotto gli occhi anche ieri, altri ne abbiamo oggi e preferiamo non rammentarli.

Ripeto che, nella ostinata sopravvivenza dell’arte, la critica, come immediata risposta dell’uomo all’uomo, ci sarà stata sempre, anch’essa; ma intendo che non abbia spesso avuto agio di esplicarsi in attività specifica, in opera d’inchiostro. Dove cercarla allora, se non è ormai da sperare dalla vicinanza di universali filosofici quasi sempre ostili? A parte il lamento del supposto capraio ellenico, la ricerca va fatta cà bàtons rompus’ fin dall’antico nei più vari riflessi della polis: dai noti brevetti di gloria e di chiara fama concessi anche ad artisti figurativi, all’ac-certata esistenza di conoscitori, amatori, collezionisti, e cose simili. Ed è ricerca da tornar utile in ogni epoca. Recentemente, per colmare l’assenza italiana dalla buona critica accanto all’impressionismo, proponevo, senz’ombra d’ironia, di rammentare almeno il gesto della signora Giulia Ramelli che nel 1865, ancora durando il coro d’insulti all’ cOlympia’ di Manet, ne chiedeva per lettera ilPROPOSTE PER UNA CRITICA D’ARTE

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prezzo al pittore. Per tornare all’antico. È significante che, volendo parlare degli artisti figurativi, Plinio sia costretto a includerli in una sua ‘Storia naturale’, come utenti di materiali naturalistici. E, del resto, anche nei tanti autori greci e romani da cui desume, sento che la buona critica si nasconde piuttosto entro la vicenda semantica dei vocaboli, che in altro. I trapassi di parola da arti diverse, ‘tonon, armoghè’ e simili, la dicon più lunga che i soliti rilievi di progresso nella eterna ‘mimesi’. Su tutto spicca la famosa definizione ‘de lineis’ tratta certo, e di presenza sensibile, da qualche opera di Parrasio: ‘Ambire enim se ipsa debet extremitas et sic desinere ut promit-tat alia post se ostendatque etiam quae occultat’. Definizione tanto aderente che la moderna storia della critica credette di scoprirla soltanto nell’Aretino che si era limitato a trascriverla letteralmente; per dirla schietta, a plagiarla.

Da quel passo superstite, uscito sicuramente dalla lingua viva degli studi greci, mi par che cominci quell’antologia della buona critica d’arte, di cui si vorrà dare qui una traccia sommaria, velocissima ; per trarne, potendo, un abbozzo di conclusione.

Crolla il mondo antico; tutti morti, i raffinati conoscitori greco-romani. Alla trascendenza del Medioevo non resta che umiliare ogni dottrina mondana e ridursi, per l’arte, a un’umile precettistica di laboratorio. Ma è tanto meglio per la critica diretta, perchè al momento buono le descrizioni dei ‘prati marmorei’ di Santa Sofia in Paolo Silenziario e i ‘tituli’ di tanti anonimi poeti sotto i mosaici romani, ci rivelano interpretazioni ineffabilmente libere. Chi non rammenta almeno: ‘Aurea conci-sis surgit pictura metallis - Et complexa simul clauditur ipsa dies - Fontibus e niveis credas aurora subire - Cor-reptas nubes roribus arva rigans - Vel qualem inter sidera lucem proferet Irim - Purpureusque pavo ipse colore nitens’. Qui, la prima, e come alta, ‘equivalenza verbale’ di un’opera d’arte; sciolta affatto dal soggetto apparente che è Sant’Agnese fra Onorio e Simmaco; ma squisitamente addetta al soggetto interno, e validamente metaforico, dello svariare delle tessere musive: una visione stillante d’alba iridata, e nient’altro.

Di queste stupende trasposizioni fu pieno il Medioevo e basterà citarne un esempio anche più decisivo al tramonto di quella lunga età.

Sui primi del Trecento un uomo che guarda certi fo8

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gli di un libro di diritto, miniati da un pittor bolognese del tempo, si avvede che quelle carte ‘ridono’. Dante, perchè si tratta di lui, fonda con quella frase, e proprio nel cuore del suo poema, la nostra critica d’arte. Lasciamo stare il peso sociale del passo, dove, per la prima volta, nomi di artisti figurativi son citati alla pari accanto a nomi di grandi poeti. Conta di più l’astrazione intensa dai soggetti di quelle carte ch’erano, c’è da presumerlo, scene atroci di torture legali, eppure le carte ‘ridono’ nella rosa dei colori. Conta altrettanto il rapporto posto, per dissimi-glianza, tra Franco e Oderisi che già afferma il nesso storico fra opere diverse, nega cioè l’isolamento metafisico e romantico dell’ ‘unicum’, distrugge il mito del capolavoro incomunicante e imparagonabile. Conta, più di tutto, che Dante abbia subito qualificato quei colori con un sentimento di gioia ridente. Sebbene all’estremo sentimentale opposto, siamo già sul piano di Baudelaire quando conclude l’elenco dei colori nella ‘Caccia al tigre’ di Delacroix con la tetra esclamazione: ‘bouquet sinistre!5

Dopo l’ingresso supremamente autorevole di Dante nel museo immaginario della critica d’arte, è triste ma vero che Petrarca non vi ha luogo. Le ‘carte5 del ritratto di Laura dipinto da Simone non ridono nè piangono (nè danzano al rallentatore come ci aspetteremmo) ; restano mute per il grande poeta che non intendeva quella lingua e non glie ne vogliamo far carico. Anche la citazione della Madonna di Giotto che aveva in casa, non mostra che deferenza per sentito dire e si ammanta di retorica antica, inefficiente.

Boccaccio, Sacchetti? Essi non riflettono che opinioni degli studi sul peso civile della pittura circostante. Semplici dichiarazioni di voto favorevole, e non più. Alla fine del secolo, Villani vorrebbe fare qualcosa di meglio, ma finisce per modellare i caratteri dei grandi pittori trecentisti sulla falsariga di Plinio. Comincia la parte meno brillante dell’umanismo.

Così, dopo il supremo accenno di Dante, in tutta la critica del Trecento non trovo di schietto, per l’antologia, che il nome di Bruno Datini, figlio di un mercante pratese. Si era alla fine del secolo quando Niccolò di Pietro Gerini, pittore di Firenze, gli andava vantando un suo Crocefisso ‘che, se venisse Giotto, non potrebbe meglio-rarlo’. Secco secco gli risponde Bruno: ‘Tu di’ vero? A me sembra di legno’. E perchè anche oggi, conoscendo bene il Gerini, sappiamo che Bruno aveva ragioni da venPROPOSTE PER UNA CRITICA D’ARTE

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dere stroncandolo a quel modo, ma salvando in pari tempo Giotto dal sembrar di legno (come purtroppo sembra invece a tanti, segretamente, anche oggi) iscriviamo il nome di Bruno nell’antologia, quasi a maggior diritto del tenero Cennini che incanta per la lingua ove si trasmette qualche parola viva degli studi, ma poco veramente risuona di critica immediata.

Con quel che avvenne nell’arte subito dopo, sorprenderà sentirmi dire che la scelta antologica del Quattrocento non sarà di molto più ampia. Pure il riflesso diretto, parlato ’, dell’opera d’arte, è più scarso di quel che si dice. Ve n’è spesso il riflesso morale autorevolissimo, perchè, ad esempio, il peso del compianto del Brunelleschi per la morte di Masaccio (‘abbiamo fatto una gran perdita’) è immenso per cagione di chi lo esprime; e non sarebbe se la stessa frase fosse riecheggiata, per sentito dire, dalle labbra di qualche togato umanista. Ma persino l’Alberti, che è l’Alberti, parlando dei ‘nuovi uomini’ dell’arte non sa far di meglio che pareggiarli agli antichi. Nuovi ed antichi? Sia pure. Ma si desiderava di più. Cresce, per altro, il nuovo mito della pittura-scienza, il mito geometrico, neoeuclideo, la deificazione delle norme, delle proporzioni, degli ordini. E tutto perciò finisce in trattato, non in critica accostante. Gran cosa se, dalla serqua degli enunciati albertiani, si cava il tratto calzante sull’ ‘ amistà dei colori5 o quest’altro più delicato : ‘ Sarà circolo forma di superficie quale un’intera linea quasi come una ghirlanda l’advolge.’ L’‘esprit de finesse’ vince qui sul-T ‘esprit de géométrie’, e il circolo astratto si rianima quasi in un serto di Luca della Robbia. Ma son luoghi rari.

Con più grave scandalo, soggiungo che non avrà luogo nell’antologia neppure la celebre descrizione ghibertiana del ‘Temporale’ di Ambrogio Lorenzetti, che non è la descrizione di un dipinto fatto da mano d’uomo, ma solo di un accidente meteorologico esterno. Per la stessa ragione non vi accoglierò neppure le molte descrizioni premature di Leonardo per quadri che nessuno, neppure lui, potrà mai dipingere. Qui si vaga nella selva spessa dei temperamenti, in piena psicologia preartistica. La mira è ambiziosa, ma troppo lontana e perciò, criticamente, non potrebbe far centro.

In questa scarsezza di testi, bisognerà tornare a riflessi più esterni ma pur significativi. Perchè non aggiungere almeno l’episodio dei confratelli di Arezzo che, poco dopoIO

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la metà del secolo, salgono tutti a Borgo per collaudare lo stendardo di Piero della Francesca e, dopo che ‘commen-daronolo essere bello5, se lo portan sul carretto in città? Questa è la formula ideale del ‘giudizio subbiettivo con pretesa di validità universale5. Ma, conoscendo Piero, e il suo stile grave, difficile, arcano, l’accettazione effettiva del suo quadro (i confratelli potevano infatti rifiutarlo) si colora di qualche riflesso critico.

Nel Cinquecento, e ad onta dei dinieghi dei nostri professori di dottrine, nell5antologia avrà un bel posto il Vasari nonostante i molti pregiudizi, anzi proprio per la forza con cui li sa scavalcare al punto giusto. Non era affar di nulla che uno dei principali attori del manierismo, com5era il Vasari, riescisse a ricuperare il senso vicino di certo grande Trecento, a risentirne perfino gli aspetti più diversi: da quello ‘difficile e nuovo5 di Giotto, alle ‘cose dolci e delicate5 dei senesi e persino al misterioso modo di ‘dipingere unito5 e fuso ch5era stato quello di Stefano e di Giottino. Maggior merito ancora quello di avere inteso, accanto a sè, una certa pittura ch’egli avrebbe pagato chi gliela facesse dispiacere. Pure, quando si legge il suo passo su Giorgione che ‘usava di cacciarsi avanti le cose vive e naturali, e di contraffarle quanto sapeva il meglio con i colori, e macchiarle con le tinte crude e dolci, secondo che il vivo mostrava senza far disegno5, ci si accorge che basta stralciare il giudizio di condanna che vien subito dopo e conservare soltanto quel primo stupendo riflesso, per esser certi che il Vasari aveva bene inteso anche l’odiatissima pittura veneziana.

Qui pertanto tocca alPantologia anche il nome dell5 Aretino; e cioè non dove si prova nella innocua dialettica di comporre assieme pittura e scultura sotto Castrazione mistico-platonica del ‘disegno5 ‘da quando esso apparve in tavola o in sassi5 ; ma dove, fingendo di descrivere un drammatico tramonto sulla laguna, rende da grande prosatore (e perchè non anche da critico?) il caos coloratissimo della pittura di Tiziano.

Venuti al Seicento e a veder che strazio anche maggiore qui si faccia della verità, verrebbe voglia di rovesciare il tavolo e parlare addirittura dalla parte del cuore, che sta a sinistra. Così! Il Bellori, il Félibien e i loro adepti, gli uomini che hanno oppresso e spregiato tutti i grandi rivoluzionari fondatori della pittura moderna, Caravaggio, Rembrandt, Velazquez e, poco manca, anche Rubens,PROPOSTE PER UNA CRITICA D’ARTE

Bernini, Cortona e Borromini, son questi su cui ha da fondarsi la storia della buona critica ? Perchè hanno principi ? Gran principi i sacchi sfiatati della vecchia idea platonica, ora alleatasi al razionalismo cartesiano, i sacchi del decoro, deirinvenzione che porta alla pittura a programma letterario, della composizione in astratto, e simili! Braccio secolare, c5è da rispondere, imprimatur e quel che segue. Ma, anche a rileggerli senz’astio, si trova di peggio e cioè che costoro non intesero neppure i pittori che si volevano glorificare. Perchè nè i Caracci nè Poussin hanno mai pensato di anticipare Mengs e David, Canova e l’avello neoclassico; ma la critica di costoro vi ci porta difilato; è anzi già, per esteso, tutto il programma del neoclassicismo*

E così, dove cercare? Fra i collezionisti e mercanti, di Caravaggio, di Rembrandt e Velazquez? Anche lì certamente. Nel gesto di Rubens che libera i frati della Scala dal grave incomodo della ‘Morte della Vergine’ del Caravaggio, acquistandola per il Duca di Mantova, c’è più critica che in tutto il Bellori. Ma v’è anche la lingua degli studi che cresce ad ogni costo. Non soltanto la parola ‘naturalisti’ che si pronuncia su tutti i toni, dal deprecativo all’elogiastico, ma tante altre, immaginose, come ‘macchia, tocco, impasto, sprezzatura, lumi, fierezza’, che circolano dappertutto. O le immagini create alPimprovviso e magari per ischerno di fronte all’opera. Chi è infatti miglior critico fra il Passeri che condanna la ‘Veronica’ del Mochi perchè, avventandosi fuor della nicchia a San Pietro, contravviene al sacro principio di ‘statua’; e l’anonimo che, chiamando scherzosamente ‘canneto’ una facciata di Martino Lunghi, mostra almeno di intendere l’aspirazione direi quasi paesistica dell’architettura barocca?.

A quel tempo infatti, anche nel pensiero del secentista veneziano Boschini, ‘se vede caminar V architetura’ (nell’aria, naturalmente) ; e il Boschini è il più grande fra i critici del Seicento. Manco a dirlo scrive in dialetto e ne fa una lingua. Critica e storia sono già una cosa per lui se, nel pieno della decadenza circostante, egli riesce a un recupero meraviglioso della grande pittura veneziana di un secolo innanzi; e se vi riesce, non per forza di teorie, che anzi ha debolissime, ma per via immediata, sempre accanto all’opera.

‘Là in alto quella niola batimenta’ è il primo dei versi delicati che ci danno la perfetta trasposizione della pala di Tiziano alla Salute. Tanti altri bellissimi, e sempre in strenua polemica col disegno di Toscana, chiariscono i12

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vibrati cromatismi della pittura di Jacopo Bassano: ‘tuta de colpi e tuta de dotrina - ne ghe un contorno, un’ombra, un segno, un tra to’; oppure: ‘quei colpi, quele machie e quele bote - che stimo preciose piere fine3; o, ancora, il formidabile distico, grave come in un inno sacro del Manzoni, che chiude il passo sul ‘San Pietro Martire5 di Tiziano: ‘Gloria, divinità, teror, delito - e in sito naturai chi fuze e teme5. Tratti da girare agli storici della poesia.

Il Boschini è, del resto, l'ultimo gran segno della buona critica italiana. E che maggior posto occorra, di qui in poi, fare alla Francia, è intuibile già dalla maggior libertà, dal ‘libertinaggio5, per parlare in quel gusto, con cui tutte le nuove idee circolano fra loro più che da noi. I nostri migliori nel Settecento ne sono, del resto, già un riflesso. E non voglio far torto agli inglesi più brillanti, dal Richardson al Hogarth, ma i francesi, sian classicisti o sensisti,o compon-gan le due cose, sono ancora i più penetranti, i più liberi.

Caylus, archeologo per la pelle ma amico di Watteau, addita esplicitamente, ai letterati che s5impaccian di pittura s enza previa preparazione, la lingua artistica degli studi : ‘ Cette langue plus vivante qu5aucune autre et qui se res-sent toujours du feu qui l5a fait naitre5.

Il Falconet, polemizzando agilmente in favore della scultura ‘pittorica5, mette nel sacco nientemeno che il tedesco Herder e per primo giustifica criticamente tutto il migliore barocco dal Bernini in poi.

Persino una teoria falsa come quella delPornato, serve, chi lo crederebbe?, al Fénélon per concludere che c5è un mezzo per far buona architettura, quello cioè di voltare in ornamento proprio le parti costruttive delPedificio. Un aforismo così geniale, come annotava cinquantanni fa, riscoprendolo, Rémy de Gourmont, da sconvolgere tutte la dottrine classicistiche e, soggiungiamo, da riammettere stabilmente l5architettura in seno alla ‘figurazione5. Questo era saper maneggiare idee che servano alla buona critica.

Non senza merito del xvm&ne cresce infatti la gloria dell5Ottocento francese. Perchè, sùbito dopo il congedo offerto severamente da Hegel a tutta Parte figurativa, scoppia egualmente la grande pittura romantica e accanto le combatte la grande critica romantica.

Sainte-Beuve trovava miracoli di aderenza nelle tante descrizioni di dipinti stese da Théophile Gautier che oggi ci sembrano così smorte; ma allo scrittore che ha saputo colpire talora nel segno, come quando definiva le presuntePROPOSTE PER UNA CRITICA D’ARTE

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caricature di Leonardo: ‘une arabesque anatomique ayant des muscles comme rinceaux’ non si può certo negare la qualifica di vero critico d’arte.

E, sotto il fuoco, al di là del satanismo e del ‘dan-dysmo’ ostentati da Baudelaire, che bilancia mentale! \ Chi crederebbe sua questa piana definizione del nostro argomento: ‘La meilleure critique est un beau tableau réfléchi par un esprit intelligent et sensible’? Resta da giustificare il seguito immediato, e più sorprendente, della definizione: ‘Ainsi le meilleur compte-rendu d’un tableau W pourra ètre un sonnet ou une élégie’. Come sta la cosa?

Su questa traccia intanto, Baudelaire scrive ‘Les Pha-res’, rievocazione di un perenne romanticismo figurativo che non manca di una certa potenziale ‘storicità5, almeno in sede psicologica. Su questa traccia sempre, non esita a trasferire dai ‘Phares’, nel pieno del saggio critico su Delacroix, la celebre quartina dedicata al maestro romantico: ‘Delacroix! Lac de sang, hanté ;des mauvais anges -Ombragé par un bois de sapins toujours verts - Où sous un ciel chagrin, des fanfares étranges - Passent comme un soupir étouffé de Weber’. Inserzione tanto meditata da proseguirsi perfino nel commento, a chiave esplicativa, che tutti rammentano. Ed oggi si potrà limitare la validità poetica della quartina e quella critica del commento, ma resta che, nella forma più ingenua, primitiva, qui è il programma di tutto un discorso critico che sia insieme di contatto diretto con l’opera e di evocazione di un gusto circolante attorno ad essa. E si può anche domandarsi se, sulla pittura di Delacroix, sia stato mai scritto di più illuminante che quella quartina.

Già previsto dallo stesso Baudelaire, e non tanto nella deboluccia ‘Lola de Valence’ quanto nelle ‘beautés mé-téorologiques’ avvertite inBoudin, ecco l’impressionismo: ed è significante che, chi ne voglia trovar riflessi naturali e tuttavia invincibilmente critici (come altrimenti chiamarli?), li debba, piuttosto che nei critici ‘attitrés ’, ancora poeticamente impreparati, cercare e trovare nei poeti veri lì come Verlaine e il primissimo Rimbaud; ma queste cose le ha già mostrate, or ora, un giovane critico italiano.

Resto più incerto se a quel fine riuscisse altrettanto il ‘parnassismo ermetico’ di Mallarmé. I suoi foglietti su Manet e la Morisot rendono poco e la sua interpretazione più calzante, in queste nostre parti, è purtroppo quella di un mediocre vaso inglese dell’epoca : c Surgi de la croupe et du bond*4

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- d’une verrerie éphémère - sans fleurir la veilleé amère -le col ignoré s’interrompt5. Per verità, troppo fragile.

Ed è vero che* sùbito dopo, appare un critico special-mente addetto ai movimenti figurativi moderni, anzi, a sentire Jean Paulhan nella prefazione con cui l’ha or ora rilanciato, ’il critico5 per eccellenza: Félix Fénéon.

Credo anch’io Fénéon vero critico; ma quello che mi preme rilevare si è che la sua forza non è tanto nella pretesa infallibilità di scopritore, non sempre dimostrabile, quanto nella ricerca di definizioni fra le più pregnanti, proprio per la indistinzione fra riflesso critico e riflesso poetico. Debole addirittura quando tenta di ragionare l’astrazione del ‘cloisonnisme’ o di trascrivere ad uso di pittori fuorviati i calcoli fotocromatici del Dottor Henry, è fortissimo quando, al di là del vocabulismo prezioso (di fonte Mallarmé), egli condensa in una schedula poe-tico-critica l’essenza di un dipinto o di un pittore. Eccone una su un Monet dell’86: "Un ciel pàlement vert où filent des vents étésiens : au flanc d’un escarpement, un chemin d’ocre ; au fond, loin, des monts de vacillante améthyste ’ ; o su due Seurat: cLa Rade: procession lente de voiles triangulaires; une marine: où vacille une colonne de soleil; leur immensi té angoisse’.

E, senza che si voglia seguire in ogni particolare fino ad oggi tutti i benefici portati nella critica d’arte dalla letteratura di Francia, almeno un nome sarebbe duro tacere, ed è ancora il nome di un poeta, Valéry. Ma quel che è più significativo per noi, ad onta dei tanti suoi limiti di estetismo tecnico classicizzante, è ch’egli non si è mai spinto più in alto in critica d’arte che quando, ad un tempo, saliva in poesia. Giacché le osservazioni dell’ ‘Eupalinos’ possono ancora trovare un arresto nella soverchia agghindatura, ma questa cede e si scioglie affatto in quel c Cantico delle colonne ’ che resta, alla fine, la interpretazione più eccelsa che della carne viva, spirante, (‘chair mate et belles ombres’) di certa architettura greca si sia mai data in poesia.

Meglio tacere del séguito. I troppi riflessi pratici dei fatti d’arte moderna in Francia, mercati, profezie premature dei nuovi valori ed altro, hanno portato a una deviazione in forma di oratoria pubblicistica, che non ha mancato di agganciarsi per vie traverse all’eloquenza di cattedra universitaria (ove se ne salvino le pagine più illuminanti del Focillon) ed oggi si trascina nelle perorazioni spesso indiscriminate delle ‘gens du Louvre’. E, anche passando

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all’altro estremo, non mi sentirei di riporre in una classe diversa (e perciò di accogliere nelPantologia) nè le spiegazioni accomodate di un pur vero poeta come Apolli-naire nel libro sui suoi cubistici amici, nè le c poesie di servizio 5 dedicate ai pittori surrealisti, e in primis a Picasso, da Paul Eluard. Sulla buona linea citerei invece, nell’ultimo ventennio, soltanto gli apologhi di Jean Paul-han su Braque e le trascrizioni intime, allucinanti, da Gerolamo Bosch negli ‘Insectes’ di Henri Michaux, e cioè ancora un vero poeta ma fuori dei programmi e dei manifesti.

Qui finiscono ad oggi le mie proposte per un’antologia della critica d’arte immediata, dove, come s’è visto, i nomi dei poeti e dei prosatori (e qui occorrerebbe aggiungere Ruskin giustamente tenuto dagli inglesi per uno scrittore classico) hanno tanto e più spazio che quelli dei critici ‘attitrés ’ e degli storici più creduti, ma non per questo più efficienti. E non parliamo degli estetici puri. Come va questa storia? Perchè bisognerebbe ora tirar brevemente le fila.

Obiezioni principalissime, facili a prevedere. Prima: di che legittimità sia il trasporre un’opera d’arte figurativa in altra di mezzi e limiti tanto diversi come la letteraria; e qui sembrerei il meno adatto a rispondere per essere sempre stato uno dei più strenui partigiani della distinzione. Ma chi me la rimproverava (ed era il Croce), non sembrò intendere che l’esigenza era soltanto storicistica, quella cioè di affermare la continuità (non dico l’eternità, perchè la critica non arrischia profezie), la continuità di una ostinatamente diversa condizione umana tra arte e letteratura. Ma, per la necessità di una critica parlata nel nostro campo, già serviva la confessione, anch’essa storicizzante, del Croce stesso: ‘chè, se non tutti disegniamo o dipingiamo, tutti parliamo’. Era già un appoggio serio; e si può ancora rinforzarlo con un passo, che sembra commentarlo, di Valéry prosatore: ‘tous les àrts vivent de paroles. Tout oeuvre exige qu’on lui ré-ponde et une littérature écrite ou non, immédiate ou mé-ditée est indivisible de ce qui pousse l’homme à pro-duire \ Necessità dunque anche per noi di servirci di questa via di grande comunicazione.

Seconda obiezione. Dato, e non concesso, che la migliore critica d’arte sia la diretta e riuscita espressione (e irx quanto tale anch’essa inevitabilmente ‘letteraria’) dei sentimenti sollecitati da un dipinto, dove trovare il punto di consenso possibile sul nuovo risultato così ottei6

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nuto? Ma se Parte stessa è storicamente condizionata, come non lo sarebbe la critica che la specchia, la specula ? E di questo le si dovrebbe far carico ? Qtliì è anzi il punto per battere in breccia quegli ultimi relitti metafisici che sono i principi del capolavoro assoluto e del suo splendido isolamento. L’opera d’arte, dal vaso dell’artigiano greco alla Volta Sistina, è sempre un capolavoro squisitamente ‘relativo’. L’opera non sta mai da sola, è sempre un rapporto. Per cominciare: almeno un rapporto con un’altra opera d’arte. Un’opera sola al mondo, non sarebbe neppure intesa come produzione umana, ma guardata con reverenza o con orrore, come magia, come tabù, come opera di Dio o dello stregone, non dell’uomo. E s’è già troppo sofferto del mito degli artisti divini, e divinissimi; invece che semplicemente umani.

È dunque il senso dell’apertura di rapporto che dà necessità alla risposta critica. Risposta che non involge soltanto il nesso tra opera e opere, ma tra opera e mondo, socialità, economia, religione, politica e quant’altro occorra. Qjui è il fondo sodo di un nuovo antiromanticismo illuminato, semantico, terebrante, analitico, empirico o quel che volete, purché non voglia svagare. L’opera d’arte è una liberazione, ma perchè è una lacerazione di tessuti propri ed alieni. Strappandosi, non sale in cielo, resta nel mondo. Tutto perciò si può cercare in essa, purché sia l’opera ad avvertirci che bisogna ancora trovarlo, perchè ancora qualcosa manca al suo pieno intendimento.

Ed è in questa ricerca poligenetica dell’opera, come fatto aperto, che la critica coincide con la storia, fosse pur quella d’un minuto fa. Risorge la ricerca dell’ ‘ambiente’? Può darsi, ma non sarà più nel senso grossamente deterministico e parziale dei tempi di Ippolito Taine. Gli artisti crescevano allora (diceva il Cocteau) come buone cipolle da un determinato suolo, buono e favorevole anch’esso. Ma se si ripercorre da allora il progresso nel-l’intendere quasi ad infinitum la trama dei rapporti, si trova che anche qui il maggior merito dell’arricchimento spetta soprattutto ai prosatori o poeti (non importa come chiamarli). Per un esempio: la costruzione quasi molecolare del destino terrestre del pittore Elstir nel poema (o romanzo storico) di Proust può servire di eccellente modello al critico (dunque allo storico) dell’arte permeglio intrecciare ad infinitum le cosiddette ‘biografie spirituali5 dei suoi protagonisti, in una vera e propria ‘rePROPOSTE PER UNA CRITICA D’ARTE

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cherche du temps perdu’. E chi dice che quell’esempio non abbia già fruttificato?

Per citare pochi esempi: la mediocre eleganza di un J.-Emile Bianche come pittore non è, io credo, ragion sufficiente per dimenticare la sua eccellenza di memoria-lista, di evocatore di atmosfere per l’arte francese del tardo Ottocento. Ricordate il suo brano su Lautrec? 6Degas... et puis enfin, Lautrec vint! Il apparut avec les « Girls » maigres aux triples jupons que relèvent et bousculent des jambes roses dans un nuage mousseux de linge blanc. Il venait à l’heure où la chanson anglaise, la skirt-dance, le comique en chapeau mélon, pantalon écossais, enseigne-rait le chahut londonien aux Alphonses de la Place Bianche; leurs compagnes, en longues robes de « baby », leur ferònt vis-à-vis, coiffées de la capeline Kate Greenaway’. O le schede rianimate su Raffaelli, su Vuillard, su Roussel;

o il passo quasi divinante su Gustave Moreau: ‘C’est chez lui, croirait-on, dans son atmosphère, qu’à l’amour de la nature, aux sentiments simples qui inspirèrent Gorot et les impressionnistes, se substitue la spéculation esthétique comme condition de l’oeuvre picturale congue en vase clos’. E non sono già, codesti, riflessi del ‘metodo’ proustiano?

O, mi si consenta, vagando in una zona più antica e in apparenza meno ricuperabile, di rileggere questa atmosfera del gotico morente in Lombardia: CI1 gusto più antico, ep-pur duro a morire, la singolare poetica « che i Melanesi accampa » ancora verso il 1460 ed oltre, sembrano il trionfo di una lussuosa follia profana. « Qua se sfogia et triumpha cum recami de perle ». Si fanno perfino ritratti ai cani delle mute ducali (« retrato d’un cane giamato Bareta »). Tutto il cosmo pare volersi ridurre, depresso, entro la breve doga dorata di una carta da tarocco. Negli affreschi dei castelli la sollecitudine dell’ordinatore è che « si vegga la sua Signoria mangia in oro ». Sulle pareti, duchi e famigli, addobbati nei capolavori di moda degli « zibelari » lombardi, cavalcano in un sogno di profanità fulgida e assurda. Ai loro piedi i prati si tramutano per incanto in bordi di alto liccio : i boschi dei feudi lontani si decalcano in un firmamento ormai tutto percorso dalle peripezie geroglifiche delle costellazioni araldiche famigliari; al di là delle Prealpi, brune come di cuoio impresso, coronate da manieri in pastiglia, il cielo a rombi bianchi e morelli scricchiola come le vetrate dell’oratorio di Corte nell’ossatura di peltro. Ogni veduta, ogni atto, si rinserrano bendati dal fasto greve e vacillante di un orizzonte privato5.i8

ROBERTO LONGHI

Si pensi ciò che si vuole di questo tentativo per far convenire, dai documenti rianimati, fatti d’arte, gesti di moda e di costume, una certa aristocratica insolenza, un lusso sfrenato, una larvata miscredenza; tutto ciò, insomma, che, in quel dato momento e luogo, poteva affluire in un aspetto decadente, bacato ; ma non si dica che qui si tratti di una divagazione subiettiva, irrelativa, non pertinente. L’illuminazione vi è strettamente storicizzata, parola per parola: si potrebbe provarlo.

Sta dunque il fatto che, chi si cimenti nella restituzione del ‘tempo’ di questa o di quella opera d’arte, vicina o remota che sia, trova alla fine che il metodo per ricomporre la indicibile molteplicità degli accenni più portanti non è nè potrebbe essere in essenza diverso da quello, anch’esso ‘critico’, del romanzo storico: metodo evocativo, polisenso, ‘trame tenue de tremblants préparatifs’. L’impegno assunto /dal Manzoni nel 1822 : ‘ Io faccio quel che posso per penetrarmi dello spirito del tempo che debbo descrivere, per vivere in esso’, è buono anche per noi e ci stringe a concludere che nella ripresa parlata del fatto più profondo e in apparenza meno motivatile dell’uomo com’è il produrre artistico, composto, non già di azioni e reazioni palmari, ma di sempre diverse ‘condizioni libere’, di occasioni imprevedibili e velate, non è alla fine da pretendere più che a una verisimi-glianza non contradicevole, mai ad una certezza spietata e documentata che, del resto, è dubbio se abbia veramente luogo in alcuna storia e persino in quella della scienza.

Questi i pregi di una critica d’arte che voglia, ‘ de ipso iure’, convertirsi in istoria. Altro non ci è dato richiedere. Opere ‘storicamente condizionate’ e critica ‘storicamente condizionata’ chiedono e rispondono perennemente come specchi successivi che, di tempo in tempo, l’umanità trasmette del suo sussistere più profondo.

E s’intende che, contro le interpretazioni individualisticamente troppo divaganti, insorgerà sempre il controllo continuo, immancabile, dell’opera-base e il buon critico, nel suo lavoro, ritorna infatti continuamente alla base dell’opera, come l’artista, per nuove certezze, si dice che ‘ritorni alla natura’. Ma pretendere che in critica l’identità raggiungibile con l’opera d’arte sia più che ‘relativa’ è filosoficamente stolto, perchè antistorico. Non si può sfuggire a questo destino : e alle opere che mai volessero lagnarsi delle sempre nuove deformazioni (che sono poi sempre nuove verità) della buona critica su di esse, non resterà che rispondere come Corneilleà Marquise: ‘Vous ne passerez pour belle—Qu’autantque je l’aurai dit’. Era però solo sciogliendo l’opera d’arte dal suo vano iso lamento metafisico, cancellando il mito del ‘capolavoro5 prò’ della semplice opera d’arte come liberazione di sent menti in forma di gratuito, irretribuibile lavoro umano, c poteva abbozzarsi questo proponimento critico. Nulla di estetizzante, dunque, sia ben fermo, è nell genza qui espressa di riconsegnare la critica, e perciò la s ria dell’arte, non dico nel grembo della poesia; ma, ce mente, nel cuore di una attività letteraria, che, ne sono si non potrà mai essere ‘letteratura di intrattenimento5.
 


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in: Catalogo KBD Periodici; Id: 32922+++
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Testata/Serie/Edizione Paragone - Arte | Prima serie | Edizione unica
Riferimento ISBD Paragone. Arte : mensile di arte figurativa e letteratura. - 1(1950)-. - Firenze : Sansoni, 1950-. - 21 cm Bimestrale. (( La periodicità varia. Editore e luogo di edizione variano. )) {Paragone. Arte [rivista, 1950-]}+++
Data pubblicazione Anno: 1950 Mese: 1 Giorno: 1
Numero 1
Titolo KBD-Periodici: Paragone. Arte 1950 - 1 - 1 - numero 1


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