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I recenti episodi, significativi, di Treno di panna di Andrea De Carlo (1981), Altri libertini di Pier Vittorio Tondelli (1981), Dicerie dell’untore di Gesualdo Bufalino (1981) e, più indietro, di Porci con le ali (1976), hanno mostrato come l’imporsi di scrittori esordienti nella narrativa dipenda da un processo la cui fenomenologia è ormai studio della sociologia della letteratura. Insieme alla provocatorietà e alla potenziale qualità, la miscela di un lancio riuscito assomma alla casualità dell’effetto-eco sul pubblico una sempre meno approssimativa capacità dell’industria editoriale di guidare quelle variabili extra-letterarie e extra-testuali dalle quali discende per l’appunto il successo di un libro. Si è visto quanto proprio la maturità di alcuni autori di fronte al mercato e alla conseguente rinnovata complessità dei rapporti pubblico/opera, scrittore/opera, scrittore/pubblico abbia concorso al successo di opere narrative di qualità (esemplari in tal senso sono l’Eco de II nome della rosa e il Calvino di Se una notte d’inverno un viaggiatore).
In questo panorama molto mosso in cui esiti culturali e crisi dell’editoria convivono drammaticamente non è difficile ravvisare un’attenzione spiccata per la narrativa e, all’interno di quest’ultima, un palpabile sforzo di sperimentazione e adattamento che, al di là dei risultati effettivi, testimonia di un dialogo rinnovato e vincente fra la specificità di una forma - il racconto, il romanzo
- e le trasformazioni sempre più complesse verificatesi sul terreno della comunicazione multimediale.
Ci sembra di poter riconoscere due fronti o, forse meglio, due direzioni, che in molti punti coincidono, l’uno teso a ripercorrere all’indietro, diciamo cosi, verso la fonte, la via del racconto, l’altro a contaminare sempre di più la forma narrativa con i criteri di fungibilità che la multimedialità del prodotto esige. L’esemplarità di una rivista come « Linea d’ombra » che ospita testi di scrittori esordienti e non, e che esorta gli autori all’immediatezza del racconto perché la letteratura « torni a narrare sensibilità, idee, fantasie, avvenimenti, cose e persone dei nostri anni » (n. 1, anno i, p. 5), ben rappresenta la prima tendenza e si fa segnalare per la sua dichiarata consapevolezza dei processi di mercato ai quali si oppone con una diversa volontà etica e aggregativa.
Ci sembra ora interessante volgere lo sguardo ad alcuni dei più recenti esordi narrativi. Un primo sguardo d’insieme offre al lettore l’impressione di228
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una qualità media di scrittura, di una produzione sostanzialmente uniforme, malgrado l’amplissimo spettro stilistico, a cui non sembrano ancora una volta estranee le incertezze e le difficoltà, da parte delle case editrici, di convogliare le proprie scelte verso un ipotetico equilibrio, invero arduo da mantenere, fra ricerca della qualità e attese commerciali.
All’interno di questo esito complessivamente « medio » suona tuttavia significativo il ventaglio variegatissimo di temi, topoi, modelli dei quali ciascuna opera diventa una sorta di campione rappresentativo. Si passa dal gotico fantascientifico di Gianfranco Manfredi (Magia rossa, Feltrinelli) al romanzo storico di Santamaura (Magdala, Mondadori), dal pastiche linguistico di Adamo Calabrese (Il libro del re, Einaudi) alla forma frammento di Alberto Episcopi (Festino e destino, Feltrinelli), dall’educazione sentimentale su sfondo bellico di Eugenio Vittarelli (Placida, Mondadori) al flusso di coscienza di Carlo A. Corsi (La storia del mago, Guanda), dalle apnee sintattiche di proustiana memoria di Tommaso Aliprandi (Casa in vendita, Feltrinelli) alla forma-diario di Luigi Del Re (Attesa a Guatambu, Mondadori).
La dipendenza dal modello, insieme alla strisciante consapevolezza della resa di fronte al darsi di una esperienza assolutamente originale del narrare, pare tradire il bisogno di un rifugio, di una identità dentro la pulviscolare eredità letteraria degli ultimi due secoli ed ha come risvolto strettamente tematico la scelta di situazioni narrative « estreme », curiosamente coincidenti con luoghi, geografici e non, anch’essi estremi, « di confine ». E sono il paesaggio severo, teso fra mare e picchi rocciosi, di Francesco Biamonti (L'angelo di Avrigue, Einaudi), la natura violenta e quasi senza tempo di Vincenzo Pardini (Il falco d’oro, Mondadori), l’Etiopia tragica del xix secolo di Santamaura, la Milano sospesa fra passato e futuro di Gianfranco Manfredi, il villaggio perduto nel cuore della Pampa di Del Re, il basso medioevo insanguinato di Calabrese, le torsioni barocche verso l’eccesso di Episcopi, l’acquisizione in extremis di un passato che andrà perduto con l’imminente vendita della casa di famiglia nel romanzo di Aliprandi, i confini stessi dello scrivere percorsi dal pensoso obiettivo di Daniele Del Giudice (Lo stadio di Wimbledon, Einaudi).
Fra le opere sinora citate almeno tre (Lo stadio di Wimbledon, Il falco d’oro, L’angelo di Avrigue) meritano un discorso a parte e più articolato.
Il romanzo di Del Giudice ruota intorno alla figura di Bobi Bazlen e ad altri personaggi direttamente o indirettamente compromessi con la letteratura.
Il tentativo di capire perché e se « scrivere è necessario » conduce il protagonista sulle tracce di Bazlen, di chi lo conobbe, di chi convisse col mistero della sua rinuncia davanti all’emergenza dell’opera. « Quello che a me interessa è un punto in cui forse si intersecano il saper essere e il saper scrivere. Chiunque scrive se l’immagina in un certo modo. Con lui invece in quel punto c’è stata un’esclusione, una rinuncia, un silenzio. Io vorrei capire perché ». La que te -esistenziale e morale - si dà in forma di viaggio. Un viaggio in treno a Trieste, finalmente prosciugata di ogni mefitico alito di finis Austriae, un viaggio in aereo a Londra. Quando una risposta al «perché» arriva, l’interrogativoPRIME NARRATIVE DI POCO FA
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è già lontano. « Scrivere non è importante, però non si può fare altro »; ma ancora più forte della determinazione che razionalmente il protagonista accoglie in sé è la provocante oggettività del mondo, la cosalità senza scampo dell’appa-rire e il richiamo fortissimo della rappresentazione.
L’aspetto decisivo dello Stadio di Wimbledon risiede nella silenziosa presa della sua scrittura. Come un sintonizzatore nell’intreccio e nella confusione dei messaggi, essi si muove intorno ai vuoti dell’azione e della memoria per pause e indugi, tesa a raccogliere nell’apparente povertà del marginale il fruscio di un responso. Quanto più l’oggetto della ricerca s’allontana, tanto più i primi piani del reale si fanno nitidi: ci si accorge che quanto voleva essere eticamente vero
- lo spazio pieno del dilemma - ha già creato, via via cancellandosi, dei personaggi e le quinte prospettiche di un’« altra » storia. E la sua verità riposa, non già nello scioglimento del dubbio, ma nei gesti pensosi, declinanti, perduti di quelle dramatis personae - e lo scrittore ne è consapevole -, nel destarsi di luoghi, di figure, di soggetti. Di Bazlen al protagonista rimarrà - e pare quasi manniana ironia - un pullover « di lana corta, pettinata, in un grigio chiarissimo e con il collo a v ».
Più che la ripresa di un motivo che invero potrebbe apparire stanco - la letteratura e la vita - il romanzo di Del Giudice è una meditazione sul destino della scrittura narrativa, sulla sua insostituibilità. Ne consegue perciò, non tanto un conflitto con l’impenetrabilità del reale, ma un fronteggiare vittorioso l’impotenza della parola, un esperire consapevole dei processi di trasformazione che attraversano e modificano la comunicazione nel suo complesso.
Da un’altra angolazione anche Vincenzo Pardini nel Falco d}oro conferma l’energia della parola narrante; ma, al contrario di Del Giudice, egli aggredisce una materia viva e vi lavora intorno con pochi secchi colpi lasciando emergere la creaturalità dei suoi personaggi, vittime e complici di una natura impietosa, violenta, che solo a tratti coincide - cosi ci informa l’autore - con l’Appenni-no tosco-emiliano. Più verosimilmente si palesa l’atemporalità di quel paesaggio, la miticità del mondo contadino su cui cade a tratti, e inaspettata, la riconoscibilità di talune connotazioni storiche: una stretta di mano a Togliatti, il fascismo, la guerra, la deportazione in Germania.
Più che una raccolta di racconti II falco d’oro pare un romanzo abbozzato e lasciato incompiuto, smembrato in episodi che l’autore non ha saputo o voluto cucire assieme. E benché l’opera cosi com’è presenti già una notevole compattezza, è pur vero che Yepos tragico da cui scaturisce la vis narrativa di Pardini chiedeva forse una più scrupolosa elaborazione strutturale. La conferma a quest’ipotesi ci viene dall’ossessiva ripetizione delle chiuse drammatiche, che, se da un lato testimoniano il gusto vivissimo del precipitare del racconto, dall’altro rischiano di intaccare e esaurire la bontà dell’ispirazione, tutta raccolta nell’in-combere tremendo dell’artiglio del destino che fa da bruna cornice a ogni personaggio, uomo o bestia che sia. Resta tuttavia la palpitante crudezza della rappresentazione, la sintassi severa, l’assetata aggettivazione, la rincorsa talora230
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ansimante, talora più rilassata, del personaggio a tutto tondo che risponda e si rifletta nella inquietante verginità della natura.
Preferiamo perciò alla diseguale tenuta narrativa del Bilancio (drammatico inseguimento e face to face fra uomo e rapace) Tepica parabola di Don Pistola, sacerdote bestemmiatore, libertario e comunista, uomo sanguigno e generoso amante, che gira armato di pistola e pubblica un romanzo dove « ogni personaggio sapeva sempre dire l’indimenticabile », o il breve ritratto de II nonno che « diceva frasi di semplice e universale bellezza: proprio di chi ha convissuto con la solitudine ed ha finito per amarla », o, ancora, la morte del Gherla: « Io non fui ammesso alla sua stanza. Quindi parlo solo per sentito dire. A momenti, sul suo volto, c’era una grande calma, in altri un terribile furore. E riprendeva a discorrere a ridere, ma tanto intensamente che pareva stesse per destarsi ». È da quel « sentito dire », dal ricordo del ricordo, che acquista veridicità narrativa non solo il mondo d’ombre e solitudini, di volti e di gesti posseduti da un’ingovernabile fatalità, ma anche quella natura indomata che, in palese debito di credibilità, la trova nella distanza della parola udita o addirittura infraudita, nel trapassato remoto di cui il narrato di Pardini sembra patire il rigurgito irresistibile.
La natura o meglio il profilo nettissimo di un paesaggio (quello ligure fra monti e mare nell’estremo tratto di costa a confine con la Francia) è il vero protagonista del romanzo di Francesco Biamonti, Vangelo di Àvrigue. Gregorio, un marinaio in attesa di imbarco, scopre fra i crepacci di Avrigue il cadavere di un giovane, Jean Pierre, tossicodipendente, probabilmente suicida, col quale egli aveva diviso serate al tavolo d’osteria. La morte entra nel tessuto narrativo come un interrogativo insopportabile, ma anche come un colore, come il risvolto oscuro di un disagio a cui Gregorio vorrebbe dare risposta.
Prende inizio da qui un’indagine, una ricerca che, come nel romanzo di Del Giudice ad altro non conduce che alla visitazione di una realtà interiore su cui preme l’immagine del labirinto. La detective-story che qui e là s’adombra è puro pretesto; ma qui si fa talora appena più invadente e, pur senza compromettere la tenuta stilistica dell’opera, sembra tradire la preoccupazione che l’« occasionalità » dell’indagine possa conferire al romanzo un’identità narrativa più forte.
La qualità finissima della scrittura di Biamonti va del resto cercata nei toni lirici, nella partitura musicale che trama lo spessore degli eventi; nella folgorazione di talune figure umane che dal paesaggio emergono senza staccarsene, nella perifericità emblematica di taluni episodi corali, anch’essi radicati nella scontrosa civiltà dell’entroterra franco-ligure. Compresi in questo campionario sono dunque certe « panoramiche » colte al di là degli occhi del protagonista (« Toccava quasi il poggio un cielo sereno e denso, solcato da due cirri non più grandi di falchetti, quasi un tetto luminoso »; « Dove la strada si biforcava, alla sua croce, era lassù sopra l’ulivo, il primo abbacchiatore di quell’anno. Era lontano, in cima, con la testa rovesciata. Sbatteva a trappi, col bastone ven-cheggiante, e cadevano a raffica olive e foglie »; « Gli ulivi erano sempre piùPRIME NARRATIVE DI POCO FA
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scarni, di una bellezza quasi minerale, mano a mano che saliva »), l’apparizione del pastore provenzale (« Quell’uomo quasi vecchio e quasi sacro spiegò che aveva camminato tutta la notte per abbassarsi, per fuggire l’aria di neve (l’auro de nèu), nemica a chi aveva tutti i suoi beni in sangue, in sangue di dio »), la processione del Santo ad Avrigue con l’esecuzione della « numero due », la « musica del prigioniero » (« Grave e segreta come la vita sul passo della terra, era la numero due: lichenoso meriggio in cammino verso la sera »).
Entro i confini di un apprezzabile livello di leggibilità sono Magdala di Santamaura, Placida di Vittarelli, Attesa a Guatambu di Luigi Del Re. Del primo ci piace sottolineare il tentativo seducente di sposare ai ritmi del romanzo storico, al piacere di reinventare il personaggio attraverso la parzialità delle fonti, puntuali considerazioni sul « tragico », quasi nella marginalità della figura del tiranno etiope Tewodros l’autore avesse voluto riconoscere da subito lo spazio eletto di un teatro della coscienza. E più che di storia sarebbe allora opportuno parlare di vera e propria « tragedia in forma narrativa », ma con la complicazione che il traguardo drammatico risiede più nelle « note di regia » di uno scrittore « metteur en scene » e nelle sue interpolazioni saggistiche che nell’autonoma veemenza degli eventi narrati.
Anche in Attesa a Guatambu pesa un esito fatalmente tragico, e l’autore dimostra di saper guidare con mano sicura la macchina narrativa. Tuttavia se pur il ‘ personaggio che dice io ’ ha una sua profonda dignità esistenziale che trova specchio nel codice violento della vita del villaggio a seicento chilometri da Buenos Aires, se la forma-diario ben s’addice ai tempi stretti su cui incombe il fantasma della morte e l’assetata carnalità dell’amore, restano tuttavia zone d’ombre, cadute in aforismo spicciolo, obsolete considerazioni sulla giustizia del mondo, lungaggini da cui il nocciolo di disperata vitalità del romanzo esce mortificato.
Vicino al romanzo di genere ma complicato da elementi eterogenei - quali il riflusso politico degli anni ’80, la rivisitazione in chiave insolita dei testi marxiani - è Magia rossa di Gianfranco Manfredi. Un’opera che, riprendendo certi stilemi della grande letteratura fantascientifica americana, fonde coraggiosamente e con simpatica determinazione turgori gotici e dotte considerazioni sulla storia, dimostrando, al di là della paradossalità, per altro gustosissima degli esiti, che anche uno scrittore italiano può misurarsi con la letteratura di genere senza perdere in dignità « letteraria » e anzi indicando una via poco o mal frequentata dai nostri autori. Di tutto rilievo è l’immagine inedita di Milano, finalmente ricondotta alle proprie ombre, agli aspetti meno consueti della sua tadizionale iconografia. E tanto forte è la presenza della città che, se un malessere reale la storia di Magia rossa comunica, esso è proprio qui, fra archeologia industriale, metropoli e memoria urbana, invadente come un’edera dentro le crepe dell’allegorica immagine del progresso.
Anche il romanzo di Adamo Calabrese, Il libro del re, è disegnato all’interno del fantastico. Come Manfredi, Calabrese guarda alla Lombardia, ma a una Lombardia reinventata, sull’orlo di un medioevo non ancora concluso e di una232
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rinascenza incerta. La fa da padrone il linguaggio, farcito di arcaismi, latinismi, inflessioni franco-germaniche e dialettali, a cui si aggiunge l'esacerbato gusto del catalogo e della similitudine ardita. La triste istoria del principe francese abbandonato dalla bella dama e quella parallela del re lombardo ugualmente divorato da irriducibile passione per una attricetta di Lodi non vanno al di là del « gioco » e richiamano talora i paradossi eroico-comici di certo fumetto, colto e no.
Un’indubbia padronanza dei mezzi linguistici affiora tuttavia in alcune pagine memorabili, quali quelle della « fusione », dove gli elementi lessicali eterogenei, la predilezione per il fantastico popolare, l’immagine ricca, talora straripante, assumono una forza rappresentativa irresistibile. Le palle da cannone vengono tolte dal « pentolone » e le donne battezzano « ogni bomba con i più feroci sberleffi, destinando la prima palla alle corna del Principe, la seconda per azzoppare il suo cavallo, la terza per stendere i capitani, e ogni altra per ciascun fante francese, per fracassargli le ossa, ingarbugliargli i tendini e penetrargli infuocata nel di dietro per uscirgli dalla bocca sdentata, o al contrario ingozzarsi nella ghigna per scappargli fuori come un vento dalla coda ». Più vicino a Fo che a Gadda, Il libro del re è un romanzo che diverte senza, d’altro canto, pervenire a più profonde urticanti provocazioni.
Casa in vendita di Aliprandi è opera decisamente irrisolta quand’anche seducente è il lavorio della memoria intorno alla vecchia casa assediata da ricordi di famiglia e imminenti temporali di fine estate, da storie incrociate di destini diversi che paiono specchiarsi nel tempo e nello spazio attraverso la voce narrante. Anche se in questo ininterrotto fluire di volti e di gesti riconosciamo elementi vivi, non ci convince, sul fronte stilistico, la troppo ostentata dimestichezza con i lunghi periodi, gli incisi, le pause parentetiche, che si rivela alla lunga fragile e inadeguata, comunque dispersiva e senza governo.
Più ancora ci lasciano perplessi gli esiti di opere come Festino e destino di Alberto Episcopi e La storia del mago di Carlo A. Corsi, il primo teso a costruire un « romanzo di ruminazione, di scoperchiamento », un « romanzo totale, brulicamento di tutte le frasi » attraverso il gioco, consapevole e non privo di suggestioni, di immagini peregrine e crudeli, con torsioni barocche intorno ai temi del sangue e della morte, dell’eros e dell’io; il secondo, volto verso una prosa anch’essa « totale », senza punteggiatura, maiuscole e capoversi, verso una fabula ininterrotta, « to be continued » che, complice l’uso di un tu impersonale, ripercorre memorie autobiografiche e generazionali nel tentativo
- purtroppo solo superficialmente disperato - di non perdere il filo della storia, di continuare a narrare o meglio - come dice l’autore - a « scavare in un fazzoletto di terra pestata milioni di volte ».
Sia Episcopi che Corsi sembrano andare verso un io che nel farsi centro di inquietudini e malesseri infine non li riconosce e li soffoca, nel primo caso di cascami culturali ed erratici frammenti narrativi, nel secondo di una iperlalicità troppo intenerita e patetica, ben lontana dalla strangolata, cinica irrefrenabilità della Molly joyciana a cui forse vorrebbe rimandare.
Alberto Rollo | |
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