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ANTEPRIMA MULTIMEDIALI

tipologia: Analitici; Id: 1543247


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Tipologia Periodico
Titolo Vittorio Lanternari, Approccio antropologico al rifugiato mondiale
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APPROCCIO ANTROPOLOGICO AL RIFUGIATO MONDIALE

Il problema dei rifugiati rientra nella categoria delle « calamità provocate dall’uomo » (« man-made disasters »), come altri (D’Souza) hanno scritto e, noi aggiungiamo, per le quali è più arduo, all’uomo, porre rimedio. Certo si danno casi di calamità naturali collettive - grandi siccità, terremoti, inondazioni -cui seguono ondate di fuggiaschi in cerca di nuove sedi. Ma di massima il problema dei rifugiati nasce da conflitti politici, guerre, persecuzioni. Né è un problema soltanto moderno. Anzi è forse uno dei più antichi problemi posti dalla storia dei popoli nei loro contatti e nei loro conflitti. Ed è proprio la storia ad insegnarci qualcosa circa i processi d’inserimento, adattamento o di rigidità etnico-culturale, di acculturazione, integrazione, assimilazione o di margi-nalizzazione, ghettizzazione e persecuzione a cui furono sottoposte le popolazioni più diverse nei trapianti massicci, imposti o volontari, ch’esse subirono nelle più varie circostanze in tempi remoti e meno remoti. La storia c’insegna specialmente gli effetti a lungo termine, sul piano dei comportamenti collettivi e dei rapporti interculturali, seguiti tra i più diversi gruppi etnici costretti per qualsiasi causa a insediarsi in terre straniere.

La « cattività babilonese » degli antichi Ebrei è un caso che apre la storia dei rifugiati nel mondo vicino-orientale; la diaspora ebraica dopo la distruzione di Gerusalemme nel i secolo d.C. dà il via ad uno dei più grandiosi processi storici di dispersione di rifugiati nel mondo occidentale. Pensiamo anche ai grandi rimescolamenti di popoli che seguirono le invasioni di « barbari » nell’alto Medioevo europeo; alle masse di perseguitati religiosi fuggiti dall’Inghilterra in America nel ’600, e che fondarono quella Nuova Inghilterra da cui sarebbero nati gli Stati Uniti di oggi. Sostanziali analogie col problema dei rifugiati, sotto il profilo socio-culturale, ha l’intero capitolo della tratta di schiavi africani portati nei secoli xvi-xvm e oltre in America, dove unendosi formarono le cosiddette « nazioni » secondo la loro origine etnica, e dove a lungo termine avrebbero - anche dopo l’emancipazione - alimentato l’insorgere di sempre nuovi problemi nei rapporti etnici e culturali tra il mondo negro e il mondo della società ufficiale americana.

Una parentela col problema dei rifugiati, per quel che riguarda gli aspetti socio-culturali del loro incontro con la società ospitante, ha anche il fenomeno della stabilizzazione di emigrati in paese straniero, dove essi vengono a costituire altrettante minoranze etniche, linguistiche e culturali, in un complesso e196

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contraddittorio rapporto di integrazione e diversificazione con la società dominante. Comune è infatti la crisi culturale, psicologica, etico-sociale del trapianto in ambienti nuovi e dentro società aliene. Anche se differenze vi sono - tra l’altro - nel fatto che gli emigrati « fuggirono » dal paese d’origine per evadere dalla miseria e dal sottosviluppo - non da minacce di guerre o persecuzioni - ed in piccoli gruppi famigliari o come individui singoli, mentre i rifugiati formano per lo più gruppi unitari, comunità e perfino masse omogenee unite da un comune destino che simultaneamente o in breve periodo li ha « costretti » a fuggire.

Qualche insegnamento ci viene, per un approccio al problema dei rifugiati, anche dal caso delle minoranze etniche trapiantate da secoli in paesi dell’area occidentale - Europa, Stati Uniti, Canada per esempio le « colonie » albanesi del Mezzogiorno d’Italia, o di minoranze costituitesi in epoche recenti (Portoricani e Haitiani negli usa; Indiani nei paesi dell’Africa orientale, ecc.). Un caso particolarmente indicativo è quello delle minoranze di nomadi (gli Zingari) da secoli trapiantate tra popolazioni sedentarie in Europa. Da questi casi impariamo quanto forte è l’esigenza di salvaguardare e serbare gelosamente le tradizioni, la cultura, la propria identità originaria tra i « rifugiati »; e quanto è pressante all’opposto nella società ospitante la tendenza a integrarli, omologandoli alla propria cultura, riservando loro ostilità, disprezzo e comportamenti persecutori nel caso ch’essi (penso in particolare a numerosi casi riguardanti gli Zingari) rifiutino d’integrarsi nella società borghese ufficiale (i nomadi come sedentari, i negri come proletari o borghesi tra i bianchi in usa, albanesi come italiani nel nostro Mezzogiorno).

Certamente nei tempi moderni, e sempre più negli ultimi decenni con l’aggravarsi di squilibri, conflitti e moti politici nel Terzo Mondo, con la nuova esplosione di conflittualità sociali, politiche e religiose all’interno dei paesi dell’area capitalista e socialista, è cresciuta la popolazione dei rifugiati. La disperata fuga dal Vietnam dei « Boat-People » e la diaspora dei Palestinesi imposta da Israele con la guerra nel Libano sono segni d’una sempre più sconvolgente tragedia che investe le più diverse popolazioni. Il fenomeno di massicce fughe d’interi popoli s’è esteso a macchia d’olio soprattutto nei paesi africani, latino-americani, asiatici, con ripercussioni immediate nei paesi europei, e comunque nei paesi occidentali industrializzati, assunti in molti casi come preferibili terre d’asilo. Si è cosi cominciato ad avvertire l’esigenza di prendere coscienza critica dei problemi posti dalla presenza di rifugiati nel mondo: problemi che solo sotto la pressione degli eventi e dei conflitti che ne insorgono, si cerca di affrontare ora nella loro autonomia e nella loro multiformità. Ciò come premessa all’organizzazione d’interventi operativi da parte di organismi politici, assistenziali, amministrativi, religiosi, ecc.: interventi intesi a cercare soluzioni, o almeno proposte di soluzioni alla somma dei problemi che i rifugiati pongono al mondo contemporaneo e a tutti i paesi che ne fanno parte senza possibilità, per nessuno d’essi, d’ignorarli o rimuoverli: o come paesi da cui si fugge, o come paesi-rifugio.APPROCCIO ANTROPOLOGICO AL RIFUGIATO MONDIALE

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La prima osservazione da fare, in un quadro d’assieme, è quella della molteplicità ed eterogeneità dei problemi posti dalla condizione di rifugiato, in relazione alle circostanze storiche, socio-politiche, religiose del loro espatrio. L’espatrio può essere forzoso o volontario, né è in tutti i casi agevole distinguere dove termina la componente « forzosa » e dove comincia quella « volontaria ». Guerre, persecuzioni politiche, ideologiche, religiose, ma anche grandi siccità (Sahel), terremoti, trapianti imposti (i Bahari del Bangladesh nel Pakistan, i Somali nomadi forzosamente sedentarizzati, ecc.) danno luogo a processi di fughe colléttive. Fuggono interi gruppi etnici o gruppi famigliari, ovvero individui singoli. Eterogeneità di problemi è data dalla diversità - caso per caso — di cultura rispetto ai paesi ospitanti, dalla diversità di estrazione socio-culturale dei distinti individui, delle famiglie o dei gruppi: d’origine rurale o urbana, di livello illetterato o letterato, di vari mestieri e ruoli, come contadini, professionisti, studenti, ecc. Diverse esigenze e specifici problemi si pongono per bambini, giovani, adulti, anziani, nonché per i sessi diversi. Altri sono poi i problemi che si pongono per rifugiati in campi di primo asilo, altri per quelli d’insediamento durevole, o definitivo. Alcuni hanno perciò distinto problemi di « emergenza » (relativi a bisogni primari e immediati), di « sussistenza » (assistenza in attesa di smistamento) e d’« insediamento definitivo ». Emblematici di tale eterogeneità di situazioni e di esigenze sono i casi africani: dall’Ogaden etiopico alla Somalia; dall’Ogaden all’Europa, dall’Eritrea in Italia

o a Gibuti; dalPUganda in Tanzania, Zaire, Kenya e USA; dalla Rhodesia allo Zimbabwe; dal Sudan meridionale ai paesi prossimi e poi ritorno in Sudan; dall’Angola, Guinea Bissau, Mozambico durante le lotte di liberazione; dal Sahel, ecc.

L’enormità e l’eterogeneità dei problemi che si pongono nell’insieme, specie di fronte al tentativo di pervenire ad alcune generalizzazioni di qualche utilità non solo scientifica, ma anche operativa, sono tali da rendere improbabile l’assunto stesso di proposte risolutive universalmente valide.

Noi conosciamo bene, nel campo delle discipline antropologiche, i processi di disgregazione socio-culturale determinati dall’urto fra società e culture differenti nel contesto coloniale e postcoloniale: sia quando si tratti d’urto violento di una forza egemonica espansionista che introduce fattori sociali, politici, economici, religiosi e insomma modelli culturali impositivi, tali da mettere in crisi l’intero assetto delle società tradizionali; sia che si tratti dell’incontro non violento tra culture separate da un marcato dislivello e da radici storiche assolutamente eterogenee. Ricordo qui i più diversi casi d’incontro della civiltà occidentale, mercantile, industriale con le società tribali, preindustriali, prive di economia monetaria, del Terzo Mondo.

Conosciamo gli effetti di crisi psico-sociale e di vuoto culturale che tali incontri o scontri producono a livello collettivo. Conosciamo anche i variabili processi di reintegrazione o di sintesi culturale con i quali le società già tradizionali hanno risposto e rispondono alla crisi che disgrega i sistemi etico-sociali, religiosi, parentali, politici tradizionali, e che vanifica il sistema di valori198

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coesivi tramandati dagli antenati. Conosciamo d’altronde la situazione dei negri nelle homelands segregazioniste del Sudafrica, dove dominano malnutrizione e denutrizione, supersfruttamento di manodopera a basso costo, separazione degli adulti dalle famiglie per ragioni di lavoro, perdita del senso di protezione materna da parte dei bambini, portati alla morte per denutrizione. Anche questa è una situazione che ha punti di contatto col problema dei rifugiati: malgrado le differenze dovute al fatto che per i negri l’« espatrio » s’identifica con la loro ghettizzazione in riserve site in quella che è, a rigore, la loro «patria», ad opera di bianchi «immigrati» ma egemoni.

Ma la condizione del rifugiato ha qualcosa di più pericolosamente e sottilmente logorante dei casi suesposti. Infatti nei casi indicati la crisi investe gente pur sempre unita in un ambiente territoriale etnico e sociale originario, e pertanto in grado, per il vincolo che la lega alla sua terra e nella (malgrado tutto) perdurante unitarietà sociale, di opporre resistenza alle forze disgreganti. La forza della memoria ancestrale e della cultura tradizionale, condivisa comunitariamente, offre loro possibilità di rispondere e reagire positivamente alla crisi. È significativo che periodiche rivolte di negri si verifichino in Sudafrica, e che tutte le società del Terzo Mondo investite dall’ondata espansionista e prevaricatrice della civiltà occidentale abbiano elaborato, e continuamente elaborino vie nuove ed autonome da percorrere, secondo i criteri di un sincretismo culturale che volta a volta s’innesta alle tradizioni e alla cultura avita, senza mai rinnegarla, ma reinterpretandola in sintesi originali.

Ma i rifugiati, diversamente, sono stranieri in terra straniera. Sono sradicati dalle strutture territoriali, abitative, ambientali. Sono fisicamente strappati dalle tradizioni nei loro aspetti pratici, rituali, sociali. Essi subiscono una violenza fisica diretta: patimenti, miseria, malattie, fame, isolamento. Il disastro subito con lo sradicamento minaccia di distruggere senza compenso la cultura e i valori cui sono radicati per nascita: la loro stessa identità etnica, sociale, psicologica. Il loro è un lancio nel vuoto, in un « limbo culturale » reso tragico dalla mancanza d’immediate prospettive risolutone. I casi che abbiamo pocanzi nominato, riguardano da un lato società tradizionali scontratesi in situ con civiltà estranee, dall’altro minoranze etnico-linguistiche e culturali inserite nel mondo occidentale. In tutti tali casi si tratta di genti venute a trovarsi al bivio tra modelli alternativi e diversi, fra una spinta conservatrice tradizionalista, ed una controspinta modificatrice destrutturatrice. Ma in tutti i casi del genere s’apre la possibilità di elaborare risposte originali ed autonome. Il rifugiato si trova senza alternative che dipendano da sua libera scelta. Il momento della « fuga » lo pone drasticamente dinanzi a un solo problema: salvare la sua integrità fisica, cioè sopravvivere. E quando abbia trovato un paese d’asilo immediato dovrà ancora cercare e trovare quello d’insediamento durevole. E quand’anche abbia trovato la sede definitiva, allora s’impone per lui drammaticamente un problema non meno vitale: quello di salvare la sua identità culturale. Infatti il rifugiato rischia, nel paese straniero - tanto più quanto più tale paese è « diverso » dal suo originario per ambiente fisico, clima, storia, culturaAPPROCCIO ANTROPOLOGICO AL RIFUGIATO MONDIALE

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- di perdere totalmente se stesso; di non potersi più riconoscere attraverso lo specchio di altri che condividano in modi ufficiali (e non clandestini o solo privati) lingua, costumi, tradizioni, religione, valori, cultura. Anche mescolandosi con altri di cultura congenere, il rifugiato non può non sentirsi isolato nel mezzo d’una società largamente maggioritaria e aliena, tendenzialmente indifferente se non ostile e comunque « diversa ». Nel migliore dei casi viene a formarsi una contraddittoria e psichicamente lacerante dicotomia fra un modo di vita « ufficiale » nei rapporti esterni con la società dominante, ed un modo « riservato » e privato, con uso della lingua materna e rispetto degli usi nativi all’interno della famiglia e della minoranza di cui egli fa parte.

Il trauma del rifugiato, dopo superata la crisi dell’espatrio e le drammatiche vicende in vista di un insediamento, è il trauma dell’isolamento, della perdita dei propri centri di riferimento ideologico e culturale, in condizioni d’impotenza e di frustrazione. Angoscia, depressione psichica, vuoto psicologico sono gli effetti correnti del « limbo culturale », della minaccia di perdita d’identità. Ne seguono: mania di persecuzione, paure, fantasie d’aggressione, desiderio di morte e di autodistruzione. Lacerante si fa la contraddizione tra la cultura interiorizzata in origine - mi riferisco ad individui adulti e socializzati nella cultura nativa - ed il bisogno d’adattamento-integrazione nella cultura straniera.

Il dilemma tra conservazione e integrazione, fra tradizione e cambiamento è il dilemma fondamentale del rifugiato nel suo rapporto con l’ambiente ospitante. Ed è da notare con sorpresa che proprio questo problema, vitale e dominante nell’intera fenomenologia del rifugiato, non ha finora trovato una percezione adeguata negli autori e negli studi dedicati al problema dei rifugiati. La letteratura in questione (vedi Bibliografia), scarsamente aperta e sensibile a problemi d’ordine socio-culturale, il più delle volte si lascia ispirare dalla convinzione, più

o meno inconsciamente etnocentrica, che l’obiettivo da raggiungere per una corretta politica d’intervento verso i rifugiati sia quella di una indiscriminata « assimilazione ». Si ignora o si sottovaluta la problematica, essenziale in una prospettiva antropologica, del conflitto culturale, con le sue pervasive connessioni psicologiche. In questo senso la prospettiva storico-antropologica che noi seguiamo offre spunti positivi per una più cauta e critica conoscenza degli aspetti socio-culturali della condizione dei rifugiati. La comparazione storica e antropologica illumina in questo senso.

Prescindendo dai casi di un possibile, più o meno procrastinabile rimpatrio nel paese d’origine, il problema dei rifugiati in terra straniera è stato, e generalmente è tuttora affrontato come un problema di « integrazione » attraverso processi di « adattamento » e di « acculturazione ». A questo proposito è da precisare che si tende a identificare l’« integrazione » con la pura e semplice « assimilazione », mentre l’« adattamento » e l’« acculturazione » sono intesi, riduttivamente e unidirezionalmente, come meccanicistico passaggio dalla cultura d’origine alla cultura ospitante. Cosi si fa prevalere quell’antica e acritica concezione dei processi acculturativi, secondo la quale l’« acculturazione » sarebbe la semplice e meccanica sostituzione di modelli « moderni » imprestati dalla civiltà200

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occidentale, data ideologicamente come paradigma unico e universale, esso solo capace e degno, per la sua validità «assoluta», di assorbire e praticamente soffocare, livellare, annullare ogni « alterità ». Quanto sia impropria e fuorvian-te questa concezione del processo acculturativo è ben noto a chi si ponga sul piano di un’antropologia storico-critica. Pensiamo al grande, antico esempio dato dall’incontro della Grecità con la Romanità: dove quest’ultima vantava le medesime caratteristiche di espansionismo e superiorità assoluta fatte proprie oggi daH’etnocentrismo occidentale, ma non potè evitare di fare i conti con la potenzialità penetrante della cultura greca, onde molto sensatamente si disse: Graecia capta ferum victorem cepit. Né, in età moderna, possiamo dimenticare e tacere gli influssi deiroriginaria cultura negro-africana tra i discendenti degli schiavi trapiantati or sono quattro secoli dal continente nero in America. Si pensi solo ai culti afro-cattolici anch’oggi vivi fra i negri del Brasile e del Centro-America: o agli apporti della cultura negra alla musica, all’arte coreuti-ca, perfino all’ideologia dei diritti civili negli usa di oggi. E sappiamo che le condizioni degli schiavi negri rispetto alla società dominante erano tali da poterli classificare come dei « rifugiati » sui generis.

In realtà, se consideriamo lo sviluppo e gli esiti di ogni processo acculturativo che riguardi gruppi etnicamente e culturalmente omogenei, quando essi si trovino posti di fronte a modelli altri dai propri, per quanto attraenti e impositivi, non possiamo ignorare che la tendenza costante segue spontaneamente un andamento dialettico. Tradizione e cambiamento s’intrecciano in modo da interpenetrarsi tra loro secondo criteri diversi e originali. Ogni gruppo etnico, trovatosi dinanzi all’imperativo di adattarsi a modelli culturali ad esso alieni, ha sempre espresso il bisogno di salvaguardare la propria identità mediante la conservazione o la ripresa « nativista » di alcuni tratti della cultura - lingua, costumi, riti, sistemi d’etichetta, religione, stili di vita - che qualificano l’esistenza di individui legati tra loro da una storia comune, ossia da una comune ascendenza etnica e culturale. Differente è il caso in cui si tratti di individui singoli dispersi e isolati entro un ambiente straniero. In questo caso si crea uno « stato di necessità » determinato dal rischio di non-sopravvivenza fisica e sociale, da cui s’apre un processo di vera e propria « assimilazione » nel senso più radicale del termine.

La violenza della storia, con i suoi rapporti di forza e di potere, esclude il rifugiato, nella maggior parte dei casi, dal ritorno ad un « prima » per lo più irrimediabilmente perduto. Eccezioni sono date dai casi di genti fuggite e successivamente tornate nel Sudan meridionale nel 1972; o rimpatriati nello Zimbabwe nel 1980. Ma la continuità con il passato, l’aggancio con la tradizione, sia pure nel cambiamento e nella rielaborazione di molti suoi tratti, fornisce il supporto estremo, l’ancora di sicurezza, il simbolo di un’identità, la garanzia d’un equilibrio esistenziale, nello smarrimento dato dalle nuove condizioni ambientali, territoriali, sociali.

Certo, nel rapporto con la cultura e la società ospitante agiscono forze tendenzialmente opposte tra loro. Da una parte la società ospitante preme,APPROCCIO ANTROPOLOGICO AL RIFUGIATO MONDIALE

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attraverso le sue istituzioni e organizzazioni, e con la forza coercitiva data dal bisogno di protezione e dallo stato di dipendenza del rifugiato. Si dà cosi avvio ad un processo deculturante e mimetico. I momenti essenziali ne sono: la marginalizzazione e l’isolamento in quartieri, distretti o aree proprie, con formazione di ghetti; l’insegnamento della lingua dominante in sostituzione di quella materna; per i gruppi nomadi, la sedentarizzazione forzosa; in tutti i casi, la proletarizzazione e l’avvio al lavoro secondo esigenze e possibilità offerte dalla società ufficiale per lo più prescindendo dal tipo di attitudini e competenze o dal grado di adattabilità individuale; infine la pressione di chiese cristiane per la conversione dei non cristiani. Questi interventi «acculturativi» (e contestualmente « deculturativi ») s’applicano spesso in un clima diffuso d’incontrollabile ostilità, tensione, sospettosità, repulsione. È il clima determinato in parte dalla concorrenza nei posti di lavoro, in parte da pregiudizi etnici e xenofobi se non addirittura razzisti. Un’atmosfera d’incomunicabilità si stende sui rapporti fra ospitati e ospitanti. All’interno del gruppo, le vicende dell’espatrio, lo choc culturale e il trauma dello sradicamento determinano la frantumazione delle parentele e di quei legami clanici o famigliari che hanno una significativa efficacia coesiva nelle società tradizionali. Si tende a vanificare Puso della lingua nativa; entra in crisi il sistema degli usi alimentari, abiti, feste, stili di vita, modi e ritmi di lavoro tradizionali.

A questa tendenza si contrappone la resistenza psicologica e culturale dei rifugiati. Infatti, malgrado l’attrattiva di una civiltà accattivante e malgrado il relativo « stato di necessità », essi sentono il richiamo della propria cultura, e non solo per « nostalgia » ma perché in essa sta il centro primario di riferimento ideologico. Agisce in loro, a livello di psicologia collettiva, un nesso ombelicale con la storia comunitaria, con il mondo degli antenati, con il sistema di valori e di simboli interiorizzati per nascita e formazione. La cultura tradizionale è - per usare la terminologia degli psicologi - il primo di quei « contenitori fantasmatici » su cui poggia il significato dell’esistenza individuale e comunitaria.

Pertanto Patteggiamento dei rifugiati è tipicamente ambivalente e dualista, dato che in loro fanno contrasto una dose di accettazione, ed una di rifiuto verso la cultura dominante del paese ospitante. Sono accettati e forzosamente recepiti i modelli del sistema organizzativo, istituzionale, amministrativo, politico; viene rifiutato ogni tentativo di scalzare la loro lingua, le feste, le forme consuetudinarie d’aggregazione sociale, il tipo di alimentazione, di vestiario, la religione ancestrale, e cosi via: cioè i simboli o le bandiere della propria identità.

L’assimilazione radicale e di massa, in tutti i casi, è contrastata e frenata da quel « nativismo » - come noi lo chiamiamo - che esprime l’esigenza di autoriconoscimento di sé, come gruppo distinto dagli « altri », e dunque dotato di un proprio sistema di simboli identificanti.

Il rapporto conflittuale tra la politica del paese-rifugio e la resistenza dei rifugiati ha analogia con le innumerevoli situazioni di conflitto sorte, in un202

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contesto di enorme vastità, nel Terzo Mondo tra le più varie società tradizionali nel loro urto-contatto con modelli di cultura imposti o esportati dall’Occidente, sia in età coloniale che post-coloniale: benché in quest’ultimo caso il conflitto riguardi modelli ormai assorbiti e fatti propri da determinati strati borghesi (occidentalizzati) della popolazione locale. Parallelo a questo è anche il conflitto sperimentato e vissuto da varie minoranze etniche e culturali in Occidente, sulle quali si esercita una pressione assimilatrice e livellatrice da parte della società dominante, non senza tensioni e manifestazioni di ostilità. I rifugiati di prima generazione adulta vivono con estrema drammaticità questa tensione. Certamente nei tempi lunghi e attraverso le generazioni successive va sviluppandosi un processo di adattamento dialettico, che porta via via a un certo grado d’integrazione. Ve un fattore di plasticità culturale che indubbiamente ha un suo peso nei tempi lunghi. Esso agisce si da promuovere adattamento e un grado d’integrazione, variabile a seconda del rapporto di simbiosi tra ospitati e ospitanti, del maggiore o minore dislivello culturale tra le parti, e della possibilità degli ospitati di serbare un’aggregazione unitaria di tipo comunitario. Tuttavia è errore pensare, come spesso avviene per un inoonfessato presupposto ideologico, che si giunga alla totale rinunzia del gruppo - una volta costituitosi in comunità - a determinate peculiarità culturali. Discende dunque, dalle osservazioni qui fatte, l’opportunità di attenersi, sul piano degli interventi attivi, a precise cautele nell’approccio al problema dei rifugiati. Anzitutto, poiché l’idioma materno costituisce il primo legame con la tradizione, con il mondo ancestrale e il sistema di simboli di autoidentificazione, è necessario rispettare l’uso della lingua materna e provvedere affinché l’apprendimento della lingua ufficiale

- necessario per i contatti esterni — sia graduale, integrativo ma non surroga-tivo, e praticato ad opera d’insegnanti bilingui onde evitare il fallimento della stessa educazione linguistica oltreché un ulteriore effetto alienante. Lo stesso rispetto si esige ovviamente per la religione ancestrale dei rifugiati, simbolo e valore identificante gelosamente difeso.

D’altra parte, poiché un ostacolo alla intercomunicazione con i rifugiati è dato dal diffuso pregiudizio etnocentrico della società ospitante, si pongono seri problemi pratico-politici, quale quello di procedere alla demistificazione dei pregiudizi. Centri d’informazione, servizi di aggiornamento ideologico, mobilitazione dei mass-media possono cooperare all’apertura di liberi rapporti interco-municativi. Infine, tenendo anche conto dell’esperienza della Commissione delle Nazioni Unite, l’avvio degli adulti al lavoro, dei bambini alle scuole, degli studenti agli studi, degli idonei ai corsi di preparazione professionale non può prescindere dal rispetto della cultura originaria, della diversa provenienza -rurale o urbana - dei soggetti, oltreché delle competenze, attitudini, abitudini, del livello culturale, ma anche del coefficiente di adattabilità individuale per nuovi tipi di attività. Favorire il collocamento in lavori non concorrenziali rispetto alle esigenze della società ospitante è un modo per evitare l’esplosione di ondate razziste, specie entro società caratterizzate da alto tasso di disoccupazione endemica. In tal senso l’incentivazione di attività artigianali, agricole, diAPPROCCIO ANTROPOLOGICO AL RIFUGIATO MONDIALE

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scambio e commercio legate a prodotti originali tradizionali può contribuire ad avviare una condizione di autosufficienza economica del gruppo, con vantaggi anche per la società ospitante. Infatti Pautonomia economica è condizione preliminare d’una rispettata autonomia culturale.

In conclusione, Pintegrazione non può né deve ottundere le differenze. Essa deve rispettare quelle « diversità » distintive che, provenendo dalle singole storie etniche, sociali, culturali, vengono assunte come sengo di autoidentificazione da ciascun gruppo o ethnos, di fronte al rischio di depersonalizzazione e di indistinta omologazione.

Vittorio Lanternari

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Testata/Serie/Edizione Belfagor | Serie unica | Edizione unica
Riferimento ISBD Belfagor : rassegna di varia umanità [rivista, 1946-2012]+++
Data pubblicazione Anno: 1984 Mese: 3 Giorno: 31
Numero 2
Titolo KBD-Periodici: Belfagor 1984 - 3 - 31 - numero 2


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