Area della trascrizione e della traduzione metatestualeTrascrizioni | Trascrizione Non markup - automatica: L’ANTICO E IL PROGRESSO NEL CARTEGGIO TRA VERDI E BOITO
Nel 1978 l’istituto di studi verdiani, allora diretto da Mario Medici, pubblicò i due volumi del Carteggio Verdi-Boito, a cui si spera possa seguire un giorno la pubblicazione del Carteggio Verdi-Ricordi, assicurato all’istituto stesso dal tempestivo intervento dell’attuale direttore, Pierluigi Petrobelli. Ciò dovrebbe costituire l’avvio di quella edizione totale dell’epistolario verdiano che la cultura italiana deve a se stessa, edizione che si auspica avvenga così come indica la natura stessa del materiale, per blocchi di carteggi con singoli corrispondenti, assicurando la continuità logica e storica degli argomenti ed escludendo la pazzesca dispersione di un ordine cronologico assoluto, valido ovviamente solo per le frattaglie, cioè per i casi di lettere occasionali.
La pubblicazione del Carteggio Verdi-Boito, a cura di Mario Medici e di Marcello Conati, fu resa possibile da una catena generosa d’atti di mecenatismo. Ci fu anzitutto la donazione delle lettere di Verdi a Boito, che quest’ultimo aveva piamente conservato e poi, morendo senza eredi diretti, affidato al proprio esecutore testamentario Luigi Albertini, ultimo direttore del « Corriere della Sera » prima del fascismo. Questi aveva sposato la seconda figlia di Giuseppe Giacosa, legato a Boito da lunga amicizia, e tra la giovane coppia e il vecchio poeta e musico s’era stretto un legame d’affetto che durò fino alla scomparsa del maestro, nel 1918. Fu il 4 novembre 1973 che i figli di Luigi Albertini, Leonardo ed Elena, consegnarono il prezioso lascito all’istituto di studi verdiani nella sua sede di palazzo Marchi a Parma. Si trattava di 141 lettere.
Altre lettere di Verdi a Boito, precisamente trentuno, vennero all’istituto dal lascito del musicologo inglese Frank Walker, molto legato all’istituto stesso, tanto che dopo la sua morte il fratello consegnò all’istituto una cassa delle sue carte. Essa conteneva tra l’altro - e qui mi servo delle parole di Mario Medici nella Prefazione - « un notes di appunti di mano di Piero Nardi, come dire del più autorevole biografo di Boito, e fogli dattiloscritti, sempre provenienti dal Nardi, relativi a testi di lettere e dispacci indirizzati da Verdi a Boito ». Sono per lo più documenti brevi,152
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d’importanza relativamente minore, ma « attendibili senz’ombra di dubbio » — sono parole di Mario Medici - « ed i cui originali sembrano essersi volatilizzati ».
Infine due lettere di Verdi provengono dall’archivio di Sant’Agata dove se ne conserva l’autografo (forse una brutta copia?), e due provengono da altre fonti.
Restava, naturalmente, da ripristinare l’altra voce del dialogo epistolare. Le lettere di Boito a Verdi — salvo due i cui originali si trovano, stranamente, nella Donazione Albertini — sono conservate negli archivi di Sant’Agata, e la cortesia della famiglia Carrara-Verdi ne ha consentito le fotocopie all’istituto di studi verdiani. In tutto, 301 lettere, distribuite nell’arco esatto dell’ultimo ventennio dell’Ottocento, e attestanti la collaborazione artistica che produsse l'Otello e il Falstaff, nonché il rifacimento del Simon Boccanegra. Le ultime trattano diffusamente dei Quattro pezzi sacri, per la cui esecuzione, prima a Parigi, poi a Milano e altrove, Boito si batté insistentemente contro la riluttanza e, diciamo pure, la musoneria dell’ottuagenario maestro.
E restava, infine, da trovare i fondi per la costosa pubblicazione. Questa fu resa possibile grazie all’assegnazione all’istituto d’uno dei Premi Mattioli, elargiti dalla Banca commerciale italiana, su proposta congiunta dell’economista Sergio Steve e dello storico Franco Venturi, sobillati con molesta insistenza da chi scrive questo articolo. Ecco dunque riunite 176 lettere di Verdi; in numero un po’ minore quelle di Boito. Ci sono tutte? No, e nella prefazione di Mario Medici si citano casi evidenti di lettere che « dovevano » esserci, ma che sono sparite.
Come in esergo, e riprodotta in fac-simile, una lettera di Verdi che non fa parte del carteggio 1880-1900, ma è molto anteriore. È la lettera che Giuseppe Verdi scrisse a Boito nel 1862 per accompagnare il regalo d’un orologio quale ringraziamento per la collaborazione occasionalmente prestata dal ventenne letterato nell 'Inno delle Nazioni, cantata per coro e orchestra che Verdi, così restio a lavori di circostanza, aveva stranamente accettato di scrivere per l’Esposizione Universale di Londra. Forse perché, sotto sotto, lo rimordeva la coscienza del tempo perduto in quel pasticciaccio, regalò a Boito un orologio: « Vi ricordi il mio nome, ed il valore del tempo ». Figurarsi se Boito non avrà scritto una bella lettera di ringraziamento! Ma non ci rimane: né Verdi né Giuseppina Strepponi potevano prevedere che quel giovanotto sarebbe diventato un giorno tanto importante. Ecco un caso tipico di lacuna sicura.
Tra questo preambolo ed il corpus vero e proprio del carteggio sta come un macigno l’episodio che per lunghi anni tese un velo d’incomprenl’antico e il progresso nel carteggio tra verdi e boito
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sione, se non di ostilità, tra i due artisti. Un anno dopo la casuale collabo-razione di Verdi e Boito nell’inno delle Nazioni, Pii novembre 1863, si era rappresentato alla Scala I profughi fiamminghi, prima opera di Franco Faccio, 23 anni, esponente della « giovane scuola » lombarda. In un banchetto per celebrare il successo, contrastato, dell’opera, Arrigo Boito, giovane, scapigliato fautore di quello che allora si diceva l’avvenirismo, a-vrebbe improvvisato seduta stante la Ode saffica col bicchiere alla mano, dove si brinda « Alla salute dell’Arte italiana! / Perché la scappi fuora un momentino / Dalla cerchia del vecchio e del cretino ». E si aggiungeva: « Forse già nacque chi sovra l’altare / Rizzerà Parte, verecondo e puro, / .Su quell’altar bruttato come un muro / Di lupanare ». Con riferimento al festeggiato Faccio, ma fors’anche con un segreto pensierino a se stesso e all’embrionale progetto del Mefistofele.
Purtroppo la cosa non si fermò 11, nell’allegria un po’ goliardica d’un banchetto fra giovani artisti. L’Ode venne pubblicata, il 22 novembre, nel « Museo di famiglia » dell’editore Treves. Verdi la lesse e incassò. In una lettera a Tito Ricordi commentò asciutto asciutto: « Se anch’io, tra gli altri, ho sporcato l’altare egli lo netti ed io sarò il primo a venire ad accendere un moccolo » (citato in: Giuseppe Verdi, Autobiografia dalle lettere, a cura di Carlo Graziosi [ma: Aldo Oberdorfer], Milano, Monda-dori, 1946, pag. 417-8, n. 1).
Questo spiega facilmente perché manchino in principio molte lettere di Boito: evidentemente non vennero conservate, trattandosi di persona non grata. A rimuovere questo tremendo ostacolo provvide, molti anni dopo, la paziente diplomazia di Giulio Ricordi, che dopo YAida e le ripetute asserzioni del maestro di avere chiuso col teatro, mal si rassegnava a perdere i prodotti di quella gallina dalle uova d’oro. Come abbia agito piano piano per ristabilire un contatto tra Verdi sdegnato e Boito, che nel frattempo aveva versato alquanto acqua fresca nel vino dei suoi entusiasmi avanguardistici, lo ricostruisce assai bene Mario Medici nella prefazione.
Il 26 gennaio 1871 (Boito lavorava alla revisione del Mefistofele dopo il fiasco alla Scala, ma già aveva adocchiato quel soggetto del Nerone che gli fu poi croce di tutta la vita) Ricordi scrive a Verdi:
Le spedii un libretto dell’Amleto\ ed a proposito entro di botto in un Gran progettoW... eh'Ella sa ch’io rumino peggio di un bue!!... Dunque Ella mi fece motto due o tre volte del Nerone... e vidi che questo soggetto non le spiaceva.
Ieri Boito fu da me, ed io pumfl sparai la cannonata: Boito mi domandò una notte di riflessione, e stamane fu qui, e si trattenne lungamente meco di questo affare. La conclusione si è che Boito si riputerebbe l’uomo il più felice.154
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il più fortunato se potesse scrivere il libretto del Nerone per Lei: e rinuncerebbe subito e con piacere all’idea di fare la musica (prefazione, pag. xxvi).
Si affaccia qui il primo esempio di quella straordinaria devozione di Boito verso il maestro, spinta fino airautoannientamento, che non sarebbe poi mai venuta meno nei venti anni della loro collaborazione. E stranamente Verdi, che più tardi vedremo scrupolosissimo verso i diritti del collega, questa volta non montò in cattedra di correttezza, non ricusò l’offerta generosa, ma in due lettere del 28 e del 30 gennaio tergiversò. « Non posso oggi rispondervi sull’affare Nerone!! Non ho un minuto da perdere. Gran progetto, voi dite! verissimo, ma è realizzabile? » (prefazione, pag. xxvi). E poi (mentre Ricordi assicurava: « Boito, sotto la di Lei direzione, farebbe bene, molto bene »): « Eccomi a voi pel Nerone. È inutile che io ripeta quanto io ami questo soggetto. È inutile altresì che aggiunga quanto mi sarebbe grato aver a collaborare un giovine poeta, di cui ho avuto anche ultimamente, in quest 'Amleto, occasione di ammirare il moltissimo talento » (si trattava del libretto per VAmleto di Faccio).
« Ma voi conoscete abbastanza bene le cose mie, ed i miei impegni... Non ho il coraggio di dire: facciamo, né oso rinunciare a così bel progetto. Ma ditemi, caro Giulio, non potremmo lasciare sospeso per qualche tempo questo affare, e riprenderlo più tardi? » (prefazione, pag. xxvi-xxvn).
Non se ne fece nulla, ma intanto il grande ostacolo era rimosso. Otto anni più tardi Ricordi torna alla carica col nuovo progetto di Otello, probabilmente mettendo sotto Boito con una certa brutalità d’uomo di affari, senza nemmeno essere ben sicuro che Verdi fosse d’accordo. Certo è che nell’estate 1879 Boito informava ripetutamente il Tornaghi, uomo di fiducia di Ricordi, dei rapidi progressi nella stesura del libretto. « Dirai a Giulio che sto fabricando il ciocolatte » (prefazione, pag. xxvn). E il 24 agosto: « Domani o posdomani affronterò i primi versi dell’ultimo Atto. Tutto sarà finito in tempo » (ibidem). E un mese più tardi: « Se io non consegno a Giulio questa settimana Desdemona strozzata temo ch’egli strozzi me » (prefazione, pag. xxvm).
Quando da questa parte fu sicuro del fatto suo, Ricordi chiese senz’altro a Verdi di poter venire a Sant’Agata in compagnia del poeta, per porre le basi dell’affare. Questa volta sì che Verdi si trincerò dietro un reticolato di precauzioni, di prudenza e di discrezione, e così facendo ci fornì, tra l’altro, la vera istoria del primo germe di Otello. Ecco una lettera, datata 4 agosto 1879 per uno dei soliti lapsus cronologici di Verdi, ma da posticipare almeno al 4 settembre, se non addirittura al 4L’ANTICO E IL PROGRESSO NEL CARTEGGIO TRA VERDI E BOITO
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ottobre, considerando il fatto che Desdemona era ancora da strozzare il 21 settembre.
Sarà sempre gradita una vostra visita in compagnia d’un’amico, che ora sarebbe s’intende, Boito. Permettetemi però che su quest’argomento vi parli molto chiaro, e senza complimenti. - Una sua visita m’impegnerebbe troppo ed io non voglio assolutamente impegnarmi. - Come sia nato questo progetto del Cioccolatte Voi lo sapete... Pranzavate meco insieme ad alcuni amici. Si parlò d’Otello, di Sheaspeare [sic], di Boito. Il giorno seguente Faccio mi condusse Boito all’albergo. Tre giorni dopo Boito mi portò lo schizzo d’Otello, che lessi e trovai buono. Fatene, gli dissi, la poesia; sarà sempre buona per Voi, per me, per un’altro et. et...
Ora, venendo qui con Boito, io mi trovo obbligato necessariamente a leggere il libretto che Egli porterà finito.
Se trovo il libretto completamente buono io mi trovo in certo modo impegnato.
Se trovandolo buono, suggerisco delle modificazioni che Boito accetta, io mi trovo anche maggiormente impegnato.
Se poi, anche bellissimo, non mi piace, sarebbe troppo duro dirgli in faccia quest’opinione!
Nò nò... Voi siete già andato troppo oltre, e bisogna fermarsi prima che nascano pettegolezzi e disgusti. - A mio avviso, il miglior partito, (se lo credete e conviene a Boito) è quello di mandarmi il Poema finito, affinché io lo possa leggere, e manifestare con calma la mia opinione senza che questa impegni nissuna delle parti.
Una volta appianate queste difficoltà alquanto spinose sarò felicissimo di vedervi arrivare qui con Boito (prefazione, pag. xxvii).
Che la lettera sia da riportare a ottobre, piuttosto che a settembre, pare convalidarlo anche una lunga lettera di Ricordi a Verdi, il 5 settembre, che rispecchia uno stadio non ancora cosi avanzato delle trattative. Con molti salamelecchi l’editore indugia ancora a persuadere il maestro dei sentimenti di devozione che quei giovani scapestrati - Boito e Faccio
- nutrono per lui. « So, se la memoria non mi falla, che Boito ebbe qualche torto verso di lei; ma carattere nervoso, bizzarro, scommetto che non seppe di commetterlo, o non trovò mai modo di rimediarvi ». Adesso, assicura Ricordi, è tutto diverso: « Nei frequenti nostri ritrovi Boito parlò sempre di Verdi con venerazione ed entusiasmo; se altrimenti, non mi sarebbe amico ». Non solo, ma quando vengono i due compagnoni, Boito e Faccio, nel suo ufficio dove campeggia un grande ritratto di Verdi, lo sogguardano esclamando: « Ma e quello li, proprio non scriverà più? » (prefazione, pag. xxvm).
Le fatiche, un poco untuose, di Ricordi andarono a buon porto:156
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Questa camicia di Nesso dell’editore mi mette sempre in una ambigua posizione!!... poiché per un sentimento di delicatezza temo sempre ch’Ella possa credere che sia Vaffarista che parla!!... e ciò mi ripugna. Certo sarebbe soverchia ingenuità il dirle che un’opera di Verdi non sia una vera fortuna materialmente parlando!!... ma questa idea è cento volte sorpassata e per così dire oscurata dalla immensa indicibile emozione che mi dà il pensiero di un lavoro che renderà sempre più glorioso, s’è possibile, il di lei nome, e farà risplendere di nuova luce quella carissima Arte italiana (ibidem).
Verdi conosceva bene i suoi polli, ossia i suoi editori, italiani e francesi, ed era l’ultima persona a lasciarsi abbagliare da simili sparate, ma questa volta abbassò prudentemente qualcuna delle sue barriere difensive. Il 10 novembre 1879 accusava pacatamente ricevuta del libretto a Ricordi. « Ricevo in questo momento il ciocolatte. Lo leggerò stasera, perché ora ho la testa imbrogliata d’affari » (prefazione, pag. xxix).
Poi si chiuse nel mistero di un lungo silenzio, almeno allo stato attuale dei documenti. Passano nove mesi di qui alla prima lettera del nostro Carteggio, che reca la data del 15 agosto 1880. Ricordi friggeva. Il 24 luglio scriveva a Boito: « È necessario svegliare un poco il nostro Verdi! (...) Io ho il presentimento che Verdi abbia messo un po’ a dormire il moro! » (prefazione, pag. xxx).
Una lettera di Giuseppina Verdi Strepponi a Ricordi, volta a ritardare la decisiva visita di Boito, tanto patrocinata da Ricordi, illustra bene la situazione:
Ella sa, come avvenne l’affare per questo perfido Jago. Si può dire che Verdi è entrato alla cieca e senza volerlo in questa specie di rete. Una cosa ne ha chiamata un’altra e da un niente, da una semplice parola lanciata col bicchiere dell’allegria alla mano, è nato un libretto. Verdi lo ha preso, e benché senza impegno l’ho più volte sentito dire, non senza malumore; - Io mi lego troppo
— le cose vanno troppo avanti ed assolutamente non voglio esser costretto a fare, quello che non vorrei, etc. etc. (note alla Lettera 2).
(Si noti, incidentalmente, in questa lettera l’espressione « da una semplice parola lanciata col bicchiere dell’allegria alla mano ». Può darsi che sia una sopravvivenza inconscia. Ma Giuseppina era abbastanza donna e abbastanza malignetta per non ricordarsi che il famigerato brindisi di Boito s’intitolava: Ode saffica col bicchiere alla mano).
In realtà, e sebbene Giuseppina esorti a « lasciare, almeno pel momento, le cose come sono, facendo intorno al Moro il più gran silenzio possibile », la prima lettera del carteggio introduce già in medias res. La progettazione del dramma occupa interamente lo spirito del compositore,l’antico e il progresso nel carteggio tra verdi e boito
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la cui attenzione si appunta sul finale dell’Atto ni, vero punctum dolens dell’opera, come Boito aveva riconosciuto in una lettera a Ricordi, e da questi poi riferita, l’8 novembre 1879, alla moglie di Verdi: « C’è ancora il terzetto dell’Atto 3, pezzo capitale, che mi fa disperare. Di tanto in tanto lo abbandono per mandare avanti qualche altra scena, poi ritorno al terzetto e lo ritrovo più arcigno che mai! » (prefazione, pag. xxix).
Sono cinque le lettere, dal 15 agosto al 2 dicembre 1880, in cui si sviluppa il confronto di librettista e compositore su questo finale terzo di Otello. Poi subentra il progetto di rifacimento del Simon Boccanegra, che occupa 24 lettere, da una lunghissima di Boito del 6 dicembre, fino al 15 febbraio 1881. Seguono alcune lettere d’argomento vario, tra cui l’opposizione di Verdi ad avere il proprio busto nel ridotto della Scala e la machiavellica sottigliezza delle sue argomentazioni per non contribuire di tasca propria a quello di Bellini, quindi ritorna sul telaio YOtello per una cinquantina di lettere, ma con una lunga interruzione, durante la quale il carteggio ovviamente si dirada, dalla fine d’agosto 1881 fino alla drammatica, ma benefica crisi dell’aprile 1884, quando Boito, a Napoli, anche qui in un banchetto d’artisti, s’era forse lasciato scappare qualche parola imprudente, oppure era stato frainteso dal corrispondente del giornale « Roma », che gli attribuì il rammarico di non poter musicare lui stesso il Jago. Verdi, venutone a conoscenza, incaricò Franco Faccio di dire a Boito « che io, senz’ombra di risentimento, senza rancore di sorta gli rendo intatto il suo manoscritto. Più ancora, essendo quel libretto di mia proprietà, glielo offro in dono qualora egli intenda musicarlo » (note alla Lettera 46).
La lunga e un po’ contorta lettera di scuse che Boito gli rivolse è documento commovente della sua devozione. Assicura il maestro d’avere scritto questo libretto « solo per la gioja di vederlo riprendere la penna per causa mia, per la gloria di esserle compagno di lavoro per l’ambizione di sentire il mio nome accoppiato al suo ». Quasi antiveggendo e confutando in anticipo certe illazioni critiche dei giorni nostri, che vorrebbero attribuire all’influenza di Boito un’azione indebita, e non interamente propizia, sulla natura artistica del maestro, sulla sua spontaneità, Boito precisa: « Se io ho saputo intuire la potente musicalità della tragedia Schake-speariana [sic], che prima non sentivo, e se l’ho potuta dimostrare nei fatti nel mio libretto gli è perché mi son messo nel punto di vista dell’arte Verdiana, gli è perché ho sentito scrivendo quei versi ciò ch’ella avrebbe sentito illustrandoli con quell’altro linguaggio mille volte più intimo e più possente, il suono ». Per convincere Verdi con la sua appassionata protesta Boito non esita a rilasciare una commovente confessione della propria impotenza creativa.158
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Maestro, ciò che Lei non può sospettare è l’ironia che per me pareva contenuta in quell’offerta senza sua colpa. Veda: già da sette od otto anni forse lavoro al Nerone (metta il forse dove vuol Lei, attaccato alla parola anni o alla parola lavoro) vivo sotto quell’incubo; nei giorni che non lavoro passo le giornate a darmi del pigro, nei giorni che lavoro mi dò dell’asino e così scorre la vita e continuo a campare, lentamente asfisiato [sic] da un Ideale troppo alto per me. Per mia disgrazia ho studiato troppo la mia epoca (cioè l’epoca del mio argomento) e ne sono terribilmente innamorato e nessun altro soggetto al mondo, neanche l’Otello di Schakespeare [sic], potrebbe distogliermi dal mio tema (...). Giudichi ora Lei se con questa ostinazione potevo accettare l’offerta sua. Ma per carità Lei non abbandoni l’Otello, non lo abbandoni, le è predestinato, lo faccia, aveva già incominciato a lavorare ed io ero già tutto confortato e speravo già di vederlo, in un giorno non lontano, finito.
Lei è più sano di me, più forte di me, abbiamo fatto la prova del braccio e il mio piegava sotto il suo, la sua vita è tranquilla e serena, ripigli la penna e mi scriva presto: Caro Boito fatemi il piacere di mutare questi versi ecc. ecc. ed io li muterò subito con gioja e saprò lavorare per Lei, io che non so lavorare per me, perché Lei vive nella vita vera e reale dell’Arte io nel mondo delle allucinazioni (Lettera 46).
Verdi accettò le scuse, con una certa degnazione.
Lietissimo di questa nostra spiegazione, che era però meglio fosse avvenuta quando tornaste da Napoli. Ripeto anch’io le vostre parole, per ciò che riguarda Otello. Se n’è parlato troppo! Troppo il tempo trascorso! Troppo i miei anni d’età! E troppo i miei anni di servizio1.!! Che il pubblico non abbia a dirmi troppo evidentemente ‘ Basta ’!
La conclusione si è che tutto questo ha sparso qualche cosa di freddo su quest’Otello, ed ha irrigidita la mano, che aveva cominciato a tracciare alcune batture (Lettera 47).
Era vero che, sebbene Boito gli mandasse subito per Jago « una specie di Credo scellerato (...) in un metro rotto e non simetrico » (Lettera 48), e Verdi lo ringraziasse a volta di corriere (« Bellissimo questo credo: potentissimo e shaesperiano [sic] in tutto »), tuttavia continua ancora nel maestro il distacco che da tre anni gli aveva, come diceva lui, irrigidita la mano. « Intanto è bene lasciare un po’ tranquillo quest’Otello, che è anch’esso nervoso, come siamo Noi; Voi forse più di me » (Lettera 49).
Queste soste che ritardano la composizione di Otello non vanno però attribuite - come spesso si ritiene - a stanchezza fisica connessa con la vecchiaia. Verdi eXYOtello non lavora a spizzico, né a piccole dosi, come lui stesso amava dare ad intendere e come in effetti avverrà per il Falstaff. S’interrompe talvolta, a lungo, per cause esterne. Quando lavora, la sua applicazione è feroce, tale quale come negli « anni di galera ». Boito nel’antico e il progresso nel carteggio tra verdi e boito
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era impressionato: « Giulio mi disse che Lei aveva già quasi terminato lo strumentale del i Atto!! Badi di non affaticarsi troppo. Il tempo non le manca » (Lettera 79).
Il disgelo avvenne verso la fine dell’anno. Il 9 dicembre, da Genova, Verdi annuncia: « Pare impossibile, ma pure è vero!!! Mah!!!! M’occupo, e scrivo!!... senza pensare al poi... anzi con decisa avversione al poi. Sentite dunque (...) avrei bisogno di quattro versi per ciascuno a parte » (Lettera 53).
Ci fu ancora un’interruzione nell’estate seguente. Verdi si era trasferito a Sant’Agata verso la fine d’aprile, e il 10 settembre 1885 scriveva: «Da che sono qui (ho rossore a dirlo) non ho fatto nulla! Un po’ la campagna, i bagni, il caldo eccessivo e... diciamolo pure, la mia inimmaginabile poltroneria hanno posto ostacolo» (Lettera 59). Ma neanche un mese dopo poteva annunciare: « Ho finito il Quart’Atto e respiro! » (Lettera 60). (Era andato avanti con l’ultimo Atto, saltando sul tormentatissi-mo terzo.) La composizione non s’interruppe più (« Io non ho finito l’Opera », Lettera 71, 21 gennaio 1886; « Io vado avanti molto lentamente, ma vado », Lettera 74, 8 maggio), fino al fatidico « È finito! » della Lettera 86, 1° novembre 1886. Le lettere ne accompagnano il progresso, con le lacune, ovviamente, delle visite di Boito, da Nervi a Genova nella stagione invernale, e da Milano a Sant’Agata nel resto dell’anno. Qualche volta accadeva pure che Verdi dovesse recarsi a Milano, ed allora s’intratteneva col suo eccezionale librettista.
Comincia con la Lettera 118 la storia del Falstaff. Una lettera scritta da Montecatini il 16 luglio 1889, che presuppone anch’essa, come già era avvenuto per YOtello, qualche antefatto. Boito doveva aver mandato al maestro uno schizzo dell’opera, quello che ai tempi del Piave Verdi chiamava la « selva », e questo schizzo si è perduto. A Sant’Agata non c’è. Il primo proposito era recentissimo, perché Verdi chiude questa lettera dicendo: « Questo Falstaff o Comari che era due giorni fà nel mondo dei sogni, ora va prendendo corpo, e può diventare una realtà? Quando? Come?... Chi sa! » (Lettera 118). Secondo un articolo di Giulio Ricordi nella « Gazzetta Musicale di Milano » del 30 novembre 1890, il progetto era nato « nell’estate dello scorso anno 1889 », durante una presenza di Verdi a Milano. « Parlando con Arrigo Boito appunto dell’opera comica, questi afferrò la palla al balzo e propose a Verdi un soggetto, e non solo propose, ma con rapidità meravigliosa si può dire che in poche ore abbozzò e presentò al maestro una tela: Falstaff» (note alla Lettera 118).
Questa volta Verdi, a cui l’intenzione di scrivere un Falstaff su libretto di Ghislanzoni era già stata affibbiata più di vent’anni prima, tra il Don160
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Carlo e il rifacimento della Forza del destino, e lui aveva smentito all’amico Arrivabene: « Non scrivo Falstaff », questa volta Verdi si accostò al lavoro con entusiasmo quasi impaziente, basti dire che il giorno dopo ritornava già sull’argomento con una nuova lettera destinata ad esaurire formalmente le solite perplessità, i soliti se e ma, « Voi nel tracciare Falstaff avete mai pensato alla cifra enorme dei miei anni? », e poi lo scrupolo che magari Boito, scrivendo Falstaff, dovesse « distrarre la mente » dal suo ormai mitico Nerone.
Ora come superare questi ostacoli?... Avete Voi una buona ragione da opporre alle mie? Lo desidero, ma non lo credo. Pure pensiamoci (e badate di non far nulla che possa nuocere alla vostra carriera) e se voi ne trovaste una per una parte, ed io la maniera di levarmi dalle spalle una diecina d’anni, allora... Che gioja! Poter dire al Pubblico: «Siamo qui ancora!! A noi!!» (Lettera 119).
Era chiaro che non chiedeva di meglio che d’essere contraddetto, e Boito lo intese a meraviglia. Due giorni dopo (a quei tempi le lettere viaggiavano con una prontezza incredibile) gli rispondeva tutto quello che lui desiderava sentire:
Non penso mai alla sua età né quando le parlo, né quando le scrivo, né quando lavoro per Lei.
Lo scrivere un’opera comica non credo che la affaticherebbe.
La tragedia fa realmente soffrire chi la scrive, il pensiero subisce una suggestione dolorosa che esalta morbosamente i nervi.
Ma lo scherzo e il riso della commedia esilarano la mente e il corpo.
Lei ha una gran voglia di lavorare, questa è una prova indubbia di salute e di potenza. Le Ave Marie non le bastano, ci vuol dell’altro.
Lei ha desiderato tutta la sua vita un bel tema d’opera comica (...). C’è un modo solo di finire meglio che colYOtello ed è quello di finire vittoriosamente col Falstaff (Lettera 121).
Ci vollero tre anni perché Verdi potesse scrivere, il 20 settembre 1892: « Ho consegnato a Tito il terzo atto di Falstaff » (Lettera 200). La composizione si era svolta abbastanza lentamente, con frequenti soste non dovute, questa volta, ad altre occupazioni, come per l'Otello, ma per vera e propria stanchezza senile. « In quanto al pancione Ahi ahi!!! Non ho fatto nulla!! » (Lettera 154). Oppure: «Ho lavorato poco ma qualche cosa ho fatto » (Lettera 156). « Il pancione non va avanti. Sono sconcertato e distratto » (Lettera 159). Di « quattro mesi perduti » si parla in una lettera di Boito a Verdi (Lettera 162 e n.) e in una di Verdi a Ricordi, e sono i mesi che vanno dal novembre 1890 al marzo 1891,l’antico e il progresso nel carteggio tra verdi e boito
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quando Verdi, tra l’altro, aveva dovuto accompagnare la moglie a Milano perché si sottoponesse alle cure del prof. Todeschini. L’8 settembre 1891 Boito scrive tutto allegro: « Ho sentito dire che il Falstaff è terminato. Evviva!! » (Lettera 180), e Verdi è costretto a smentire: «Non è vero che io abbia finito il Falstaff » (Lettera 181). Una lettera dell’11 maggio 1892, quando l’opera è davvero quasi finita, e già si pensa all’esecuzione, ai cantanti, alle scene, ai costumi, denuncia una umanissima crisi nell’artista che si avvicinava all’ottantina: « E poi... Finirò io quello che mi resta a fare?... In questo momento mi sento così stanco, così svogliato che mi pare impossibile che si possa arrivare a finire il lavoro che resta a fare! (...) Un poco di riposo, per ora, poi vedremo » (Lettera 194).
Nelle ultime lettere del carteggio Verdi si diffonde a lungo sulla composizione dei Pezzi sacri, per i quali Boito gli fornisce una stimolante consulenza culturale, e più tardi un’assistenza di persona per sorvegliare l’esecuzione a Parigi, ma le lettere di Boito, impegnatissimo nella divorante relazione con Eleonora Duse, e sempre più sprofondato nell’incerto lavoro al Nerone, si diradano. S’infittiscono, come appelli, i brevi biglietti di Verdi, rimasto solo nella deserta Sant’Agata dopo la morte di Giuseppina, e un po’ impedito nella locomozione. Facciamo un affare, gli propone Boito: « Lei mi presta la sua testa io le regalo le mie gambe » (Lettera 285). Veramente, pur essendosi spesso lagnato (« io che sono mezzo sordo, mezzo cieco, che parlo a stento e che non posso occuparmi in nissun modo. Più altri incomodi che Voi sapete », Lettera 251), è solo in un biglietto del 4 agosto 1898, che Verdi, a 85 anni, se ne esce in questa sorprendente ammissione: « Ma ora da un anno circa sento il peso dell’età! » (Lettera 271).
Il ricordo del grande lavoro compiuto stava alle spalle d’entrambi come un paradiso perduto. « Caro Maestro », sta scritto nell’ultima lettera di Boito, « era meglio quando si lavorava insieme, Lei col vecchio Shakespeare e me; andavamo così d’accordo tutti due anzi tutti tre! » (Lettera 289). Era l’ottobre 1900. Boito aveva imparato a scrivere Shakespeare correttamente. A Verdi non restavano che tre mesi di vita.
Si potrebbe indugiare lungamente a rintracciare, attraverso le lettere, la pittoresca storia esterna dei rapporti culturali ed umani tra i due amici, e dei capolavori nati dalla loro collaborazione. Ma da un punto di vista più propriamente critico, quali prospettive apre questa pubblicazione?
Si tenga presente che non si tratta, per lo più, di inediti. Su 301 lettere sono totalmente inedite 81, e non delle più importanti, salvo una mezza dozzina. Spesso sono biglietti brevi degli ultimi anni, qualche volta162
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dispacci telegrafici. Le altre, quelle più significative, sono note in tutto o in parte, o perché pubblicate isolatamente, o perché citate parzialmente — sbocconcellate, per così dire — dagli studiosi che hanno avuto la fortuna di prenderne conoscenza. Non c’è quindi da aspettarsi capovolgimenti critici o rivelazioni sensazionali, anche se il collegamento organico costituisce un quadro d’insieme ben più completo di quello che si poteva ipotizzare quando la conoscenza di queste lettere era sparpagliata.
Ma il fatto è che proprio il carteggio tra Verdi e Boito riveste oggi caratteri di attualità eccezionale. Tutte le lettere di Verdi sono preziose, si capisce, ma si dà il caso che il rapporto Verdi-Boito sia, come si suol dire, proprio nell’occhio del ciclone. Da alcuni decenni, ormai, e precisamente dal Paese del melodramma di Bruno Barilli in poi, è in corso un’operazione culturale (si fa per dire) volta ad esaltare le opere giovanili del Verdi più primitivo, barbarico e quarantottesco, e a diminuire il valore degli ultimi due capolavori, quasi fossero lava raffreddata, ceneri spente d’un fuoco ch’era divampato ai tempi delYErnani e del Trovatore; e perciò si fa strada la tendenza a additare nel colto e ricercatissimo Boito quasi il cattivo genìio di Verdi, la liaison dangereuse che ne avrebbe corrotto la solare spontaneità.
Mario Medici mette il dito sulla piaga quando afferma nella prefazione: « Si avverte quanto il proverbiale predominio dell’operista nei confronti dei suoi librettisti vada qui affievolendosi, fin quasi a sparire, se non a subire ». Queste ultime parole sono di troppo, e inaccettabili. Possiamo anche essere d’accordo sulla proposizione principale, specialmente per quanto riguarda il Falstaff, sebbene subito, fin dalla prima lettura del soggetto, Verdi si sia accorto della debolezza del terz’atto e l’abbia segnalata a Boito nella lettera del 6 luglio 1889: « Peccato che l’interesse (non è colpa vostra) non aumenti sino alla fine. Il punto culminante è al finale del Second’Atto (...). Temo anche che l’ultimo Atto, malgrado quel po’ di fantastico, riesca piccolo con tutti quei piccoli pezzi Canzoni Ariette et. et. » (Lettera 118). E così è rimasto, malgrado l’ingegnosa giustificazione di Boito che invocava il diverso regime teatrale di comico e tragico (« Nella commedia quando il nodo sta per sciogliersi l’interesse diminuisce sempre perché il fine è lieto», Lettera 119, scritta a Milano il giorno dopo di quella di Verdi da Montecatini!), e malgrado gli sforzi spesi dai due artisti per rimediare al difetto. L’occhio di lince di quell’infallibile uomo di teatro ch’era il vecchio Verdi aveva visto giusto.
Ma è vero che nel Falstaff sono meno frequenti i suoi interventi per chiedere correzioni e ritocchi. Genova, 17 marzo 1890: « Il primo Atto è finito senza nissun cambiamento nella poesia; tale e quale me l’avete dato Voi. Credo che lo stesso avverrà del second’Atto, a meno di qualche taglioL’ANTICO E IL PROGRESSO NEL CARTEGGIO TRA VERDI E BOITO
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nel concertato come Voi stesso diceste. Non parliamo ora del Terzo » (Lettera 142).
Ma da questo a dire che Verdi « subisse » il magistero intellettuale del suo librettista, ci corre un abisso. È chiaro che con un uomo dell’intelligenza di Boito, letterato e musicista ad un tempo, operista egli stesso, Verdi non aveva bisogno di condurlo per mano come faceva con Francesco Maria Piave. Tanto più che non c’era in Boito (tutto il Carteggio lo prova) la minima pretesa di sopraffazione estetica o intellettuale nei riguardi del venerato maestro, ma al contrario - come abbiam già visto -una lucida volontà d’immedesimazione nel suo modus operandi drammatico, fino al totale autoannientamento. «Ora Lei riconosce nell’opera delle mie mani » - scriveva a Verdi il 18 ottobre 1880, proprio ai primi passi del lavoro per Otello - « il pensiero che Ella mi ha dettato e che io ho trascritto senza lasciarmi turbare da nessun dubbio, neanche dai dubbij che Lei stesso accampava » (Lettera 4). Ed ancor prima, a Giuseppina Verdi, in una lettera finora inedita: « Oggi ho ricevuto una interessantissima lettera del Maestro e l’ho già letta e riletta dieci volte e meditata; non avrò pace con me medesimo finché non avrò realizzato il concetto di quello scritto (...). Mi riservo a rispondergli quando potrò presentargli il frutto dei germi ch’egli seminò nel mio pensiero » (note alla Lettera 2).
Altro che sopraffazione di Boito su Verdi! Tra l’altro, si badi, tutte le discussioni, proposte, soppesamenti, battono solo sul versante drammaturgico dell’operazione. Mai che Boito metta bocca sull’aspetto specifico della creazione musicale. Verdi fa, disfà, innova, conserva, tutto per conto suo. Anzi, a volte Boito era costretto a chiedere di poter sentire qualcosa. Nove ottobre 1885, quando il quarto Atto à!Otello era finito, ma il dannatissimo terzo no: « Io non potrò compier bene quel breve lavoro di connessione che Lei aspetta da me, per quella scena, senza prima aver udito gli accenti e i ritmi notati da Lei » (Lettera 61). Figurarsi il povero Piave se avrebbe avuto di queste necessità!
Nessun traviamento, dunque, del genio musicale e drammatico di Verdi, ad opera delle seduzioni intellettualistiche di Boito, ma una collaborazione ad armi pari, almeno sul secondo versante, quale certo non sarebbe mai stata pensabile con Piave né con Solerà, e nemmeno con Cammarano
o con Ghislanzoni. Sarebbe totalmente sbagliato pensare che Boito, in fondo, cercasse di far scrivere da Verdi le opere « moderne » che non era capace a scrivere lui.
Con tutto questo non si nega che Boito, senza affatto prevaricare sulla natura di Verdi, lo abbia talvolta accortamente difeso da certi pericolosi ritorni di fiamma del Verdi quarantottesco degli anni di galera. Prendiamo ad esempio la prima lettera, su quel terzo atto di Otello che impegnerà164
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così a lungo le forze dei due artisti. Curiosamente, Verdi contrapponeva « il pezzo scenico » (che secondo lui mancava ancora) al « pezzo musicale », che « ci sarebbe ed un Maestro potrebbe esserne contento ». Ossia, Verdi si faceva parte diligente del dramma, contro la musica! Secondo lui, dopo Pinsulto di Otello a Desdemona - « Demonio, taci » — « non vi è più nulla a dire. Tutt’al più una frase, un rimprovero, una maledizione contro il barbaro che ha insultato una donna, E qui o calar il sipario, o saltar fuori con una trovata all’infuori di Shakspeare [sic] » (Lettera 1). La trovata che lui almanaccava, pur essendo il primo a sospettarne l’in-congruenza e a ritenere che su di essa « il critico avrebbe molte osservazioni a fare », era un’assurda invasione di Turchi (sconfitti e disfatti poc’anzi nel primo Atto) con Otello che « si scuote e si drizza come un Leone » e « brandisce la spada ». Secondo il critico inglese Frank Walker che aveva ripubblicato parte di questa lettera, già presentata per intero dal Nardi nella sua biografia di Boito, il librettista rimase « sconcertato dal suggerimento di Verdi che egli non poteva approvare». Lo credo bene! Siamo al Corsaro, un’opera per la quale Verdi non aveva mai avuto nessuna considerazione.
In una risposta del 18 ottobre Boito ha Paria d’accettare la « trovata » di Verdi. Ma, spiegava sottilmente, così facendo essi avrebbero distrutto « tutto il sinistro incanto creato da Schakspeare [sic] ». Nell’originale, « Otello è come un uomo che si aggira sotto un incubo e sotto la fatale e crescente dominazione di questo incùbo pensa, agisce, soffre e compie il suo tremendo delitto ». Bisogna perciò che « l’incùbo » permanga. Invece, diceva, « quell’attacco dei Turchi mi dà l’impressione come d’un pugno che rompe la finestra d’una camera dove due persone stavano per morire asfissiate. Quell’ambiente intimo di morte creato da Schakespeare [sic] è d’un tratto svanito. L’aria vitale ricircola nella nostra tragedia, e Otello e Desdemona sono salvi. Per fare che essi ripiglino la via della morte dobbiamo poi rinchiuderli da capo nella camera letale, ricostruire l’incubo, ricondurre pazientemente Jago sulle sue prede e non ci resta più che un atto solo per rifare tutta questa tragedia da capo » (Lettera 4).
Una lezione magistrale di drammaturgia che Verdi si legò al dito, anche se Boito aveva poi l’aria di consentire tutto: « Un melodramma non è un dramma, la nostra arte vive d’elementi ignoti alla tragedia parlata. L’ambiente distrutto si può crearlo da capo, otto battute bastano a far rivivere un sentimento, un ritmo può ricomporre un carattere: la musica è la più onnipossente delle arti, ha una logica sua propria, più rapida più libera della logica del pensiero parlato e più eloquente assai ».
In realtà, nulla della « trovata » verdiana passò nel libretto. Da Shakespeare si accoglie la bellissima espressione dello stupore di Ludovico,l’antico e il progresso nel carteggio tra verdi e boito
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l’ambasciatore veneto: « La mente mia non osa / pensar ch’io vidi il vero », e poi, attraverso stadi successivi, si va « all’infuori di Shakespeare » facendo chiamare Cassio (che nella tragedia non ha ancora parte in questa scena, ma solo in un secondo tempo) e dando vita al « pezzo musicale », cioè al concertato della desolazione di Desdemona, della stupefazione di Ludovico, della pietà di Emilia, del dolore di Roderigo, innamorato nascosto, per la partenza di Desdemona, e dell’agitazione di Cassio. Tacciono Otello e Jago, ai quali resterà la fine dell’Atto, tutta inventata, quando la scena si sarà svuotata: furia e svenimento di Otello, bieco trionfo di Jago. « Ecco il Leone! ».
Il 2 dicembre 1880 Verdi applaudiva: « Ben trovato il Finale Terzo! Lo svenimento d’Otello mi piace più in questo Finale che nel posto dov’era prima ». Strano che aggiungesse: « Solo non trovo né sento il Pezzo d’insieme » (Lettera 5). Pure ci doveva già essere il concertato, cui Boito darà gli ultimi ritocchi dopo la parentesi del Boccanegra, mentre Verdi s’occupava a escogitare ingegnose soluzioni tipografiche per farlo stare tutto insieme nella stampa con tre colonne « in mezzo del libretto con le cuciture », in maniera che il pubblico « voltanto il foglio si troverebbe in faccia a tutta la Baraonda del Concertato » e potrebbe cosi « con un colpo d’occhio vedere e capir tutto » (Lettera 78).
Si potrebbe continuare a lungo a segnare i punti che l’uno o l’altro dei due giocatori mette a proprio vantaggio nel corso dell’ideazione drammatica, e la musicologia dovrà farlo col tempo, sistematicamente, dico la musicologia vera, quella capace di pensare, quella attenta ai fatti concreti dell’arte.
È noto che fu interamente di Verdi l’idea dello straordinario finale nel primo Atto del Simon Boccanegra, con la seduta del Gran Consiglio genovese, la lettera del Petrarca, le dispute tra i patrizi e la parte popolana. Verdi ne esponeva il programma in una lettera a Ricordi, del 20 novembre 1880. Boito perfezionò la scena coronandola con la tremenda maledizione su Paolo Albiani, e l’impreziosì d’una frase scultorea, di shakespeariana altezza drammatica, quando il Doge si rivolge al mentitore: « Paolo! (...) In te risiede / L’austero dritto popolar (...) / V’è in queste mura / Un vii che m’ode e impallidisce in volto, / Già la mia man l’afferra per le chiome. / Io so il suo nome... È nella sua paura».
Né è da meno il sarcasmo di Gabriele Adorno quando sospetta nel Doge l’« uom possente » ch’era stato mandante del ratto di Amelia: «T’acqueta! il reo si spense / Pria di svelarlo (...) Pel cielo! / Uom possente tu se’! ». Siamo già all’altezza e allo stile di Otello.
Per contro Verdi boccia gentilmente, con molti elogi, un’idea abba166
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stanza strampalata di Boito, quella d’un penultimo atto nella chiesa di S. Siro piena d’armati col Boccanegra alla testa, irruzione del Fiesco, zuffa, Boccanegra ferito a un braccio, Paolo che lo fascia con una benda avvelenata! « L’atto da Lei ideato nella chiesa di S. Siro è stupendo sotto ogni rapporto. Bello per novità - bello per colore storico - bello dal lato scenico musicale; ma mi impegnerebbe troppo, e non potrei sobbarcarmi a tanto lavoro » (Lettera 7). Forse Verdi rideva sotto i baffi nell’atto di ricusare questa complicata macchinazione, che faceva il paio con la sua idea di mettere un assalto dei Turchi nel terz’Atto di Otello.
Un’altra volta, da musicista a musicista, dà una piccola lezioncina al collega: « La pregherei di cambiarmi il verso o i versi del Padre per evitare la parola aureola. Io non sono difficile per le parole, ma in un Cantabile quelleo... danno un suono nasale, gutturale antipatico » (Lettera 10).
Nel rifacimento del Boccanegra il comando delle operazioni è saldamente nelle mani di Verdi. Siamo tal quale nella vecchia situazione del rapporto con Piave: il compositore chiede qualcosa di preciso (« mi faccia tre o quattro versi sciolti chiari e netti », Lettera 17) e il poeta eseguisce, versificando le parole messe giù in prosa dal musicista e limando le frasi più volte, a richiesta. « Otto versi son troppi per Amelia (...). Per me vanno benissimo i primi quattro, ma Ella forse vorrà cambiare il secondo per la rima » (Lettera 22). La stesura del libretto è interamente governata e determinata dall’invenzione musicale. Nel Finale primo, scrive Verdi, « l’orchestra rugge, ma rugge piano. È necessario, però, che alla fine anche l’orchestra faccia sentire la sua formidabile voce (...). Avrei quindi bisogno di due versi, per far gridare tutto il mondo. Che in questi versi non manchi la parola Vendetta! » (Lettera 23).
Di Boito è invece la saggia esortazione a « evitare il cambiamento di scena » nel primo Atto (dopo il Prologo) per il dialogo dell’agnizione tra Amelia e Boccanegra. Primo, perché « tre scene in un atto mi pajono troppe, distruggono quell’impressione di unità così necessaria alla vita bene organizzata dell’atto ». Ma soprattutto: « Pensi che di tutto il dramma questo giardino è la sola scena ridente. Tutte le altre sono gravi, solenni o cupe. Vi abbondano troppo gli interni: Sala del Consiglio, Camera del Doge, aula Ducale. Poiché in questo principio del prim’atto siamo all’aria aperta, restiamoci più che possiamo » (Lettera 16). È un’accorta riflessione teatrale, che va alla radice dei difetti da lui impietosamente segnalati nel vecchio libretto di Piave, con la lunga lettera dell’8 dicembre 1880: « Il nostro compito, Maestro mio, è arduo. Il dramma che ci occupa è storto, pare un tavolo che tentenna (...). Non trovo in questo dramma nessun carattere di quelli che vi fanno esclamare: è scolpito!L’ANTICO E IL PROGRESSO NEL CARTEGGIO TRA VERDI E BOITO
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Nessun fatto che sia realmente fatale cioè indispensabile e potente, generato dalla ineluttabilità tragica » (Lettera 6).
Ma d’altra parte - per restare ancora un momento al duetto Ame-lia-Boccanegra da mantenere nel giardino dei Grimaldi fuori di Genova -Boito sbagliava per comprensibili ragioni d’opportunità pratica. La natura di quel dialogo, e di conseguenza anche la musica che Verdi ci ha messo su, postula il raccoglimento d’una camera chiusa, e non si assisterà mai senza un certo imbarazzo a tutte quelle spiegazioni e rievocazioni e ricostruzioni d’un passato intimo e familiare, a cielo aperto.
Quando i due artisti riprendono il lavoro per Otello, l’indispensabile mediazione di Boito tra Shakespeare e Verdi non lo colloca affatto in posizione di superiorità. È sempre Verdi che tiene il coltello per il manico. Nel breve dialogo tra Otello e Jago che segue al concertato del tormentato Finale terzo, le parole « All’opra ergi tua mira! all’opra sola!
Io penso a Cassio... » sono di Verdi, proposte a titolo esemplificativo nella lettera del 27 agosto 1881. Boito non ha fatto che scriverle in forma di un endecasillabo e mezzo, andando a capo al momento giusto. E subito dopo ha aggiustato « L’infame anima ria gli svellerò », proposto da Verdi, in « L’infame anima ria l’averno inghiotta ». « Tu avrai le sue novelle a mezzanotte » diventa: « Tu avrai le sue novelle in questa notte ». La subordinazione del librettista al compositore non è minore che ai tempi di Piave, anche se è più alta la qualità dell’esecuzione materiale e della versificazione. Il 5 ottobre 1885, dopo aver finito di musicare il quarto Atto, Verdi trascrive per Boito tutta la scena della morte di Desdemona, segnando le correzioni ch’egli stesso ha apportate, componendo, al testo di Boito, e altre chiedendone in margine.
Si scopre con stupore che la spettacolosa entrata di Otello nel primo Atto fu inventata da Verdi solo nel 1886, quando l’opera era praticamente finita, chiedendo a Boito di eliminare quattro versi ingombranti (« vi sono troppi versi nel solo d’Otello »), sì che si potesse trasportare l’entrata del protagonista sugli altri tre versi superstiti (Lettera 76). « Potrei fare allora per Tamagno una frase, forse d’effetto: anzi, è già fatta... così ». La « frase, forse d’effetto » era semplicemente l’« Esultate! ». Senza averla ancora sentita Boito ne comprendeva al volo la genialità di soluzione teatrale ed applaudiva con entusiasmo (Lettera 77). «Bravo!!! approvo pienissimamente quel taglio dei quattro versi (...). Ora, l’entrata che non ci accontentava, è trovata, ed è splendida. Una possente esclamazione di vittoria che finisce in uno scoppio d’uragano e in un grido del popolo! Bravo, bravo! eccellente anche l’idea di fare dire quella frase su d’un punto alto della scena! ».168
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La risposta di Boito ad un quesito che Verdi gli aveva posto, sull’opportunità o meno di introdurre anche voci femminili nel coro del Brindisi (primo Atto), si può assumere come criterio universale valido per tutta la composizione dell’opera. « La ragione musicale è quella che deve decidere » (Lettera 83). Ne viene decisamente smentita la curiosa opinione manifestata dal traduttore inglese del libretto, Francis Hueffer, redattore musicale del « Times », che nell 'Otello Verdi avesse « saputo aderire alla verità del dramma e del declamato con una abnegazione di se stesso così coerente e meravigliosa, potrei dire patetica » (note alla Lettera 98). È l’impressione volgare che ebbero i contemporanei quando non ritrovarono nell’Otello le cabalette del Trovatore ed è l’origine di tutti i malintesi che ancora si perpetuano - anzi, presentemente si ravvivano - sulle ultime due opere di Verdi.
La fine del lavoro ad Otello fu sentita dai due artisti con « la tristezza che segue l’opera compiuta », come dice Boito (Lettera 89), facendo eco alla malinconia di Verdi: « Povero Otello, Non tornerà più qui!! » (Lettera 88). Ancora due anni dopo sentivano quel gran vuoto. « Basta », scriveva Boito dalla villeggiatura canavesana di San Giuseppe, il 9 ottobre 1888, « Vorrei che ritornasse quel tempo quando ogni nostra lettera aveva per tema lo studio d’una grande opera d’arte » (Lettera 107). Verdi si baloccava con la scala enigmatica d’un’Ave Maria, e Boito quasi lo prendeva in giro: « Molte Ave Maria ci vogliono perché Lei possa farsi perdonare da S. S. il Credo di Jago » (Lettera 115). Salta fuori perfino (nota alla Lettera 117) la notizia sorprendente del progetto verdiano d’un poema sinfonico su La notte dell’innominato-, ne parlò in un articolo su Manzoni e Verdi ne « La Lettura » nel giugno 1923, un misterioso X. Y., che asseriva di tenerne il racconto da Boito, con particolari circostanziati sulla trama sonora-narrativa-psicologica del lavoro.
Perciò si capisce la prontezza con cui fu accolta da Verdi la proposta del Falstaff, sapientemente architettata da Ricordi con la complicità di Boito. « Facciamo addunque Falstaff! Non pensiamo pel momento agli ostacoli, all’età, alle malattie! Desidero anch’io di conservare il più profondo segreto (...): nissuno deve saperne nulla! (...). Intanto Voi, se vi sentite in lena, cominciate pure a scrivere » (Lettera 122).
Nessun dubbio che in quest’opera la presenza di Boito sia stata più autorevole e minore la partecipazione di Verdi alla stesura del libretto, vuoi che Boito si fosse ormai totalmente immedesimato nella mentalità del compositore, vuoi che questi, per la grave età, cominciasse a mostrare minor lena, soprattutto in una operazione letteraria così complessa coL’ANTICO E IL PROGRESSO NEL CARTEGGIO TRA VERDI E BOITO
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m’era la mescolanza delle Allegre comari di Windsor con le altre apparizioni di Falstaff nei drammi storici shakespeariani.
Se Verdi individuò subito la debolezza del terz’Atto (che non ci fu mai verso di sanare totalmente), accettò primo e secondo in blocco. « Nei primi due Atti non vi è nulla da modificare all’infuori, forse, del Monologo del marito geloso che starebbe meglio alla fine della Prima Parte, che al Principio della Seconda. Avrebbe più calore ed efficacia » (Lettera 122). Strana idea, che Boito fece benissimo a non accogliere. Verdi pensava qui ancora in termini di opera tradizionale. Nel monologo delle corna vedeva l’occasione di un buon finale d’Atto, finale a voce sola, ma potente, d’effetto, sul tipo del Finale primo nelle Nozze di Figaro, « Non più andrai, farfallone amoroso ». Quanto è più originale, invece, che il monologo delirante sia racchiuso, come in una parentesi, nel tempo in cui Ford resta momentaneamente solo, poi Falstaff rientra, tutto agghindato, e lui si ricompone. Ecco un caso innegabile in cui la moderna concezione di Boito segna un punto a proprio favore.
Verso quel benedetto terz’Atto, Verdi mostrava chiaramente qualche riluttanza, poco persuaso dalle dotte disquisizioni boitiane sul comico e sul tragico (« D’accordo perfettamente con Voi sulle esigenze e sull’indole della Tragedia e della Commedia (...). Ma se nella commedia (...) c’è un punto in cui si dice in platea: è finita e sulla scena non è finita ancora; bisogna allora trovare qualche cosa che possa legare fortemente l’attenzione o dal lato comico o dal lato musicale», Lettera 124). Che sia da ravvisare qui, per inciso, la prima idea della fuga finale: « qualche cosa che possa legare fortemente l’attenzione o dal lato comico o dal lato musicale »?
Par di capire che sotto sotto non gli andasse mica tanto il ribaltamento dell’interesse nell’azione del terzo Atto da Falstaff sull’idillio di Fenton e Nannetta e sul trionfo della gioventù. « Bene - scriveva Verdi - la parte fantastica colla Canzone delle Fate. Bene il Monologo di Falstaff: E bene l’interrogatorio a suon di legnate et... Ma dopo i matrimoni interrompono l’attenzione che dovrebbe essere tutta rivolta a Falstaff, e raffredda l’azione ». Ossia, il vecchio operista era ben persuaso che in un’opera si deve sempre battere il martello sul chiodo del protagonista.
All’idillio di Fenton e Nannetta e all’elogio della gioventù Boito invece ci teneva moltissimo. E, dopo un rispettoso esordio (« Tutto ciò ch’Ella pensa è buono») subito replicò (Lettera 125): «Ma i matrimoni ci vogliono, senza le nozze non c’è contentezza (...) e Fen. e Nan. devono sposarsi. Quel loro amore mi piace, serve a far più fresca e più solida170
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tutta la commedia. Quell’amore la deve vivificar tutta e tanto e sempre per modo che vorrei quasi quasi eliminare il duetto dei due innamorati ».
O come mai voleva eliminare il duetto degli innamorati, se a questo amore dei giovani ci teneva tanto? Evidentemente perché avrebbe voluto farne una specie di basso continuo, anzi, ostinato, di tutto Vatto, e il duetto gli pareva forse che lo isolasse indebitamente nella nicchia di un pezzo ben definito. Sotto sotto, non si andrebbe forse lontano dal vero subodorando qui un caso di conflitto tra Pideale del dramma musicale, sostenuto dal modernismo di Boito, e il vecchio tipo di melodramma a forme chiuse, a cui nemmeno nel Falstaff Verdi intendeva infliggere un ostracismo totale. E il duetto, che Verdi aveva esplicitamente approvato nella lettera precedente (« È meglio il Duettino Fan. Nan. nella prima Parte »), restò.
Il 18 agosto 1889 fa capolino l’idea della fuga che coronerà l’opera. « Voi lavorate spero? Il più strano si è che lavoro anch’io!... Mi diverto a fare delle fughe!... Si signore: una fuga... ed una fuga bufa... che potrebbe star bene in Falstaff!... Ma come una fuga buffa? perché buffa? direte Voi?... Non so come, né perché ma è una fuga buffai », Lettera 128).
Boito s’affrettò ad approvare. « Una fuga burlesca è quella che ci vuole, non mancherà il posto di collocarla. I giuochi dell’arte sono fatti per l’arte giocosa » (Lettera 129). In Boito c’era un pizzico di dannunzianesimo avanti lettera. Non per niente aveva preceduto l’immaginifico nel letto, diciamo nei favori di Eleonora Duse. E chi dubitasse della sua venerazione per Verdi e della sincerità delle attestazioni dirette che gliene faceva, dovrebbe considerare le dichiarazioni a terze persone, in particolare all’attrice cui lo legava allora una passione ciclonica, dichiarazioni opportunamente riferite in alcune delle note apposte a questo carteggio dai curatori. Recandosi a conferire con Verdi a Sant’Agata il 4 novembre 1889 (« Arriverò lunedi venturo e se il second’Atto non sarà ancora finito
lo finirò durante la settimana che starò a Sant’Agata », Lettera 130) quasi si scusava con l’amica per l’assenza (i loro incontri erano rari e difficili per la professione errabonda dell’attrice), e lei gli dava il suo benestare. « Andate dal vostro Galantuomo di Sant’Agata. Di quello mi fido. È il solo dei vostri amici che non giudica, né in bene né in male, i fatti degli altri ». (Curioso che Boito, scrivendo alla Duse, le dava del tu, chiamandola con dolci nomignoli d’alcova, Bumba, Buscoletta, e lei invece gli dava, pudicamente dannunziana, del Voi. Quanto a Verdi e Boito, il musicista passò dal Lei al Voi dopo 24 lettere, in un rapido dispaccio del 7 febbraio 1881; Boito rimase sempre fermo al Lei, Ella, con tanto di maiuscole, e due volte sole, forse per un lapsus, firmò solamente Arrigo, senza il cognome.)L’ANTICO E IL PROGRESSO NEL CARTEGGIO TRA VERDI E BOITO
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È curioso sentire Verdi che, a opera quasi ultimata, s’informa da Boito se Falstaff vuole l’accento sulla prima sillaba o sulla seconda, e poco dopo rinnova la domanda per « Vindsor ». Le risposte di Boito (« Falstaff come tutti i nomi inglesi bisillabi è accentato sulla prima», Lettera 143; e: « Windsor. Cosi: Gàje comàri di Windsor è l’òra ecc... », Lettera 162) gli offriranno il destro d’una precisazione:
E qui devo confessare che una volta, nel suo libretto, ho trasgredito a questa regola, una volta sola ed è in un verso non molto distante da quello citato ed è là dove Falstaff dice: «... quand’ero paggio / Del Duca di Norfolk ero sottile sottile » ecc. ecc. L’indole di questo verso porterebbe l’accento sulla sesta mentre la parola Norfolk va accentuata sulla prima sillaba come Windsor e Falstaff ecc.
Mi sono provato varie volte di correggere questo verso ma se aggiustavo l’accento guastavo il verso ed ho preferito fra i due mali falsare l’accento della parola.
Il gargantuesco personaggio era entrato come una realtà concreta nella vita dei due autori. « Il pancione è sulla strada che conduce alla pazzia », informava Verdi il 12 giugno 1891. «Vi sono dei giorni che non si muove, dorme ed è di cattivo umore; altre volte grida, corre salta, fà il diavolo a quattro... » (Lettera 173). E Boito di rimando: « Evviva! Lo lasci fare, lo lasci correre, romperà tutti i vetri e tutti i mobili della sua camera, poco importa, Lei ne comprerà degli altri, sfracellerà il pianoforte, poco importa, Lei ne comprerà un altro, vada tutto a soqquadro! ma la gran scena sarà fatta! Evviva! “Dài! Dài! Dài! Dài! / Che pandemonio!!”» (Lettera 174).
Sarebbe stato difficile immaginare questa ebbrezza, questa vera e propria intossicazione falstaffiana dalle interviste contegnose e riservate che Verdi rilasciava in pubblico in quegli stessi giorni. « No... Falstaff non è compiuto (...). Lavoro per mio divertimento (...). Potrò condurre a compimento Falstaff?... chi lo sa? Tanto meno posso dire se lo farò rappresentare: temo che l’ambiente della Scala sia troppo vasto per una commedia nella quale la rapidità del dialogo ed i giuochi di fisionomia sono la parte principale » (« Gazzetta Musicale di Milano », 5 luglio 1891). E a un giornalista francese ch’era venuto a visitarlo a Genova e per due ore lo aveva interrogato sui suoi propositi, attribuendogli l’intenzione di musicare un Romeo e Giulietta (« Vous en mourez d’envie »), non solo aveva potuto onestamente smentire questa ipotesi, ma aveva anche avuto la faccia tosta di non dire una parola sul Falstaff a cui stava lavorando: « Je vous affirme qu’Otello est ma dernière oeuvre » (note alla lettera 147).172
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Chissà come s’era divertito a dire sostanzialmente la verità, perché certo, finché il Falstaff non fosse finito, VOtello era la sua ultima opera!
Subentrano poi problemi di scene, di costumi, di regìa e di cantanti. Verdi spedisce Boito di qua e di là, ad ascoltare soprani e contralti (la parte del protagonista era da sempre destinata a Maurel, anche se Verdi gliela faceva cader dalPalto). Come Quickly, Boito avrebbe visto bene la giovane Guerrina Fabbri, che infatti lo diventerà, ma assai più tardi, con Mugnone e poi con Toscanini. Per la « prima » Verdi preferì la più esperta Giuseppina Pasqua. In un Don Pasquale al Teatro Manzoni pareva a Boito « d’aver riconosciuto un buon Ford e una buona gaja comare » (Lettera 146). « La voce del basso è bella, è giusta e sana e giovane. L’individuo mi pare intelligente, bisognerà che si liberi dalle vecchie tradizioni dei buffi italiani che nel D. Pasquale vanno bene ma che nel Ford sarebbero una bestemmia ». Sempre c’era in Boito questa volontà di rottura col passato, che Verdi non condivideva. L’arrabbiatura che si prese quando il critico Noseda riferì sul « Corriere della Sera » da Berlino, dove
il Falstaff era stato rappresentato il 6 marzo 1894: « Fa piacere annunciare un vero successo del Falstaff senza il bis del Quand’ero paggio »! (Il Noseda firmava i suoi articoli con uno pseudonimo ch’era tutto un programma: Misovulgo.) « Cosa vogliono questi avveniristi, questi i... », insorse Verdi (Lettera 214).
E perché in un’opera comica non si potrà fare una cosa leggera e brillante? In che offende l’estetica quel piccolo squarcio? Lascio da parte il motivo musicale, ma è in situazione. Falstaff deriso per la grossa pancia dice quando ero paggio ero sottile... È scritto bene per la voce; è istromentato leggermente; lascia sentire tutte le parole non disturbate dai soliti contrappunti (mal educati) che interrompono il discorso principale: armonizzato correttamente... Che male c’è dumque [sic] s’è riuscito popolare?!!... E così si fa la critica! Poco male per me che ho finito, e poi io non ci bado come non vi ho badato mai: Ma è un male per i giovani che si possono facilmente trascinare a fare quello che non sentono di fare. Difatti tutta la musica che si fà ora sia da Noi, come in tutti gli altri paesi manca di naturalezza e non è sincera.
Eppure non era sempre così passatista. Subito dopo la prima rappresentazione volle apportare due varianti, sulle quali informano esaurientemente le note alla Lettera 203. Una era nel concertato del il Atto, che Verdi volle accorciare di 10 battute, lasciando molto perplessi Ricordi, Mascheroni e Boito. Singolarissima la motivazione, in una lettera a Ricordi del 7 marzo 1893: « in scena quello squarcio è lungo, ed ha troppo l’aria d’un pezzo concertato ». Ossia, d’una forma chiusa, magari rossiniana. Ecco un caso in cui Verdi aveva imparato bene la lezione boitiana.l’antico e il progresso nel carteggio tra verdi e boito
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Difatti l’opera, andata in scena alla Scala il 9 febbraio, lasciò molti ascoltatori perplessi, anche se un mese dopo Boito si affannava ad assicurare il maestro del contrario. « I nostri buoni Milanesi sono diventati oramai tutti cittadini di Windsor e passano la loro vita all’albergo della Giarrettiera (...). Io non ricordo e credo che non si sia visto mai, un’opera la quale abbia saputo penetrare come questa nello spirito e nel sangue d’una popolazione » (Lettera 203).
In realtà, invece, Boito doveva rendersi conto ch’era penetrata ben poco e che s’era trattato d’un successo di stima, soprattutto di ammirazione per la tarda età del maestro. Di qui la sua insistenza, nella medesima lettera, perché Verdi presenzi alla rappresentazione di Roma (per Otello non ci era andato). « Una forma d’arte novissima com’è questa del Falstaff non deve essere abbandonata dall’autore dopo un primo esperimento (...). Creda, Maestro, la sua presenza è necessaria. Io non ho detto questo per l’Otello ma lo dico ora perché la manifestazione del Falstaff è ancora, e di molto, superiore a quella dell’Otello, è una vera rivelazione e non bisogna abbandonare il pubblico di Roma e lasciarlo solo davanti a questa opera d’arte così profondamente nuova ».
Boito valutava benissimo l’anticipo enorme che il Falstaff segnava sulle consuetudini della musica italiana in quel tempo e non si faceva illusioni sulla possibilità che venisse allora veramente compreso. Scriveva al Bellai-gue, forse nel gennaio 1894: « Comme Vous avez raison d’aimer ce chef d’oeuvre! et quel bienfait pour l’art quand tous arriveront à le compren-dre! » (note alla Lettera 203). Il « bienfait pour l’art » ci fu, ma non subito, e non, per il momento, in patria né in Francia. Fu in Germania che il Falstaff fece drizzar le orecchie a qualcuno: il primo « bienfait pour l’art » si chiamò Der Rosenkavalier. E poi da noi arrivò Gianni Schicchi.
Verdi predicava male e razzolava bene. Era sempre 11 a intonare le sue geremiadi: « Torniamo all’antico e sarà un progresso ». Di fatto, poi, a ottant’anni dava una tale spinta alla musica italiana, e la scagliava così avanti, che ci volle l’opera di tutta una generazione per raggiungerla, e c’è da dubitare - a quel che spesso càpita di leggere ancor oggi - che tutti ci siano veramente arrivati.
Massimo Mila | |
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