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Paimiro Togliatti ha formulato un’osservazione che mi sembra di grande interesse per lo studio del pensiero di Gramsci. Mi riferisco all'osservazione con cui egli ha accennato alla novità del pensiero di Gramsci rispetto a quello di Antonio Labriola.
Cito dalla relazione di Togliatti: «La guida delle conclusioni leniniste sulla natura dteU’imperialismo fa superare a Gramsci il punto morto cui era giunta all’inizio del secolo l’indagine politica di A. Labriola e alla quale aveva corrisposto in sostanza la impossibilità del movimento operaio italiano di liberarsi sia dal riformismo che dall’estremismo ». Togliatti ha cosi richiamato la nostra attenzione non solo sulla linea di displuvio che corre tra il pensiero di Labriola e quello di Gramsci, ma sulla nuova prospettiva in base alla quale 'Gramsci va elaborando i suoi concetti, la prospettiva dell’età dell’imperialismo.
Affrontare quest’argomento, cioè la concezione di Gramsci dell’età del-l’imperialismo, è evidentemente un tema assai vasto e impegnativo ed
10 qui non posso che limitarmi ad enunciarne qualche aspetto più evidente. Mi sembra che sia necessario innanzi tutto chiarire quale sia stato
11 « punto morto » cui arrivò il Labriola; e di qui partire per determinare il pensiero di Gramsci, per comprendere il suo metodo di formazione, il modo con cui egli — diciamo cosi — assimila la concezione leninista.
Il pensiero del Labriola sulletà dell’imperialismo, fino ad oggi è stato poco studiato ed è particolarmente noto attraverso l'interpretazione che ne ha dato Benedetto Croce. Quest’ultimo ha rivolto infatti un elogio di « fedeltà al marxismo » al Labriola, riferendosi agli atteggiamenti che526
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questi avrebbe assunto sulla questione coloniale: «Labriola — dice il Croce — guardò con simpatia all’impresa d’Africa e si manifestò favorevole a'U’impresa di Tripoli, fedele anche in ciò al marxismo che non concepisce un serio movimento proletario se non preceduto da un serio e pieno svolgimento della borghesia ».
Penso che è sempre opportuno diffidare degli elogi di fedeltà al marxismo che vengono fatti dagli avversari del marxismo. E, anche in questo caso, se noi studiamo il pensiero del Labriola nelle sue determinazioni storico-politiche, ci accorgiamo che le cose son ben diverse da come l’ha enunciate Benedetto Croce. In realtà il Labriola quando intervenne nel ’90 sulla questione della colonia Eritrea, non intervenne in nessun modo per manifestare la sua « simpatia » verso quell’impresa. Egli stesso ci dice esplicitamente in Cuore e Critica del 16 aprile lo scopo che si proponeva in tale occasione: «La mia lettera pubblicata sul Risveglio è indeterminata perch’io la volli fare cosi. Era diretta a-1 Braccarmi: e perciò la tesi socialistica doveva essere presentata nella figura retorica della insinuazione. Detto questo non ho bisogno di aggiungere che io non credo punto alla capacità dello Stato borghese di risolvere uno solo dei problemi sociali secondo gli intendimenti nostri. Ma perché questa persuasione divenga una forza della coscienza pubblica, bisogna usare un metodo che io direi di dialettica obiettiva: porre le questioni, dire ai radicali, progressisti e filantropi: ecco dove sono i veri interessi del popolo; e poi metterli fra l’uscio e il muro. La impotenza loro dev’essere dimostrata col fatto». Dunque il Labriola suggerendo al Baccarini di proporre al governo la costituzione di cooperative agricole contadine nella prima colonia italiana non intendeva appoggiare l’espansione coloniale, ma dimostrare quanto fossero vane le speranze di coloro che si ripromettevano di trasformare tale espansione in un fatto progressivo; il suo intervento non può essere considerato isolato, ma dev’essere inserito nella più vasta polemica ch’egli allora andava conducendo con i radicali e con gli esponenti della democrazia borghese in genere.
Cosi quando egli accennò all’impresa di Tripoli al principio del Novecento, continuò a muoversi, cosi mi sembra, nella stessa direzione, anche se i tempi erano già mutati ed era mutato il suo obiettivo polemico : non i radicali, ma gli « umanitari », i quali per bocca del Moneta avevano espresso la propria fiducia nello sviluppo pacifico del mondo ed erano arrivati a proporre un tribunale internazionale per risolvere ogni verRoberto Battaglia
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tenza, per eliminare ogni pericolo di guerra. Il (Labriola condannò recisamente questa illusione, l’illusione di sostituire, egli dice, ai « zig zag della storia un consiglio di savi » ; e colse l'occasione per ribadire che ben diversa era la prospettiva storica tracciata dallo sviluppo del capitalismo e che «fatale» eira iainche l'inasprirsi della questione coloniale. Particolarmente su quest’ultima richiamò pertanto l’attenzione del proletariato, invitandolo a intervenire, ad inserirsi con la propria azione politica nel campo dell’espansione borghese. Certamente, dal punto di vista tattico il Labriola sbagliò nell’indicare il modo di questo inserimento. Ed il suo errore non fu solo contingente, ma ha la propria indubbia origine nella concezione ancora vaga e confusa ch’egli aveva della nuova epoca deirimperialismo. Ecco come, negli ultimi suoi scritti e partico-lamence nei frammenti delie lezioni universitarie del 1901-02, egli formula a questo proposito il suo pensiero : « Io non saprei ridurre in poche parole la persuasione in che sono venuto nei miei recenti studi, del come le presenti condizioni d’interdipendenza economica interoceanica manterranno per un pezzo la vita delle nazioni civili nei rapporti d’una sempre più acuita concorrenza, il che non toglie che il socialismo sia già una gran forza e che i partiti operai siano un potente contrappeso alle varie borghesie ». Ed ancora : « La concorrenza è l’assioma della società liberale la quale vi si eserciterà attorno più furiosamente nel nuovo secolo ».
C’è quindi in lui — mi sembra che si possa affermare — l’intuizione che si va verso un’epoca di continui, più approfonditi, « furiosi » contrasti. Tuttavia egli non va al di là di questa intuizione, né arriva a cogliere il profondo mutamento strutturale che subisce in questo periodo il capitalismo. In fondo egli ritiene che la nuova fase sia semplicemente un prolungamento, una continuazione della vecchia fase « liberale ». Né coglie nella nuova struttura del capitalismo quegli elementi che — come dice Lenin — « si stanno movendo in senso opposto ». Da qui deriva quel suo accenno alla probabile « accentuazione della concorrenza » che è formula quanto mai imprecisa od errata; mentre la formula esatta dovrebbe invece riferirsi alla fine della concorrenza e al sorgere del monopolio.
Cosi egli intuendo sollo confusamente le caratteristiche della nuova età, non può additare compiti precisi ai partiti operai. E l'enunciazione in cui attribuisce al movimento socialista una semplice funzione di « contrap528
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peso alla borghesia » è evidentemente una enunciazione lacunosa, tale da rispecchiare le sue incertezze di fondo.
Ora, se questo è il punto morto cui è giunto il pensiero del Labriola, non dobbiamo tuttavia credere che Gramsci abbia potuto superarlo come per una improvvisa illuminazione, ma dobbiamo invece studiare con attenzione nell’opera di Gramsci il lento e spesso difficile processo di formazione del suo pensiero.
Vero è che Gramsci non ci ha lasciato nessuna pagina in cui la sua concezione dell’età dell’imperialismo sia espressa compiutamente, abbia il risalto e la forza sintetica che assumono nei suoi scritti altri argomenti decisivi come la concezione del partito e dello Stato. Ma proprio perciò dobbiamo respingere la tentazione di ricostruire questa pagina che manca nella sua opera attraverso una serie di citazioni, di frammenti, come se si trattasse di ricomporre le tessere di un mosaico. Questo mosaico risulterebbe certamente inerte né ci permetterebbe di capire il pensiero di Gramsci nel suo effettivo sviluppo. Del resto è questo un metodo da respingere, come da respingere l’idea che si debba ricercare in Gramsci, come ha detto Togliatti, il vangelo del perfetto militante marxista.
Se noi desideriamo comprendere come Gramsci abbia acquisito gli elementi fondamentali della concezione della nuova età, dobbiamo invece studiarlo nelle sue esperienze concrete e ben determinate storicamente, dobbiamo porre in rapporto queste esperienze con la loro elaborazione teorica, con l’assimilazioine dei principi essenziali del leninismo.
A me sembra che nell’epoca della prima guerra mondiale Gramsci non avesse ancora una chiara concezione ddl’età dell’imperiaM’smò, Non è solo un problema di maturità politica — egli aveva ventitré anni allo scoppio del conflitto — ma direi che vi era per chiunque la difficoltà obiettiva di constatare in Italia le caratteristiche essenziali dell’imperialismo quali furono enunciate da Lenin. L’Italia nel grande conflitto internazionale è in fondo un campo periferico in cui non è sempre facile cogliere il centro della lotta: nel nostro Paese gli obiettivi imperialistici della borghesia, come l’espansione nei Balcani, s’intrecciano e si urtano con gli obiettivi democratici dell’irredentismo.
La vera, la decisiva esperienza di Gramsci si verifica piuttosto nel-rimmediato dopoguerra e si dispiega pienamente nell’opera di direzione dell’Ordine Nuovo. Quando si parla di questa esperienza in genere ci siRoberto Battaglia
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richiama soltanto ai suoi elementi interni, cioè al concetto dei consigli di fabbrica, ai rapporti fra sindacato e partito, ma si dimentica troppo spesso l’avversario contro cui si muove Gramsci. L'avversario è la FIAT, cioè il primo grande monopolio, ed egli acquista un’effettiva concezione dell’età dell’imperialismo lottando e penetrando nella lotta le caratteristiche del 'nemico di classe. Si porrebbe fare molte citazioni a questo proposito. Mi sembra che una delle più interessanti sia quella relativa al modo con cui Gramsci si accorge come nella nuova età il capitale finanziario si stia distaccando dalla produzione, cioè come si renda conto di uno degli elementi essenziali dell’imperialismo e cioè del prevalere del capitale finanziario.
Egli ci dice a proposito della FIAT : « SÌ tratta di un gigantesco apparecchio industriale che corrisponde a un piccolo Stato capitalista, che è un piccolo Stato capitalista e imperialista perché detta legge all’industria meccanica torinese, perché tende con la sua produttività eccezionale, a prostrare e assorbirle tutti i concorrenti: un piccolo Stato assoluto che ha un autocrate: il' comm. Giovanni Agnelli, il più audace e tenace dei capitani d'industria italiani, un 66 eroe ” del capitalismo moderno. ÌLI capitalismo annienta i suoi 66 eroi ”, il capitalismo sta annientando il comm. Giovanni Agnelli. Il capitalismo è diventato plutocrazia, è diventato alta banca... In pochi mesi rorganizzazione (o lo sfacelo) capitalistica ha compiuto molti passi in avanti; la plutocrazia siderurgica ansaldiana ha rinnovato l’assalto, è passata sopra il cadavere del capitano d’industria ».
Ora non interessa qui tanto verificare se le indicazioni date da Gramsci a proposito della FIAT siano tutte esatte e se la sua analisi si è compiutamente avverata; interessa piuttosto che egli colga cosi chiaramente la sostanza del processo capitalistico, cioè il fatto che nella nuova età è finita l’epoca dei capitani d’industria, l’epoca del capitalismo industriale produttivo e s’inizia quella del dominio dell’alta banca, delloli-garchia finanziaria.
Cosi il modo con cui egli si avvicina a un’altra caratteristica fonda-mentale deirimperialismo, al problema dell’espansione coloniale, all’esi-genza assoluta che il capitalismo ha in questa fase di lottare per la spartizione dei mercati nel mondo, non è un modo soltanto teorico; ma nasce da un’esperienza diretta che è la vittoriosa lotta condotta dal proletariato contro l’impresa d’Albania. Io non so se Gramsci avesse già530
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letto in quell’epoca il saggio famoso di Lenin sull’imperialismo, ma certo l’impostazione che egli dà alla questione coloniale e il nesso ch’egli stabilisce tra questa questione e la rivoluzione proletaria sono tipicamente leninisti. Egli scrive : « Le popolazioni colon-ali diventano cosi il piedistallo di tutto l’apparecchio di sfruttamento capitalistico; esse devono dare 'tutta la loro vita per Ilo sviluppo della civiltà industriale senza ottenere alcun beneficio, ecc. », poi continua : « Le imsurrezioni che si verificano tra le popolazioni soggette al regime coloniale consentono quindi di stabilire anche, con sempre maggiore precisione, la portata storica reale di queste previsioni energetiche del proletariato internazionale che lotta per la sua emancipazione, consapevole dell’alta missione storica che gl’incombe d’attuare... Il movimento liberatore del popolo lavoratore russo inizia una rivoluzione assoluta e completa che trasformerà radicalmente la configurazione sociale di tutto il mondo».
È evidente che già in queste fomulaziomi del ’20, Gramsci è arrivato a un punto assai avanzato nel giudizio sui rapporti tra l’età dell imperialismo e la rivoluzione proletaria.
L’ultimo suo scritto destinato alla pubblicazione, il saggio sulla" Qui-stione meridionale, come ha detto giustamente Togliatti, dev’essere interpretato come uno scritto in cui i principi del leninismo hanno contribuito decisamente alla rottura degli schemi salveminiani. E di questo scritto si può sottolineare ancora un altro aspetto: esso spazzava via decisamente le vecchie concezioni borghesi che ponevano la soluzione della questione meridionale nell’espansione coloniale e che avevano teorizzato sulla esistenza dun imperialismo italiano di natura affatto speciale, il cosidetto « imperialismo democratico ». (Ricordiamo a questo proposito il saggio del Michels e la violenta risposta che ebbe occasione di dargli sul Communist Lenin.) Gramsci nemmeno ricorda o pone in discussione queste teorie, tanto esse gli sembrano ormai superate dalla storia e dalla maturità politica del proletariato. Se noi pensiamo che il saggio del Michels è anteriore di appena nove anni allo scritto di Gramsci sulla Quistione meridionale ci rendiamo conto di come la concezione dell’« imperialismo democratico » sia stata rapidamente e definitivamente liquidata dall’impetuosa ascesa del proletariato nel dopoguerra (anche se posteriormente la demagogia fascista compirà ogni sforzo per riesumarla dalle sue ceneri).
Nei Quaderni del carcere noi troviamo riflessa tutta l’esperienza politica di Gramsci, troviamo quasi il bilancio di quanto egli ha opeRoberto Battaglia
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rato quale dirigente della classe operaia italiana e quale fondatore del Partito comunista italiano. Ma non troviamo solo questo bilancio. Gramsci lanche in carcere mon s;i rinchiude in se stesso, ma compie ogni sforzo per seguire ciò che sta accadendo .nel mondo, al di la delle mura che lo costringono. Né il suo pensiero si ripiega su se stesso, ma continua, con volontà 'eroica, a progredire e a svilupparsi. Cosi si fa sempre più chiara in lui anche la concezione dell’età dell’imperialismo, quale si va determinando nella realtà. Quando inoi insistiamo suH importanza che ha 'nel pensiero di Gramsci il concetto di « egemonia del proletariato », dobbiamo tuttavia ricordare, affinché la nostra analisi non sia parziale, il nesso che lo stesso Gramsci stabilisce tra questo concetto e la situazione storica in cui esso si verifica e si evolve, e cioè la situazione in cui la borghesia può ancora conservare il potere politico, può ancora dominare, ma senza più la capacità di esercitare stabilmente la sua egemonia.
Ricordo su questo punto una delle sue citazioni più rapide ed illuminanti, allorché egli afferma che nel periodo del dopoguerra « l’apparato egemonico si sgretola e l’esercizio deU’egemonia da parte della borghesia diviene permanentemente difficile ed aleatorio. Il fenomeno viene presentato e trattato con vari nomi ed in vari aspetti secondari e derivati ». C’è qui la traduzione in termini gramsciani del concetto leninista del capitalismo morente, traduzione che nasce daH’interno stesso deH’esperienza pratica di Gramsci. Egli ha letto infatti gli scritti leninisti suirimperialismo quando già la sua coscienza di militante della classe operala era matura e disposta ad accoglierli, ricavando poi dagli stessi scritti l’impulso per una elaborazione ulteriore, per un successivo passo in avanti compiuto a contatto della realità in continuo sviluppo. Si veda a questo proposito l’acuta e puntuale analisi ch’egli fa dello Stato fascista, ponendo attenzione innanzi tutto a quella compenetrazione fra monopolio e apparato statale cui aveva già accennato Lenin nel suo saggio suH’imperialismo. Gramsci coglie il processo in uno stadio ben più avanzato, e, ravvisando nel fascismo una delle più vistose manifestazioni dell’età imperialistica, respinge decisamente le tesi del Salvemini sul fascismo quale fenomeno della piccola borghesia : « Da questo complesso di (esigenze non sempre confessate, nasce la giustificazione storica delle cosidette tendenze corporative che si manifestano prevalentemente come esaltazione dello Stato in generale, concepito come qualche cosa di assoluto, e come 'diffidenza ed avversione alle forme tradizionali del capita532
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lismo. Ne consegue ohe teoricamente lo Stato pare avere la sua base politico-sociale nella piccola gente, nella piccola borghesia degli intellettuali, ma in realtà la sua struttura rimane plutocratica e riesce 'impossibile rompere i legami con il grande capitale finanziario ».
Un’indagine approfondita in questo senso ci permetterebbe non solo di cogliere il pensiero di Gramsci nel suo ininterrotto e continuo sviluppo, ma anche e principalmente di comprendere più chiaramente come il .suo concetto di egemonia non sia, per dir cosi, edificato sul vuoto o come un’ipotesi teorica per un remoto futuro, ma abbia alk propria base l’analisi o la constatazione delle strutture oggettive dell’età contemporanea.
Per concludere, io vorrei portare un ultimo esempio relativo alla consapevolezza che ha avuto Gramsci del suo dissidio di fondo con il Labriola. È la pagina che riguarda « l’educazione del papuano » ; ed è una pagina senza dubbio sorprendente per l’asprezza con cui Gramsci critica il Labriola pur riconoscendo in lui il primo pensatore marxista in Italia. Il punto di partenza è una questione pedagogica, cioè la risposta che il Labriola secondo la testimonianza di Croce avrebbe fornito a chi gli richiedeva come educare moralmente un papuano : « Provvisoriamente lo farei schiavo; e questa sarebbe la pedagogia del caso, salvo a vedere se pei suoi nipoti e pronipoti si potrà cominciare ad adoperare qualcosa della pedagogia nostra ». Ma l’importanza della pagina di Gramsci va ben al di là della questione pedagogica, e tocca un problema centrale del marxismo, si ricollega alla questione che abbiamo trattato all’inizio e cioè alla questione coloniale.
Scrive Gramsci : « Il modo di pensare 'implicito nella risposta del Labriola non pare pertanto dialettico e progressivo, ma piuttosto meccanico e retrivo... Nella intervista sulla quistione coloniale il meccanicismo implicito nel pensiero del Labriola appare anche più evidente ». Che l’età dell’imperialismo porti con sé l’espansione coloniale è un fatto, è una conseguenza inevitabile delle sue caratteristiche; ma ciò non significa che il proletariato o gli stessi popoli coloniali debbano assistere passivamente all’espansione coloniale nel nome del progresso della storia. « Può darsi benissimo che sia 44 necessario ridurre i papuani alla schiavitù ” per educarli, ma non è meno necessario che qualcuno affermi che ciò non è necessario che contingentemente, perché esistono determinate condizioni, che cioè questa è una necessità 44storica” e non assoluta: è necessarioRoberto Battaglia
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anzi che ci sia una lotta in proposito e questa lotta è proprio la condizione per cui i nipoti o pronipoti del papuano saranno liberati dalla schiavitù e saranno educati con la pedagogia moderna'. Che ci sia chi affermi recisamente che ilia schiavitù dei papuani non è che una necessità del momento; e che ci si ribelli contro tale necessità è anch’esso un fatto filoisofico-istorieo : 1) perché contribuirà a ridurre al tempo necessario ili periodo di schiavitù; 2) perché indurrà gli stessi papuani a riflettere su se stessi, ad autoeducarsi, in quanto sentiranno di essere appoggiati da uomini di civiltà superiore » , (e mi sembra evidente che gli uomini di civiltà superiore cui si 'riferisce Gramsci sono gli uomini della civiltà socialista); « 3)' perché solo questa resistenza mostra che si è realmente in un periodo superiore di civiltà e di pensiero », (e cioè in un periodo in cui si è avverata la rivoluzione proletaria ed i popoli coloniali tendono alla conquista della loro indipendenza).
Togliatti ha richiamato la nostra attenzione sul fatto che non dobbiamo ricercare in Gramsci pensieri profetici. Quando noi leggiamo pagine come questa, in cui s’intuiscono i nuovi sviluppi dell’età contemporanea, in cui si .afferma cosi recisamente la certezza che l'imperialismo perderà ia sua base d’appoggio nei popoli coloniali, noi possiamo constatare come questa profezia non derivi da qualche misteriosa od occulta facoltà del pensiero di Gramsci, ma dalla sua chiarezza di prospettiva generale, dalla sua piena coscienza dell’età in cui vive e delle sue leggi di sviluppo. Proprio in virtù di tale chiarezza, tanto Lenin quanto Gramsci hanno contribuito a trasformare il mondo, hanno potuto affidare ila sua sorte non a una cosidetta fatalità della storia, ma alla coscienza e alla volontà dell’uomo. | |
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