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Penso che il dibattito potrà riuscire più proficuo se si concentrerà su quegli aspetti dell’interpretazione gramsciana della storia d’Italia che hanno sollevato negli ultimi tempi vivaci discussioni tra gli studiosi. Mi soffermerò pertanto su di un problema soltanto, tra i molti toccati dal prof. Cessi nella sua relazione.
Le osservazioni di Gramsci sull’assenza di un movimento giacobino nel Risorgimento e in particolare sul carattere non giacobino del movimento democratico italiano sono tra quelle che hanno sollevato critiche *da parte di molti studiosi di storia. Si è detto che Gramsci, sotto lo stimolo di preoccupazioni politiche proprie del primo dopo-guerra, estranee quindi alla situazione dell’età risorgimentale, avrebbe fatto un uso ingiustificato dell’esempio della Rivoluzione francese per giudicare il Risorgimento elevando il giacobinismo a paradigma ideale e commisurando ad esso movimenti politici sorti in condizioni del tutto diverse. Secondo Walter Maturi1, Gramsci avrebbe capovolto il giudizio comparativo sulla Rivoluzione francese e sul Risorgimento dato dal Manzoni negli ultimi anni della sua vita e avrebbe sostituito al modello ideale di rivoluzione liberale-moderata un modello ideale di rivoluzione giacobina. Secondo Rosario Romeo invece2, l’interpretazione gramsciana è criticabile, non solo perché la situazione italiana del Risorgimento era profondamente diversa da quella francese della Rivoluzione, ma soprat 1 W. MATURI, « Gli studi di storia moderna e contemporanea », in Cinquantanni di vita intellettuale in Italia^ Napoli, 1950, voi. I, p. 273.
2 R. Romeo, « La storiografia politica marxista », in Nord e Sud, agosto 1956.516
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tutto perché una rivoluzione giacobina, se ci fosse stata in Italia, non avrebbe avuto funzione progressiva, poiché avrebbe di molto ridotto, con la creazione di un vasto ceto di piccoli proprietari coltivatori, le possibilità di accumulazione capitalistica già tanto limitate in un paese arretrato commercialmente ed industrialmente. Si può dire insomma che, pur con motivazioni diverse e in parte contrastanti, la critica all’af-fermazione di Gramsci sull'assenza di giacobinismo nel Risorgimento sia stata finora uno dei punti centrali della discussione provocata tra gli storici dall’opera di Gramsci.
Di fronte a queste critiche si deve dire anzitutto che il pensiero storiografico di Gramsci è indubbiamente un aspetto del suo pensiero politico e al tempo stesso della sua azione politica. Ma si deve anche dire che questa azione fu essenzialmente azione rivoluzionaria, rivolta a mobilitare e a dirigere le forze capaci di risolvere i problemi di fondo della società e dello Stato in Italia. Questi problemi, giunti ad un grado estremamente critico nel primo dopo-guerra, hanno però le loro radici in tutta la precedente storia d’Italia, in particolare nella storia dell’Italia unitaria e nel Risorgimento. Gramsci perciò condusse un’indagine storica marxista sul problema della nascita e dello sviluppo della società e dello Stato borghese in Italia cercando di fissarne con chiarezza i caratteri distintivi nell’ambito dello sviluppo generale della borghesia in Europa e nel mondo. Nasce di qui necessariamente il paragone con la Rivoluzione francese, il quale del resto si può ricollegare ad una tendenza tipica del pensiero politico ottocentesco in Italia e in tutta l’Europa. Gran parte del pensiero politico liberale, democratico e in una certa misura anche socialista, del secolo passato, si sviluppò infatti sulla base di determinate e tra loro contrastanti interpretazioni della Rivoluzione francese; per non parlare del pensiero reazionario che fu per molti decenni addirittura ossessionato dall’esempio della Rivoluzione. Non si può dire dunque che l’esempio della Rivoluzione sia un paradigma estraneo al Risorgimento, quale esso fu effettivamente; è evidente tuttavia che l’uso di questo paradigma fatto dai pensatori e dagli uomini politici del secolo passato non può più coincidere con l’uso che ne può fare lo storico nel nostro secolo.
Premesso questo, prima di vedere in che consista questo paragone gramsciano e fino a che punto esso possa dirsi propriamente un paragone, è neoessairio soffermarci sulla definizione che Gramsci stesso dàGiorgio Candeloro
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del giacobinimo. « Il termine di66 giacobino ” — egli dice — ha finito per assumere due significati: uno è quello proprio, storicamente caratterizzato, di un determinato partito della Rivoluzione francese, che concepiva lo svolgimento della vita francese in un modo determinato, con un programma determinato, sulla base di forze sociali determinate e che esplicò la sua azione di partito e di governo con un metodo determinato che era caratterizzato da una estrema energia, decisione e risolutezza, dipendenti dalla credenza fanatica nella bontà e di quel programma e di quel metodo. Nel linguaggio politico i due aspetti del giacobinismo furono scissi e si chiamò “giacobino” l’uomo politico energico, risoluto e fanatico, perché fanaticamente persuaso delle virtù taumaturgiche delle sue idee, qualunque esse fossero: in questa definizione prevalsero gli elementi distruttivi derivati dall’odio contro gli avversari e i nemici, più che quelli costruttivi, derivati dalTaver fatto proprie le rivendicazioni delle masse popolari; l’elemento settario, di conventi-cola, di piccolo gruppo, di sfrenato individualismo, più che l’elemento politico nazionale » 1.
È evidente che Gramsci, quando parla di assenza di giacobinismo nel Risorgimento, si riferisce alla concezione positiva e comprensiva del giacobinismo, che egli analizza quando si sofferma in vari punti dei Quaderni del carcere suH’azione dei giacobini nella Rivoluzione francese stessa. Secondo lui, i giacobini francesi spinsero avanti in modo violento la stessa borghesia, che inizialmente era su posizioni moderate, ma rimasero sempre nell’ambito di una rivoluzione boghese. Il giudizio gramsciano si avvicina qui a quello dato in modo più ampio e documentato da alcuni storici della Rivoluzione francese, principalmente dal Mathiez. È impossibile però stabilire fino a che punto la concezione gramsciana sia stata influenzata dall’opera del Mathiez che Gramsci mi pare citi due sole volte nei Quaderni2.
Ora, secondo Gramsci, non ce stato nel Risorgimento un movimento giacobino, inteso in questo senso, perché nessun partito politico risorgimentale volle far leva sulle masse popolari e trascinarle nel movimento nazionale in vista di una trasformazione radicale della situazione
1 R., p. 75.
2 Mach., pp. 44 n. 2, 48.518
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esistente. Questa trasformazione avrebbe dovuto consistere essenzialmente (ma non esclusivamente) in una rivoluzione agraria. In Francia i giacobini, che avevano nella capitale la loro base principale, poterono assicurarsi con la loro politica agraria l’appoggio delle masse contadine. Essi perciò non solo « organizzarono un governo borghese, cioè fecero della borghesia la classe dominante, ma fecero di più, crearono lo Stato borghese, fecero della borghesia la classe nazionale dirigente, egemone, cioè dettero allo Stato nuovo una base permanente, crearono la compatta nazione moderna francese» \ La loro caduta si dovette essenzialmente alla necessità in cui si trovarono, per restare sul terreno della rivoluzione borghese, di rompere il fronte urbano di Parigi e di perdere l’appoggio delle masse popolari, sicché il Termidoro li travolse. In Italia invece mancò una forza democratica che sapesse essere giacobina e svolgere una politica agraria rivoluzionaria, sicché nei momenti decisivi del Risorgimento prevalse il movimento moderato.
Gramsci giunge cosi ad una visione molto chiara dei caratteri e della funzione storica dei due raggruppamenti politici maggiori del Risorgimento: 1 moderati e il partito d’Azione. I moderati ebbero infatti un rapporto organico con vasti settori della borghesia e dell’aristocrazia imborghesita; il partito d’Azione ebbe sempre una base sociale debole e ondeggiarne, perché Mazzini e gli altri democratici non vollero o non seppero porsi il problema di una radicale trasformazione dei rapporti di classe nelle campagne.
Gramsci però non si limita a questa critica, ma ricerca anche le ragioni storiche della fondamentale debolezza delle correnti democratiche risorgimentali. Egli ricollega questa debolezza allo sviluppo ritardato e insufficiente delia borghesia italiana in generale, di cui analizza i caratteri risalendo attraverso l’età del dominio straniero al Rinascimento e all’età comunale. In questa ricerca si debbono inquadrare le sue osservazioni sul carattere « economico-corporativo » della borghesia comunale, sulla storia degli intellettuali italiani e sullo sviluppo della tradizione culturale italiana, da secoli ondeggiante tra il particolarismo corporativo e il cosmopolitismo di tipo cattolico. Al tempo stesso egli nota che il Risorgimento si attuò in una fase storica in cui il movimento
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politico ascendente della borghesia, sviluppatosi dalla Rivoluzione francese, tendeva ad arrestarsi nei paesi più progrediti e a trasformarsi in una posizione difensiva di fronte al sorgente movimento del proletariato. Perciò l’Italia, che pure era in una situazione nel complesso più arretrata della Francia e degli altri paesi dell’Oocidente, risenti delle ripercussioni della situazione nuova che andava formandosi in questi paesi, e questo fu un freno potente per tutte le correnti politiche del Risorgimento.
Queste circostanze interne ed esterne fecero si che il Risorgimento si concentrasse sui -problemi dell’indipendenza, dell’unità e del regime costituzionale, sicché su questo terreno il partito d’Azione fu abbastanza facilmente rimorchiato dai moderati e in particolare dai gruppi che si strinsero attorno alla monarchia sabauda.
A questo punto però sorge un problema, che Gramsci stesso si pone, quello della possibilità storica di un diverso sviluppo del Risorgimento. Dice infatti Gramsci in un passo parzialmente citato anche da Manacorda : « Se in Italia non si formò un partito giacobino ci sono le sue ragioni da ricercare nel campo economico, cioè nella relativa debolezza della 'borghesia italiana e nel clima storico diverso dell’Europa dopo il 1815. Il limite trovato dai giacobini, nella loro politica di forzato risveglio delle energie popolari francesi da alleare alla borghesia, con la legge Le Chapelier e quella sul maximum, si presentava inel ’48 come uno “ spettro ” già minaccioso sapientemente utilizzato dall’Austria, dai vecchi governi e anche dal Cavour (oltre che dal Papa). La borghesia non poteva (forse) più estendere la sua egemonia sui vasti strati popolari che invece potè abbracciare in Francia (non poteva per ragioni soggettive, non oggettive), ma l’azione sui contadini era certamente sempre possibile» \
È chiaro che su questo punto si sente la necessità di un approfondimento, non tanto sui terreno filosofico (poiché la possibilità riferita al passato non va intesa come una costruzione astratta, ma come un’ipotesi di lavoro, come un punto di riferimento per chiarire meglio i caratteri delil’effiettivo processo storico), quanto sul terreno storiografico : è necessario infatti studiare a fondo la struttura economico-sociale italiana, vederne con chiarezza l'evoluzione durante il Risorgimento, fissarne con precisione i caratteri diversi nelle varie parti d'Italia, studiarne infine Ì
1 R., pp. 87-88.
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rapporti' con i movimenti politici. Si tratta insomma di proseguire ed estendere il lavoro di Gramsci studiando la storia d’Italia col metodo marxista. Quel metodo che Gramsci peir primo applicò ad essa con grande acume critico e con eccezionale ampiezza di prospettive, anche se, per le circostanze in cui ifu costretto a lavorare, i risultati della sua indagine dovettero assumere spesso una forma frammentaria e talora ebbero il carattere di geniali intuizioni non sufficientemente argomentate.
Non è da escludere che questo approfondimento possa portare a correggere o a limitare talune affermazioni gramsciane, come quella sopra citata sulla possibilità di un diverso sviluppo del movimento risorgimentale nei riguardi dei contadini; ma i risultati fondamentali dell’indagine di Gramsci restano validi e fecondi di ulteriori sviluppi. Essi derivano infatti da un’impostazione metodologica che non sii fonda su fantasiose costruzioni ideologiche, o su pregiudizi moralistici, o sul mito di una conoscenza storica concepita come fine a se stessa, ma nasce dall’esigenza di conoscere scientificamente la realtà per trasformarla. Se si tiene presente questo essenziale carattere marxista dell’indagine gramsciana, allora appare anche pienamente legittimo l’uso della comparazione storica nella forma adottata da Gramsci a proposito del giacobinismo. Infatti per comprendere ciò che il Risorgimento è stato effettivamente è necessario vederne con chiarezza i limiti, vedere quali problemi esso lasciò insoluti; è necessario cioè, in un certo senso, tener conto anche di quello che esso non è stato. Perciò occorre studiarlo tenendo presente sia lo sviluppo successivo della storia italiana, che è condizionato dall risultato del Risorgimento, sia lo sviluppo generale della borghesia in Europa e nel mondo. Quindi la comparazione tra il processo storico con cui la borghesia conquistò il potere in Italia e i vari processi storici con 1 quali essa conquistò il potere in Francia, in Inghilterra o in altri paesi, serve appunto a fissare le caratteristiche dello sviluppo storico che portò in Italia alla formazione di un determinato Stato e di una determinata situazione politico-sociale.
D’altra parte, per ritornare al concetto di giacobinismo, mi pare che Gramsci, se da un lato fu probabilmente stimolato alla definizione comprensiva di questo fenomeno storico prima citata dallesempio contemporaneo del bolscevismo e dalla dottrina leninista del partito comunista, dall’altro volle anche affermare che un certo tipo di azione giacobina, o cosidetta giacobina, tendente ad esaurirsi in una prassiGiorgio Candeloro
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insurrezionale, è tipico della rivoluzione borghese e non di quella proletaria. Vi sono nei Quaderni alcuni accenni interessanti, che meriterebbero di essere studiati, sull’origine di quei principi di strategia e di tattica rivoluzionaria, che poi furono teorizzati da Trotzki nella dottrina della « rivoluzione permanente», nella fase storica che va dal 1789 al 1848 e sul loro esaurirsi nel 1870-711. Comunque in Gramsci è molto chiara la coscienza della maggior complessità della rivoluzione proletaria rispetto alla rivoluzione borghese, soprattutto per quel che concerne il problema delle alleanze della classe rivoluzionaria. ,
Da un’attenta lettura degli scritti di Gramsci si può trarre infatti questa conclusione, che del resto è tipicamente marxista-leninista : in determinate condizioni storiche, quali erano quelle dell'Italia del Risorgimento in cui prevalsero i problemi essenzialmente politici deH’indi-pendenza nazionale e dell'unità statale, una rivoluzione borghese è possibile in una forma limitata (ma in tutte le rivoluzioni borghesi c’è sempre un certo limite rappresentato dalla maggiore o minore sopravvivenza di residui del passato), senza l’alleanza con i contadini e in genere con le masse popolari, ma coll’alleanza di vecchie forze preesistenti; invece una rivoluzione proletaria non è possibile senza l’alleanza con le masse contadine ed eventualmente con altri ceti e strati sociali. Insom-ma la rivoluzione borghese può, anzi deve, fermarsi ad un punto più o meno avanzato del suo sviluppo per far fronte alla nuova classe rivoluzionaria, mentre la rivoluzione proletaria non può fermarsi prima di essere giunta ad una trasformazione completa e definitiva della società. Essa perciò ha una linea di sviluppo complessa che fu sommariamente ma vivacemente delineata da Marx in un famoso passo dello scritto sul Diciotto Brumaio di Luigi Bonaparte.
Ma il concetto gramsciano del giacobinismo può essere chiarito anche dai giudizi che Gramsci dà su tre uomini del Risorgimento, nei quali egli trova degli spunti giacobini: Giuseppe Ferrari, Carlo Pisa-cane e Vincenzo Gioberti.
Il giudizio su Ferrari mi sembra particolarmente esatto. Secondo Gramsci, il giacobinismo storico neH’opera di Ferrari si è « diluito e astrattizzato ». Giustamente egli nota come le grandi opere del Ferrari
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siano degli zibaldoni « f arraginosi e confusi » v mentre notevoli intuizioni politiche appaiono negli scritti polemici o d’occasione. Comunque osserva che il Ferrari si rese conto deH’importanza del problema agrario, ma non seppe elaborare in proposito un programma politico vero e proprio, ma solo una utopistica delineazione della necessità della « legge agraria » ; aggiunge che la posizione politica del Ferrari fu indebolita dal federalismo e dal fatto che era troppo « infranciosato », cioè troppo
influenzato da certe tendenze caratteristiche della politica francese. Sfuggi imsomma al Ferrari l'importanza dei due problemi dell'unità e dell’in diipendenza, sicché la sua azione politica rimase praticamente sterile. L’errore di Ferrari fu essenzialmente quello di applicare alla realtà italiana « schemi francesi » che rappresentavano una situazione più avanzata di quella italiana. «Il Ferrari — dice Gramsci — non vedeva che tra la situazione italiana e quella francese mancava un anello intermedio' e che proprio questo anello importava saldare per passare a quello successivo. Il Ferrari non seppe “ tradurre ” il francese in italiano e perciò la sua stessa 64 acutezza ” diventava un elemento di confusione, suscitava nuove sette e scolette ma non incideva nel movimento reale » 1. Mi sembra che queste parole chiariscano bene in che senso Gramsci intende il valore della comparazione tra situazioni diverse.
Gli elementi giacobini del pensiero di Piisacane riguardano essenzialmente, secondo Gramsci, il problema militare, cioè il problema della mobilitazione delle masse popolari per la guerra nazionale rivoluzionaria; a questo spunto .iniziale si sarebbe poi aggiunto un elemento di tipo populista: Gramsci avanza (infatti l’ipotesi di un’influenza diretta o indiretta su Pisacane da parte di Herzen o di altri rivoluzionari russi; comunque nota una somiglianza tra l’impostazione del problema agrario in Pisacane e nei populisti.
Più interessante, complesso, anche se in una certa misura contraddittorio è il giudizio di Gramsci sul Gioberti, che si può ricavare da parecchi passi dei Quaderni. Nelle opere gioberti'ane, soprattutto nel Rinnovamento civile d’Italia, Gramsci nota due importanti spunti di giacobinismo. Uno riguarda la funzione del Piemonte, che è vista dal Gioberti in relazione al problema della « radunata rivoluzionaria », cioè come una
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specie di surrogato della funzione che nella Rivoluzione francese ebbe Parigi, come centro di raccòlta e di direzione delle forze rinnovatrici. L’altro riguarda la funzione dirigente degli intellettuali in senso nazionale-popolare, che Gioberti svolge soprattutto nel Rinnovamento quando parla del « primato dell’ingegno » e quando afferma che una letteratura « non può essere nazionale se non è popolare ». Gioberti, secondo Gramsci, offre qui una soluzione « formale » del problema di una letteratura nazionale-popolare, come contemperamento di conservazione e di innovazione, come «classicità nazionale». Giustamente poi Gramsci osserva che Gioberti non potè sviluppare praticamente questi spunti giacobini, perché non ebbe la possibilità di dirigere un partito e per altre circostanze particolari,
D’altra parte Gramsci nota anche che nella filosofìa giobertiana la dialettica è concepita come contemperamento degli opposti e stabilisce un rapporto tra Gioberti e l’hegelismo di destra, sicché il Gioberti avrebbe avuto in Italia una funzione non molto diversa da quella avuta in Francia dal Proudhon; un elemento giobertiano sarebbe poi sempre rimasto oeU’idealismo italiano. Questo giudizio non appare ben coordinato con l’altro sul giacobinismo giobertiano; la cosa si spiega se si tiene conto che questi appunti di Gramsci appartengono a vari momenti e furono stesi in rapporto a problemi molto diversi.
Comunque è chiaro che Gramsci si rese perfettamente conto della complessità deHopera del Gioberti, politica e filosofica, e comprese che il Gioberti non può essere considerato semplicemente come un rappresentante del moderatismo, poiché presenta degli aspetti radicalmente innovatori accanto a spunti conservatori e quasi reazionari.
Ho indicato questi giudizi gramsciani su uomini del Risorgimento come esempi di problemi che meriterebbero di essere affrontati in modo nuovo allo scopo di raggiungere una più chiara conoscenza del Risorgimento e in generale di tutta la storia d’Italia. Quegli studiosi di storia, che non si appagano del problemismo minuto o delle interpretazioni tradizionali o dell’astratto ideologismo, possono trovare neiropera di Gramsci un insegnamento di grande valore per condurre una ricerca storica animata da uno spirito rigorosamente scientifico e al tempo stesso da una chiara prospettiva di rinnovamento e di progresso politico e sociale. | |
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