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LA MANCATA RIVOLUZIONE AGRARIA NEL RISORGIMENTO E I PROBLEMI ECONOMICI DELL’UNITA
È opinione diffusa, e Mia ribadita di recente Rosario Romeo1, che Il pensiero storiografico di Gramsci sia incentrato sulla tesi del Risorgimento « come rivoluzione agraria mancata ». In Gramsci non è veramente proposta nessuna interpretazione semplicemente negativa del movimento unitario nazionale; ed è, mi sembra, solo un idolo polemico questo di una visione gramsciana del Risorgimento come tradimento o fallimento: anche se era legittimo che Gramsci cercasse di definire, rispetto alle società borghesi moderne, le particolarità della formazione storica costituitasi nel corso del moto nazionale.
Si è scritto che l’interesse politico pratico portò Gramsci a cercare nel Risorgimento le origini e il significato della presenza di un potenziale rivoluzionario nelle campagne italiane 2. Non sottovaluto i motivi che dànno vita alla ricerca gramsciana; ma nella parte centrale, almeno, dei suoi appunti quel che Gramsci si pone non è, essenzialmente, il problema dei rapporti sociali nelle campagne e della loro mancata trasformazione. Questo è, in certo senso, presupposto alla sua indagine, che si svolge da un diverso angolo visuale. Poiché le masse contadine non appoggiarono il movimento unitario (e non soltanto per l’assenza di una rivoluzione
1 R. ROMEO, « La storiografia politica marxista », in Nord e Sud, a. Ili, n. 21 (ag. 1956), p. 11 sgg.
2 L. Cafagna, « Intorno al “ revisionismo risorgimentale ”», in Società, a. XII, n. 6 (die. 1956), p. 1021.370
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agraria: anche per complessi motivi d’ordine culturale e religioso, che Gramsci non trascura di indicare), e data la ristrettezza della base popolare e la debolezza delle forze attive del movimento nazionale, come è potuto avvenire che si sia formata una direzione politica capace, in sostanza, di portare questo movimento alla vittoria? Tale è, a ben leggere, l’interrogativo principale cui Gramsci cerca una risposta.
Per chiarire il problema, cito dai Quaderni, « bisognerebbe analizzare tutto il movimento storico partendo da diversi punti di vista, fino al momento in cui gli elementi essenziali dell’unità nazionale si unificano e diventano una forza sufficiente per raggiungere lo scopo, ciò che mi pare avvenga solo dopo il ’48 » \ Dove è evidente che l’indagine è orientata sugli aspetti non negativi, ma positivi e risolutivi del movimento nazionale. Nel quadro di una situazione internazionale favorevole, ed a partire dalla sconfitta della destra e del centro politico piemontese e dall’avvento dei moderati, lo Stato piemontese e la dinastia dei Savoia furono le fondamentali forze motrici delFUnità. Al centro dell’analisi sono i moderati, il metodo e le forme della loro egemonia politica ed intellettuale, la rottura, da essi operata, dello schieramento anti-unita-rio. Il Risorgimento, riconosce Gramsci, fu un « miracolo », non alla maniera retorica e mitica della agiografia patriottica, ma nel senso più concreto che un movimento di debole consistenza intima andò a segno per il concorso di circostanze esterne, sfruttate da uomini di eccezione.
Un quesito che può sorgere, oggi, è se le forze unitarie ebbero cosi debole consistenza oggettiva come Gramsci pensava. Egli partiva, come mi sembra palese, dall’idea di una radicale arretratezza dell’econo-mia italiana: « il problema — di conseguenza — non era tanto di liberare le forze economiche già sviluppate dalle pastoie giuridiche e politiche antiquate, quanto di creare le condizioni generali perché queste forze economiche potessero nascere e svilupparsi sul modello degli altri paesi » 2. Il Demarco, raccogliendo nuove prove degli sviluppi economici pre-unitari, ha tratto diverse conclusioni: la « esigenza unitaria — sono sue parole — scaturiva dalle contraddizioni tra lo sviluppo della vita economica- e sociale da un lato e gli ostacoli che ne trattenevano lo
1 R.} p. 44.
2 p. 46.
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slancio e il respiro » \ Il problema è aperto; e non è problema secondario, perché proprio da una valutazione pessimistica, per così dire, dell’economia italiana fra il 700 e T800 Gramsci deduce la tesi del Risorgimento come fatto in cui gli elementi della direzione politica, di una direzione più « diplomatica » che creativa, prevalgono nell’assenza di una potenza espansiva ed unitaria delle società regionali.
Al centro dell’indagine gramsciana è appunto il momento della direzione politica, e pare strano che ciò sia sfuggito a storici etico-politici : sono i moderati, la validità della loro azione, la dialettica della rivoluzione passiva. Il limite dei liberali cavourriani è che essi « non sono dei giacobini nazionali: essi in realtà superano la Destra del Solaro, ma non qualitativamente, perché concepiscono l’unità come allargamento dello Stato piemontese e del patrimonio della dinastia, non come movimento nazionale dal basso, ma come conquista regia » 2. A questo punto, e in termini di esame dei caratteri e dei limiti della forza dirigente nazionale, si inserisce il problema dei rapporti fra città e campagna, del contenuto di classe della politica agraria dei moderati.
Esisteva nel corso del Risorgimento la reale possibilità di una riforma agraria? Tutta la tesi di Gramsci, a giudizio del Romeo, presuppone l’esistenza « di una “ oggettiva ” possibilità rivoluzionaria, che il partito d’azione, a differenza dei giacobini francesi, non seppe tradurre in atto » 3. Mi sembra che il pensiero di Gramsci sia in proposito meno semplicistico. L’unica possibilità che Gramsci ammette senza riserva è di una « azione sui contadini » da parte delle forze unitaria » 4; per il resto, è circospetto assai. « Nelle Noterelle di G. C. Abba — scrive — ci sono elementi per dimostrare che la quistione agraria era la molla per far entrare in moto le grandi masse » 5. L’accenno è sobrio. Studi posteriori hanno documentato, più che Gramsci forse non pensasse, la
1 D. DEMARCO, «L’economia degli Stati italiani prima deirUnità», in Rassegna storica del Risorgimento, a. XLIV, fase. II-III (apr.-sett. 1957), p. 258. Ma secondo il Luzzatto i progressi compiuti in alcune regioni fra il 1830 e i) 1847 « erano stati annullati dal rapidissimo balzo in avanti che gli Stati più progrediti avevano fatto dopo il 1850 »: G. LUZZATTO, «L’economia italiana nel primo decennio dell’Unità», ibid.9 pp. 260-1.
2 R., p. 46.
3 Romeo, l. c., p. 13.
4 JR., p. 68.
5 R., p. 103.372
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ricchezza dei motivi agrari e contadini del 1860 in Sicilia. Ma proprio in relazione ad alcune manifestazioni del movimento insurrezionale dei contadini siciliani, si rende chiaro il ruolo dei rapporti internazionali nello svolgimento unitario, l’assenza di « autonomia internazionale » dell’Italia, che è fra i costanti punti di riferimento dell’indagine gramsciana.
Non c’era nei dirigenti il moto nazionale, rileva Gramsci, « la stoffa dei giacobini » ; ma subito aggiunge : « cerano in Italia alcune delle condizioni necessarie per un movimento come quello dei giacobini francesi? La Francia da molti secoli era una nazione egemonica: la sua autonomia internazionale era molto ampia. Per l’Italia niente di simile: essa non aveva nessuna autonomia internazionale... Questa assenza di “ autonomia internazionale ” è la ragione che spiega molta storia italiana e non solo delle classi borghesi » \
Altrove indica le ragioni della mancata formazione in Italia di un partito giacobino « nel campo economico, cioè nella relativa debolezza della borghesia italiana e nel clima storico diverso dell’Europa dopo il 1815 » 2. Entro questa cornice, che Gramsci mantiene ben ferma, riesce meglio comprensibile l’idea dell’assenza di giacobinismo nel Risorgimento, di cui è già un accenno nel Labriola 3.
Il termine giacobinismo, di cui Gramsci sottolinea l’uso analogico e improprio, non contiene, di regola, una specifica e rigida caratterizzazione storica, ma esprime un concetto direttivo e quasi uno strumento della ricerca. Sono « giacobini » Robespierre e Cromwell, Gioberti e Machiavelli, Lenin, per tratti generalissimi del loro pensiero e della loro azione politica, consistenti, essenzialmente, nella volontà di collegare la forza dirigente nazionale, borghesia, proletariato, nei diversi momenti, alle masse popolari e, in ispecie, contadine. Gli elementi costitutivi di questa categoria del giacobinismo Gramsci li trae dalla storia della Francia rivoluzionaria 4, ma è cosi lontano dal sovrapporre un mo 1 R., p. 150.
2 £., p. 87.
3 A. Labriola, Discorrendo di socialismo e di filosofia, Bari, 1944, p. 141.
4 Gramsci certamente conosceva l’interpretazione nuova che del giacobinismo veniva elaborata dalla storiografia francese (del Mathiez possedeva in carcere La Revolution frangaise nei tre volumi dell’edizione Colin : G. CARBONE, « I libri del carcere di Antonio Gramsci », in Movimento operaio, a. IV, n. 4, lug.-ag. 1952,Renato Zangheri
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dello giacobino-francese a1la realtà politica del Risorgimento, che scorge appunto nella astratta trasposizione di schemi francesi il limite di Giuseppe Ferrari e la causa della sua sostanziale estraneità al processo unitario.
È decisivo, se non erro, in proposito, il luogo in cui, dopo aver ricordato l’orientamento antifrancese del partito d’azione, e quindi la sua difficoltà ad assimilare la nozione giacobina dell’alleanza con i contadini, Gramsci nota acutamente che il partito d’azione aveva tuttavia « nella storia della penisola la tradizione a cui risalire e collegarsi. La storia dei Comuni è ricca di esperienze in proposito: la borghesia nascente cerca alleati nei contadini contro l’Impero e contro il feudalismo locale... Ma il più classico maestro di arte politica per i gruppi dirigenti italiani, il Machiavelli, aveva anch’egli posto il problema, naturalmente nei termini e con le preoccupazioni del tempo suo » \ Dove è evidente che l’uso metodico del concetto di giacobinismo, nonché distrarre dalla considerazione concreta della storia nazionale, per contrapporvi paradigmi stranieri, giova a questa considerazione e le fornisce strumenti fecondi di ricerca e di giudizio.
A tale stregua, si rende palese l’errore del Romeo, laddove afferma, che il pensiero di Gramsci « si impernia sul raffronto con la politica, agraria dei giacobini francesi », se con ciò si intende, come sembra,, che il raffronto verta su particolari orientamenti e programmi definiti, mentre quel che Gramsci trae positivamente dell’esperienza francese è niente più, ripeto, che la direttiva generale dell’unione rivoluzionaria di Parigi con i contadini, attraverso l’accoglimento delle loro istanze democratiche. E l’errore appare tanto più nocivo, dal momento che il Romeo ne deriva l’idea stupefacente che per giudicare dello sviluppo del capitalismo italiano si debba assumere come termine di confronto, « secondo la logica di tutta la tesi del Gramsci », scrive, la « via francese » di sviluppo del capitalismo, piuttosto che la « via prussiana », o la « via americana ». Che è una contaminazione fra due concetti, quello
p. 670). Negli appunti del carcere sono difatti corretti precedenti giudizi dello spirito giacobino come astratto e antistorico, per i quali vedi, ad es., L'Ordine nuovo, 1919-1920, Torino, 1934, p. 15, e nella raccolta di scritti giovanili pubblicata da Rinascita, a. XVI, n. 4 (apr. 1957), le pp. 146-151.
1 R., p. 74.374
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gramsciano del « giacobinismo » e quello leninista delle « vie di sviluppo del capitalismo », che hanno diversa motivazione e si riferiscono a problemi diversi.
Il Romeo non limita la sua critica a questo punto : indipendentemente dalle reali possibilità di attuazione di una riforma agraria, egli si chiede quali effettive prospettive di progresso una simile alternativa avrebbe offerto all’economia italiana. Il Romeo ha il merito di impostare cosi la discussione nei termini giusti, avvertendo che la questione di una rivoluzione agraria, della abolizione cioè dei residui feudali nei rapporti di lavoro e nel regime fondiario, concerne precisamente lo sviluppo del capitalismo, i problemi economici dell’Italia unita. Di più, intende che alla base dello sviluppo economico moderno è il processo dell’accumulazione del capitale, anche se, come vedremo, non gli sono chiare le condizioni economiche e sociali entro cui l'accumulazione si rende possibile. Si deve dire infine che il Romeo è nel vero quando afferma che, salvo il lavoro del Sereni, gli studiosi marxisti hanno lasciato in ombra la fondamentale problematica del processo di sviluppo capitalistico nell’Italia unita.
Quali dunque le probabili conseguenze sull’economia italiana di una rivoluzione agraria? Essa avrebbe arrestato, a mente del Romeo, l’incipiente sviluppo del capitalismo nelle campagne del nord, colpendo inevitabilmente « anche le forme di più avanzata economia agraria », cioè, se bene intendo, le medie e grandi aziende a salariati, « per sostituirvi un regime di piccola proprietà indipendente » 1. A questo modo si sarebbe contratto « il profitto agrario, che da noi agisce come la molla principale di tutto il processo » dell’accumulazione. Una simile opinione ha due punti d’appoggio: l’uno relativo alle condizioni dell’economia agraria nel Risorgimento, l’altro consistente in un confronto con lo sviluppo dell’economia francese dopo la rivoluzione borghese.
Mi sia permesso di notare che la funzione attribuita al profitto agrario deriva da una idea dell’estensione e dello sviluppo dell’agricoltura capitalistica fortemente esagerata. Le prove addotte dal Romeo si riferiscono a fatti circoscritti e scarsamente significativi. L’esempio del Cavour, che si fa da capitalista agrario imprenditore industriale e finanziere, sarebbe in
1 Romeo, l. c.} p. 19.Renato Zangheri
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qualche modo pertinente solo se si potesse sostenere che la sua attività affaristica fosse finanziata dalla sua azienda agraria. E resterebbe, in ogni caso, un esempio utile a capire il Cavour, la sua formazione, i suoi interessi, più che a rappresentare una situazione generale. Cosi è poco probante della « particolare rapidità » di incremento della rendita fondiaria dopo il ’60 il caso del Vercellese, il cui eccezionale sviluppo agricolo trova limitati riscontri, all’infuori di talune zone della Bassa lombarda, nella Valle padana e nessuno nelle regioni centrali e meridionali. Investimenti, produttività del lavoro, tecnica agraria ed organizzazione della produzione sono stagnanti, per quanto sappiamo, nella maggior parte del paese; stazionari sono i rendimenti unitari delle culture principali. La conduzione capitalistica non ha soppiantato la mezzadria: e per tutto il Risorgimento la questione è appunto della mezzadria, della sua trasformazione in un rapporto capitalistico. Non sappiamo per quale via questa trasformazione si sarebbe attuata, nella eventualità di una riforma, se innalzando il mezzadro alla proprietà o abbassandolo a salariato; e non trovo in Gramsci nessuna previsione che il processo si sarebbe svolto nel senso della formazione di una democrazia rurale, come suggerisce Romeo, confondendo fra riforma agraria e formazione di una proprietà contadina, che ne è un caso particolare; mentre non è poi affatto certo che le leggi del capitalismo, rendendosi più ampiamente operanti nelle campagne, si sarebbero astenute dal sottoporre la nuova proprietà contadina al normale processo capitalistico di differenziazione e di « selezione ».
Certo, fra i molti casi possibili, il più improbabile è quello immaginato dal Romeo, che la trasformazione del rapporto mezzadrile avrebbe arrestato lo sviluppo delle zone capitalisticamente evolute. Lo stesso può dirsi per una soluzione del problema della terra nel Mezzogiorno. Ma in proposito bisogna aggiungere che la difficoltà, prospettata dal Romeo, e secondo cui una piccola proprietà coltivatrice non avrebbe trovato nel Mezzogiorno i mezzi finanziari per sopravvivere, nasce da un evidente difetto di ragionamento. Il Romeo ricorda il cattivo esito delle censuazioni del secolo scorso; ma le censuazioni furono un surrogato mediocre della riforma agraria. Per essere coerente, avrebbe dovuto far l’ipotesi di una riforma vittoriosa; di condizioni, quindi, particolarmente favorevoli, interne e internazionali; di un potere statale sorretto non dai proprietari fondiari, ma da un movimento rivoluzionario dei contadini; di una politica creditizia e fiscale, di una politica della spesa pubblica, di una
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politica culturale orientate secondo gli interessi del blocco sociale dominante, ivi compresi, dunque, i contadini. Queste condizioni mancarono, e si capisce l’esito delle censuazioni, come è comprensibile il monito di Cattaneo che la distribuzione delle terre, senza la necessaria provvista di capitali, era inutile e nociva. Sebbene debba dirsi, contro recenti e,, a mio debole avviso, eccessive valutazioni del realismo cattaneano, che l'economista lombardo era incapace di concepire concretamente le condizioni, politiche e sociali, del progresso agricolo nel Mezzogiorno, profondamente diverse da quelle su cui si erano modellate le sue vedute economiche \ L’agricoltura inglese, cui il Cattaneo teneva l’occhio, e quella stessa della cascina lombarda, seppure in grado diverso, non era libera dal peso della rendita, ma si era resa indipendente da molti e gravi vincoli e impacci ordinariamente imposti dalla proprietà allo sviluppo delle forze produttive agricole. Ivi le condizioni storiche deH’agricoltura erano-determinate, ormai da secoli, dal capitale. Nel Mezzogiorno, invece, i residui feudali nel regime della proprietà terriera influenzavano in modo decisivo la produzione agricola e il sistema agronomico, e la conservazione di questi residui, che improntavano di sé l’intera vita del sud, come causò le maggiori difficoltà nella formazione dei capitali e nelle « occasioni » di investimento, cosi costituì, come Gramsci ha indicato, la base principale della nascita e del progressivo aggravamento, nell’Italia unita, di una questione meridionale.
Ma per tornare alle fonti dell’accumulazione, non vi è dubbio che la « molla principale di tutto il processo » è, nei primi decenni dell’Unità*
1 Cfr. A. BERTOLINO, « I fondamenti delle idee economiche di Carlo Cattaneo», in Studi in onore di Armando Sapori, II, Milano, 1957, p. 1443. È interessante, ad esempio, per giudicare dell’orientamento del Cattaneo sui problemi del finanziamento dello sviluppo economico, la posizione assunta verso la costituzione di un istituto di credito fondiario con capitali misti italiani e francesi, proposta da Gioacchino Pepoli. « Cattaneo — notava in proposito il Pepoli — sostiene che questa è una illusione, che non esistono tutti questi capitali disponibili in Francia, ove l’agricoltura è cosi poco sussidiata, cosi poco favorita; che quindi la Francia non può, di ciò di che essa stessa difetta, soccorrere altrui. Eppure dove si collocano le azioni del nostro prestito? dove le obbligazioni delle nostre ferrovie e specialmente delle meridionali? in gran parte si collocano in Francia; dunque i capitali francesi vengono qui ». Dove il Pepoli, uomo di modeste qualità e di orientamento politico certo meno avanzato, mostra di valutare la situazione in modo indubbiamente più realistico del Cattaneo. Cfr. Annali della Società agraria di Bologna, III (1863), p. 69.Renato Zangheri
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la spesa pubblica, cui lo Stato fa fronte con l’inasprimento del prelievo fiscale e l’emissione di cartelle della rendita pubblica. Agli inizi del ’900 Nitti osservava che in Italia, a differenza degli altri paesi, « la rendita sovrasta per importanza tutti gli altri valori mobiliari uniti insieme » \ In questo quadro, è palese la funzione decisiva del capitale straniero, che detiene, secondo le valutazioni più caute, più d’un terzo dei titoli di Stato2. A questa partecipazione imponente vanno aggiunti gli investimenti diretti in alcuni settori chiave deireconomia italiana, come quello delle concessioni ferroviarie, e in genere dei servìzi pubblici, e della banca. Secondo il Lanza, il capitale straniero impiegato in imprese di trasporto, industriali e commerciali italiane raggiungeva il miliardo di lire3, la quale cifra risulta meglio significativa se si pensa che essa è quasi doppia dei depositi per risparmio compiuti in Italia alla fine del periodo 1872-74 4. « Per molti anni — scrive Nitti, riferendosi particolarmente al primo ventennio unitario — il capitale straniero in Italia ha avuto una importanza prevalente: non solo per il gran numero di titoli di Stato collocati all’estero, ma perché tutte le grandi imprese di traffico, di comunicazione, di trasporto erano straniere o prevalentemente straniere. La borsa di Parigi ha regolato per molti anni tutte le borse italiane » 5. Come il Romeo possa pensare che « rendite e profitti agrari danno vita a una corrente che irrora tutta l’economia urbana » 6, è difficile capire, tanto questo è lontano da ogni ragionevole interpretazione dei dati disponibili.
Nel periodo in esame la rendita è indubbiamente una parte cospicua del reddito nazionale. Ma qui si tratta, come evidente, dell’accrescimento e dell’investimento di capitali; e la rendita, capitale potenziale, non si converte spontaneamente in capitale produttivo. Il problema è appunto di spiegare come avvenga che il danaro esistente nel
1 F. S. NITTI, La ricchezza dell’Italia, Torino-Roma, 1905, p. 152.
2 G. LUZZATTO, Storia economica dell’età moderna e contemporanea, IL L’età contemporanea, Padova, 1955, p. 379.
3 G. LUZZATTO, « L’economia italiana nel primo decennio dell’Unità », c., p. 272.
4 S. GOLZIO, Sulla misura delle variazioni del reddito Torino, 1951, p. 58.
s NITTI, Il capitale finanziario in Italia, Bari, 1915, p. 17.
6 Romeo, l. c., p. 24.378
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Mezzogiorno, grande o meno che ne sia il volume, stenti a trasformarsi in capitale produttivo. È da tener presente, naturalmente, il rastrellamento operato dallo Stato dei capitali monetari formatisi nel Mezzogiorno. Si deve tuttavia considerare, in proposito, che la rendita pubblica posseduta nell'Italia meridionale e insulare non tocca alia fine deH’800 il 18 % del totale, mentre la proporzione del risparmio appena raggiunge il 15 % nei primi anni del ’900 \ E quanto ad « irrorare » l’economia urbana, un esperto osservatore nota che il Banco di Napoli, il massimo istituto di credito meridionale, « non giunge... ad impiegare neanche le forze naturali delle quali dispone » : esso « lascia inerte » il denaro depositato2. Quel che manca è la fiducia, lamentano i contemporanei. Mancano, in realtà, le condizioni specifiche, strutturali, deiraccumulazione, o sono presenti in misura limitata. Fondamentalmente, per il particolare carattere dei residui feudali nel Mezzogiorno, è insufficiente e ristretto il mercato interno per la grande industria3.
Il Romeo non nega che il prezzo del « potenziamento forzato dell’economia capitalistica cittadina del nord » fu assai caro : « tutto il processo — scrive — si svolge a lungo su una base di compromesso con gli elementi semifeudali del vecchio mondo agrario, specie meridionale », condannando il Mezzogiorno ad una netta inferiorità economica, la quale tuttavia si presentò « per un certo periodo, e sotto certi aspetti si presenta tuttora, come una condizione storica dello sviluppo industriale del nord ». Il che è esatto, salva l’avvertenza che si tratta non dello sviluppo industriale del nord in generale, ma di quel tipo di sviluppo, circoscritto ad un particolare mercato, basato su un determinato metodo di accumulazione, vincolato cioè a premesse ed a condizioni in seno alle quali erano annidate forze limitatrici e ritardatrici.
Un esame delle particolarità del trend industriale italiano potrebbe ampiamente confermare questo giudizio. Sarebbe ad esempio suscettibile di interessanti considerazioni una analisi della distribuzione settoriale del
1 NOTI, La ricchezza dell’Italia, cit., pp. 145-153.
2 G. MlRONE, « Relazione sull’andamento dei servizi del Banco di Napoli », in Annali del ministero di agricoltura, industria e commercio, 1877, voi. 106, p. 69.
3 Questo punto di vista è ignorato o trascurato da S. B. CLOUGH - C. LIVI, « Economie growth in Italy : an analysis of thè uneven development of North and South», in The Journal of economìe history, voi. XVI, n. 3 (sept. 1956), pp. 334-349.Renato Zangheri
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potenziale produttivo V Mi limiterò ad alcuni rilievi sul ritmo dello sviluppo. Alexander Gerschenkron, ohe ha costruito un indice della produzione industriale italiana per gli anni 1881-1913, calcola per questo periodo un tasso di incremento medio annuo del 3,8% con una punta del. 6,7% per gli anni 1896-1908 di massimo slancio. Tralasciamo in questa sede di esaminare l’attendibilità dell’indice in questione, che in ogni caso non sembra gravemente discordante da misure elaborate in precedenza da studiosi italiani2. Commenta il Gerschenkron: «considerando da un lato il forte ritardo del processo di industrializzazione italiano, e dall’altro lato osservando periodi similari in altri paesi, il saggio di sviluppo industriale in Italia tra il 1896 e il 1908 risulta più basso di quanto ci si sarebbe potuto aspettare ». L’industria svedese registrò fra il 1888 e il 1906 un saggio annuale di incremento di quasi il 12%; quella giapponese fra il 1907 e il 1913 dell’8,5%; quella russa fra il 1880 e il 1890 di più dell’8%. D’altronde lo sviluppo industriale italiano, « mentre fu immune da gravi flessioni, — nota il Gerschenkron — sembra aver proceduto in modo meno uniforme e più a “ stratti ” denotando forse uno stato delicato nella fiducia del pubblico e maggiori incertezze ed esitazioni da parte degli imprenditori ». È opinione del Gerschenkron che la causa di ciò sia da ricercare principalmente nella « inettitudine degli indirizzi governativi di industrializzazione », di cui la tariffa doganale del 1887 sarebbe, con la sua incongruenza, la prova più persuasiva. A proposito in particolare del dazio sull’importazione del grano, che per aumenti successivi divenne nel 1895 il più alto fra quelli dei maggiori paesi europei, egli nota che l’Italia « non avrebbe mai dovuto esporre la tenera pianta del suo sviluppo industriale ai rigori di un clima protezionistico in agricoltura ». Ma a ben vedere, la tariffa granaria era tutt’altro che « incongrua », perché consentiva ai grandi proprietari terrieri di porre la rendita al riparo della crisi agraria persistente, di conservare le antiquate strutture agrarie e fondiarie: e insomma era
1 Cfr. V. Parenti - G. Bloch, « .La production industrielle en Europe occidentale et aux Etats-Unis de 1901 à 1955 », in Moneta e credito, voi. IX, n. 36 (1956), p. 275 sgg.
2 A. Gerschenkron, « Notes on thè rate of industriai growth in Italy. 1881-1913», in The Journal of economie history, voi. XV, n. 4 (dee. 1955), pp. 360-375, ed ora, con aggiunte, in Moneta e credito, voi. IX, n. 33-34 (1956), pp. 50-63.380
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espressione di un accordo fra industriali settentrionali, tessili e siderurgici, e latifondisti meridionali1. Un accordo che può anche apparire, sulla scorta di un astratto schema di sviluppo, « incongruo » alle esigenze dell’industrializzazione, ma che fu in effetti la forma imposta a quel tipo di industrializzazione, stentato e distorto come esso riuscì. E del resto, il prezzo dell’espansione industriale, di cui sarebbe assurdo negare la portata positiva nella storia d’Italia, fu non soltanto l’inferiorità economica, e si deve aggiungere civile, del Mezzogiorno, ma ancora l’emigrazione di massa, la disoccupazione cronica, ecc. Un bilancio del capitalismo italiano non può prescindere correttamente da queste voci e voglio dire anche un bilancio strettamente economico.
Per contro, il Romeo non ritiene che la Francia abbia tratto alcun vantaggio da una diversa, democratica soluzione della questione agraria al tempo della rivoluzione borghese, e giunge anzi a credere che a quella soluzione debbano ricondursi le più tarde difficoltà dell’agricoltura francese. La scelta dell’esempio francese deriva, come si comprende, dalla logica della posizione del Romeo, o, per dir meglio, dall’errore logico su cui la sua posizione critica è costruita, e che precedentemente abbiamo additato. « Giacobinismo », « modello francese », ecc. sono per Gramsci canoni di ricerca piuttosto che termini di confronto, ed è peraltro fortemente dubbio che paragoni sia in generale legittimo istituire fra processi nazionali diversi, se non con le più rigide cautele.
Intanto, un giudizio di qualche attendibilità dovrà fondarsi su un esame d’assieme e non su aspetti particolari, e dovrà trascurare sviluppi più recenti, che oltrepassano il quadro storico in esame. Assumere, ad esempio, come il Romeo assume, a prova del carattere scarsamente progressivo della politica agraria giacobina, il maltusianesimo economico a cui oggi è costretta la famiglia del piccolo proprietario francese, equivale, mi sia permesso, a ricercare nelle disavventure di John Law la spiegazione delle difficoltà monetarie in cui è impigliato il signor Gaillard. Cosi l’asserita stagnazione dell’agricoltura francese, a cui del resto corri 1 Sul significato e sul contenuto di classe del protezionismo, notevoli rilievi in G. CAROCCI, Agostino Depretis e la politica interna italiana dal 1876 al 1887, Torino, 1956, p. 439 sgg. Si è del resto osservato giustamente che le misure protettive non avvantaggiarono l’agricoltura : M. BANDINI, Cento anni di storia agraria italiana, Roma, 1957, pp. 34-41.Renato Zangheri
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sponde una analoga stagnazione dell’agricoltura italiana, oltreché a cause operanti all’interno del settore agricolo, dovrà riferirsi allenterò corso del capitalismo francese, alla funzione che il risparmio formato nell’agricoltura ebbe nel finanziamento dello sviluppo economico non solo francese, ma europeo e mondiale, e cosi via1.
Il rilievo può valere anche per l’agricoltura inglese, che ha avuto fra il 700 e l’800 il suo travolgente sviluppo, ma anche, in epoca più vicina, la sua paralisi e la sua rovina, per il sopravvento di altre forme di attività economica e speculativa, sicché nel 1946 la Gran Bretagna dipendeva per la metà del suo fabbisogno alimentare dai rifornimenti esteri 2.
Per scendere poi ad una verificazione statistica della tesi del Romeo, e fatte le debite riserve sulla omogeneità dei dati disponibili, è evidente che l’agricoltura francese e italiana presentano un andamento pressoché concorde fino agli anni precedenti la prima guerra mondiale, che sono gli anni sui quali è lecito istituire qualche confronto. Secondo gli indici « a popolazione costante » calcolati dal Dessirier, fatti pari a cento la produzione del 1913, la produzione italiana era nel 1880 di 77 e quella francese di 80. A volersi spingere fino alla vigilia della grande
1 È del resto dubbio che il nuovo assetto fondiario non abbia avuto, dopo la rivoluzione, alcun effetto di progresso sull’agricoltura francese, come asserisce il Romeo. Si vedano, fra gli altri, in contrario: J. H. CLAPHAM, The economie deve-lopment of France and Germany. 1815-1914, Cambridge, 1955, p. 21 sgg.; A. Cha-BERT, Essai sur les mouvements des revenus et de l’activité économique en France de 1798 à 1820, Paris, 1949, p. 56. Il movimento fondiario stesso ebbe sviluppi diversi da regione a regione : in alcune, piccolo possesso contadino e piccola coltura sono fortemente diffusi già prima della rivoluzione; in altre, la « réaction sei-gneuriale » del sec. XVIII ha portato alla ricostituzione di grandi patrimoni nobiliari ed ecclesiastici. E se la rivoluzione, con la vendita dei beni nazionali « a changé beaucoup de propriétés de mains; elle ne les a qu’assez faiblement morce-lées » : M. Bloch, Les caractères originaux de Vhistoire rurale frangaise, Paris, 1952, p. 147.
2 La parte dell’agricoltura nella formazione del reddito nazionale è caduta in Inghilterra da circa il 17 al 6 per cento, fra il 1867-9 e il 1911-3: E. M. OjALA, Agricolture and economie progress, London, 1951, p. 66. Negli anni precedenti la seconda guerra mondiale la dipendenza alimentare dall’estero era ancor più forte che nel periodo immediatamente successivo, come mostrano i dati analitici raccolti da R. J. Hammond, Food, 1, The growth of a policy, London, 1951, p. 394 (History of thè second world war. United Kingdom civil series, ed. W. K. Hancock). Sul basso impiego di mano d’opera salariata nell’agricoltura inglese, si veda: MlNISTRY OF AGRICULTURE AND Fisheries, National farm survey of England and Wales. A summary report, London, 1946, p. 48.I
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crisi, il confronto riuscirebbe addirittura svantaggioso per l’Italia, il cui indice, a differenza di quello francese, non supera fino al 1927 la quota del 1913 \
Lo stesso esame compiuto dal Romeo della evoluzione della composizione professionale della popolazione dimostra il contrario dell’assunto. La tendenza alla diminuizione della popolazione agricola sul totale della popolazione attiva, caratteristica dei paesi industrialmente sviluppati, in Italia si verifica difficoltosamente. Dal 1871 al 1921 la percentuale della popolazione attiva agricola è ferma fra il 57 e il 54, e scio nel 1931 scende al 46,6. Nello stesso anno, in Francia è del 35,62.
Siamo peraltro giunti ad un’epoca, quella contemporanea, in cui si affermano caratteri nuovi del capitalismo mondiale, si attua una nuova ripartizione dei mercati, i movimenti di capitali acquistano diverso significato, e insomma i nuovi dati perdono ogni aspetto di comparabilità. Resta tuttavia, in questo quadro, e s’aggrava, l’inferiorità del capitalismo italiano nella competizione internazionale. Per giungere ai nostri giorni, e seguendo un confronto che, in verità, non offre ormai più elementi probatori, il volume della nostra produzione industriale sul totale deH’Europa occidentale è del 9%, mentre il volume di quella francese è del 14%; il prodotto industriale per abitante, fatto pari a cento il prodotto medio dell’Europa occidentale nel 1955, è di 55 per l’Italia e di 92 per la Francia 3. I rendimenti unitari dell’agricoltura italiana restano inferiori a quelli pur bassi dell’agricoltura francese, e gravemente inferiori a quelli dell’agricoltura olandese, belga, danese, inglese, tedesca. Nonostante il crescente impiego di macchine, l’agricoltura italiana contava nel 1952 81.000 trattori, contro i 178.000 dellagricoltura francese4.
1 J. DESSJRIER, « Indices comparés de la production industrielle et de la production agricole en divers pays de 1870 à 1928 », in Bulletin de la statistique générale de la Trance et du service d’observation des prix, t. XVIII, fase. I (oct.-déc. 1928), p. 105.
2 G. Medici - G. Orlando, Agricoltura e disoccupazione, I. I braccianti della Valle padana, Bologna, 1952, p. 14, e cfr. F. Coppola D’Anna, « Le forze di lavoro e il loro impiego in Italia », in Commissione parlamentare di inchiesta sulla disoccupazione, La disoccupazione in Italia, Studi speciali, voi. IV, t. 2, Roma, 1953, p. 38 sgg.
3 Parenti - Bloch, l. c., pp. 261-288.
4 E. Sereni, Vecchio e nuovo nelle campagne italiane, Roma, 1956, pp. 249-50; Atti del Convegno nazionale sulla meccanizzazione dell’agricoltura nel-reconomia italiana (Cremona, 20 settembre 1953), Bologna s. d., p. 172.Renato Zangheri
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Quanto poi alla credenza del Romeo che l’inferiorità economica del Mezzogiorno sia stata una condizione « temporanea » dello sviluppo industriale del nord, « destinata ad essere rovesciata dallo stesso sviluppo interno dell’industrialismo settentrionale», si deve dire che ciò è vero solo nel senso che l’inferiorità meridionale nasce nel corso dello sviluppo della società capitalistica, che è una formazione storica, instabile, non permanente, e nel proprio seno alleva le forze non — come sembra credere il Romeo — della sua indefinita perfettibilità, ma del suo antagonistico superamento. In realtà, la lunga disamina che il Romeo ha fatto delle idee gramsciane sul Risorgimento ha una origine pratica. Quel che a lui preme, è dimostrare la razionalità dello svolgimento unitario e, per conseguenza, l’attuale validità dei suoi effetti. In questa confusione del presente col passato sta il limite generale delle sue critiche \
1 Bisogna tuttavia dire che il Romeo, quando abbandona il terreno infido della polemica pratica, non sa sottrarsi, nella sua probità di studioso, ai criteri di indagine che Gramsci ha fatto valere nella storiografia contemporanea. SÌ veda, ad esempio, il bel saggio su La signoria dell’abate di Sant’Ambrogio di Milano sul comune rurale di Origgio nel sec. XIII, che appare ora nella Rivista storica italiana, a. LXIX (1957), fase. IV, particolarmente alle pp. 504-5, dove il Romeo osserva che la signoria milanese dei Della Torre non portò a fondo la lotta antifeudale nel contado, per concludere : « La mancanza di un concreto sostegno nel contado — che non si seppe o non si volle trovare nei rustici — rende assai più difficile alla pur potente città il controllo effettivo del dominio ». Che è, nella sostanza, niente di diverso, metodologicamente, da quel che è stato definito come il « mancato giacobinismo » della borghesia risorgimentale. | |
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