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tipologia: Analitici; Id: 1543190


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Tipologia Documento di Convegno
Titolo [I Documenti del convegno. Appunti per le relazioni e Comunicazioni] R. Dal Sasso, Il rapporto struttura-poesia nelle note di Gramsci sul decimo canto dell'Inferno
Responsabilità
Dal Sasso, Rino+++
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Rino Dal Sasso
IL RAPPORTO STRUTTURA-POESIA NELLE NOTE DI GRAMSCI SUL DECIMO CANTO DELL'INFERNO
1. Nella lettera del 26 agosto del 1929 Antonio Gramsci promette a Tatiana Schucht una « nota dantesca » a proposito di una sua « piccola scoperta » sul X canto dell'Inferno: uno spunto critico, individuato molti anni addietro, era giunto a maturazione 1.
L'interesse di Gramsci per il X canto ha, infatti, una storia non breve: lo accompagna, si può dire, lungo tutte le tappe della sua formazione intellettuale. Anche.se solo verso il 1929 esso prende corpo e si inserisce nella piú completa problematica gramsciana, con molta probabilità lo spunto risale ai tempi degli studi universitari. E non a caso, pensiamo, quando in carcere riprende l'indagine sul X canto il suo pensiero subito ricorre a Umberto Cosmo, col quale svolge un'affettuosa ma ferma polemica, al quale invia la « nota dantesca » e che vorrebbe rivedere per poter impegnare ancora qualcuna « di quelle discussioni che facevamo talvolta negli anni di guerra passeggiando di notte per le vie di Torino » 2. Appunto agli ultimi tempi della prima guerra mondiale risale il primo scritto (a nostra conoscenza) in cui Gramsci accenni esplicitamente a questa questione.
Se ne ricorda Gramsci una decina d'anni dopo la sua comparsa sul-l'Avanti!, in carcere: « nel 1918, in un " Sotto la mole " intitolato
1 L. C., p. 82.
2 L. C., pp. 132-3.
124 1 documenti del convegno
Il cieco Tiresia è pubblicato un cenno dell'interpretazione data in queste note della figura di Cavalcante 1 ».
Lo spunto a quel corsivo era stato offerto dalla notizia che un ragazzo di un paesello delle Marche, e una fanciulla ricoverata nella Pia Casa Cottolengo, erano diventati ciechi appena dopo aver profetato che la guerra sarebbe finita entro il 1918. Non passava anno dallo scoppio della guerra, osservava Gramsci, senza che qualcuno, frate o laico, non profetasse la fine imminente del conflitto: « una profezia all'anno, una pace all'anno ». Ma in questo caso (continua Gramsci), dell'uso non certo disinteressato si è impadronito lo spirito popolare, e l'ha abbellito « della ingenua poesia che vivifica le sue creazioni spontanee. La qualità di profeta fu ricongiunta con la sventura della cecità... Il bambino di °stria, la fanciulla della Pia Casa Cottolengo, sono appunto due canti della poesia popolare: poesia, niente altro che poesia ».
Ma lo spirito popolare si ricongiunge sempre, se pure inconsciamente, a una secolare tradizione, di folklore e letteraria, nella quale « il dono della previsione è sempre connesso con l'infermità attuale del veggente, che mentre vede il futuro non vede l'immediato presente, perché cieco » z.
Ed è una connessione, nota Gramsci, che « implica un principio di pensiero di giustizia » , « compensazione ineluttabile che la natura domanda alle sue concessioni » : una enorme esperienza » umana si racchiude quindi in questo rapporto fra qualità profetiche e cecità, una esperienza che se solo « la tradizione popolare poteva riuscire a provare e concretare », raggiunge anche la poesia vera e propria, la poesia colta.
Si veda il mitico Tiresia: primo passo dell'affiorare alla cultura di questa esperienza antica e collettiva. La « limpida chiarità del suo pensiero era chiusa in un corpo opaco » : e già in questo riflette lo spirito della tradizione popolare. Egli è cieco, immediata è in lui la connessione fra profetismo e non-visione del presente. Il suo dramma è di plastica evidenza: fisico, prima e piú che interiore. Con Cassandra e Cavalcante, invece, già si entra nel mondo della cultura: il loro dramma si è fatto intimo, individuale, anche se la tradizione popolare è pur sempre
1 L. V. N., p. 43.
2 L. V. N., p. 43.
125
Rino Dal Sasso
rintracciabile: « Farinata e Cavalcante sono puniti dell'aver voluto troppo vedere nell'al di là, uscendo fuori dalla disciplina cattolica: sono puniti
con la non conoscenza del presente. Ma il dramma di questa posizione
m
è sfuggito alla critica. Farinata è ammirato per il plastico atteggiarsi
della fierezza... Cavalcante è trascurato: eppure egli è colpito a morte da una parola: egli ebbe, che gli fa credere suo figlio essere morto. Egli non conosce il presente: vede il futuro e nel futuro il figlio è morto: nel presente? Dubbio torturante, punizione tremenda in questo dubbio, dramma altissimo che si consuma in poche parole ».
2. La « nota dantesca » del '29 si trova dunque in nuce nel corsivo dell'Avanti!. Ma già allora era un punto di arrivo di una ricerca precedente e di una intuizione fruttuosa. Ma è possibile stabilire con certezza il momento in cui Gramsci comincia a interessarsi al X canto e alla questione ad esso collegata?
Gramsci stesso, sia nelle Lettere che nei Quaderni, cerca di ricostruirne la storia, dalle soglie del periodo univesitario. E ricorda che l'argomento era stato tema di discussioni « negli anni passati », mentre a proposito di uno dei problemi che, come vedremo, stanno proprio al centro dell'indagine, il problema dell'inespresso, egli si rifà al corso di storia dell'arte tenuto da Toesca nel 1912, oltre, in genere, all'autorità e all'insegnamento di Cosmo: « Ricardo che la prima volta pensai a quella interpretazione leggendo il ponderoso lavoro di Isidoro Del Lungo sulle Cronache fiorentine di Dino Compagni, dove il Del Lungo per la prima volta fissò la data della morte di Guido Cavalcanti » 1.
Si tratta dell'opera Dino Compagni e la sua Cronica (la cui terza parte era apparsa nel 1887): ma la relazione è ancora indiretta perché, come nota Gramsci, il Del Lungo non aveva collegato la datazione della morte di Guido con il X canto 2. Benché sia impossibile stabilire la data esatta della lettura gramsciana, essa è comunque anteriore al 1918. La definizione del problema si ha invece con sicurezza, sempre per ammissione di Gramsci, quand'egli può leggere La poesia di Dante di Croce.
1 L. C., p. 166.
2 L. V. N., p. 18.
126 I documenti del convegno
Quando? Anche questo è difficile stabilirlo. Tra i libri del carcere si trova la terza edizione dell'opera crociana, del 1922. A Turi il volume deve per forza essere entrato dopo il luglio del 1928, un anno prima dei primi appunti sulla questione. Ma se si tiene presente che dell'argomento egli aveva parlato in una lettera di « molto tempo » anteriore a quella citata del 26 agosto 1929, e che in quest'ultima è già ben definita la prospettiva critica dell'indagine 1, si può dedurre che il libro di Croce è stato letto nei primi tempi dell'arrivo a Turi. E certo, comunque, che tale lettura gli ha permesso di modificare la prospettiva critica precedente, spingendolo a rivedere e a riprendere l'argomento.
Si veda nella citata lettera alla cognata: « recentemente e da altro
punto di vista ripensai a questo spunto, leggendo il libro di Croce sulla poesia di Dante, dove l'episodio di Cavalcante è accennato in modo da far capire che non si tiene conto del "contrappunto" di Farinata » 2.
Fissata in tal modo la propria visuale critica, Gramsci intensifica la lettura di saggi su Dante: La vita di Dante di Cosmo, gli studi desancti-siani, articoli e scritti di Russo, del Romani, di Barbi, Morello ecc.3. Il riassunto della « nota dantesca » lo invia poi alla cognata, perché lo sottoponga al Cosmo, due anni dopo il primo annuncio, con la lettera del 21 settembre 1931. La risposta di Cosmo gli arriverà l'anno seguente e ne dà ricevuta con la lettera del 21 marzo 1932. La risposta è trascritta. nei Quaderni, insieme a una sua rapida riserva 4: altri problemi lo occupano e la salute sempre piú malferma lo costringe a concentrare le forze sui temi centrali della sua ricerca. Tuttavia, ancora nell'aprile del 1933, in calce a una lettera in cui descrive l'inesorabile peggiorare del male, troviamo espresso il suo desiderio di proseguire lo studio della questione collegata al X canto e richiede l'invio del « recente volumetto » di Michele Barbi: Dante -Vita, fortuna, opere (e precisa: « Editore G. C. Sansoni, Firenze, 1933 »): « Non so resistere alla tentazione di avere questo lavoro, anche se non sarò in grado, ancora per qualche mese, di studiarlo » 5.
1 L. C., p. 82.
2 L. C., p. 166.
3 L. C., p. 143 e L. V. N., p. 34 passim.
A L. V. N., p. 43.
L. C., p. 224.
Rino Dal Sasso 127
Il volumetto lo ricevette e quasi certamente lo lesse, ma crediamo con certa delusione.
3. Per circa vent'anni, dunque, restò vivo l'interesse di Gramsci verso il X canto e i problemi che da esso vedeva sorgere. Amore per Dante? Non di questo si trattava. Conviene anzi chiarire subito il pensiero di Gramsci a questo proposito, perché investe un atteggiamento proprio di gran parte della cultura ufficiale e accademica negli ultimi, decenni dell'ottocento. È questo anzi un momento della polemica antipositivistica di Gramsci, condotta su una piattaforma ideale e metodologica che non è quella crociana, ma quella del marxismo; ed è un momento della sua ricerca sulla formazione dello spirito pubblico in Italia. Non pochi sono i legami con la polemica « antibrescianesca ». Ma si veda. Amore per Dante? « Chi legge Dante con amore? I professori rirnminchioniti che si fanno delle religioni di un qualche poeta o scrittore e ne celebrano degli strani riti filologici, lo penso che una persona intelligente e moderna deve leggere i classici in generale con un certo " distacco", cioè solo per i loro valori estetici, mentre 1"` amore " implica adesione al contenuto ideologico della poesia: si ama il "proprio" poeta, si "ammira" l'artista in generale. L'ammirazione estetica può essere accompagnata da un certo disprezzo "civile", come nel caso di Marx per Goethe » 1. E la distinzione fra « amore » e « ammirazione » ribadisce un anno dopo in un'altra lettera alla moglie: « io ho distinto il godimento estetico e il giudizio positivo di bellezza artistica, cioè lo stato d'animo di entusiasmo, per l'opera d'arte come tale, dall'entusiasmo morale, cioè dalla compartecipazione al mondo ideologico dell'artista, distinzione che mi pare criticamente giusta e necessaria. Posso ammirare esteticamente Guerra e Pace di Tolstoi e non condividere la sostanza ideologica del libro; sei fatti coincidessero Tolstoi sarebbe il mio vademecum, le livre de chevet. Cosí si può dire per Shakespeare per Goethe e anche per Dante » 2.
E a questo proposito corregge anche un precedente giudizio limitativo
1 L. C., p. 125.
2 L. C., p. 205.
128 I documenti del convegno
su Leopardi: il cui « pessimismo » ora non gli pare privo di carattere rivoluzionario. Leopardi, scrive, vive « in forma estremamente dramma- tica la crisi di transizione verso l'uomo moderno; l'abbandono critico delle vecchie concezioni trascendentali senza che ancora si sia trovato un ubi consistam morale e intellettuale nuovo... » 1.
Ma, per tornare ai nostri « dantisti », ogni volta che gli tocca di accennare alla sua « nota » Gramsci non manca di mettere in rilievo la loro vecchiaia e insussistenza culturale: ché altro non può essere un atteggiamento ammirativo e quindi una adesione a valori ideali morti da secoli. La sua polemica si concreta poi nei confronti di due rappresen- tanti della « critica storica » e del dantismo ufficiale i quali, sebbene assai diversi per carattere e quanto a probità di studiosi, si incontrano non del tutto casualmente nell'insensibilità verso i valori del pensiero moderno.
Il primo è proprio Umberto Cosmo, del quale Gramsci legge in carcere La vita di Dante: « Devo dire che ne ho tratto meno soddisfazione di quanto credessi, per varie ragioni, ma specialmente perché ho avuto l'impressione che la personalità scientifica e morale del Cosmo abbia subIto un processo di disfacimento. Deve essere diventato terribilmente religioso nel senso positivo della parola » 2.
La risposta di Cosmo deve essere stata addolorata e risentita se Gramsci tiene a precisargli che non intendeva « neanche pensare un giudizio su di lui che ponesse in dubbio la sua rettitudine, la dignità del suo carattere, il suo senso del dovere ».
Il giudizio rifletteva, infatti, l'impressione che le ultime pagine del volume del Cosmo, soprattutto, avevano suscitato in lui, tanto piú che lo ricordava come un uomo moderno, schierato sulla medesima trincea della sua battaglia culturale e morale: « Mi pareva che tanto io come il Cosmo, come molti altri intellettuali del tempo (si può dire nei primi quindici anni del secolo), ci trovassimo su un terreno comune che era questo: partecipavamo in tutto o in parte al movimento di riforma morale e intellettuale promosso in Italia da Benedetto Croce, il cui primo punto era questo, che l'uomo moderno può e deve vivere
1 L. C., p. 125.
2 L. C., p. 114-5.
Rino Dal Sasso 129
senza religione e si intende senza religione rivelata o positiva o mitologica o come altrimenti si vuol dire ».
Le ultime pagine della Vita di Dante di Cosmo indicano invece come il suo autore si sia allontanato di molto da quel « terreno comune » : indicano adesione a quanto di mistico vi è nel mondo dantesco e addirittura concludono con un'invocazione all'al di là. Il fatto che tali pagine siano, forse, state dettate da entusiasmo verso il « divino poeta » non nega, anzi conferma, la tesi gramsciana che l'adorazione di un classico diviene adesione al suo contenuto ideologico ed è possibile per una sostanziale debolezza ideologica e filosofica dello studioso. Come era possibile, con tale cultura pronta a ogni cedimento, riformare moralmente e intellettualmente un paese come il nostro, malato da secoli proprio di insicurezza ideale, e di profondo scetticismo? Né a Gramsci pareva, dun- que, un caso che il vecchio professore avesse accettato di compilare, insieme a un fervente cattolico, il Gerosa, « un'antologia di scrittori latini dei primi secoli della Chiesa per una casa editrice cattolica » 1. Tutto ciò, naturalmente, non vietava a Gramsci di sottoporre al Cosmo la sua nota affinché, « come specialista in danteria », gli sappia dire se ha fatto « una falsa scoperta o se veramente meriti la pena di compilarne un contributo, una briccica da aggiungere ai milioni e milioni di tali note che sono già state scritte » 2.
Gramsci infatti, anche se lo giudica malato « un po' della malattia professionale dei dantisti » 3, continua a stimare il Cosmo. La sua polemica si rivolge dunque contro una mentalità, contro un vizio proprio della cultura italiana. E anzi, per il timore di dar credito egli medesimo a tale malattia, ritrae subito anche il progetto di compilare un contributo « dantesco » : « La letteratura dantesca è cosí pletorica e prolissa che l'unica giustificazione a scrivere qualcosa in proposito mi pare sia quella di dire qualcosa di veramente nuovo, con la maggior possibile precisione e con il minimo di parole possibili » , mentre sua intenzione, data anche l'impossibilità di profittare dell'apparato bibliografico necessario, è di scrivere qualcosa per proprio conto, « per passare il tempo » 4,
1 L. C., p. 132.
2 L. C., p. 138.
3 L. C., p. 173-4.
4 L. C., p. 173-4.
Rino Dal Sasso 131
pattuglia piú guerrafondaia, interventista e sciovinista: Gramsci ne parla in altra occasione, a proposito del soprannome che questo eroe si era scelto: Rastignac. E precisamente ne park là dove esamina l'origine dei nicciani italiani. Costoro, si chiede, derivano davvero la loro concezione o il loro atteggiamento nicciani dalla lettura e dalla conoscenza di Nietzsche? Sono davvero, queste concezioni «super-umane », il prodotto « di una elaborazione di pensiero da porsi nella sfera della " alta cultura ", oppure [hanno) origini molto piú modeste.. per esem- pio connesse con la letteratura d'appendice? »
Lo pseudonimo di questo nicciano denuncia proprio tale origine, mentre la sua mentalità curiosa e rodomontica si può documentare proprio dal volume su Dante, da Gramsci diffusamente esaminato nei Quaderni. Ci limitiamo a riassumere i tratti salienti. I1 Morello comincia affermando di essere in possesso della « debita preparazione» 2 per « leggere ed intendere la Divina Commedia, senza smarrirsi nei labirinti delle vecchie congetture, che la incompleta informazione storica e le deficiente disciplina intellettuale3 gareggiavano nel costruire e rendere inestricabili ». A Gramsci non è difficile dimostrare « che egli ha letto superficialmente lo stesso canto decimo e non ne ha compreso la lettera piú evidente » 4.
La prima tesi del Morello è che il canto decimo è « per eccellenza politico ». Al che Gramsci ribatte che « il canto decimo è politico come politica è tutta la Divina Commedia, ma non è politico per eccellenza. Ma al Morello questa affermazione fa comodo per non affaticare le meningi; poiché egli si reputa grande uomo politico e grande teorico della politica ».
La seconda perla raccolta da Gramsci è la spiegazione data dal Morello dell'impassibilità di Farinata mentre Dante e Cavalcante parlano fra di loro. Morello sostiene che Farinata resta immobile e impassibile « perché ignora la persona di Guido », « perché ignora che Guido ha stretto matrimonio con sua figlia » e perché è morto quando Guido aveva
1 L. V. N., p. 122.
2 Il corsivo è di Gramsci.
3 Il corsivo è di Gramsci.
' Tutti i brani riferiti sul Morello in L. V. N., pp. 38-42. I corsivi sotto di Gramsci.
132 I documenti del convegno
sette anni. « Se è vero (continuava il Morello) che i morti non possono conoscere da sé i fatti dei vivi, ma soltanto per mezzo delle anime che
li avvicinano, o degli angeli o dei demoni, Farinata può non conoscere la sua parentela con Guido e rimanere indifferente alle sorti di lui, se nessuna anima o nessun angelo o demone gliene abbian portata notizia. Cosa che non pare avvenuta » .
Il « brano è strabiliante », scrive Gramsci: non è infatti vero che gli eresiarchi ignorano i fatti dei vivi. Essi ignorano solo i fatti « che si approssimar e son », cioè il presente e l'immediato passato. Ma « nei personaggi di un'opera d'arte, andare a cercare le intenzioni oltre la portata della espressione letterale dello scritto... è proprio da dilettante ». Il Morello « pensa realmente alla vita concreta d'i Farinata nell'inferno oltre il canto di Dante, e pensa persino poco probabile che i demoni o gli angeli abbiano potuto, a tempo perso, informare Farinata di ciò che gli era ignoto. È la mentalità dell'uomo del popolo che quando ha letto un romanzo vorrebbe sapere che cosa hanno fatto ulteriormente tutti i personaggi »; mentalità ben adatta alle pseudonimo mo-rellesco; e in sé non sarebbe certo gran male se non fosse accolta a braccia aperte dalla cultura ufficiale. Ma tralasciamo le altre « superficialità e contraddizioni » del Morello. Che cosa ne conclude Gramsci?
All'inizio della scheda dei Quaderni, nello stendere lo schema della nota dantesca, scrive: « Lettura di Vincenzo Morello come corpus vile » . Il Morello è dunque un caso limite. Ma quanto accreditato lo stesso Gramsci neppure sospettava. La sua « strabiliante » conferenza è stata letta alla « Casa romana di Dante ». E se Gramsci afferma che « Rastignac conta meno che un fuscello nel mondo culturale ufficiale » 1, come, si chiede sempre Gramsci, fu permessa la lettura? Non ci vuole davvero « rnolta bravura per mostrarne l'inettitudine e la zerità». Ma intanto essa fu accolta con favore. Gramsci si domandava: « Come è stata giudicata la conferenza dai dantisti? Ne ha parlato 11 Barbi... per mostrarne la deficienza? » 2. Sí, il Barbi ne ha parlato, ma non proprio per mostrarne la deficienza. Nel volumetto che, nella lettera del 3 aprile del 1933, Gramsci chiedeva con tanto calore, egli avrebbe trovato motivo ulteriore
1 L. V. N., p. 45.
2 L. V. N., p. 45.
Rino Dal Sasso 133
di sconforto o di riso. dl Barbi infatti, proprio in quel volume, non esitava a elogiare « l'autorità del naine e l'abilità del critico », sino a definire lo scritto del Morello « lettura bella ed eloquente» 1.
Cosí, allorché scriveva che « il modo migliore di presentare queste-osservazioni sul canto decimo pare debba essere proprio quello polemico, per stroncare un ,filisteo classico come Rastignac, per dimostrare, in modo drammatico e fulminante e sia pure demagogico, che i rappresentanti di un gruppo sociale subalterno possono fare le fiche, scientificamente e come gusto artistico, a ruffiani intellettuali come Rastignac »2, Gramsci trascina nella condanna una porzione non modesta né di scarso rilievo della cultura italiana, e non solo un caso limite. Questo è il primo contenuto critico della « nota » gramsciana, che coincide con la sua. battaglia ideale, culturale e politica piú generale. Alla cultura retorica dominante per decenni nel nostro paese (e certo neppure ora, anche se travestita, scomparsa), che di Dante stesso ha fatto un mito, spesso senza comprenderlo nella lettera, una specie di icone mummificata, Gramsci contrappone la funzione rinnovatrice e moderna della classe operaia, la visione critica e scientifica di cui è portatrice.
5. Anche il crocianesimo aveva condotto una dura battaglia contro la_ « scuola storica », sulla base di una metodologia critica e dialettica. Era. logico quindi che, anche su questo terreno, Gramsci si incontrasse con_ Benedetto Croce. E comincia col chiedersi: il metodo crociano porta. a risultati migliori, anche nel caso particolare del X canto, della scuola storica? E cioè, ricostruisce con maggiore verità e aderenza il mondo, sensibile e storico del poeta, sa interpretare con maggiore rispetto il linguaggio stesso con cui si esprime? Nel caso del X canto, l'interpretazione crociana si differenzia dai precedessori? No. Come anche il De Sanctis, e come gli eruditi della scuola storica, se pure sulla base di diversi principi e metodologie, anche il Croce vede il X canto come il canto di Farinata, il canto dell'uomo di parte, del combattente politico,. la cui fierezza resta intatta nella condanna, plastica sintesi dei piú pro-
1 BARBI, Dante - Vita, fortuna, opere, Firenze, 1933, p. 207 passim.
2 L. V. N., p. 45. Il corsivo è nostro.
134 I documenti del convegno
fondi e autentici sentimenti di Dante. La forza con cui è rappresentato, lo sdegno che emana dalle sue parole, i caldi sentimenti di amore patrio, pongono appunto perciò la sua figura tra le piú imponenti e reali dell'Inferno. $ vero che sul finire del canto la sua parola di fuoco si illanguidisce nella anodina spiegazione del dubbio che tormenta il poeta: è trascorso, appunto, il momento creativo, è subentrata la preoccupazione pratica, il medievalismo di Dante, che deve spiegare la struttura del suo regno ultraterreno. È scomparso il poeta. Già il De Sanctis aveva notato « l'asprezza Che caratterizza il decimo canto dell'Inferno dantesco per il fatto che Farinata dopo essere stato rappresentato eroicamente nella prima parte dell'episodio, diventa nell'ultima un pedagogo » 1; ma questa asprezza era sempre parsa plausibile appunto perché il canto X è « il canto di Farinata ». Ma vediamo se veramente è cosí, se davvero è il canto in cui si svolge solo il dramma di Farinata.
Si ricordi lo svolgimento dell'episodio: incontro con Farinata, apparizione di Cavalcante, profezia di Farinata dell'esilio di Dante e infine soluzione, sempre ad opera di Farinata, del « nodo » che inviluppa la mente di Dante. Dal verso 100 al verso 108 Farinata si fa, appunto, pedagogo, come diceva De Sanctis. Oppure, per dirla con le parole di Croce, quel « che tien dietro » alla profezia dell'esilio «dettato da ragioni strutturali... non ha intima vita » 2. È davvero cosí? O piuttosto la didascalia detta da Farinata illumina e Chiarisce un dramma che si è compiuto poco prima nel volgere di un dialogo fulmineo? E questa la
piccola scoperta » di Gramsci. Al Croce (non meno che alla scuola storica) era sfuggito il significato letterale e drammatico del X canto. È sfuggito Che questo canto non contiene un dramma solo, quello di Farinata, ma due: di Farinata e di Cavalcante. E anzi è sfuggito che se non vi fosse Cavalcante mancherebbe un elemento fondamentale della struttura del poema: il sesto cerchio, infatti, risulterebbe privo della legge del contrappasso: « E strano che l'ermeneutica dantesca, pur cosí minuziosa e bizantina, non abbia mai notato che Cavalcante è il vero punito tra Lli epicurei delle arche infuocate, dico il punito di punizione immediata
1 L. C., p. 141.
2 CROCE, La poesia di Dante, Bari, 1922, pp. 83-84 e passim.
Rino Dal Sasso 135
e personale e che a tale punizione Farinata partecipa strettamente, ma anche in questo caso " avendo il cielo in gran dispitto" » 1.
sfuggito, insomma, agli eruditi proprio quello che essi dovevano precisare. La loro accurata e mistica attenzione per tutto ciò che è strutturale nel poema dantesco si sarebbe dovuta preoccupare di stabilire quale dannato, nel X canto, rappresenti in atto la pena inflitta agli eresiarchi. Mentre la critica estetica doveva, per suo stesso ufficio, cogliere l'altro dramma che si compiva accanto a quello di Farinata, a questo legato letteralmente, oltre che figurativamente. Non solo è Cavalcante iI punito, e non Farinata; ma Cavalcante rappresenta in forma drammatica la legge del contrappasso, plasticamente vivendo quella punizione, esteticamente esprimendo le ragioni strutturali del canto. O, meglio ancora, il suo dramma si compie in quanto quelle ragioni strutturali esistono. Il suo dramma e quello di Farinata sono intimamente connessi con la struttura del poema. Entrambi « per avere voluto vedere nel futuro... sono privati della conoscenza delle cose terrene per un tempo determinato, cioè essi vivono in un cono d'ombra dal centro del quale vedono nel passato oltre un certo limite e vedono nel futuro oltre un altrettanto limite. Quando Dante si avvicina a loro, la posizione di Cavalcante e di Farinata è questa: essi vedono nel passato Guido vivo ma lo vedono morto nel futuro. Ma nel momento dato Guido è vivo o morto? ».
Il dramma tocca piú dappresso Cavalcante che Farinata. È appunto il suo problema, il suo dubbio. Egli pensa solo al figlio, a Guido, e « al sentir parlar fiorentino si solleva per sapere se Guido è vivo o morto in quel momento... Il dramma diretto di Cavalcante è rapidissimo, ma di una intensità indicibile. Egli subito domanda di Guido e spera che egli sia con Dante, ma quando da parte del poeta, non informato della pena, sente " ebbe ", il verbo al passato, dopo un grido straziante, " supin ricadde, e piú non parve fuori" » 2.
Farinata partecipa indirettamente a questo dramma o, come avverte Gramsci, avendo in « gran dispitto » le stesse leggi infernali. Vi partecipa, però, per quanto lo consente la sua figura. E con molto acume, in
1 L. C., p. 141.
2 L. C., p. 142.
10.
136 .1 documenti del convegno
vagii spunti Gramsci indica il rapporto figurativo tra Farinata e Caval cante: « esplicitamente, dopo l'" ebbe ", Dante contrappone Farinata a Cavalcante nell'aspetto fisico-statuario che esprime la loro posizione morale; Cavalcante cade, si affloscia... Farinata " analiticamente " non muta aspetto né muove collo né piega costa ».
E vi partecipa, oltre Che figurativamente, dal punto di vista narrativo: caduto Cavalcante, Farinata profetizza l'esilio di Dante, dimostrando cosí di vedere nel futuro e non nel presente. Appunto cosí, anzi, la curiosità di Dante viene maggiormente appagata. Vi partecipa, infine, quando scioglie, con estremo distacco, il dubbio del poeta, quando gli spiega la pena a cui sono entrambi condannati. E legati sono i due drammi nel sentimento del poeta: l'esilio di Farinata non è diverso dall'esilio di Guido Cavalcanti entrambi nemici del guelfo Dante. È giusto che l'esilio di Dante sia profetizzato da lui: l'uomo di parte Farinata non è diverso dall'uomo di parte Dante, che ha costretto all'esilio e alla morte l'amico piú caro.
Per non aver colto con precisione il testo, quindi, si è perduto sia il senso generale dell'episodio sia il suo reale valore artistico. Non si è, compreso il significato medesimo dell'apparizione di Cavalcante: la critica storica fissandosi a disquisire sul disdegno » di Guido, divenuto « il centro delle ricerche di tutti i fabbricanti di ipotesi e di contributi »; la critica estetica assumendo la figura di Cavalcante per il suo contrappunto figurativo con la scultorea fermezza di Farinata, senza coglierne l'autonoma validità poetica. In realtà, conclude Gramsci, il momento strutturale del canto è profondamente collegato con quello poetico. La distinzione crociana di poesia e non poesia cade, nel concreto di un testo. Qui, ad esempio, il momento poetico non potrebbe esprimersi senza il momento strutturale: « Dante non interroga Farinata solo per " istruirsi "; egli lo interroga perché è rimasto colpito dalla scomparsa di Cavalcante. Egli vuole che gli sia sciolto il nodo che gli impedí di rispondere a Cavalcante; egli si sente in colpa dinanzi a Cavalcante. Il brano strutturale non è solo struttura, è anche poesia, è un elemento necessario del dramma che si è svolto » 1.
Dante, come già Gramsci aveva scritto nel lontano corsivo del-
1 L. V. N., p. 36.
Rino Dal Sasso 137
l'Avanti!, è poeta colto: le intuizioni proprie della immaginazione popo- lare in lui, per forza, tendono a complicarsi. Egli a volte suggerisce il dramma, a volte la sua poesia è difficile, come in questo canto nel quale il dramma di Cavalcante, appunto « per essere compreso, ha bisogno di riflessione, di ragionamento; che agghiaccia per la sua rapidità e intensità, ma dopo esame critico ».
A Gramsci pare dunque « che questa interpretazione leda in modo vitale la tesi del Croce su la poesia e la struttura della Divina Commedia. Senza la struttura non ci sarebbe poesia e quindi anche la struttura ha valore di poesia ».
6. Ma quali obiezioni potrebbero venir mosse all'interpretazione gram-sciana e alle conclusioni che ne trae?
L'episodio di Cavalcante, risponderebbe il Croce, non ha intima vita appunto perché rinvia a qualcos'altro per essere capito. Se esso ha bisogno di una delucidazione successiva, di una didascalia, vuol dire che quel dramma non ha superato la fase della intenzionalità, non si è espresso poeticamente. E, quindi, che la fantasia di Dante in quel momento si è annebbiata e si è lasciata inaridire dalle esigenze strutturali: ragione di piú per affermare che la struttura è qualitativamente distinta dalla poesia. Farinata non ha bisogno della spiegazione strutturale per vivere poeticamente di vita propria. Cavalcante, che ne ha bisogno, non è dramma vissuto ed espresso.
L'obiezione Ylà luogo all'esame di due distinti problemi: l'episodio di Cavalcante, a sé preso, è poeticamente incompiuto per l'intervento di una inibizione di carattere pratico? e quindi, la struttura, il brano strutturale, è una sovrapposizione, un di piú, inessenziale alla vita del dramma? Risponde necessariamente a ragioni pratiche?
Quanto al primo problema, Gramsci si pone in tal modo la questione: « si tratta di una critica dell'inespresso, di una storia dell'indistinto, di una astratta ricerca di plausibili intenzioni mai diventate concreta poesia, ma di cui rimangono tracce esteriori nel meccanismo della struttura » 1.
Stabilito che la incompiutezza del dramma di Cavalcante non ha la
1 L. V. N., p. 36.
138 I documenti del convegno
medesima natura delle « rinunzie descrittive », quali spesso si incontrano nel Paradiso 1, dipende essa allora da una volontaria rinunzia a rappresentare nella sua pienezza quel dramma? È avvenuto in Dante quello che talvolta avviene nei Promessi sposi?: « come quando Renzo, dopo aver errato alla ricerca dell'Adda e del confine pensa alla treccia nera di Lucia: " ... e contemplando l'immagine di Lucia! non ci proveremo a dire cid che sentisse: il lettore conosce le circostanze: se lo figuri". Si potrebbe anche qui trattare di cercare il " figurarsi " di un dramma, conoscendone le circostanze? » 2.
Certamente no: non vi è « niente di comune tra questi modi di espressione di Dante e qualcheduno del Manzoni » 3. Quest'ultimo « si propose di non parlare dell'amore sensuale e di non rappresentarne le passioni nella loro pienezza per ragioni di " morale cattolica" » 4, mentre mai limitazioni pratiche e volontarie si riscontrano in Dante. Tutto il poema sta a confermarlo. Nulla di « " volontario", dunque, " di carattere pratico e intellettivo" tarpò le ali di Dante; egli "volò con le ali che aveva ", per cosí dire, e non rinunziò volontariamente a nulla » 5.
L'incompiutezza dell'episodio di Cavalcante non dipende da inibizioni o da rinunce dettate da motivi pratici: quell'episodio esprime un dramma nei termini e nei modi tradizionali per Dante, secondo una tecnica e un linguaggio storicamente dati. D'altro canto, neppure la figura di Farinata è tutta espressa nelle terzine in cui si è soliti rinchiudere l'episodio. Abbiamo già accennato come la sua forza risulti piú evidente, e pienamente si giustifichi, dal seguito del canto, sino al punto in cui
anche Farinata si rivela legato alla condanna infernale: e questo a far intendere anche il suo « gran dispitto ». Il dramma di Cavalcante è
dunque incompiuto non per povertà di fantasia e di forza creatrice, o perché sia intervenuta una preoccupazione pratica, ma perché Dante l'ha concepito in quei termini, « adoperando » il linguaggio che gli era solo possibile adoperare. Ma è possibile ricostruire e criticare una poesia
1 L. V. N., pp. 42-45. Gramsci sembra aderire alla tesi del Russo che le « rinunzie descrittive » siano in realtà « espressioni piene » del sentimento di Dante.
2 L. V. N., p. 36. Corsivi di Gramsci.
3 L. C., p. 142.
4 L. V. N., p. 36.
5 L. V. N., p. 37.
Rra o Dal Sasso 139
se non nel mondo dell'espressione concreta, del linguaggio storicamente realizzato? «Dante non rinunzia a rappresentare il dramma direttamente, perché questo è appunto il suo modo di rappresentarlo. Si tratta di un " modo di espressione " e penso che i " modi di espressione " possono mutare nel tempo cosí come muta la lingua propriamente detta ».
Esempi di tale « modo di espressione » (dell'incompiuto) se ne possono trovare infiniti nell'arte del passato: Gramsci stesso, sin dalla prima lettera che abbiamo citato, credeva di dover condurre una ricerca in questo senso. Fer poter stendere « una nota di questo genere », scriveva, « dovrei rivedere una certa quantità di materiale (per esempio, la riproduzione delle pitture pompeiane) che si trova solo nelle grandi biblioteche. Dovrei cioè raccogliere gli elementi storici che provano come, per tradizione, dall'arte classica al Medioevo, i pittori rifiutassero di riprodurre il dolore nelle sue forme piú elementari e profonde (dolore materno): nelle pitture pompeiane, Medea che sgozza i figli avuti da Giasone è rappresentata con la faccia coperta da un velo, perché il pittore ritiene sovrumano e inumano dare un'espressione al suo viso » .
E piú tardi ricorda le lezioni di storia dell'arte udite nel lontano 1912, in cui il Toesca affermava « che questo era un modo di esprimersi degli antichi e che Lessing nel Laocoonte (cito a memoria da queste lezioni) non riteneva ciò un artificio da impotente, ma anzi il modo migliore di dare l'impressione dell'infinito dolore di un genitore, che rappresentato materialmente si sarebbe cristallizzato in una smorfia » 1.
Fosse o meno d'accordo con questa interpretazione troppo estesa del Lessing e troppo derivata dalla sua cultura preromantica (e Gramsci certamente era restio a dar valore assoluto a un «modo di espressione » o a una data tecnica, a identificare un « soggetto » con le sue possibili espressioni); e volesse o meno suggerire, anche con la scelta degli esempi, che vi può essere stata una influenza, attraverso pari canali, su Dante proprio per questa modo di rappresentare il dolore dei genitori; in sostanza Gramsci vuol precisare che appunto quel dolore Dante rappresenta, riunendo in Cavalcante un nodo di sentimenti e di passione che può arrivare allo scioglimento e alla catarsi solo con il compiersi di quel dramma. Rappresentare i1 dolore di Cavalcante direttamente, realistica-
1 L. C., p. 142.
140 I documenti del convegno
mente (naturalisticamente), forse era impossibile a Dante appunto per lo storico linguaggio artistico che gli era proprio. Ma forse piú ancora per intima ragione poetica. Cavalcante soffre il suo dramma rapidissimo perché è condannato a una certa pena: vive e soffre un dramma appunto perché chiuso in un « cono d'ombra ». I1 dramma balza improvviso alla luce perché Cavalcante è condannato a non vedere il futuro oltre un certo limite: la sua vitalità drammatica è cioè direttamente legata alla sua natura di dannato: qui ancora la poesia è connessa alla struttura del poema, partecipa al medesimo processa di creazione fantastica. Ora, se è dimostrato che l'incompiutezza dell'episodio di Cavalcante non significa che Dante abbia rinunciato a rappresentare piú distesamente quel dramma, ma solo che lo ha espresso nel « modo » che gli era storicamente possibile; la didascalia di Farinata, che costituisce il brano strutturale vero e proprio, è invece staccata dal processo creativo? E dettata da ragioni pratiche?
7. Siamo al secondo problema cui dava luogo la possibile obiezione della critica estetica.
La soluzione, a guardar bene, Gramsci l'ha già data quando ha avvertito che Dante non interroga Farinata per « istruirsi » ma perché è « rimasto colpito dalla scomparsa di Cavalcante ». Né la didascalia è innaturale in bocca a Farinata, come sosteneva il De Sanctis: essa è resa necessaria da tutto lo svolgimento dell'episodio, dall'atteggiamento dei protagonisti, i quali tutti (Dante compreso) rimarrebbero in parte o del tutto oscuri senza quei versi. Ed è logico che sia proprio Farinata a pronunciare la didascalia, arricchendo la forza della sua figura e l'unità ispiratrice del canto.
Può aver dunque anche la didascalia un valore artistico? Può rispondere a esigenze poetiche, anzi che pratiche, come assolutamente afferma il Croce? Gramsci pone il problema cosí: « quistione... delle didascalie nel dramma: le didascalie hanno un valore artistico? contribuiscono alla rappresentazione dei caratteri? In quanto limitano l'arbitrio dell'attore e caratterizzano piú concretamente il personaggio, certamente » 1.
L. V. N., p. 34. Per i brani successivi su Shaw, dr. L. C., p. 143 e L. V. N., p. 34, e passim.
 
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Titolo della pubblicazione Studi gramsciani
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  • Primo convegno Internazionale di Studi Gramsciani tenuto a Roma nei giorni 11-13 gennaio 1958
 
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Pubblicazione Roma+++ | Editori Riuniti+++ | Anno: 1958
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Premessa di Ranuccio Bianchi Bandinelli, Presidente dell'Istituto Gramsci+++   lettura assistita per ipovedenti+++         
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