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tipologia: Analitici; Id: 1543184


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Tipologia Documento di Convegno
Titolo [I Documenti del convegno. Appunti per le relazioni e Comunicazioni] F. Alderisio, Riflessioni di A. Gramsci sul concetto della finalità nella filosofia della prassi
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Alderisio, Felice+++
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Felice Alderisio
RIFLESSIONI DI A. GRAMSCI SUL CONCETTO DELLA FINALITÀ` NELLA FILOSOFIA DELLA FRASSI
facilmente riconoscibile che tutta la materia raccolta nel volume postumo di Gramsci Il materialismo storico e la filosofia di B. Croce presenta un andamento asistematico e rapsodico, e spesso ha un carattere meramente filologico, anziché speculativo, per quanto il volume stessa riesca largamente informativo ed illuminante su di un notevole gruppo di questioni anche d'interesse strettamente filosofico e dottrinario. Ed. anche, o specialmente, le riflessioni sporadiche e per lo piú vaghe e indirette ivi contenute sulla finalità, o teleologia, nel mondo naturale e soprattutto nel mondo umano — la quale categoria, per quanto intervenga solo occasionalmente, o per lo piú inconsapevolmente, nelle pagine degli autori piú insigni della filosofia della prassi e del materialismo storico, è necessariamente intrinseca e implicita in tale dottrina, ed è particolarmente valida per distinguerla, anche meglio che non si sia fatto neI passato, dal comune indirizzo del naturalismo positivistico o dello schietto materialismo, — sono state pensate e scritte da Gramsci in forma filologica, immediata e intenzionalmente provvisoria, se non proprio di sfuggita; e ciò forse è avvenuto assai piú in considerazione della gran difficoltà del tema e dell'impegno critico da esso richiesto, che non per il misconoscimento o la svalutazione di esso in ordine alla più compiuta. e soddisfacente concezione della natura e della storia nella filosofia della. prassi. E quindi ovvio e naturale per me che il tema di questa comunicazione rispetti e quasi rispecchi nella sua trattazione l'indole e l'andamento delle riflessioni gramsciane che ad esso si riferiscono, fino a la sciare allo stato semplicemente allusivo o alquanto indeterminato quegli
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spunti di idee, che cosí furono abbozzati nei quaderni del carcere, donde fu tratta la materia per il suddetto volume.
Gramsci ha affermato che la « filosofia della prassi è una concezione nuova, indipendente, originale », e che la sua indipendenza e originalità è quella « di una nuova cultura in incubazione, che si svilupperà con lo svilupparsi dei rapporti sociali »; ha scritto inoltre che « la filosofia della prassi è uguale a Hegel piú Davide Ricardo » 1, in quanto i nuovi canoni metodologici introdotti da Ricardo in economia « hanno avuto un significato d'innovazione filosofica » (cosicché, ad es., il principio della legge di tendenza nell'homo oeconomicus e nel mercato determinato « è stata una scoperta di valore anche gnoseologico », ed « implica appunto una nuova concezione della necessità e della libertà» 2); e infine — ancora piú determinatamente — ha scritto che « la filosofia della prassi è una riforma e uno 'sviluppo dello hegelismo, è una filosofia liberata (o che cerca di liberarsi) da ogni elemento ideologico unilaterale e fanatico ». In altri termini, ritenendo egli che la proposizione di Engels del « passaggio dal regno della necessità al regno della libertà » debba essere analizzata ed elaborata « con molta finezza e delicatezza », è quindi — ciò che è ancora piú significativo — pervenuto alla franca ammissione di un'etica o moralità del materialismo storico, cosí scrivendo:
1 M. S., p. 90.E da aggiungere che G. ha anche rilevato la diffusa opinione che la filosofia della prassi è una pura filosofia, cioè « la scienza della dialettica » , ed ha altre due parti, che sono « l'economia e la politica »; e che essa con tali tre parti « rappresenta il coronamento e il superamento del grado piú alto che verso il '48 aveva raggiunto la scienza delle nazioni piú progredite d'Europa : la filosofia classica tedesca, l'economia classica inglese e l'attività e scienza politica francese » (M. S., pp. 128-9). Ma egli ha badato soprattutto a rilevare l'importanza della dialettica, che è « dottrina della conoscenza e sostanza midollare della storiografia e della scienza politica », e ad intendere la filosofia della prassi « come una filosofia integrale e originale che inizia una nuova fase nella storia e nello sviluppo mondiale del pensiero, in quanto supera (e superando ne include in sé gli elementi vitali) sia l'idealismo che il materialismo, tradizionali espressioni delle vecchie società » (M. S., p. 132). Mi par degno di rilievo anche il buon apprezzamento che G. fece del Lange, giudicandolo uno storico coscienzioso ed acuto, che ha del materialismo « un concetto assai preciso, definito e limitato, e perciò... non considera materialistici né il materialismo storico e neanche la filosofia di Feuerbach » (M. S., p. 152).
2 G. intende il « mercato determinato » di Ricardo come un « determinato rapporto di forze sociali in una determinata struttura dell'apparato di produzione », il quale rapporto viene «garantito (cioè reso permanente) da una determinata superstruttura politica, morale, giuridica » (M. S., p. 99).
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« La base scientifica di una morale del materialismo storico è da cercare, mi pare, nell'affermazione che "la società non si pone compiti per la soluzione dei quali non esistano già le condizioni di risoluzione ". Esistendo le condizioni, "la soluzione dei compiti diviene ` dovere', la ` volontà ' diviene libera ". La morale diventerebbe una ricerca delle condizioni necessarie per la libertà del volere in un certo senso, verso un certo fine e la dimostrazione che queste condizioni esistono. Si dovrebbe trattare anche non di una gerarchia dei fini, ma di una graduazione dei fini da raggiungere, dato che si vuole "moralizzare" non solo ogni individuo singolarmente preso, ma anche tutta una società d'individui » 1. Qui non occorre gran fatica per vedere conciliate la condi-zionalità storica, su cui insiste il materialismo storico per l'efficacia dell'azione economico-politica, con l'esigenza etica propria del libero volere agente secondo fini suggeriti soprattutto dalla detta condizionalità e da realizzarsi, se necessario, anche con un rovesciamento della prassi; onde il progresso sociale riesca una moralizzazione sociale. Ma il detto volume contiene un'altra riflessione, molto ampia e forse meglio introduttiva alla filosofia della prassi, e con la quale Gramsci vedeva questa filosofia presupporre il passato culturale della Rinascita e della Riforma, la filosofia tedesca e la Rivoluzione francese, :il calvinismo e l'economia classica inglese, il liberalismo laico e in senso lato lo storicismo, che sta alla base di tutta la concezione moderna della vita. E di tutto questo complesso movimento « la filosofia della prassi è il coronamento », quale «riforma intellettuale e morale », e anche quale dialettizzamento del « contrasto tra cultura popolare e alta cultura » : essa è « una filosofia che è anche politica, e una politica che è anche filosofia ». Però essa « attraversa ancora la sua fase popolaresca », non essendo cosa facile ï1 suscitare da essa « un gruppo d'intellettuali indipendenti »; è ancora « la concezione di un gruppo sociale subalterno senza iniziativa storica,
1 M. S., p. 98. In questo capitoletto, intitolato « Scienza morale e materialismo storico», è difficile cogliere sicuramente il senso inteso da G. nel distinguere «una gerarchia dei fini » da « una graduazione dei fini »; ma mi par verosimile che egli abbia alluso ad una successione storica dei fini individuali e sociali, ed all'azione, o «missione» storica, della classe progressiva che via via li realizza, senza una possibilità assoluta che la storia del progresso sociale sia modellabile su di una gerarchia troppo anticipata nel tempo, — cioè precostituita, o prepostera, — dei fini stessi, che sono solamente da attendersi se e come la storia effettiva li realizza.
5.
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che si amplia continuamente, ma disorganicamente, e senza poter oltrepassare un certo grado qualitativo », finché non si arrivi al possesso dello Stato, all'esercizio reale di una egemonia sociale, che solo può permettere « un certo equilibrio organico nello sviluppo del gruppo intellettuale ». Ed anzi la filosofia della prassi è divenuta anch'essa « pregiudizio » e « superstizione », o è quasi « l'aspetto popolare dello storicismo moderno » , « contiene in sé un principio di superamento di questo storicismo». È anche accaduto, nella storia della cultura, che ogni volta che è affiorata la cultura popolare, e dalla « ganga popolare » — in una fase di rivolgimento — « si selezionava il metallo di una nuova classe», si è avuta una fioritura di « materialismo »; e che viceversa « nello stesso momento le classi tradizionali si aggrappavano allo spiritualismo».. « Hegel, a cavallo della Rivoluzione francese e della Restaurazione, ha dialettizzato i due momenti della vita del pensiero, materialismo e spiritualismo, ma la sintesi fu " un uomo che cammina sulla testa ". I continuatori di Hegel hanno distrutto quest'unità, e si è ritornati ai sistemi materialistici da una parte e a quelli spiritualistici dell'altra. La filosofia della prassi, nel suo fondatore, ha rivissuto tutta questa esperienza, di hegelismo, feueibacchismo, materialismo francese, per ricostruire la sintesi della unità dialettica: " l'uomo che cammina sulle gambe ". Il laceramento avvenuto per l'hegelismo si è ripetuto per la filosofia della prassi, cioè dall'unità dialettica si è ritornati da una parte al materialismo filosofico, mentre l'alta cultura moderna idealistica, ha cercato d'incorporare ciò che della filosofia della prassi le era indispensabile per trovare qualche nuovo elisir» 1 (di lunga vita per la classe di. cui la cultura idealistica è stata ed è l'esponente).
È facile qui rilevare che Gramsci intuiva nella concezione hegeliana — a parte la cattiva riuscita di essa in una sorta di uomo capovolto, che cammini sulla testa delle idee, e non sulle gambe dei bisogni e delle forze reali — una sintesi di due momenti della vita e del pensiero, e vedeva pure, in corrispondenza o analogia col laceramento avvenute nella scuola hegeliana, anche un laceramento avvenuto nella filosofia. della prassi, spesso degenerata in pregiudizio o superstizione materialistica e deterministica. Onde egli avvertiva che se la filosofia della prassi aveva
1 M. S., pp. 86-7.
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ragione di affermare che ogni « verità » creduta eterna ed assoluta « ha avuto origini pratiche e ha rappresentato un valore provvisorio (storicità di ogni concezione del mondo e della vita) », bisognasse ancora ammettere — per quanto la cosa fosse difficile farla comprendere « praticamente » — che una tale interpretazione storicista delle verità supreme del mondo e della vita « è valida anche per la stessa filosofia della prassi, senza scuotere quei convincimenti che sono necessari per l'azione » , e senza perciò dedurre dallo storicismo « lo scetticismo morale e la depravazione ». Insomma Gramsci qui riassume nella concettosa riflessione già riferita la sua veduta circa la filosofia della prassi: « Ecco perché la proposizione del passaggio dal regno della necessità a quello della libertà deve essere analizzata ed elaborata con molta finezza e delicatezza » 1.
Altra considerazione di Gramsci che a me sembra pure orientata o convergente verso il nostro tema è quella sul concetto di regolarità e necessità nello sviluppo storico, a cui giunse il « fondatore della filosofia della prassi » (Marx); ma non proprio per « una derivazione dalle scienze naturali », bensí con « una elaborazione di concetti nati nel terreno dell'economia politica, specialmente nella forma e nella metodologia che la scienza economica ricevette da Davide Ricardo », (la cui impostazione delle leggi economiche Gramsci riteneva necessario studiare). Infatti Ricardo « non ha avuto importanza nella fondazione della filosofia della prassi solo per il concetto di " valore " in economia, ma ha avuto un'importanza " filosofica ", ha suggerito un modo di pensare e d'intuire la vita e la storia ». Tale modo di pensare è, detto alla buona, « il metodo del posto che, delta premessa che dà una certa conseguenza »; ed a Gramsci parve che esso « debba essere identificato come uno dei punti di partenza (stimoli intellettuali) delle esperienze filosofiche dei fondatori della filosofia della prassi ». Ma l'economia classica dette luogo a una « critica dell'economia politica », la quale è partita dal concetto della « storicità » del mercato determinato e del suo cosiddetto « automatismo », mentre gli economisti puri concepivano gli elementi o fattori economici come « eterni », « naturali ». « La critica analizza realisticamente i rapporti delle forze che determinano il mercato, ne approfondisce le contraddizioni, valuta le modificabilità connesse all'apparire di
1 M. S., p. 95.
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nuovi elementi e al loro rafforzarsi, e presenta la caducità e sostituibilità della scienza criticata;... trova nel suo intimo gli elementi che la dissolveranno e la supereranno immancabilmente, e presenta l'erede, che sarà presuntivo finché non avrà dato prova manifesta di vitalità » '.
Non si tratta dunque di un automatismo statico, immodificabile dal giuoco delle forze economiche e dal loro risultato, ma variabile col variare dei rapporti delle forze; ed è un automatismo in cui entra « l'arbitrio » individuale o collettivo (che è l'elemento storicistico per eccellenza). e L'elemento arbitrario », dell'individuo, di consorzi sociali, dello Stato, - come Gramsci riconosce — ha assunto « un'importanza che prima non aveva », ed ha « profondamente turbato l'automatismo tradizionale »
mediante interventi arbitrari, « misura diversa, imprevedibili», per quanto esso non faccia sparire del tutto il vecchio « automatismo », il quale può continuare a verificarsi « su scale piú grandi di quelle di prima per i grandi fenomeni economici, mentre i fatti particolari sono impazziti» (o si hanno le crisi economiche, che modificano la vita economica, soprattutto a causa dell'elemento arbitrario). Queste e simili considerazioni ritiene Gramsci di dover fare onde « prendere le mosse per stabilire ciò che significa regolarità, legge, automatismo nei fatti storici », e senza che con ciò si tratti «di scoprire una legge metafisica di determinismo, e neppure di stabilire una legge generale di causalità. Si tratta solo di rilevare come nello svolgimento storico si costituiscano delle forze relativamente permanenti, che operano con una certa regolarità e automatismo ». In altri termini non si può indicare una vera e propria « legge» dei fatti storici, eterna ed immutabile; ma l'accennato « elemento della filosofia della prassi » (derivato, secondo Gramsci, soprattutto dall'impostazione delle leggi economiche fatta dal Ricardo) « è poi, nientemeno, il suo particolare modo di concepire l'immanenza » . Nel senso finora chiarito « il concetto di necessità è strettamente connesso a quello di regolarità e di razionalità » . Non è la necessità nel senso
1 M. S., pp. 99-100. A proposito del modo di pensare la vita e la storia conseguentemente alla forma e al metodo dell'economia politica del Ricardo, Gramsci qui annota che bisogna vedere, o meglio studiare, il concetto filosofico di caso e di legge, il concetto di una razionalità e di una provvidenza perché —come solitamente è accaduto — si finisce, da un lato, « nel teleologismo trascendentale, se non trascendente », e dall'altro lato — col concetto di caso — « nel materialismo metafisico, che il mondo a caso pone».
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speculativo astratto, ma « nel senso storico concreto », poiché « esiste necessità quando esiste una premessa efficiente e attiva, la cui consapevolezza negli uomini sia diventata operosa ponendo dei fini concreti alla coscienza collettiva, e costituendo un complesso di convinzioni e di credenze potentemente agente come le " credenze popolari ". Nella premessa devono essere contenute, già sviluppate o in via di sviluppo, le condizioni materiali necessarie e sufficienti per la realizzazione dell'impulso di volontà collettiva, ma è chiaro che da questa premessa " materiale ", calcolabile quantitativamente, non pub essere disgiunto un certo livello di cultura, un complesso cioè di atti intellettuali e da questi (come loro prodotto e conseguenza) un certo complesso di passioni e sentimenti imperiosi, cioè che abbiano la forza di indurre all'azione " a tutti i costi ".
Come si è detto, solo per questa via si pub giungere a una concezione storicistica (e non speculativa-astratta) della "razionalità" nella storia » (e quindi anche della cosiddetta irrazionalità — relativa anch'essa, com'è relativa la razionalità — nella storia stessa).
Da quanto precede risulta una innegabile intuizione da parte di Gramsci della presenza del fattore arbitrio, anzi del fattore razionalità, cioè di una legge immanente, nonché di una finalità ed autodeterminazione (se consapevole o inconsapevole, o con entrambe le accezioni, ora non importa indagare) nella storia e nella vita umana. E di una tale intuizione si possono rintracciare altre chiare indicazioni .non solo nell'opera finora citata, ma anche in altre. Ma è anche innegabile che di quel concetto Gramsci ebbe piú il senso e l'avvertimento che non l'intendimento pieno e spiegato, onde egli della questione della razionalità o immanenza della storia umana e della teleologia, come finalità naturale e interna alle cose e come idea umana operante nella storia, dovette limitarsi a dare solo alcune interessanti indicazioni piú che altro +filologiche, che potevano soltanto preludere ad una necessaria trattazione teoretica, ma non soddisfarla, né ancor meno eluderla. Tuttavia quanto egli riuscí a considerare sull'argomento fu segno per lui di un chiaro e fermo
i M. S., p. 101. Qui G. ricorda i concetti di « Provvidenza » e di « fortuna » come sono stati adoperati speculativamente dai filosofi idealisti italiani, specialmente dal Croce, del quale occorreva vedere il libro sul Vico, « in cui il concetto di Provvidenza è tradotto in termini speculativi, e in cui si dà inizio all'interpretazione idealistica della filosofia vichiana ».
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orientamento, e tale orientamento è sempre valido e necessario per la migliore intelligenza e il piú sicuro quanto necessario sviluppo della filosofia della prassi.
Ed ecco ora l'osservazione piú diretta e calzante sul concetto della finalità, lasciataci da Gramsci nei suoi « quaderni », per quanto anch'essa sia rimasta alla fase di una semplice obiezione polemica e di una vaga e generica presa di posizione teoretica. E un'annotazione avente per titolo « La teleologia » 1 e fa parte delle molteplici critiche che Gramsci scrisse contro il Manuale popolare di sociologia marxista di Bukharin. Egli fra l'altro lamentava che tale libro proprio « nella questione della teleologia » apparisse piú vistosamente difettoso, poiché a tale proposito quel saggio popolare presentava « le dottrine filosofiche passate su uno stesso piano di trivialità e banalità, cosí che al lettore pare che tutta la cultura passata sia stata una fantasmagoria di baccanti in delirio... Cosí il Saggio presenta la quistione della teleologia nelle sue manifestazioni piú infantili, mentre dimentica la soluzione data da Kant. Si potrebbe forse dimostrare che nel Saggio c'è molta teleologia inconscia, che riproduce senza saperlo il punto di vista di Kant: per esempio il capitolo sull'Equilibrio tra la natura e la società» 2. Ed a questo proposito, tanto del vieto finalismo teologico o trascendente ed intrinseco (degenerante spesso ad un livello volgare ed infantile), quanto di una teleologia razionale e scientifica (che ben poteva meritare di essere adoperata anche
M.S., pp. 164-5.
2 La critica qui fatta da Gramsci a Bukharin è tanto piú seria e degna di meditazione in quanto egli vi denunziava un metodo riprovevole di esporre le dottrine storiche, poiché, a causa di esso, « un lettore serio, che estenda le sue nozioni e approfondisca i suoi studi, crede di essere stato preso in giro, ed estende il suo sospetto a tutto l'insieme del sistema. È facile parere di aver superato una posizione abbassandola, ma si tratta di una pura illusione verbale. Presentare cosí burlescamente le questioni può avere un significato in Voltaire, ma non è Voltaire chiunque voglia, cioè non è grande artista ». Ma sull'argomento della finalità si può rendere un po' di giustizia anche al Voltaire (filosofo a modo suo, ma non senza acume pari alla sua spregiudicatezza, oltre che grande artista). Egli infatti si professò, al suo tempo, e in mezzo a tanto materialismo democratico, un cause-finalier, c'est à dire un imbécile, e scrisse delle sagge riflessioni nel suo Dizionario filosofico (alla voce Fin, cause finale), distinguendo i fini fittizi e innaturali da quelli manifestamente naturali e razionali, per cui iniziò il suo ragionamento con questa ferma battuta: « Il parait qu'il faut être forcené pour nier que les estomacs soient faits pour digérer, les yeux pour voire, les oreilles pour entendre».
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dalla scienza naturale, e di essere accortamente adottata dalla filosofia della prassi), Gramsci prese posizione a questo punto in una lunga e concettosa nota, valendosi del pensiero di Kant, di Goethe e di Croce. In tale nota Gramsci comincia col citare dalle Xenie del Goethe (nella traduzione del Croce)' l'esortazione satirica contro il finalismo volgare: «Il Teleologo: — II Creatore buono adoriamo del mondo, che, quando — il sughero creò, inventò insieme il tappo » ; poi riporta questa breve ed importante chiosa del Croce stesso: « Contro il finalismo estrinseco, generalmente accolto nel secolo decimottavo, e che il Kant aveva di recente criticato surrogandolo con un piú profondo concetto della finalità »; poi egli si attacca di nuovo al Goethe, scrivendo che questi « altrove e in altra forma » aveva ripetuto « questo stesso motivo », e infine ne dichiara la derivazione dal Kant riportando questi giudizi del Goethe: « Il Kant è il
più eminente dei moderni filosofi, quello le cui dottrine hanno maggiormente influito sulla mia cultura; la distinzione del soggetto dall'oggetto
e il principio scientifico che ogni cosa esiste e si svolge per ragion sua propria ed intrinseca (che il sughero, a dirla proverbialmente, non nasce per servir di turacciolo alle nostre bottiglie) ebb'io comune col Kant, ed io in seguito applicai molto studio alla sua filosofia». Da ultimo Gramsci trae il succo di tali anteriori motivi di pensiero, e conclude la sua interessantissima nota con questa franca dichiarazione di teleo-logismo storico: « Nella concezione di missione storica {sottint.: del proletariato moderno) non potrebbe scoprirsi una radice teleologica? E infatti in molti casi essa assume un significato equivoco e mistico. Ma in altri casi ha un significato, che, dopo il concetto kantiano della teleologia, può essere sostenuto e giustificato dalla filosofia della prassi ».
Gramsci dunque, con siffatto suo orientamento filosofico piú avanzato
e decisamente fuori del quadro convenuto del materialismo causalistico, cioè meramente naturalistico e meccanico, era rivolto ad una concezione
e spiegazione causale-finalistica della natura ed ancora piú ad un finalismo immanente e volontaristico della prassi storica umana. Ed il suo merito per tale orientamento è stato tanto maggiore in quanto egli non ebbe modo di scoprire, né di poter rendere manifesto alcunché di preciso
e netto in tale senso nella precedente e migliore letteratura del materialismo storico, per quanto si sentisse sicuro di non deviare dall'intimo spirito di esso e dal suo immancabile sviluppo teoretico-pratico. Ma fu certamente per un avverso destino che egli non poté accorgersi di cam-
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minare — anche per il detto orientamento — sulle stesse orme (starei quasi per dire anche di Marx: in verità, di un Marx assai poco conosciuto o rilevato, e ancor meno approfondito) dell'altro grande teorico della filosofia della prassi, il quale proprio il predetto orientamento cominciò ad aprire ed a proporre negli ultimi anni della sua attività scientifica in alcuni manoscritti inediti intorno alla Dialettica della natural-. Un tale documento interessantissimo di scienza e filosofia della natura, — in cui si proclama che « la dialettica, spogliata del misticismo », è ormai divenuta « una necessità assoluta per la scienza, che ha ormai lasciato il terreno sul quale bastava fare uso delle categorie fisse », che « i risultati della scienza moderna si devono spiegare razionalmente », che « è necessario pensare; che atomo, molecola, ecc. non possono essere osservati col microscopio, ma solo col pensiero » 2 — rimase per tre decenni :inutilmente affidato al Bernstein e sottratto ad ogni studio; né della tardiva pubblicazione fattane a Mosca nel 1925 una prima volta (e poi, ivi di nuovo, nel 1927 e nel 1935) poté forse giungere a Gramsci qualcosa di piú della semplice notizia bibliografica. Ma egli avrebbe certamente molto gioito nel leggere alcune cose in quei manoscritti di Engels, e molto si sarebbe giovato delle numerose utili indicazioni storiche e riflessioni teoretiche engelsiane sulla dialettica naturale, sulla finalità nella natura, sui rapporti tra la natura e l'uomo, e sui rapporti in genere tra la scienza, la filosofia, la storia naturale e la storia umana. E cosí egli vi avrebbe certamente rilevato, e con pieno assentimento, questo giudizio storico di Engels sulla scienza naturale e sulla filosofia, da questi formulato specialmente nei confronti di Moleschott, di Vogt, di Büchner e di Haeckel e con riferimento all'hegelismo, al darwinismo ed alla scienza positivi-stica: «La filosofia compie una vendetta postuma contro la scienza per il fatto che la scienza l'ha abbandonata, e tuttavia gli scienziati avrebbero potuto vedere, già dai successi scientifici della filosofia, che in tutta questa filosofia c'era qualcosa di superiore a loro anche per quel che concerne il terreno loro proprio, specifico (Leibniz, fondatore della matematica dell'infinito, di fronte al quale Newton, schiacciato daI
1 Opera postuma di Engels, da lui lasciata incompiuta e in gran parte allo stato frammentario (qui citata nella trad. ital. La dialettica della natura, Roma, Ed. Rinascita, 1950, 2' ed.).
2 ENGELS, oli. cit., p. 198.
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metodo induttivo come un asino dalla soma, fa la figura del plagiario e del guastatore; Kant, teoria delle origini cosmiche prima di Laplace; Oken, il primo in Germania ad accettare la teoria dell'evoluzione; Hegel: la sintesi e i1 raggruppamento razionale delle scienze naturali da lui fatti sono un'impresa molto piú grande di tutti gli assurdi materialistici messi insieme)... Gli scienziati credono di liberarsi dalla filosofia ignorandola o insultandola; ma poiché senza pensiero non vanno avanti e per pensare hanno bisogno di determinazioni di pensiero e accolgono però queste categorie, senza accorgersene, dal senso comune delle cosí dette persone colte dominato dai residui di una filosofia da gran tempo tramontata, non sono affatto meno schiavi della filosofia, ma lo sono il piú delle volte purtroppo della peggiore. Gli scienziati possono prendere l'atteggiamento che credono: essi sono sotto i1 dominio della filosofia. C'è da porre solo il problema se essi vogliono essere dominati da una cattiva filosofia corrente, o da una forma di pensiero teorico che riposa sulla conoscenza della storia del pensiero e sui suoi risultati » 1. $ vero, e non si può omettere di parlarne, che Engels, distinguendo l'indirizzo filosofico basato su « categorie fisse » da quello dialettico basato su « categorie fluide » (e per questo indirizzo egli si contentava di fare solo i nomi di Aristotele ed Hegel), e giudicando insostenibile la rigida opposizione di premessa e conseguenza, di causa ed effetto, di identità e differenza, di realtà ed apparenza ecc., in quanto « l'un polo è già contenuto in nuce nell'altro, e ad un certo momento si muta nell'altro, e tutta la logica si sviluppa proprio dallo svolgersi di questi contrasti », tuttavia non mancò di ripetere anche in questi manoscritti inediti, che però « tutto ciò, nello stesso Hegel, è mistico, perché la categoria in Hegel appare come preesistente, e la dialettica del mondo reale appare solo come un suo riflesso »; e che quindi « in realtà la cosa va capovolta »; ed è piuttosto e solo « la dialettica del cervello... un riflesso delle forme di movimento del mondo reale, della natura cosí come della storia » 2. Ma si è trattato ancora e non di piú che di una ripetizione del famoso « capovolgimento» feuetibacchiano e piú ancora marxistico, cioè soltanto di una inversione del rapporto tra
1 ENGELS, op. cit., pp. 198, 203-4.
2 ENGELS, op. cit., p. 197.
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i momenti dialettici, e non della soppressione di uno di essi (cioè del momento ideale, a vantaggio di un monismo realistico o materialistico). E infatti Engels si spinge quasi a dare — ad es., rispetto al morfologo Richard Owen, che aveva scritto di una « idea archetipa » che si sarebbe manifestata in organismi animali in diversi aspetti sulla terra, già « moho tempo prima dell'esistenza di quegli animali che attualmente la esemplificano » — un po' piú di ragione proprio allo Hegel, per avere questi concepito « la natura come manifestazione dell'idea eterna nella sua estrinsecazione », con queste parole forse piú pensose che sarcastiche: « Se lo dice uno scienziato mistico, che dicendo cosí non ha in mente nulla, tutto va liscio; se la stessa cosa la dice un filosofo, che cosí dicendo ha qualcosa in mente (e anzi al fondo la verità, anche se in forma capovolta), allora egli è un mistico, e il suo è un delitto inaudito » 1.
1 ENGELS, op. cit., p. 200. Mi par utile riportare qui dall'opera postuma di Engels alcuni riferimenti relativi all'idea della finalità. A p. 202 è criticata la netta contrapposizione delle causae finales e delle causae efficientes compiuta da Haeckel (nella sua Antropogenia), il quale rifiutò semplicisticamente le prime, in quanto per lui la causa finalis senz'altro è = Dio, mentre Engels ammette la conciliabilità delle due forme di causalità, ed osserva ad Haeckel che « ciò che egli dice qui della Critica del giudizio di Kant non è in accordo con Hegel » (il quale aveva lodato altamente Kant per le sue riflessioni sulla finalità interna della natura). Pure contro Haeckel è l'altra osservazione di Engels, che non è vero che il vitalismo o la teleologia sia dualismo: « già in Kant e in Hegel la finalità interna è una protesta contro il dualismo; il meccanicismo applicato alla vita » — al modo di Haeckel — « è una categoria inerme » (e qui Engels rimanda alla trattazione della finalità nella Logica di Hegel, ne riproduce alcuni passi relativi al meccanismo ed alla teleologia, e inoltre non trova né esagerato, né paradossale o inammissibile (pas trop fort) ciò che Hegel dice dell'istinto (o tendenza : Trieb), e conclude con questa battuta che non mi sembra un fin de non recevoir: « Nell'organismo la finalità interna si manifesta attraverso l'istinto », che mette « piú o meno in armonia il singolo vivente con la sua idea »; e « da ciò vien fuori quanto tutta la finalità interna sia pur essa un determinismo ideologico. E tuttavia Lamarck è contenuto in essa ». Un altro luogo, in cui Engels adoperò il concetto della finalità è quello (nell'Antidühring), in cui egli considera il rapporto sociale determinatosi tra Robinson e Venerdì non come un mero rapporto di forze ineguali, o di forza per la forza e per il dominio, bensí come un rapporto di utilità reciproca, e soprattutto di vita (e s'intende bene, con preminente vantaggio del signore sul servo). In tale luogo Engels osserva che « la forza è solo il mezzo, e il fine è il vantaggio economico»; e inoltre che «quanto è piú fondamentale il fine del mezzo che s'impiega per raggiungerlo, tanto è piú fondamentale nella storia il lato economico del rapporto, di fronte al lato politico ». Per le considerazioni a me parse necessarie su tale riflessione critica di Engels, la quale ha un notevole motivo di vero, e per il superamento del concetto di Stato come mera economicità e politicità in senso deteriore, rimando a1 mio recente studio Ripresa spaventiana, pp. 34-5 (ed. Gheroni, Torino, 1956).
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Ci è accaduto di scorgere che per Engels il noto « capovolgimento » della dialettica hegeliana non significava affatto il travolgimento, la soppressione vera e propria del momento ideale e la sostituzione integrale
e monistica del momento opposto, cioè di quello reale, estrinseco e materiale, bensí significava solo un'inversione del rapporto tra i due momenti dialettici, qual era stato inteso da Hegel; e certo la significava con la precedenza e preminenza, in agni senso, del reale, estrinseco e materiale rispetto al suo opposto. Non si trattava dunque di una decapitazione dell'uomo perché potesse camminare sulle proprie gambe, anziché sulla propria testa, come secondo una notissima immagine Marx aveva criticamente raffigurato il movimento della dialettica — secondo lui — astratta
e mistificatrice di Hegel. E poiché questa inversione del rapporto tra l'ideale e il reale, anche nell'immagine della testa stante all'ingiú, anziché eretta sulle spalle e sulle gambe (con la forza delle quali soltanto é possibile portare il proprio corpo e camminare), riguarda — nel concetto
e nell'immagine — direttamente il rapporto tra il fine e la causa, o il fine e il mezzo (o i mezzi), e può quindi bene sviluppare ed arricchire l'esposizione del pensiero di Gramsci in rapporto al tema propostomi, importa che io esamini anche ciò che egli ha scritto sul detto motivo critico della filosofia d'ella prassi contro la concezione del mondo storico ponente l'uomo « con la testa all'ingiú » . Gramsci dunque, in una lunga riflessione filologica su Marx e Hegel j, comincia con l'avvertire che « nello studio dello hegelismo di Marx » occorre ricordare che questi (il quale ebbe « carattere » — e Gramsci fece pur bene a rilevarlo —« eminentemente pratico-critico ») aveva partecipato alla vita universitaria di Berlino pochi anni dopo la morte di Hegel (1831), cioè quando doveva essere ancora vivissimo « il ricordo dell'insegnamento orale di Hegel e delle discussioni appassionate » da esso già suscitate, e soprattutto in riferimento alla storia concreta. E in tali discussioni certamente « la concretezza storica del pensiero di Hegel doveva risultare molto piú evidente » di quanto in avvenire possa essere risultato dallo studio degli « scritti sistematici » del filosofo. Cosicché Gramsci espresse l'avviso che « alcune affermazioni » di Marx dovettero essere legate proprio a quella « vivacità conversativa: per es., l'affermazione che Hegel fa camminare gli uomini
1 M. S., pp. 70-1, in fine al frammento « Marx ed Hegel » .
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con la testa in gin » . E qui è importante riferire che lo stesso Gramsci tentò di ricondurre in qualche modo alla fonte hegeliana questa plastica e notissima immagine critica di Marx (e che fu poi anche di Engels), raffigurante un uomo capovolto, che stando con la testa in basso e con le gambe per aria si sforzi tuttavia di camminare (come sanno fare i saltimbanchi), e diretta quindi a riprodurre — con immediato e irresistibile effetto di comicità — la strana posizione che all'uomo sarebbe stata data dalla concezione hegeliana della filosofia della storia e, anzitutto, da quella del diritto e dell'eticità. Difatti Gramsci osservò che l'immagine degli « uomini con la testa in giú » dové derivare dallo stesso Hegel, poiché questi se ne era servito « parlando della Rivoluzione francese » , e scrivendo che « in un certo momento della Rivoluzione francese (quando fu organizzata la nuova struttura statale) pareva che il mondo camminasse sulla testa, o qualcosa di simile ». Egli inoltre (affidandosi ancora ad un suo vago ricordo, per l'impossibilità in cui si trovava di riscontrare le fonti) aggiunse anche che il Croce si sarebbe una volta domandato « di dove i1 Marx abbia preso questa immagine » ; ed in conclusione della sua notazione filologica tornò a scrivere che quella immagine si trovava « certamente in un libro di Hegel (forse la Filosofia del diritto: non ricordo) »; o che piú veramente gli appariva « scaturita da una conversazione tanto è fresca, spontanea, poco " libresca " » . E in una breve nota a questo punto si legge — a proposito sempre della suddetta immagine — che A. Labriola aveva scritto: «Gli è proprio quel codino di Hegel che disse come quegli uomini (della Convenzione) avessero pei primi, dopo Anassagora, tentato di capovolgere la nozione del mondo, poggiando questo su la ragione» ~.
Gramsci dunque aveva colto nel vero ritenendo che proprio Hegel era stato il primo ad usare l'immagine della « testa » dell'uomo (ossia del suo « pensiero ») come reggente e movente sopra di sé il mondo umano; quindi prima che la stessa immagine venisse poi usata ed abusata nelle conversazioni, discussioni e anche polemiche di scuola, tanto a sostegno dell'idealismo storico-politico di Hegel, quanto per la critica realistica — anzi la satira — di tale idealismo. Da una tale critica perd
1 A. LABRIOLA, Da un secolo all'altro, ed. Dal Pane, p. 43.
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quell'immagine veniva rovesciata e integrata (per l'effetto umoristico) a rappresentare non piú il mondo della storia e realtà umana, prodotto si ed obbiettivato e separato dall'uomo, che ne è l'autore, ma pur sempre poggiante « sulla testa » di lui, che — in posizione eretta e non capovolta — è il reale sostegno, anzi il produttore e portatore di esso (come il gigante Atlante nella mitologia greca reggeva sulle sue spalle la terra, o tutto il mondo fisico), ma a rappresentare invece la ridicola immagine di un uomo capovolto come un saltimbanco, cioè con la testa all'ingiú e con le gambe per aria, e che in tale posa s'affaticasse non solo a muovere sé stesso mediante la testa e le mani, ma a reggere e a portare eventualmente anche qualche altro peso. Ed è ovvio che se non si sta sui piedi, e non si hanno buone gambe, non si può portare in giro il proprio corpo, né si può portare alcunché sulle proprie spalle o sulla propria testa. Ma oltre la vaga indagine filologica, indicata
piuttosto che eseguita — da Gramsci, sull'origine dell'immagine degli « uomini con la testa all'ingiù », e oltre la riferita citazione del Labriola (risalente esattamente .a una fonte hegeliana 1), nulla è possibile trovare, nella filologia marxistica, che di quella immagine in essa pur tanto ripetuta nel senso critico datole da Marx e da Engels valga a scoprirne l'origine e la fonte vera, e forse anche a precisarne storicamente l'esatto senso e valore, tanto positivo nell'uso fattone dallo Hegel, quanto negativo nell'uso a controsenso e a distorsione critica, a cui ben presto quell'immagine della testa (resa, da eretta, rovesciata) era stata comicamente ridotta da qualche spiritoso antihegeliano, o piú verisimilmente da un riformatore di sinistra del sistema di Hegel. Ed io confesso di aver provato un certo disappunto per non aver trovato alcuna soddisfazione ad una
1 Cioè alla Filosofia della storia di Hegel (cap. ultimo: p. 552 dell'ed. tedesca Reclam, Leipzig, 1924). Il passo a cui Labriola si riferiva (esprimendo soprattutto un consenso, e non una critica, e per il pensiero di Hegel e per la opera dei giacobini, in quanto essa intendeva porre il mondo della storia sulla testa dell'uomo, cioè basarlo sulla ragione) è questo: « Da quando il sole sta fisso nel firmamento ed i pianeti gli girano intorno, non si era ancora visto che l'uomo si pone sulla testa, cioè sul pensiero, e secondo questo costruisce la realtà — sich auf den Kopf, das ist, auf den Gedanken stellt, und die Wirklichkeit nach diesem erbaut. — Anassagora aveva per primo detto che il nous governa il mondo, ma soltanto ora l'uomo era giunto a conoscere che il pensiero debba regolare la realtà spirituale. E con ciò si ebbe una splendida levata di sole, e tutti gli uomini pensanti hanno celebrato questa epoca ».
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siffatta curiosità filologica (che non è però solo filologica), nella vasta
e ricca ricerca filologico-filosofica intrapresa dal Lukàcs in una sua pregevole opera 1, in cui con grande diligenza e discernimento ha indagato
e ripresentato le fonti del pensiero hegeliano e di quello marxistico, ed ha adoperato assai di frequente, ed a scopo critico, la frase auf den Kopf quasi come un trito ritornello o uno scongiuro.
però un fatto che il nostro A. Labriola, la cui illuminata e profonda ortodossia marxistica è fuori discussione anche rispetto alla revisione critica della filosofia della storia di Hegel, si astenne tuttavia dall'usare — a scopo di critica — quell'immagine della testa umana rovesciata, cosí com'era stata, se non foggiata, adoperata anche da Marx. Né si può supporre che il Labriola l'avesse ignorata, o non l'avesse rilevata, ma piuttosto che egli, piú avveduto e moderato critico della posizione hegeliana in materia di filosofia della storia e di etica e politica, non intendesse di spingere la sua critica fino al segno di un totale rovesciamento o capovolgimento di quella. Ed io non ritengo qui fuori luogo di richiamare una chiara allusione al senso astrattamente realistico o materialistico, cioè troppo unilaterale, che quell'immagine aveva assunto contro l'idealismo hegeliano, cioè l'allusione che ad essa fu fatta dallo Spaventa in un luogo della sua Logica e Metafisica, dove essa è accompagnata dalla dovuta critica. Premessa da lui l'esplicita ammissione che sia impossi-
1 È l'opera di G. LUKÀcs, Der ¡unge Hegel - Ueber die Beziehungen von Dialektik und Oekonomie, Zürich - Wien, 1948. Lukàcs, mentre omette « la ricerca dell'originalità filosofica di Hegel » in ordine alla finalità della natura, poiché per essa occorrerebbero delle « ricerche specifiche», e carica alquanto l'opposizione che Engels (in Dialektik in der Natur, pp. 654-5) avrebbe visto tra Hegel e Kant circa la «finalità interna », inoltre a me sembra che avrebbe potuto un po' meglio intendere la posizione di Engels sul nostro problema, e non avrebbe dcvuto troppo facilmente ritenere che Kant avesse dimostrato scarsa lungimiranza
e non molta intelligenza del vero col suo motto sul « filo d'erba » (in Critica del giudizio: « $ cosa sciocca per gli uomini anche il solo sperare che possa un giorno nascere un Newton, il quale renderebbe concepibile anche la sola produzione di un filo d'erba secondo leggi naturali, che nessuna veduta finalistica abbia. ordinata »), poiché mezzo secolo dopo, nella persona di Darwin, sarebbe sorto questo « Newton dei fili d'erba » (p. 436). Lukàcs ignora certamente il lavoro di approfondimento occorso a B. Spaventa per congiungere insieme l'evoluzione del Darwin col dialettismo idealistico dello Hegel (lavoro che Spaventa « corn-pié da sé » nel 1864, e cioè appena un quinquennio dopo l'apparizione del capolavoro di Darwin; e del felice congiungimento dell'evoluzione naturalistica con la dialettica del pensiero Antonio Labriola altamente lodò il suo antico maestro in una lettera a Engels del 14 marzo 1894).
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bile trattare la filosofia della storia « sulle nude tre dita dell'Idea in sé, Idea fuori di sé e Idea in sé e per sé, senz'altro » (o, in altri termini, soltanto « sulla testa delle Idee, o dello Spirito », come suonava il ritornello critico dei marxisti), cosí Spaventa proseguiva: «Quel che non posso ammettere è il dommatico aut-aut del realismo e dell'idealismo, dell'a posteriori e dell'a priori; o con buone gambe, ma cieco; o veggente, ma zoppo. Hegel stesso ha sempre protestato contro questa mutilazione dell'integrità dello spirito scientifico. E pure ci ha di quei che annunziano di aver superato Hegel, sacrificando la luce , degli occhi al facile uso delle gambe » 1.
Mi sembra infine un'opportuna conclusione di questo lavoro di ricerca sul concetto della finalità in un indirizzo teoretico-pratico, che sempre piú consapevolmente e con un senso critico fatto di giustizia storica si ricollega alla concezione filosofica dello Hegel, il dare proprio a lui l'ultima parola. Il luogo filosoficamente piú importante e significativo in cui Hegel usò l'immagine auf dem Kop f e gehen sta nella « Prefazione » della Fenomenologia 0806), e, sebbene non potesse allora pensare di offrire egli stesso, e proprio con un suo concetto e una sua immagine assai felice ed espressiva, un argomento critico di facile uso e di grande effetto ai suoi futuri contraddittori o riformatori, è però da riflettere che l'averlo egli stesso escogitato e formulato, ed anzi indicato come un momento naturale e necessario della coscienza fenome-nologica, costituisce una posizione di forza per il suo scopritore, che poté segnarne anche il limite di validità e di uso, e inoltre superarlo nel processo ulteriore della stessa coscienza fenomenologica. Ma ai suoi tardivi e frettolosi avversari o riformatori la mancata identificazione — da. parte loro — del luogo teoreticamente piú importante e di maggiore significato, in cui quell'argomento concettuale e critico era stato ad un tempo e scoperto ,nella coscienza fenomenologica e preventivamente superato e confutato, non permise di avvertire che non era legittimo né sicuro l'uso di un'arma non di loro costruzione, e proprio contro chi ne era stato l'inventore e il neutralizzatore. Con siffatta arma di critica una apparenza, ovvero un riflesso della coscienza fenomenologica, veniva adoperato contro la reale sostanza o il soggetto della coscienza.
1 B. SPAVENTA, Logica e Metafisica, Bari, 1911, p. 303.
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elevatasi a scienza (l'organismo del sistema di Hegel), cioè contro la sorgente luminosa di quell'apparenza o riflesso, il quale certo ne è una necessaria presupposizione, ma è come una scala che permetta di salire ad una sommità. Ed ecco il luogo di Hegel nella sua quasi letterale espressione, e con qualche lieve sfrondamento: « Il pur o conoscere sé stesso nell'assoluto essere altro, questo etere come tale, è il fondamento e il corpo della scienza, ovvero il sapere in generaie. I1 cominciamento della filosofia ha per presupposto ed esigenza che la coscienza venga a trovarsi in questo elemento, il quale però ottiene il suo compimento e la sua trasparenza [ossia l'interna conoscenza, quella data dalla Logica di Hegel) mediante il movimento del suo proprio divenire... La scienza richiede da parte sua all'autocoscienza che questa si sia elevata in questo etere affinché possa vivere con lei ed in lei, e affinché viva; e all'opposto l'individuo ha diritto di esigere che la scienza gli fornisca almeno la guida per elevarsi al detto punto di vista, e che gli mostri lo stesso in lui stesso... Mentre la posizione della coscienza vale come sapere le cose oggettive in opposizione a sé stessa e sé stessa in opposizione ad esse, per scienza essa vale come ciò che è 'l' altro — come ciò che si sa solo presso di sé, ed è piuttosto i1 perdersi dello spirito, — per tal modo alla coscienza l'elemento della scienza è all'opposto un lontano al di là, nel quale essa non possiede piú sé stessa. Ognuna di queste due parti sembra per l'altra il rovescio della verità. Nel caso che la coscienza naturale si affidi immediatamente alla scienza, questo tentativo, che essa fa senza sapere da che cosa vi sia indotta, sembra essere per lui come una specie di tentativo di camminare all'improvviso poggiando sulla testa 1; la costrizione a prendere questa inusitata posizione ed a muoversi in tale posizione è un violentamento, che apparisce senza allenamento e senza necessità. La scienza può essere in sé quel che voglia essere, ma rispetto all'autocoscienza immediata essa si mostra come il rovescio di questa; o in altri termini, poiché questa stessa ha nella certezza di sé stessa il principio della sua realtà, la scienza porta con sé, in quanto l'autocoscienza è fuori di lei, la forma della irrealtà ».
Con un po' di spirito, si potrebbe forse anche concludere, dopo
1 Anziché camminare poggiando sui piedi (il testo tedesco è: ist ein Versuch den es... macht, auch einmal auf dem Kopfe zu gehen).
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l'attenta lettura e comprensione di questo importantissimo passo di Hegel, che qui si abbia innanzi il reo che si confessa; ma poiché non è da credere che con una cosí arguta e lucida esposizione dei due opposti punti di vista, — quello della coscienza naturale e fenomenologia, e quello della coscienza scientifica, logica o assoluta, — Hegel avesse proprio scelto per sé di camminare sulla propria testa, a me sembra piú esatto giudizio che egli abbia, in questa pagina della Fenomenologia, fatto ad un tempo la previsione di una futura critica alla sua dottrina della scienza filosofica (la quale è un monismo, cioè una identità di reale .e d'ideale non immediata, ma provata dialetticamente) e la correzione anticipata dell'opposta dottrina, che si arresta al dualismo di esistenza e coscienza, e considera questa come un mero riflesso di quella, e non come il coronamento e l'autoriflessione della stessa realtà o esistenza nel suo sapersi ed attuarsi, ossia la finalità ultima, che è la finalità stessa del reale e ad esso immanente.
Ritengo cosí di aver messo in opportuna luce, e riportato all'attualità della presente considerazione e ricerca filosofica un importante filone di pensiero di Antonio Gramsci, e ripreso insieme una esigenza teoretica interna alla filosofia della prassi ed al suo metodo dialettico nella sua concezione della natura e della storia umana e nella sua azione conseguente, aprendo infine una vasta ed interessante prospettiva di lavoro.
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  • Primo convegno Internazionale di Studi Gramsciani tenuto a Roma nei giorni 11-13 gennaio 1958
 
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Pubblicazione Roma+++ | Editori Riuniti+++ | Anno: 1958
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