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tipologia: Analitici; Id: 1472505


Area del titolo e responsabilità
Tipologia Periodico
Titolo Tibor Mende, Il triangolo della decisione [traduzione di Renato Pedio]
Riferimento diretto ad opera
Tibor Mende, Il triangolo della decisione [traduzione di Renato Pedio], in «Nuovi Argomenti», n. 41 (novembre-dicembre 1959)+++
  • Tibor Mende, Il triangolo della decisione [traduzione di Renato Pedio], in «Nuovi Argomenti», n. 41 (novembre-dicembre 1959) ; ;
  istanza descrittiva+++   
Responsabilità
Mende, Tibor+++
  • Tibor Mende ; ; ; ; ;
  autore+++    
Pedio, Renato+++
  • Renato Pedio ; ; ; ; ;
  traduttore+++    
Area della trascrizione e della traduzione metatestuale
Trascrizioni
Trascrizione Non markup - automatica:
IL TRIANGOLO DELLA DECISIONE
La stampa di tutto il mondo ha analizzato ampiamente il significato degli avvenimenti cinesi. Minore attenzione ha destato l'impulso che l'evoluzione cinese ha impresso agli altri paesi asiatici: e in particolare a due tra le più importanti nazioni confinanti, l'India e il Giappone. Eppure la Cina, con questi due importantissimi vicini, costituisce una specie di triangolo entro il quale vive una percentuale decisiva della popolazione mondiale, ed entro il quale potrà decidersi, con tutta probabilità, il destino politico del mondo.
Nel complesso la popolazione attuale del Giappone, dell'India e della Cina ammonta a circa 1.150 milioni; vale a dire ad oltre il 40 per cento di tutto il pianeta. Sappiamo che questa percentuale aumenterà. Nel 1975, per esempio, con 1.600 milioni, rappresenterà circa il 45 per cento. E se diamo ascolto alle previsioni demografiche, nell'A.D. 2000 — cioè tra non più di quarant'anni — in questi paesi vivranno oltre tre miliardi di uomini, ossia più della metà dei sei miliardi di cui si prevede composta, per quell'epoca, l'umanità.
E queste cifre formidabili non dicono tutto. In primo luogo gli esperimenti sociali che si svolgono in questi tre paesi è probabile influenzino l'evoluzione di_altre importanti masse asiatiche, africane e dell'America Latina. Inoltre il Giappone, l'India e la Cina presi insieme influenzano tutto il resto dell'Asia sud-orientale, la quale contiene altri 200 milioni di uomini. In realtà l'Asia sud-orientale, il Giappone, la Cina e l'India presi insieme potranno contare, entro un quarantennio circa, quasi due terzi della popolazione totale del globo.
Si pub dunque ritenere interessante esaminare quale possa essere il probabile sviluppo del Giappone e dell'India nei prossimi dieci o quindici anni; come questi paesi possano influenzare l'evo-
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luzione dei paesi asiatici minori, e come il triangolo Cina-India-Giappone possa influire sulle relazioni di questa massa enorme di popolazione col mondo occidentale.
Partiamo, dunque, dal Giappone.
Il Giappone: all'ombra della Cina.
Durante il mio recente soggiorno in Giappone un amico mi condusse in un piccolo bar, il Donzoko. Tokio ha quattro quartieri di divertimento, in ognuno dei quali centinaia di insegne luminose al neon segnano gli ingressi a simili locali. Il Donzoko se ne differenziava per il nome. Significa « Bassifondi », e le parole russe scarabocchiate sui muri non lasciavano dubbio sul fatto che il nome fosse stato mutuato da Massimo Gorki.
Come migliaia dì simili bar e caffé minimi delle città giapponesi, anche il Donzoko aveva un sotterraneo, ed era male illuminato. I clienti sedevano in solitaria meditazione o preferivano accalcarsi negli angoli più bui. Dopo un certo numero di bicchieri tendevano a prorompere in canti corali: in genere canzoni francesi o russe. C'erano riviste di sinistra sui tavoli, e la conversazione che si poteva cogliere si aggirava su argomenti di filosofia, di letteratura o di politica. La differenza del Donzoko da consimili' posti a Montmartre o al Greenwich Village consisteva unicamente nel fatto che gli ospiti sembravano prendere le proprie parti troppo sul serio. Tutto — il fumare a catena, il meditare a occhi chiusi, le discussioni appassionate — si svolgeva come se ognuno desiderasse contribuire in proprio alla grande, ossessiva ricerca di qualche cosa in cui credere.
« Molti tra quelli con cui lei ha parlato sono attivisti delle Zenkarungen, l'ala di estrema sinistra della federazione universitaria » — mi spiegò il mio amico giapponese dopo una serata di discussioni. « Vengono qui e cantano canzoni russe, citano Marx e pretendono di essere contro tutto ciò che ha legami col passato, ma in conversazioni più intime ridiventano spesso nazionalisti alla vecchia maniera. Vanno fieri delle gesta militari giapponesi durante la guerra e alla televisione i drammi di samurai sono i loro
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favoriti. In loro l'eccitazione, in realtà, serve a compensare il vuoto ideologico. Ne ho conosciuti molti — continuò — che, appena trovato un lavoro consistente, tornavano immediatamente nazionalisti e conservatori. Rimosso il terrore del futuro, ricadono subito nella mentalità tradizionale ».
Pensai: queste osservazioni riassumono con notevole esattezza i problemi non soltanto dei giovani ma della maggioranza dei giapponesi d'oggi.
È vero che Tokio ha semafori a comando elettronico, ma molti di più sono i metropolitani che dirigono il traffico con una lanterna di carta in mano. Possiamo restare sbalorditi dalla spettacolare pubblicità luminosa, ma tornando a casa si passa per strade senza marciapiedi e senza un barlume di luce elettrica. Le riviste di spogliarello sono gremite, ma ho dovuto fare ore di coda per un biglietto del teatro classico. Sullo schermo televisivo del ristorante vedevo programmi di tipo americano, ma molto maggiore é la richiesta di canzoni antiche sui soliti fiori di ciliegio ,e sul ciclo inesauribile dei samurai. Chi ha i mezzi per scegliere tra un appartamento moderno e una casa tradizionale infallibilmente sceglie quest'ultima, di legno, col piccolissimo giardino intorno ornato di schegge di roccia. I contributi volontari per la riparazione delle antiche cappelle scintoiste superano ogni previsione. Cioè, per milioni di giapponesi le ore passate in ufficio o in fabbrica costituiscono ancora un contatto spiacevole col ventesimo secolo. Li si può vedere dopo le sei di sera — come fossero guidati da una qualche atavica urgenza collettiva — indossare il chimono e i sandali di legno e passeggiare lungo i bagni municipali, proprio come facevano, con gli stessi abiti, le generazioni prima di loro. E se anche alcuni quotidiani hanno avuto la temerità di definire il Palazzo imperiale un ostacolo alla circolazione, chiedendone la rimozione dal centro di Tokio, ho visto migliaia di persone attendere per ore, nell'aspro gelo della notte di Capodanno, di vedere affacciarsi un istante l'Imperatore al balcone di quello stesso Palazzo.
Evidentemente il pendolo, nel dopoguerra, ha compiuto una oscillazione troppo spinta. Qualcosa di nuovo è stato assaporato,
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con le sue libertà e i suoi pericoli, e inevitabilmente lascerà traccia; ma l'ombra del passato é sempre preponderante. Le dure realtà di base della vita giapponese non sono mutate. E si moltiplicano anzi i segni che già il pendolo stia oscillando sulla via del ritorno.
La gente che affolla ogni natte il Donzoko non é che un campione di un popolo in cui la continuità del modo di pensare é stata rotta repentinamente. Assomigliano un poco ai passeggeri di una nave che improvvisamente abbiano perduto ogni fede nella propria bussola. Per metà lieti della subitanea libertà dall'antica rotta obbligata, e per metà terrorizzati dai pericoli della deriva, cercano la giusta direzione.
Perfino nelle piccole città mi sono stupito del gran numero di giovani donne che si conformano ai dettami più bizzarri dell'ultima moda parigina. Un giovane pittore americano specializzato in inintelligibili macchie di colore, che viaggiava nello stesso mio aereoplano, fu ricevuto all'aeroporto di Tokio da una folla delirante che agitava bandierine americane e giapponesi. Alloggiando insieme ad una modesta famiglia giapponese in una cittadina meridionale, con somma meraviglia trovai che, mentre si nutrivano miseramente a base di riso, facevano qualunque sacrificio al culto degli elettrodomestici. Il bagno era la solita cassa di legno; ma in cucina avevano un frigorifero e una macchina per frullare, il padre (bibliotecario) usava il rasoio elettrico, e di sera tutta la famiglia si raccoglieva davanti al televisore. Nelle librerie stavo sempre in mezzo a una folla che sfogliava avidamente le ultime traduzioni della narrativa occidentale d'avanguardia, e le riviste letterarie di massa analizzano nei minimi dettagli le tendenze letterarie occidentali più insignificanti.
Tutte queste non sono che manifestazioni superficiali del vuoto spirituale determinato dal collasso delle concezioni giapponesi prebelliche. E un vuoto grave, e una cosa lo sottolinea: l'universale terrore del futuro.
Come vede immediatamente qualsiasi visitatore del Giappone, la popolazione ha un senso estetico sviluppato su un piano straordinariamente generale. Ne deriva la possibilità di mascherare le brutture della povertà, rendendole così meno umilianti e, entro
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questo limite, piú tollerabili. Pure, malgrado sia meno offensiva, la povertà é reale in Giappone. 93 milioni di persone si accalcano in quattro isole la cui superficie totale supera appena la metà della Francia. Il paese é povero di materie prime e solo un quinto del suolo é coltivabile. Già il venti per cento del fabbisogno alimentare dev'essere importato, e l'incremento demografico é di oltre un milione di unità all'anno.
Malgrado ciò il Giappone gode di una prosperità senza precedenti. Molti vivono assai meglio di prima della guerra. Gli aiuti americani, la modernizzazione degli impianti e l'abolizione dei grandi investimenti nell'industria di guerra ne sono la causa. Ma anche se il Giappone esporta più di quanta abbia mai esportato, il suo commercio incide sul commercio mondiale in proporzione minore di quella prebellica. Perciò l'orario di lavoro é lungo e i salari bassi; il lavoro é scarso e gli aspiranti a qualsiasi posto sono migliaia. È del tutto comune che i laureati svolgano attività manuali; moltissimi studenti devono lavorare duramente per mantenersi agli studi. Perdere il lavoro può significare anni di miseria: è la causa principale dell'alta percentuale di suicidi.
Le statistiche parlano di un reddito medio individuale pari a circa un terzo di quello dell'Europa occidentale, e un recente Libro Bianco ha rivelato che almeno una su dieci famiglie giapponesi deve vivere con un'entrata mensile di 8.000 yen, ossia molto al disotto del livello minimo di sussistenza.
Ma la miseria e l'incremento demografico non bastano a spiegare questa generale paura del futuro; essa ha cause più profonde.
Una tra esse è l'artificiosità del commercio asiatico d'esportazione nel dopoguerra. Prima della guerra, quando era alla testa di un impero, il Giappone importava dall'Asia per il cinquanta per cento ed oltre, e vi esportava per oltre due terzi del proprio totale. Era uno schema commerciale naturale, che ha subito mutamenti drastici in seguito alla perdita dell'impero e alle restrizioni commerciali con la Cina imposte dagli Americani. Il commercio estero giapponese si concentra oggi sugli Stati Uniti, sull'Asia sud-occidentale, e su altre aree lontanissime, sparse per tutto il globo. Oggi le materie prime che giungevano dal vicino continente de-
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vono essere trasportate attraverso gli oceani: di conseguenza il costo aumenta, e spesso per pagarle é necessaria moneta forte.
Il Giappone é costretto ad affidarsi a una rete commerciale sempre piú vulnerabile, mentre aumentano tanto la popolazione che l'istanza sociale a un migliore tenore di vita. Complicazioni politiche in Estremo Oriente, un regime di concorrenza piú aspro nell'Asia sud-orientale, o un fenomeno di recessione economica prolungata negli Stati Uniti — e tutto il precario edificio può crollare. Il che significherebbe piú disoccupati, ancor minore probabilità di trovare lavoro, ancor più basso tenore di vita e, con ogni probabilità, la fine delle ancor fragili istituzioni politiche del dopoguerra. E comprensibile che qualunque teoria che prometta di riempire il vuoto ideologico e simultaneamente garantisca la sicurezza economica abbia ottime probabilità di sedurre il popolo giapponese.
Come é facile capire i comunisti sostengono di offrire esattamente questa medicina. Hanno un'ideologia disponibile e trasmis- sibile. La sicurezza economica sta nel commercio con la Cina. Eppure il comunismo non ha in Giappone reale forza politica. È vero che i comunisti hanno un ruolo notevole nei sindacati, ma l'elettorato praticamente li" ignora. Solo un settore limitato della gioventù li segue con entusiasmo. Ora la spiegazione di questo insuccesso sorprendente sta senza dubbio nel « complesso cinese » del popolo giapponese.
Sui planisferi degli uffici e delle aule nipponiche il Giappone compare al centro del mondo. A destra, oltre l'immenso oceano, gli Stati Uniti : un grosso problema. Ma subito sulla sinistra, con la sua sterminata macchia rossa che seppellisce le minuscole isole del Giappone, si estende la Cina: quasi un'ossesione. In realtà i giapponesi contemporanei concepiscono la Cina in modo abbastanza simile a un iceberg. Solo una piccola parte di essa é alla superficie, accettata e discussa; ma la sua massa naviga minacciosa sotto qualsiasi problema di rilievo e potrebbe far naufragare qualunque piano che tenti di ignorarne la presenza.
È sia con incredulità che con ammirazione che i giapponesi assistono alla trasformazione cinese. Molti sono abbacinati dalla
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scoperta che la Cina coloniale che avevano conosciuto può presto superarli sul piano produttivo; la recente spinta del commercio cinese verso l'Asia sud-orientale ha costituito uno shock. E alquanto sorprendente che in tale occasione i giornali giapponesi gridassero al <c dumping ». Nel frattempo nascono come funghi società per il progresso del commercio cino-giapponese le quali promettono prosperità e sicurezza non appena il carbone e i minerali metallici cinesi possano essere scambiati con le macchine giapponesi. E coloro che sostengono che la rapida industrializzazione cinese non consentirà eccedenze di materie prime per l'esportazione, vengono ridotti al silenzio dall'argomento che i geologi cinesi hanno scoperto grossi giacimenti nuovi. Sia come sia, a Pechino vanno in pellegrinaggio, oltre ai simpatizzanti politici, rispettabili industriali, e tutti ne ritornano con promesse vaghe ma spettacolose.
Cresce il fascino della Cina, qualunque siano le possibilità reali. Il terrore del futuro e la propaganda di Pechino valgono a incoraggiarlo. E impressione generale che in Asia stiano succedendo cose decisive e che al Giappone, potenza asiatica, sia interdetto parteciparvi. E ansiosamente avvertita la possibilità che il Giappone si trovi tagliato fuori dalle idee e dai risultati di questa grande trasformazione. E soprattutto si profila il pericolo che un giorno o l'altro la Cina possa soppiantare il Giappone sugli essenziali mercati asiatici.
Quest'ansia é aggravata da due ulteriori fattori.
In ottant'anni, e mentre la sua popolazione triplicava, il Giappone si é trasformato da società per 1'80% agricola in una società nella quale solo il 40% é legato all'agricoltura; che è il sogno di molti paesi asiatici. È più che naturale che l'orgoglio nazionale giapponese sia stato lusingato dalla convinzione che il suo sistema di modernizzazione costituiva un esempio per tutto il resto dell'Asia. Ma questa stessa posizione é rivendicata oggi da un altro sistema, che sembra offrire risultati ancor più rapidi e che appare perfino più adatto alle condizioni che prevalgono in Asia e fuori.
Inoltre, a questa sfida ideologica se ne accompagna un'altra di portata ancora maggiore.
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Si sa che la Cina, come la Russia prebellica, sta costruendosi una struttura formidabile di quadri scientifici e che sta già sfor nando su scala impressionante tecnici e scienziati. Quanto al Giappone, esso ha raggiunto la supremazia industriale in Asia attraverso uno sviluppo industriale che si potrebbe definire « imitativo ». Per mantenere la posizione di testa dovrebbe muoversi verso una industria « inventiva »: in altre parole oggi dovrebbe sempre più esportare, anziché quantità industriale, qualità tecnologica. Ma a questo fine erano necessari investimenti su amplissima scala nel campo dell'educazione e della ricerca. Per contro c'è ancora penuria di tecnici altamente qualificati, e l'industria giapponese é legata sempre più a tecniche importate. Lo stesso Presidente del Consiglio Giapponese delle Scienze mi ha detto sconfortatamente che gli stanziamenti del governo per la ricerca scientifica costituiscono soltanto un terzo di ciò che si spendeva prima della guerra.
Non é un dilemma invidiabile, senza dubbio, quello del Giappone. Un alto funzionario me lo ha riassunto così: « È vero che una stretta cooperazione economica con la Cina potrebbe offrirci la sicurezza economica per molti anni a venire: ma al posto dell'interferenza americana rischieremmo il dictat cinese; e non vogliamo diventare una seconda Cecoslovacchia ».
Tuttavia la necessità economica e la pubblica opinione spingono i giapponesi a liberarsi dal « complesso cinese ». Finché perdura la prosperità presente si può rimandare la decisione. Ma dopo?
« Non potremo negoziare veramente con la Cina finché saremo tanto malsicuri di noi stessi » : così un amico giapponese impostava la questione. Quando gli domandai come, in fin dei conti, l'avrebbero risolta, ebbi una risposta rivelatrice: « La logica storica impone il ritorno a un governo forte e i mutamenti del dopoguerra non hanno messo radici tali da poter fermare questo processo. Solo questo tipo, un regime di che ristabilisca la fiducia in noi stessi, potrebbe discutere con i cinesi ». E alla mia domanda se, a lungo andare, il Giappone avrebbe potuto resistere all'attrazione gravitazionale del suo gigantesco vicino, rispose senza esitare: « Come in passato, possiamo assorbire e adattare alle nostre esigenze molto di
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quanto fa la Cina. Ma non sarà mai comunismo. Sarà qualche cosa di forte, e di giapponese ».
Questa potrebbe essere una soluzione.
Altri ritengono che, una volta fatto il primo passo, il Giappone non saprebbe fermarsi sulla china, o che la Cina non accetterebbe l'accordo se non in base alla contropartita di un Giappone comunista. Secondo loro l'incremento demografico e la pressione economica potrebbero piuttosto spingere il Giappone, una volta ancora, all'avventura dell'espansione territoriale. La debolezza cronica dell'Asia sud-orientale, a loro modo di vedere, é una grossa tentazione. E sebbene a mio parere l'avventura della guerra sia ,l'ultima cosa che i giapponesi desiderano dopo le recenti esperienze, sarà prudente non scartare del tutto questa possibilità.
Per fortuna per), sembra che esista pure una terza alternativa.
Essa si fonda sull'ammissione, da parte dei paesi non comunisti, del proprio comune interesse nella reciproca sopravvivenza in quanto stati non comunisti. Si fonda sul ragionamento che, per mantenere il controllo dei problemi economici e delle tensioni sociali in Giappone, si dovrebbe garantire qualunque concessione onde assicurare la continuità dell'attuale, per quanto modesta, prosperità. Ciò implicherebbe un commercio libero con la Cina; e inoltre esigerebbe che l'Occidente moltiplicasse i propri sforzi per assicurare al Giappone una parte ragionevole sui mercati mondiali. Da un lato ciò dissolverebbe la carica emotiva del « complesso cinese » del Giappone, e gli consentirebbe di mostrare dove può arrivare senza mettere a repentaglio la propria libertà d'azione. D'altro lato lo sviluppo del commercio col mondo non comunista indebolirebbe l'assorbimento economico da parte del blocco comunista. « Sarebbe troppo attendersi che i due blocchi mondiali collaborino per assicurare la nostra prosperità. Eppure ambedue potrebbero guadagnarci », per citare uno dei principali sostenitori giapponesi di questa politica. « E possibilissimo che l'insistenza della Cina sulla nostra neutralità sia dettata meno da tenebrosi motivi politici che da un genuino timore che noi si sia di nuovo indotti ad assalirla ». E continuava: «Con un Giappone neutrale gli americani perderebbero forse un alleato recalcitrante, ma guada-
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gnerebbero un amico fidato. Quanto ai cinesi, ne guadagnerebbero, oltre alla sicurezza, vantaggi economici notevoli. Quanto a noi, ciò potrebbe aiutarci a difendere le libertà che abbiamo appena conquistato e a restaurare il nostro orgoglio nazionale, non come conquistatori, ma come il paese neutrale asiatico più influente ».
Non sarebbe, questa, una soluzione facile: non vi è dubbio. Essa sarebbe condizionata a un delicatissimo equilibrio di forze da ognuna delle parti; e, principalmente, i giapponesi stessi dovrebbero vegliare affinché non venisse rovesciata. Pure a lungo andare questa soluzione può dimostrarsi la migliore che l'Occidente possa sperare. E non il minore dei suoi vantaggi sarebbe il fatto che essa corrisponderebbe al desiderio della grande maggioranza del popolo giapponese.
Tanto per il Giappone. L'altro paese decisivo ai confini della Cina é l'India. Sebbene meno sviluppato del Giappone sul ,piano industriale, esso ha una popolazione che é la seconda del mondo, dietro la Cina. Mentre il Giappone é stato la prima nazione extraeuropea ad attuare la rivoluzione industriale, l'India é soltanto agli inizi. Inoltre l'India — in una sintesi originale della propria tradizione culturale e dei metodi di governo e politici dell'Occidente — svolge il suo piano di sviluppo entro una struttura di democrazia politica. Quali possibilità offre questo esperimento?
L'India: la tentazione della scorciatoia
La diga di Bhakra é uno dei documenti principali dello sforzo indiano di sollevarsi al livello del ventesimo secolo. Per raggiungerla ho dovuto anzitutto arrivare a Chandigarh, la nuova capitale del Punjab, e da là occorsero tre ore di macchina per giungere ai piedi dell'Himalaya. Infine al cader della notte ci trovammo lungo il sentiero tortuoso e scosceso, sulla vicina gola ove il rapido fiume Sutlej rompe verso la pianura.
La veduta era spettacolosa. Ghirlande di potenti arbusti erano sospese alle cime delle colline come a un albero di Natale gigantesco. Sotto di esse migliaia di uomini lavoravano all'immenso muraglione destinato a sbarrare il fiume. Già era lungo più di
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mezzo chilometro e alto quasi quanto la torre Eiffel. Mastodontiche gru viaggiavano lungo il suo ciglio; nastri trasportatori portavano sabbia e pietrisco dalle montagne circostanti; perforatrici pneumatiche mordevano il fianco della collina dove un impianto automatico rovesciava masse di cemento.
Accompagnati da un simpatico addetto alle informazioni guardammo sul formicaio meccanizzato dalla sommità dello sbarramento. Sul lato opposto potevamo vedere la luna riflettersi nel lago artificiale che la diga cominciava a formare. Poi ridiscendemmo in mezzo allo sferragliare delle macchine e parlammo con qualche lavoratore.
Ad uno domandai che pensasse dello sbarramento che contribuiva a costruire. Scrollò le spalle. Aveva idee piuttosto vaghe circa possibili benefici della diga. Ebbi la medesima reazione da altri due. Allora posi a un terzo domande più dettagliate. Il fatto che i campi riarsi avrebbero avuto acqua, o che l'elettricità avrebbe consentito nuove possibilità produttive, lo lasciava singolarmente indifferente. Non sapeva leggere, mi disse, perciò non sapeva nulla di queste cose. E quasi niente aveva sentito dire dei due piani quinquennali.
Alquanto a disagio, l'addetto alle informazioni intervenne per spiegarmi che moltissimi lavoratori venivano da molto lontano, e che alcuni erano angosciati dai debiti e da complicazioni di casta e altre discordie che minacciavano di suddividerli in gruppi rivali. Poi, con quella rinfrescante franchezza che onora la libertà di parola in India, presto rinunciò a questi sforzi ufficiali per convincermi. Ammise che quanto avevo sperimentato era del tutto comune.
Oltre 15.000 lavoratori venivano impiegati a Bhakra, e a quel che sembrava nessuno si era preso la pena di spiegar loro lo scopo
del lavoro per il quale erano stati assunti. Lavoravano per un salario ma non sembrava partecipassero. Nessuno aveva pensato ad
approfittare dell'occasione per insegnar loro l'abc. E così (almeno sembrava) a nessuno veniva in mente che se si fosse ispirato loro l'orgoglio di contribuire al futuro del proprio paese, essi avrebbero lavorato ancor meglio.
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Frequenti viaggi per tutta l'India mi hanno insegnato da molto tempo che si tratta del paese che meno si presta alle generalizzazioni. Con riluttanza, però, dovetti concludere che Bhakra non costituiva un'eccezione. Nonostante l'ispirazione offerta da tutte le dighe, i ponti, gli impianti industriali che sorgono in India in questi anni, ho riscontrato una deprimente assenza di pubblica parte- cipazione. Alcuni gruppi possono esserne fieri; ma gruppi molto maggiori sono assai scarsamente interessati. Nel complesso queste realizzazioni non hanno destato le masse dall'apatia. In altri termini, tutto ciò che é stato compiuto a partire dal 1947 non é giunto a creare quel dinamismo o quel senso di partecipazione a un'avventura comune che, in un paese con i problemi dell'India, sembra preliminare a qualsiasi progresso reale.
Quali sono i motivi ?
Non molto tempo fa mi furono fatti visitare i due reattori atomici indiani, a nord di Bombay. Guardano su una splendida baia, e sono moderni quanto qualsiasi altro al mondo. I tecnici che vi lavorano sono giovani indiani dinamici e preparati, visibilmente orgogliosi dei loro impianti. Ma sulla via del ritorno, a solo un paio di chilometri di distanza, capitai in mezzo a un gruppo di intoccabili che oziavano di fronte alle loro miserabili baracche. Quando mi avvicinai loro con la macchina fotografica in mano, uno si prostrò di fronte al mio accompagnatore indiano. A quel che sembra lo prese per un funzionario comunale, e lo implorò di non fare scacciare il loro gruppo da quegli alloggi poco invidiabili.
In un'altra occasione ho veduto all'opera i medici che dirigevano l'azione antimalarica a Uttar Pradesh. Mi vennero mostrate larghe plaghe donde questo principale agente della morte in India era stato praticamente bandito. Ma solo poche ore più tardi attraversammo una cittadina con un numero sorprendente di mendicanti. Mi dissero che qualche settimana prima il distretto circostante era stato ufficialmente dichiarato in condizioni di carestia. Villaggi interi migravano. Le madri non potevano nutrire i bambini. Nelle città, come in quella che avevamo attraversato, si era verificato un accrescimento subitaneo del numero dei mendicanti: e i neofiti al mestiere si riconoscevano subito. Possedevano ancora
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del riserbo, ancora non avevano l'uggiolio dei professionisti. Si muovevano lentamente, inconsciamente economizzando l'esigua energia. E le braccia si tendevano all'elemosina quasi per un riflesso nervoso. Senza dubbio alcuni di loro erano tra quelli che erano stati salvati dalla malaria.
Oppure: ricordo un'altra impressione. Pochi mesi fa visitai una delle tre fonderie d'acciaio in costruzione nell'India nord-occidentale. In mezzo a decine di migliaia di operai che portavano mattoni e sabbia sul capo, si pensava irresistibilmente alle costruzione delle piramidi. Sotto le impalcature di bambù si distinguevano i contorni di una fabbrica ultramoderna. Le sue nervature di acciaio si ergevano in una pianura che per decadi non aveva visto mutamento. Poi, guidando la macchina sulla via del ritorno fino alla più vicina stazione ferroviaria, incontrai decine di villaggi assopiti e polverosi. In uno di essi feci qualche domanda sulla riforma agraria. Un gentile, anziano maestro sorrise: «Perfino i nuovi proprietari sono di nuovo in debito con l'usuraio », disse. -« Però, che dite della fonderia e delle nuove opportunità che fa sorgere ? » insistetti. Ma fece un gesto di rassegnazione: « Quando sarà finita impiegherà meno di diecimila operai », rispose, « la nostra popolazione cresce a milioni. Già la meta degli uomini del nostro villaggio non ha niente da fare ».
Tutte e tre queste impressioni hanno un tratto comune. In ognuna di esse, il problema veniva affrontato. Ma in ognuna di esse, un problema ancor maggiore restava irrisolto. Inoltre, nella maggior parte di simili situazioni solo la soluzione del problema maggiore avrebbe consentito di trarre vantaggio dell'aver risolto il prima, il minore.
In realtà, più rifletto alle mie impressioni sull'India di oggi, più sento che a rimanere irrisolti sono i problemi base. Sono convinto ogni giorno di più che proprio perché si é trascurato di affrontare questi problemi di base tanti indiani sentono che le incontestabili realizzazioni degli ultimi dodici anni ben poco hanno fatto per mutare la loro condizione.
Senza dubbio l'India può esibire risultati impressionanti. Malgrado le previsioni pessimistiche del 1947, il paese « ha funzionato ».
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Il primo piano quinquennale si é concluso con successo. Anche se la base agricola si é mossa solo con molta lentezza nella direzione del progresso industriale, il reddito individuale ha subito un modesto incremento. Le dighe e le fabbriche moderne sono state costruite senza epurazioni, senza lavaggi del cervello e senza passione xenofoba. Il prestigio personale del Pandit Nehru, accresciuto dalle circostanze della guerra fredda, ha consentito all'India di giocare un ruolo internazionale sproporzionato alla sua forza reale. Il meccanismo democratico é stato trapiantato in un ambiente sociologico ostile e i parlamenti indiani hanno funzionato come fedeli repliche di quelli occidentali.
Gradualmente l'Occidente ha accettato l'idea che l'India è l'ultima carta che gli resta in Asia. Il suo esperimento di pianificazione attraverso la persuasione é giunto a farsi considerare come l'alternativa — per tutti i paesi sottosviluppati — alla pianificazione cinese, svolta attraverso la forza. Sebbene il progresso materiale in India sia stato manifestamente più lento, la soluzione indiana appare ancora preferibile al metodo cinese, in termini di libertà e per il suo crescere organico, costruito sul consenso. E a coloro che avvertivano che il tasso di sviluppo indiano era pericolosamente superato da quello cinese, si poteva convenientemente rispondere che per gli indiani il corpo é meno importante dell'anima.
Attraverso questo processo si é composto il quadro di ciò che potremo definire « l'India ufficiale ». Eppure questo quadro ufficiale, alquanto lusingatore, ha eclissato il quadro di quell'altra e meno nota India, con i suoi vergini problemi di base.
Questi problemi di base son tutti connessi ad uno dei seguenti tre fattori fondamentali. Il primo é l'utilizzazione produttiva della sovrabbondante manodopera indiana. Il secondo é un metodo che possa condurre alla creazione, la più rapida e la più a buon mercato possibile, di industrie adatte alle necessità indiane. Il terzo riguarda la terra e il cibo. Sono tre fattori interdipendenti.
Mi trovavo a Madras quando venne rivelato che il Governo di Madras impiegava ancora 714 « tiratori di punkah », il grande ventaglio indiano sospeso al soffitto. Nell'apprendere che tanto numerosi erano i lavoratori addetti (a pieno impiego) a questo tipo
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di ventilazione, il deputato che aveva sollecitato l'informazione con interpellanza al ministro, immediatamente passe) all'attacco. Perché si tollerava ancora il sistema dei punkah — domandò furibonda — che era evidentemente un « relitto dell'imperialismo»?
A parte l'aspetto umoristico della cosa, trovai tristemente sintomatico questo episodio parlamentare. Che l'energia muscolare di 724 indiani andasse perduta in un'attività tanto sterile mentre nel paese restavano tante cose urgenti da fare, non fu osservato durante il dibattito.
Secondo stime degne di affidamento oltre un terzo dell'immensa popolazione agricola dell'India é sottoccupata o del tutto priva di lavoro. Due piani quinquennali non hanno portato la minima differenza per quanto riguarda la disoccupazione di massa in tutto il paese. Al contrario: grazie alla lotta vittoriosa contro le epidemie, si ritiene che la popolazione indiana cresca, anziché di cinque, di sette milioni all'anno. L'India non ha assolutamente il mezzo di metter da parte quanto basta a fornire queste decine di milioni di disoccupati di macchine da lavoro. Né l'aiuto straniero può fornirne nelle quantità necessarie. D'altro lato, nel complesso, le ore di lavoro parzialmente o totalmente perdute dai disoccupati rappresentano un immenso capitale non sfruttato. Investite convenientemente in progetti costruttivi, potrebbero portare nella penisola indiana mutamenti maggiori di qualsiasi macchina l'India possa mai sperare di costruire o di comperare. L'esempio cinese dimostra che ciò si può fare. E, applicato con un metro meno rigoroso, non dovrebbe necessariamente distruggere i fondamenti della democrazia.
Si ritiene che, industrializzando, l'India ha troppo puntato sui grandi complessi, i quali, essendo di tipo moderno, impiegano poco personale, assorbono notevoli capitali e investimenti stranieri e li ripagano assai lentamente in prodotti finiti. Inoltre, non possono essere acquistati o costruiti con rapidità sufficiente a fornire tutte le attrezzature moderne che una rapida modernizzazione esigerebbe.
Il progresso dell'India é costretto a restare deludentemente lento se deve attendere che tutti gli utensili e strumenti piú moder-
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ni possano essere forniti dalle moderne fabbriche indiane. Industrie piccole, decentrate — basate più sul lavoro manuale che su quello meccanico — sarebbero più convenienti per soddisfare la richiesta di beni elementari. Offrirebbero impiego a un maggior numero di operai, e lascerebbero libere le industrie moderne e costose di dedicare la maggior parte della produzione al compito di mantenere l'indice di industrializzazione affidandosi sempre meno ad attrezzature importate. E qui ancora l'esempio cinese offre utili ammaestramenti.
Ma é l'aver trascurato di affrontare il problema dell'agricoltura che minaccia più immediatamente il progresso ulteriore del-l'India.
Lo stato dei contadini indiani é stato descritto più volte. Decenni di malnutrizione, di sfruttamento, di debiti, uniti all'impoverimento di un suolo assetato d'acqua e di concimi chimici, hanno reso la produzione agricola indiana pietosamente bassa perfino in confronto dei risultati dei suoi vicini asiatici. Di fatto, occorre un lavoro undici volte superiore per produrre una tonnellata di frumento in India che in Gran Bretagna. Eppure, nel 1956, una missione della Banca Mondiale stimò che la produzione agricola indiana potrebbe crescere da tre a cinque volte. Ma per raggiungere questo sviluppo il contadino indiano dovrebbe raccogliere assai più concime naturale e scavare assai più canali; gli si dovrebbero insegnare metodi moderni di coltivazione; gli si dovrebbero concedere crediti a basso interesse per liberarlo dalla stretta di ferro dell'usura; dovrebbe lavorare più duramente per accrescere la produttività della sua terra e, soprattutto, dovrebbe sentire che una riforma agraria veramente giusta gli consente infine di raccogliere vantaggi proporzionati agli sforzi impiegati.
Per compiere tutto questo sarebbe stata necessaria una serie di riforme ardite e perentorie. Senza di esse, e per quanti successi isolati essi abbiano ottenuto, gli Schemi delle Comunità di Villaggio, sui quali si é fatta tanta pubblicità, erano condannati al fallimento. E quanto vasto, e tragico, sia stato questo fallimento, é stato rivelato dalla recente relazione degli esperti agricoli della Ford Foundation. Nella previsione di un rapido incremento demo-
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grafico — essi avvertono — tra oggi e il 1965 la produzione indiana di granaglie dovrebbe registrare un incremento di oltre l'8% all'anno, indispensabile per coprire i bisogni essenziali. Se la produzione alimentare continuerà a registrare l'attuale tasso di incremento di circa il 3% annuo, gli esperti temono che il dislivello tra disponibilità e richiesta sarà di circa il 25% entro sei anni. « Nessun programma realizzabile di importazioni o di razionamento può risolvere una crisi di questa portata », questa é l'allarmante conclusione.
Un uomo politico indiano di opposizione mi ha riassunto così il problema: « I nostri parlamenti sono pieni di proprietari fondiari e di usurai, o di gente che rappresenta i loro interessi. Come ci si pub attendere che essi promulghino l'abolizione dei propri stessi privilegi? ». Forse questa é una generalizzazione ingiusta. Ma é sintomatica della delusione che, in numero rapidamente crescente, gli Indiani interessati ai fatti pubblici nutrono rispetto al proprio regime parlamentare. La frustrazione e l'apatia sono il loro verdetto rispetto a un sistema che ha evitato di affrontare i problemi fondamentali del paese e che, dopo sette anni di modernizzazione pianificata, sembra conduca l'India verso la carestia generale.
La democrazia parlamentare é sopravvissuta nell'Asia sudorientale finché un partito dominante ha potuto continuare a svolgere il ruolo dell'autorità imperiale, sottratta ad ogni rivendicazione. Tale partito possedeva un prestigio derivantegli, di norma, dalla liberazione nazionale; i suoi capi erano spesso eroi nazionali. Ma una volta che l'opposizione si fu affermata al punto di sfidare il monopolio del partito dominante, i giorni della democrazia parlamentare furono contati. Una scossa, come il collasso dei prezzi delle materie prime, e subentravano i dittatori. Questo é accaduto nei paesi dell'Asia sud-orientale, uno dopo l'altro, negli ultimi due anni. Il Pakistan e la Birmania, i due vicini dell'India, non hanno fatto eccezione. L'India resta l'ultimo paese in quest'ambito geografico che possieda ancora un regime parlamentare funzionante.
Ma il monopolio del potere da parte dei Parlamentaristi é sfidato oggi sempre di piú. Già in uno degli stati indiani il potere
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é sfuggito loro dalle mani. Il principale architetto della democrazia indiana invecchia, e il problema della successione domina la scena politica. In queste circostanze qualsiasi scossa inattesa può far precipitare, anche in India, la tendenza a forme autoritarie di go- verno. Senza dubbio una carestia grave costituirebbe una simile scossa: e se poi coincidesse con la scomparsa di Nehru dalla scena politica, potrebbe sorgere il problema : davanti a quale alternativa di regime politico si troverebbe l'India nel prossimo futuro?
Per ora non é in vista nessun militare con ambizioni politiche note o che goda della necessaria popolarità. L'ipotesi più realistica é forse che il Parlamento continuerà a governare, almeno per qualche tempo. Ma, privato della guida di Nehru e sempre più minato dalla sinistra, farà probabilmente una politica sempre più conservatrice. Quanto, dei fondamenti della democrazia, potrebbe esser mantenuto da un simile regime, dipenderebbe dalla quantità di aiuto straniero che esso potrebbe ottenere. Un regime simile farebbe probabilmente riguadagnare alla « libera iniziativa » gran parte del terreno perduto entro lo « schema socialista della società » di Nehru. Quanto più questo regime si appoggiasse a interessi costituiti, e perciò fosse incapace di compiere riforme radicali, tanto più l'India avrebbe bisogno dell'aiuto finanziario occidentale, e, di conseguenza, si avvicinerebbe all'Occidente a spese della sua passata neutralità. A lungo andare, per acquietare la pressione dell'ala sinistra, un simile regime potrebbe perfino adottare la ben nota soluzione di comprare il proletariato urbano per mezzo di certe concessioni, al prezzo di un inalterabile ristagno nelle campagne.
Il risultato può sinistramente rassomigliare alla scena cinese dopo il 1945. E inevitabilmente, una volta ancora, ne beneficerebbero i comunisti.
Sia nell'ambito parlamentare sia attraverso un lavoro di penetrazione sotterranea, i comunisti in questa situazione potrebbero riuscire a mobilitare tanto il latente risentimento antioccidentale, quanto l'opposizione a prendere partito nella guerra fredda, quanta lo scontento per gli eccessi del sistema della libera iniziativa in una società largamente inegualitaria. In tal modo i comunisti indiani potrebbero trovarsi un giorno alla testa di un'ampia coali-
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zione di scontenti, godendo inoltre di tutte le possibilità ulteriormente offerte dalle caste, e dalle rivalità linguistiche e regionali.
Ovviamente tutto ciò é pura supposizione. Con certezza si può solfanto affermare che un certo numero di fattori misurabili — primo fra tutti l'incremento demografico — porrà fra breve l'India di fronte a decisioni gravi; e che le omissioni di questi ultimi dieci anni rendono improbabile che la democrazia parlamentare, nella sua forma attuale, possa sopravvivervi.
Un atteggiamento nuovo verso il cinquanta per cento dell'umanità
Il Giappone e l'India, unitamente alle nazioni minori poste fra l'uno e l'altra, sono influenzati, ciascuno a suo modo, da ciò che accade in Cina. Le forze che li trasformano dall'interno diventeranno sempre più forti; esse determineranno la necessità di mutamenti sempre più rapidi. Nel complesso questi mutamenti daranno un volto nuovo all'Asia orientale, entro i prossimi dieci o quindici anni. E le relazioni dell'Occidente con l'Asia orientale,. ossia con la metà del genere umano, saranno di importanza deci- siva per l'evoluzione del nostro stesso mondo occidentale.
Quali considerazioni generali sono possibili circa questo rapporto decisivo tra i due mondi ? In ogni albergo in cui ho soggiornato in India ho incontrato tecnici russi dalle spalle quadre, che costruiscono cose di ogni genere in ogni angolo del paese. Perfino nelle città più insignificanti esistono librerie che squadernano una quantità di riviste e di opuscoli splendidamente illustrati, pieni di descrizioni infuocate delle più recenti conquiste dei paesi comunisti. Annunci pubblicitari nei giornali indiani offrono voli a Parigi e Londra via Tachkent, osservando che oggi é quella la via più breve. E, parlando dei problemi economici delle aree depresse, il più influente economista indiano mi ha assicurato che il mondo comunista era più genuinamente interessato dell'Occidente ad aiutarli, se non altro per indebolire l'influenza occidentale in quelle regioni.
È difficile aprire un giornale in Giappone senza trovare articoli dettagliati sulle ultime realizzazioni cinesi. Ogni giorno par-
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tono delegazioni per Mosca e Pechino. Ho incontrato infermiere che avevano visitato gli ospedali cinesi e studenti che erano stati invitati dai loro colleghi cinesi. Il presidente di una delle società per lo sviluppo del commercio cino-giapponese mi invitò a pranzo e parlò delle impressioni entusiastiche riportate in frequenti viaggi a Pechino. Dopo di che le sue segretarie mi fornirono la documentazione concernente le possibilità di scambi commerciali tra i due paesi.
Viaggiando sulla transiberiana da Pechino alla Manciuria, ho visto in ogni stazione delegazioni di operai cinesi salutare tecnici russi che avevano terminato il servizio in Cina. Di solito c'erano mazzi di fiori e lacrime e strette di mano, e le scene sembravano piuttosto autentiche. Nella biblioteca dell'Università di Pechino ho visto studenti che leggevano testi universitari tecnici russi, tenendo a portata di mano un dizionario russo-cinese. In molti alberghi per studenti ho incontrato universitari arabi e dell'Asia orientale. Pochi giorni trascorrono senza un congresso nel quale asiatici o africani di diverso colore e nazionalità si riuniscono in base al comune denominatore emotivo dell'odio contra l'uomo bianco. E ogni giorno, all'ora di pranzo, nel Peking Hotel potevo vedere delegazioni negre venute da ogni angolo dell'Africa. Tornavano dal quotidiano giro di visite a fabbriche e istituzioni nelle grandi automobili Zis, solitamente riservate agli alti papaveri del regime. A tavola poi erano circondati di ospitalità e di attenzioni infinite da parte dei loro interpreti cinesi.
Su tutto il vasto triangolo, tra Tokio, Pechino e Nuova Delhi, nuovi vincoli si forgiano. Qui si può quasi sentire il pendolo della storia che abbrevia e accelera le oscillazioni. Le cose accadono più rapidamente di quanto mai sia avvenuto. E nella scia di questi cambiamenti é probabile emergano nuove configurazioni di potere politico.
Per tre secoli, grazie alla propria industriosità al proprio spirito inventivo, un pugno di nazioni occidentali ha dominato il mondo. Dal 1918 questa superiorità é sfidata ogni giorno di piú. Le tecniche che hanno assicurato all'Occidente quella supremazia si sono anzitutto diffuse in Giappone, poi in Russia, e oggi stanno
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trasformando la Cina. Concentrato una volta sulle due sponde dell'Atlantico, il potere mondiale si é esteso oggi in tutta la fascia temperata settentrionale del globo. Ed é questo triangolo, tra le masse dell'Asia orientale, che lo sviluppo in atto può turbare definitivamente l'equilibrio a danno dell'Occidente. Ed é qui, inoltre, che può venir perfezionato il modello di sviluppo che il resto degli asiatici, se non anche gli africani, può giungere a considerare il più conveniente per conseguire la propria emancipazione. Ma gli Occidentali non corrono il rischio di essere isolati dalla nuova tendenza che va sviluppandosi in quel triangolo della decisione? Non vengono tagliati fuori ogni giorno di più dal flusso principale del mutamento del mondo e dell'interesse popolare ?
Le nostre possibilità di azione sono già limitate. In Cina siamo puri osservatori. Possiamo solo sperare che il compito gigantesco dell'auto-emancipazione terrà tanto occupata la Cina, da impedirle avventure fuori dei suoi confini. In Giappone l'Occidente può soltanto sperare di contribuire a mantenere il progresso e la prosperità in modo da impedire che il paese rigeneri il suo spirito di conquista. Quanto all'India, l'Occidente potrà trovarsi fra breve di fronte ad alternative penose. Potrebbe assistere passivamente allo scoppiare del caos. O, quale che sia l'influenza che ha potuto conservare, può impiegarla a far si che il regime autoritario prevedibile dopo Nehru affronti i problemi di base, per garantire una continuità.
Il Giappone é già un paese industrializzato. Ciò che gli occorre é commercio internazionale, così da mantenere la modesta prosperità attuale. Ma in India il problema é ancora trovare un metodo di sviluppo conveniente, e poi, nei limiti delle nostre possibilità, sostenerlo. Quest'azione da parte dell'Occidente potrebbe ancora avere un valore decisivo. E attraverso l'esempio indiano, potrebbe influenzare la politica delle altre nazioni dell'Asia sudorientale. Perciò l'India é veramente l'ultima carta importante che sia rimasta all'Occidente in Asia.
Con quache esitazione circa i mezzi, la necessità di aiutare i paesi sottosviluppati é stata ammessa fin dal 1947. Nel tentativo sono già stati impiegati moltissimo idealismo e moltissimo denaro.
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Eppure, come si é ripetuto più volte, la distanza tra la prosperità dei paesi sviluppati e la povertà di quelli economicamente arretrati non cessa di aumentare. Senza dubbio, errori e omissioni delle nazioni assistite hanno giocato un ruolo molto importante nei deludenti risultati. Ma l'Occidente pure deve ammettere la sua buona parte di colpa.
Due errori fondamentali, mi sembra, sono alla base di questo fallimento. Anzitutto, l'Occidente non ha mai chiaramente distinto tra i suoi interessi immediati e i suoi interessi a lungo termine in questo settore.
Dopo secoli di indisturbata supremazia occidentale, la naturale ambizione dei paesi che solo recentemente hanno acquistato l'indipendenza é stata quella di dipendere dall'Occidente in grado minore. Ma, preoccupato anzitutto dell'aspetto militare della minaccia comunista, l'Occidente si é condannato a rappezzare, né più né meno, le strutture preesistenti. Nel frattempo il fascino principale dell'offerta comunista é stata l'intenzione di ricostruirle ex novo. L'interesse a lunga scadenza, di guadagnarsi alleati la cui ambizione fondamentale si avvicinasse ad essere soddisfatta, é stato decisamente sacrificato all'interesse immediato di guadagnare transitori vantaggi militari. E le classi dirigenti in dissoluzione o i dittatori sterili che hanno servito questo scopo dell'Occidente hanno svuotato — agli occhi di infiniti milioni di uomini — l'atteggiamento occidentale di tutto il contenuto morale che possedeva.
Il seconda errore ha radice in ciò che chiamerei un equivoco semantico. Abbiamo continuamente insistito nell'applicare termini occidentali a nozioni che, in un ambiente sociologico estraneo, significavano cose diverse, o non significavano assolutamente niente. Poco dopo l'indipendenza indiana ricordo di aver visto i servizi propagandistici americani a Bombay distribuire bellissimi opuscoli, stampati in quadricromia, che decantavano i benefici della libertà di parola. Nello stesso tempo, la gente che sciamava lungo i marciapiedi di fronte al loro Centro di Informazioni moriva letteralmente di fame. Prendiamo la parola democrazia: per gli occidentali è una conquista preziosa, che corona secoli di sforzi e di sacrificio. Ma in un paese incolto e arretrato spesso non significa altro
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che una opportunità per una minoranza di eludere le giuste ambizioni della maggioranza. Quanto al voto segreto, durante una delle elezioni generali indiane un semplice contadino riassunse concisamente la sua opinione osservando: «non possiamo nutrirci dell'urna elettorale ».
Finché questo equivoco semantico ha significato un'azione al servizio di certi ideali, anziché della nostra sicurezza, l'intenzione era onorevole. Eppure i risultati tutto sono stati meno che incoraggianti. Anzi oggi ci stanno di fronte col pericolo che, ovunque le istituzioni ispirate all'Occidente provochino delusione e vengano scartate, tra i loro rottami perisca lo stesso contatto fondamentale con l'Occidente.
E la prova dei risultati deludenti dell'aiuto occidentale coincide e si assomma con le notizie circa il crescente aiuto del blocco comunista ai paesi sottosviluppati. E pienamente giustificata l'osservazione che tale aiuto é ancora minimo in confronto a ciò che dà l'Occidente. Tuttavia, con ogni probabilità, l'aiuto comunista continuerà a crescere con l'espandersi della produzione russa e cinese. Come si é spesso osservato, qualunque siano gli svantaggi del loro sistema, i paesi comunisti possono contare su alcuni vantaggi importanti, di ordine materiale e psicologico. Possono offrire mercati stabili. Il loro aiuto non viene presentato come il dono del ricco al povero, ma come la mano fraterna di paesi che ancora essi stessi lavorano alla propria emancipazione. I loro tecnici sono stati formati entro una struttura del tipo di pianificazione centralizzata che, a quanto pare, occorre alla maggior parte dei paesi sottosviluppati. Inoltre, se non altro che per indebolire l'hinterland economico dell'Occidente, l'aiuto comunista, sia in tecnici che in capitali, è in gran parte concentrato sullo sviluppo delle industrie base, sulle ricerche geologiche e sull'incoraggiamento di una tecnologia nel paese. Tutto ciò serve a risollevare la fiducia in se stessi dei paesi assistiti. Inoltre, per corroborare la loro penetrazione, i comunisti possono giocare su una notevole chiave emotiva, connessa all'avversione razziale o storica per l'Occidente. Questi vantaggi possono in verità spiegare come, fornendo un aiuto tanto inferiore a quello occidentale, i comunisti destino un entusiasmo tanto mag-
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giore. Di fatto, l'aver trasformato due paesi arretrati e prevalentemente agricoli in grandi potenze nello spazio di una generazione, non è sicuramente una cattiva pubblicità per i banditori del credo comunista. E per parte nostra non dovremmo permettere che l'avversione al comunismo ci renda ciechi di fronte a questi fatti.
Molti tra i principali uomini politici europei hanno recentemente espresso il desiderio di vedere la Russia e l'Occidente collaborare nell'aiutare i paesi sottosviluppati. Se l'azione politica fosse guidata soltanto da motivi umanitari, senza dubbio questo appello condurrebbe a un'azione congiunta. Ma di fatto le potenze comuniste sono in certo grado giustificate se ritengono che, dal punto di vista politico, esse hanno piú da guadagnare continuando da sole che congiungendo i loro sforzi a quelli occidentali. Considerando la propria produttività, in continua crescita, possono sperare che la sicurezza che l'Occidente ha guadagnato lungo le frontiere militari -europee possa andar perduta sul fronte della miseria in Asia e in Africa, che non ha frontiere. Di fatto a me sembra esista il pericolo che il precario equilibrio mondiale fondato sul terrore tecnologico possa essere compromesso dall'avanzata del comunismo nei paesi sottosviluppati. Tali eventi potrebbero por fine all'equilibrio che é seguito alla guerra fredda. All'opposto, sviluppare i metodi dell'aiuto occidentale potrebbe presto apparire come una condizione preliminare per la fine della guerra fredda.
Ma, mentre dovrebbe crescere il volume degli aiuti, come pervenire al miglioramento del metodo degli aiuti ?
Ho visto miniere e piantagioni in non pochi paesi sottosviluppati nei quali le notizie telegrafiche provenienti da lontani, impersonali mercati, toglievano il lavoro a decine di migliaia di lavoratori. I rispettivi ministri delle finanze erano costretti a mettere da parte piani promettenti, a frustrare le promesse fatte agli elettori, e a stare a guardare impotenti gli agitatori estremisti arringare le folle deluse. Portare una qualche stabilità sui mercati costituirebbe evidentemente uno dei mezzi piú efficaci per appoggiare l'ordinato sviluppo dei paesi economicamente arretrati. Poi, quante volte non ho sentito persone dei paesi sotto-sviluppati lamentarsi perché i loro prodotti trovavano discriminazione sui mer-
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cati occidentali. Eppure la moneta straniera che essi acquisterebbero (dicevano) sarebbe tornata all'Occidente in cambio di attrezzature. Senza dubbio alcune industrie occidentali sarebbero rimaste svantaggiate da questa concorrenza. Ma altre, produttrici del tipo di attrezzature di cui questi paesi hanno bisogno, avrebbero venduto di più e avrebbero trovato mercati in sicura espansione. Altre recriminazioni si levano perché l'aiuto occidentale é distribuito da troppi enti, spesso in concorrenza. Armonizzarli o incanalarne l'opera nelle organizzazioni internazionali, si sostiene, ne aumenterebbe l'efficacia e contribuirebbe a sfatare i sospetti che infallibilmente sono suscitati dagli aiuti di singole nazioni. Altri ancora obbiettano che troppo spesso l'aiuto occidentale consiste prevalentemente in cibo e beni di consumo, che semplicemente mascherano l'irrisolto problema della produzione locale. Tecnici in maggior numero, geologi per scoprire le risorse naturali, educatori, e, soprattutto, attrezzatura industriale moderna (così suonano queste obbiezioni) servirebbero di più e più a lungo. Gli esempi potrebbero moltiplicarsi. Quasi tutti sorgono dal medesimo desiderio: riuscire a guadagnarsi, piuttosto che mendicare, il capitale di sviluppo che occorre ai paesi di indipendenza recente.
Ma scegliamo un altro esempio. Ricardo un nazionalista indonesiano che mi mostrò una copia di una rivista americana a grande diffusione con un articolo pieno di duro sarcasmo nei riguardi dei progetti del presidente Sukarno di una « democrazia controllata ». Voltò due pagine e mi mostrò un altro articolo, nella medesima rivista. Conteneva le lodi entusiastiche di un dittatore dalla mano particolarmente pesante che governa uno dei paesi dell'alleanza regionale ispirata dall'Occidente. « Voi occidentali pretendete di stare dalla parte della democrazia » — osservò amaramente — « ma fate dello spirito quando noi tentiamo di adattarla alla nostra tradizione. Però lodate il dittatore che ha abolito ogni vestigio di libertà perché é vostro alleato militare ».
Non desidero entrare qui in discussione sui meriti e i demeriti della « democrazia controllata » del presidente Sukarno. Ma mi sembra che l'osservazione di quell'indonesiano toccasse il centro del problema dell'aiuto occidentale ai paesi sottosviluppati.
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Se vuole progredire, un paese sottosviluppato si trova inevitabilmente di fronte a una scelta fra due mali. Questa é particolarmente vero per le nazioni ampie e sovrapopolate come, ad esempio, l'India. In una nazione piccola e scarsamente popolata l'aiuto esterno può giocare un ruolo decisivo. Ma il medesimo aiuto disperso su una popolazione immensa garantisce una razione individuale minima. D'altronde è proprio nei paesi vasti e superpopolati che i problemi sono più complessi ed urgenti. In questi casi solo uno sforzo locale su larghissima scala può garantire la forza propellente essenziale. Ma questo sforzo locale su larga scala -- che implica investimenti massicci di lavoro in progetti costruttivi —determinerà_ fatalmente moltissima sofferenza. E in questa situazione l'aiuto esterno non può sperare di essere altro che un puro anestetico che renda l'operazione un po' meno penosa.
In questo stato di cose incoraggiare una democrazia purissima in un paese sottosviluppato — una democrazia con tutte le sue libertà, le sue elezioni e i suoi parlamenti — assume un aspetto anonimo; e scoraggia, in realtà, la rimozione degli ostacoli al progresso. E su questo piano l'atteggiamento occidentale è stato più moralizzatore che scientifico.
Questo non significa che dovremmo appoggiare in ogni caso regimi autoritari. Ma significa che l'Occidente dovrebbe confortare della sua simpatia ogni sforzo che operi seriamente per il progresso, e che tenti di salvare quanto più può dei nostri ideali democratici anche se, ciò facendo, tenta di adattare il meccanismo democratico alle realtà sociologiche, geografiche e climatiche tra le quali deve operare. Finché -un regime non fa offesa al senso d'umanità con costrizioni arbitrariamente aspre imposte ai cittadini, e attacca realisticamente le radici dell'immobilismo, non dovremmo indulgere al nostro zelo missionario pretendendo che riproduca il nostro sistema di governo. E questa collaborazione operante con metodi alieni alla nostra esperienza ma capaci di produrre risultati, è più atta a guadagnarci simpatie, della difesa di ideali nobilissimi ma irrealizzabili.
Non pretendo che questi suggerimenti siano di facile attuazione. Né ritengo che essi non urterebbero ideali e interessi. Ma
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ci restano pochi anni per agire. Se non rielaboriamo i nostri metodi di aiuto prima che l'opinione pubblica occidentale consenta a maggiori sacrifici, fatalmente ciò condurrà a risultati del tutto deludenti. Il che a sua volta può ben condurre a una situazione che potrebbe sfociare in un « isolazionismo occidentale »; in un'arcigna ritirata entro i confini tra i quali potremmo ritenerci al sicuro. Ma masse enormi sono in marcia. Preferirebbero avanzare in nostra compagnia che senza di noi. E aiutarle richiederebbe sacrifici minori di quelli che un isolamento simile imporrebbe all'Occidente.
TIBOR MENDE
(trad. di Renato Pedio)
 
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Data pubblicazione Anno: 1959 Mese: 11 Giorno: 1
Numero 41
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