Area della trascrizione e della traduzione metatestualeTrascrizioni | Trascrizione Non markup - automatica: PIER PAOLO PASOLINI 1) Credo al secondo corno del dilemma. Ma questo corno si dirama in due altri corni: esiste una crisi intrinseca al mondo borghese (quella che ha dato le avanguardie, le rivolte anarchiche, l'anti-borghesismo dei borghesi scapigliati, finiti ecc.): e di tale crisi si parlava in termini irrazionali, raziocinanti, metastorici e esistenziali già da prima della guerra (per es. su «Primato »). 9 DOMANDE SUL ROMANZO 45 Ed esiste una seconda crisi, dovuta alla presenza di una ideologia diversa che si oppone, come rivoluzionaria, a quel mondo borghese. In sede letteraria, questa crisi n. 2, che é quella che importa, consiste in un contrasto tra momento individuale e momento sociale dell'arte, tra introversione, intimismo e misticismo, da una parte, estroversione, vita di relazione, razionalismo, dall'altra. Guardo dunque di cattivo occhio l'espressione « crisi generale di tutte le arti » perché mi pare usata col vecchio tono italico-occidentale : la crisi è delle culture e delle ideologie, non delle arti. Credo dunque: che ci sia una crisi del romanzo in quanto il romanzo partecipa della crisi più generale del mondo economico in cui operiamo. 2) Prevalenza del « romanzo saggistico » ? Neanche per idea: il romanzo saggistico mi sembra un modo per sfuggire alla vera difficoltà, che é quella di tradurre il saggio (che qui é pronunciato ancora in tono leggermente novecentesco, mentre io assumo il termine a un più intero e razionale significato ideologico o sociologico) in romanzo. Il romanzo non può essere che pura rappresentazione: il significato ideologico o sociologico, deve esser mediato dalla fisicità più immediata. 3) Ripeto: immediata fisicità: ossia personaggio in azione, paesaggio in funzione, violenta e assoluta mimesi ambientale. Non ho ancora letto Butor e gli altri: credo però — con loro solo estrinsecamente — alla legge della realtà « puramente visiva » (e acustica, tattile, olfattiva): mi sembra idiota, tuttavia, voltare le spalle alla psicologia. Può essere che la psicologia intesa come analisi dei sentimenti dell'anima bella (Proust, dulcis memoria...) abbia stancato i proustiani, si sia esaurita, nella lunga serie degli atti evocativi... Ma il termine « psicologia » ha un significato capacissimo, implicante nozioni lontane. In quanto autore, io non intendo affatto voltarle le spalle: fondamentalmente sociologica, la psicologia dei miei personaggi, vuol essere sempre li, a governare, onni- 46 PIER PAOLO PASOLINI presente e invisibile, quella pura fisicità dei fatti, delle azioni, delle parole. 4) Penso che il romanzo debba essere necessariamente oggettivo: l'autore borghese non ne ha forse più gli strumenti, per farlo, perduti col senso della propria storicità, svaporati nella metastoria intimistico-stilistica. Essere oggettivo, per), non significa essere ottocentesco: al positivismo generico che presiedeva al realismo di quel secolo, si è ora sostituita una ben precisa filosofia: quella marxista. La visione oggettiva di un personaggio, di un ambiente, di una classe sociale, che ne deriva, non può essere che diversa e nuova. 5) Di quello che è stato fatto concretamente, in Russia o in in Italia, non ho letto molto, e non ne penso bene. Invece del « realismo socialista » come formula ancora ideale, da precisarsi nella teoria, da realizzarsi — penso che sia l'unica possibile ipo- tesi di lavoro. Per una ragione molto semplice: il socialismo è l'unico metodo di conoscenza che consenta di porsi in un rapporto oggettivo e razionale col mondo. Tutte le filosofie attuali sulla piazza capitalistica sono irrazionali, inoggettive, disperate misticheggianti: oppure sono, esse si, una sopravvivenza positivistica. 6) Le cose non parlano: lasciar parlare le cose non significa nulla. Rispondendo alla seconda e alla terza domanda, io stesso, è vero, dicevo che il romanzo deve essere pura, immediata, violenta fisicità : e questa potrebbe parere una variante del « far parlare le cose », appunto: ma solo verbalmente. Io non attribuivo, al linguaggio delle cose, qualità meccaniche o magiche: ma un significato storico, inconscio esteticamente e irriflesso: e, con ciò, niente affatto irrelato. La vita pratica anche più misera si svolge sempre a un livello culturale: e, previa a ogni operazione estetica, ha da essere quell'operazione ideologica su cui ho qui spesso insistito. Ma questo è il problema: conciliare una ideologia nuova con un mondo stilistico già collaudato, assimilato. Perché nel « far parlare le cose » (nel senso che dico io) cessa l'operare del filosofo, del sociologo, dello psicologo, e interviene l'operare letterario specialistico, tecnico. Come, allora, conciliare una visione oggettiva, ra- 9 DOMANDE SUL ROMANZO 47 zionale, del mondo, una prospettiva ideologica — con la visione soggettiva, irrazionale, che l'invenzione stilistica comporta necessariamente ? L'unico punto in cui Adorno fa centro della sua polemica con Lukacs é proprio questo: il problema della cristallizzazione e della sopravvivenza di un mondo stilistico in un mondo ideologico nuovo, prospettivistico: ed è in tali termini che si pone anche meglio, in vitro, il contrasto tra decadentismo e realismo. Ma non è questa la sede per un discorso così ampio: e scendo alle mie soluzioni personali. Nell'atto pratico, praticamente descritto, per me la questione si pone secondo questo schema: per far parlare le cose, bisogna ricorrere a una operazione regressiva: infatti le « cose » — e gli uomini che ci vivono immersi, sia proletari, nelle « cose » intese come lavoro, lotta per la vita — sia borghesi, nelle « cose » intese come totalità e compattezza di un livello culturale — si trovano dietro allo scrittore-filosofo, allo scrittore-ideologo. Tale operazione regressiva si traduce quindi in una operazione mimetica (dato che i personaggi usano un altro linguaggio, rispetto a quello dello scrittore, atto a esprimere un altro mondo psicologico e culturale). L'operazione mimetica é poi l'operazione che richiede le più abili e accanite ricerche stilistiche (data la necessaria contaminazione di linguaggi, quello del narratore e quello del personaggio, lingua e dialetto ecc.). Sicché risponderei, in conclusione: bisogna, certo, lasciar parlare, fisicamente, immediatamente, le cose: ma per «lasciar parlare le cose », occorre « essere scrittori, e anche perfino vistosamente scrittori » . 7) Ci sono degli stupidi, superficiali e confusionari, che hanno delle idee chiare su questo problema. Tuttavia anche uno stupido potrebbe almeno capire che la lingua non è che un mezzo. Non voglio dire — con chi crede, novecentescamente, all'ineffabilità, alla tautologia del linguaggio — che tutto si può esprimere in tutti i modi: che in una poesiola di Di Giacomo c'é più carica espres- siva che in cento utenti di lingua cattolica apostolica romana o nazional-popolare. Non voglio dire questo. Comunque al buon senso, una volta tanto, mi vorrei attaccare: se il personaggio e l'ambiente scelti sono popolari, il romanziere usi o totalmente o parzialmente il dialetto, se il personaggio e l'ambiente scelti sono borghesi, il romanziere usi la koinè: vedrà che non sbaglia. La lingua è, si, il linguaggio della cultura, ma nel suo momento ideologico, scientifico e filosofico: non nel suo momento rappresentativo o stilistico. Con questo non impongo una scelta: è chiaro: chi prima avrà meglio pensato in lingua, meglio si esprimerà oltre che in lingua, anche in dialetto. 8) Trovo questa domanda formulata un po' assurdamente: tuttavia è chiaro, da quanto ho semi-oralmente detto fin qui, che io credo soltanto nel romanzo « storico » e « nazionale », nel senso di « oggettivo » e « tipico ». Non vedo come pòssano esisterne d'altro genere, dato che « destini e vicende puramente individuali e fuori dal tempo storico » per me non esistono: che marxista sarei ? PIER PAOLO PASOLINI
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