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tipologia: Analitici; Id: 1472462


Area del titolo e responsabilità
Tipologia Periodico
Titolo Dacia Maraini, La mia storia tornava sotto l'albero carrubo
Responsabilità
Maraini, Dacia+++
  • ente ; ente
  autore+++    
Area della trascrizione e della traduzione metatestuale
Trascrizioni
Trascrizione Non markup - automatica:
LA MIA STORIA TORNAVA SOTTO L'ALBERO CARRUBO
Da diversi giorni udivo la stessa frase da Ulisse, « cara calmati, calmati, calmati cara, cara malati calmanti calati », non so più. Potevo prevedere già, quando lo vedevo, che avrebbe fatto saltare quella corda e non un'altra; ma ho avuto modo di notare che Ulisse mi considerava piuttosto lenta di riflessi, per non dir imbecille. E vero che gli ho chiesto più volte di ripetere quando ha detto « calmati » perché non afferravo il senso; ma non é come lui pensava, che io non capissi il significato materiale delle parole, quello non mi preoccupava, solo il significato particolare che ogni persona dà alle parole che pronuncia, questo mi appassionava e perciò più volte lasciavo passare degli interi minuti prima di rispondere ad una domanda; soprattutto se posta da Ulisse, perché io vivevo con lui ed ho avuto agio di notare quanto egli mutasse il significato originale delle parole. Così quando mi disse t calmati », la prima volta, credo di essermi concentrata molto sulla parola, sia per- ché era rivolta direttamente a me, sia perché cercavo d'indovinare cosa esattamente intendesse Ulisse con quella parola, anzi con quel verbo.
Forse, se avessi fatto attenzione in quel momento alla mia faccia mentre mi concentravo per meditare, ecco forse avrei saputo perché Ulisse fece una smorfia di disgusto e perfino avrei saputo evitare di provocare quella smorfia, perché s'intendeva che ero io a provocarla, probabilmente con l'espressione del mio viso o non so, con il movimento delle mie mani.
Calmati cara; ecco che l'ha detto di nuovo, mentre versavo l'acqua nel mio bicchiere; l'acqua é andata tutta di fuori, per forza, non era mai successo che mi parlasse a tavola; il resto delle parole che disse non le ricordo. Posso indovinare che si riferisse all'acqua che continuavo a versare dalla brocca, sapevo che Ulisse detestava il disordine, ma realmente non mi venne in mente di smettere, così credo, continuai per un pezzo finché non ci fu più un goccio d'acqua nella brocca, solo allora mi accorsi che stavo ancora stringendo il manico di vetro verde e allentai la stretta. Ulisse urlava, ma anche volendo, non posso ricordare cosa dicesse perché stavo ancora meditando sulle due parole che avevo già sentito la mattina del giorno prima, le quali suonavano come t calmati cara »
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o e cara calmati », non importa. Credo che mi avrebbe anche picchiata, ma si trattenne; non era una sorpresa per me perché' tante volte aveva afferrato la prima cosa che gli capitasse sotto mano per tirarmela, però non l'aveva mai fatto; si tratteneva all'ultimo momento. Ma non potevo evitare ai miei nervi di scattare, lo sapevo, non potevo frenare la scos. sa delle mie spalle e lo sbattere delle palpebre. Ora che ci penso forse era proprio questo movimento delle mie spalle a fermarlo; é la prima volta che ci penso, ma in verità i fatti si collegano bene; del resto perché, Ulisse avrebbe dovuto trattenersi dal picchiarmi? Gli facevo pena, ecco, credo che fosse proprio così.
Pensai che ero stanca di meditare su quelle parole: volendo avrei avuto tutta la notte per ritornare sull'argomento; guardai la gamba di Ulisse, non so perché proprio quella gamba e non l'altra, immagino che fosse più comodo fissare lo sguardo su una cosa sola anziché su due. Ma guardando la gamba di Ulisse non pensavo ad essa, non ricordo nean- che se portasse pantofole o scarpe, ma ora che ci penso mio fratello porta sempre pantofole quando siede a tavola per la colazione, quindi doveva avere ai piedi proprio quelle.
Pensavo che ero stanca di pensare, ma questo pensiero mi stancava ancora di piú; così decisi di dormire, perché avevo constatato che solo quando dormivo non pensavo piú.
Avevo cercato di abituare me stessa al sonno, ogni volta ne avessi sentito la necessità, non fisica s'intende ma mentale. Devo dire che i miei tentativi quasi sempre erano falliti, non so se per colpa del metodo
o per insonnia inguaribile e congenita. Decidendo di dormire, in qualun_ que momento della giornata, chinavo la testa sul collo e apparentemente poteva quasi sembrare che dormissi; ma non passava un'ora che aprivo gli occhi per accertarmi che non fosse trascorso troppo tempo, non che avessi niente dà fare, ma ecco che ero sveglia e sapevo di non avere dormito perché non provavo alcun sollievo alla mia stanchezza.
Fissai la gamba di Ulisse e decisi di dormire; ma ecco: mi venne in mente la mamma. Non capisco perché dovessi ricordare la mamma proprio in quel momento, ma non potei evitarlo. Era come se lei piagnucolasse là nella sua sedia a sdraio; mi misi ad ascoltarla tanto per curiosità, ma dopo poco mi distrassi perché la mamma non aveva cambiato in nulla le sue parole ed i suoi lamenti, sempre quelli da quando la ricordavo. Credo che ce l'avesse con me, come al solito, e con il proprio corpo che non faceva che cresere e gonfiarsi. Ulisse, lui, era fuori discussione, tanto andava bene qualunque cosa facesse. Era mancina la mam-
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ma, l'unico schiaffo che ricevetti da lei nella sua vita, me lo diede con la mano sinistra; ma questo accadeva quando poteva ancora camminare per la casa e piegarsi su di me sebbene fosse già grassa da far paura.
Diceva che io la volevo morta, e che era tutta colpa mia se era diventata così grassa. Lo diceva ogni volta che poteva, ma Ulisse non l'ascoltava. Del resto Ulisse veniva così poco a casa; credo che la mamma fosse addolorata soprattutto di non vederlo mai, ma non lo rimproverava perché era lui che guadagnava, Ulisse non faceva che ripeterlo e non voleva essere scocciato.
Infine la mamma disse che se ne andassero tutti al diavolo, e marl senza cadere dalla sua sedia a sdraio.
Pensai che aveva smesso di lamentarsi: ma ecco che fissando la gamba di mio fratello, l'udii che ricominciava a piagnucolare sulla sua sedia a sdraio come se non si fosse mai mossa da li: mi aspettavo che chiedesse di essere aiutata a mettersi a letto.
La gamba di Ulisse era vestita di un panno grigio a righe bianche e sottili, alquanto distanti l'una dall'altra. Pensai che in quel momento avrei potuto addormentarmi, il mio respiro si andava appesantendo, notai che il sapore che avevo in bocca era esattamente lo stesso di quello che potevo sentire la notte, quando mi svegliavo, come di saliva vecchia e di chiuso. Pensai che non avevo altro da fare che aspettare; un poco alla volta avrei dormito veramente.
La mamma cominciò a lamentarsi non so dove, nella casa: ecco questo era strano, che la mamma non fosse sprofondata nella sua sedia a sdraio, come aveva fatto ad alzarsi da sola? Aprii gli occhi per curiosità, e capii che avevo inventato ogni cosa per non dormire: la mamma era morta.
Come se Ulisse non l'avesse detto e ripetuto più volte: « Ora che la mamma é morta... »; ma io non gli credevo perché avevo notato che spesso si divertiva a confondermi le idee. Così quando non sapevo distinguere la finzione dalla realtà, preferivo non credergli liberandomi in tal modo dalle sue parole che altrimenti mi avrebbero ossessionato per giorni e giorni. Bé ora mi aspettavo che dicesse un po' sempre e cara calmati o calmati cara », e non stavo più tranquilla perché ancora non capivo che diavolo intendesse dire con quelle parole.
Lo vidi pigliare il giornale e tenerlo piegato fra le mani, come una tazza di the caldo, senza spostare le mani né in su né in giù, quasi avesse temuto di versare il liquido sui pantaloni. Quando apri il giornale per leggerlo mi ero già stancata di guardarlo e voltai la testa verso il muro.
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Mi fermai al foro di un chiodo che probabilmente Ulisse aveva piantato per appendere una fotografia o un quadro, che so io; adesso era rimasto il foro nel centro del muro, e due metri da terra, o forse poco piú. Il chiodo sarà caduto per il peso eccessivo del quadro, pensai; ecco che avevo indovinato che era un quadro. I quadri hanno sempre una cornice, quei pochi che avevo visto io ne avevano; cornici d'oro, in genere, ecco che il quadro, con ogni probabilità aveva avuto la cornice d'oro. I quadri, quei pochi che conoscevo io, raffiguravano la madonna o il pastore in montagna, anzi avevo visto più pastori nelle montagne che madonne.
Il quadro rappresentava dunque certamente un pastore visto di spalle, non ricordo di avere mai visto un pastore ritratto di faccia, e questo pastore era intento a guardare il sole, oltre naturalmente a badare alle sue pecore. Il sole può esserci come no; in genere riempie quel triangolo in alto sul quadro, là dove all'orizzonte le colline si confondono con il cielo. Avevo già appeso con il pensiero il quadro al suo chiodo quando mi venne in mente che qualcuno, per esempio la mamma, poteva averlo staccato volontariamente dal muro, avendo bisogno del chiodo come di uno stuzzicadenti, per esempio, o di una punta per pulirsi le unghie.
Non che m'importasse molto, anzi le cose come i fori mi stancavano e non mi davano alcuna soddisfazione; aspettavo che Ulisse uscisse per girare tranquillamente da una stanza all'altra, come facevo di solito.
Ciò che amavo nella casa erano i libri, ciò che non amavo gli specchi, non perché mi ricordassero me stessa, non m'importava gran ché, ma perché dopo tanti anni non sapevo ancora prevederli e quando mi imbattevo in uno di essi facevo un salto all'indietro. Mi prendeva alla sprovvi_ sta, ecco tutto, specie se la stanza non era illuminata, allora potevo anche spaventarmi di gridare e poi dovevo inghiottire un'intera bottiglia di sciroppo per calmarmi.
Gli specchi no, ma i libri, ecco i libri erano la mia compagnia; alle volte qualcosa di più alle volte qualcosa di meno della semplice compagnia, ne avevo due o tre nascosti in ogni stanza, spesso sotto il letto, spesso dentro il sacco della biancheria sporca o nel forno, in cucina. Non che li tenessi sempre li, Ulisse avrebbe fluito per trovarli, e questo era proprio ciò che non volevo che accadesse.
Credo che la mamma fosse stata maestra prima che io nascessi; dopo la mia nascita cominciò ad ingrassare e non la smise più finché mori seduta nella sua sedia a sdraio. Se si può dire che "la mamma stesse seduta; che io ricordi non si piegava mai né indietro né in avanti, era tutta curva e protesa lontano da quelle che dovevano essere le sue ossa,
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ammesso che la mamma avesse delle ossa. Ë lei che me l'ha detto, anzi ricordo che lo ripeteva sempre. Fra gli altri lamenti accennava al fatto dell'insegnamento, come se smaniasse per la voglia di tornare a fare la maestra. Lei non permetteva che io toccassi i suoi libri, questo no; disse che prima di morire li avrebbe gettati tutti nel fuoco pur di non lasciarli a me, ma poi non ne fece nulla perché le sarebbe costata troppa fatica, ed io non l'avrei aiutata, no di certo, a bruciare i suoi libri.
Sapevo di potere contare sulla generosità di Ulisse: infatti lasciò che io prendessi i libri appena mori la mamma, perché, disse, non sapeva che farsene. Io li contai, prima di tutto, e constatai che erano dodici, non uno di più non uno di meno, di cui cinque neri e gli altri a colori: devo ammettere che fin dall'inizio preferii quelli a colori.
La mamma diceva che non valeva la pena, e così non mi aveva mai insegnato a leggere, ma scoprii che non era molto importante, perché i libri io capivo lo stesso e quasi li conoscevo a memoria. Soprattutto quando osservai che Ulisse non leggeva mai un libro, capii che non doveva essere molto importante saperlo fare oppure no. Per i giornali si; ecco, credo proprio che per leggere i giornali bisogna sapere leggere, perché io non li capivo e Ulisse si.
Una volta riuscii a decifrare l'intera facciata di un giornale credo dicesse qualcosa, se ben ricordo, come tienilo forte per la coda, se davvero credi in lui; parlo del diavolo, s'intende. Per il resto mi bastava sentire i commenti che Ulisse faceva ad alta voce quando alzava gli occhi dal giornale, per capire che erano tutte cose che mi potevano interessare poco.
Ulisse diceva ad ogni occasione « cara calmati », o « calmati cara »; non so dove avesse pescato questa frase. Aspettavo che smettesse così come era cominciata, ormai non mi faceva più né caldo né freddo, solo che come tutte le cose ripetute era diventata un po' noiosa.
Del resto Ulisse si ripeteva anche la natte, quando miagolava con la sua donna; ero costretta a sentirli per via del muro che è sottile fra la mia stanza e la sua. Alle volte Ulisse ruggiva come se avesse scoperto sapore di carote sul collo della sua donna e volesse mangiarla, addentando la carne; alle volte piagnucolava sotto voce come un topo preso in trappola con la pancia piena di formaggio dolce. Oppure stavano zitti tutti e due, allora tentavo di dormire, ma ecco che si mettevano a ridere con tutte e due le bocche spalancate e il loro ridere era simile ad un urlo di bestie.
Per fortuna questo succedeva solo poche volte al mese, le altre notti sentivo il russare di Ulisse, ma a quello era abituata e non mi dava più
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fastidio: era un rumore monotono come il graffiare di un cane dietro la porta o l'acqua che passa a scatti attraverso il tubo di scarico.
Che Ulisse russasse non mi dava noia, era il rumore di sirena e di acqua che faceva la sua donna a non farmi dormire. Tanto che finivo per andare a prendere un libro in uno dei tanti nascondigli e lo portavo con me nel letto. Prendevo un libro colorato in questi casi perché lo preferivo, juesto l'ho già detto; inoltre i libri colorati si vedono meglio quando c'è poca luce e gli occhi sono velati per il sonno.
Questo mi ricorda quella volta che diventai completamente cieca e feci cadere tutto ciò che avevo fra le braccia; posso ricordare il rumore che fecero quei cartocci spaccandosi in terra, con le uova per la mamma e le patate e le cipolle. Mi proposi di raccogliere quella roba, ma non ci vedevo più e questo mi impensieriva, come se mi fossi infilate le dita negli occhi, o forse lo feci. Ma è certo che non vedevo più e cosí sedetti per aspettare di vedere ancora. Qualcuno chiamò Ulisse o fece qualcosa di simile perché quando ci vidi di nuovo mi trovai a casa con la pezza bagnata sulla fronte; la mamma disse qualcosa che continuò a ripetere a lungo, sulle uova e la verdura.
Aspettavo dunque che Ulisse uscisse per mettermi a girare da una stanza all'altra. Dovevo cambiare di posto ai miei libri; alcuni non avevano più la copertina, ma vorrei proprio sapere se la mancanza di una pagina su trecento, e per giunta quella che non ha numero, possa avere alcuna importanza oppure no. Io avevo progettato una cosa geniale, cioè di riunire tutte le copertine dei dodici libri, perché le copertine non hanno numero e quindi che ci siano o no, non ha alcuna importanza, e di fare così un tredicesimo libro. Avrei arricchito la mia biblioteca; era un'idea che mi piaceva molto e studiavo il modo di metterla in atto un giorno o l'altro; perché la cosa non era così semplice come sembra. Innanzi tutto le copertine sono fatte di cartone anziché di carta come le pagine solite dei libri; quindi il libro rischiava di non essere un libro come si deve; poi come metterle insieme? Devo dire che questo era il problema più grosso. Che il libro fosse un po' diverso dagli altri non mi preoccupava gran ché; ma un libro di pagine sparpagliate, non incollate insieme, questo si, mi preoccupava, perché allora non potevo proprio dire che fosse un libro, nessuno mi avrebbe creduto e io non avrei potuto dargli torto.
Tutti sappiamo infatti che i libri sono fatti in un dato modo e nessuno può negare che le pagine di un qualsiasi libro sono fra loro incollate in maniera che si possano sfogliare senza perderle; questa è la verità
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e chiunque voglia negarla o é pazzo o lo fa perché ciò torna a suo vantaggio.
Ma io non volevo negare la verità, volevo soltanto che il mio tredicesimo libro assomigliasse il più possibile agli altri dodici. E questo non
secondo la mia sola opinione, ma secondo la verità conosciuta da tutti, senza lasciarmi influenzare dal fatto che un tredicesimo libro era assolutamente necessario alla mia biblioteca, e quindi farmi travisare la ve-riti per il mio tornaconto personale.
Era una cosa necessaria come la storia delle scarpe; dico così per dire che è assolutamente necessario che le due scarpe siano una destra e una sinistra, anche se non dovessimo fare lunghe camminate; io per esempio non ne facevo mai, perché qualunque calzolaio si metterebbe a ridere se gli chiedeste di vendere due scarpe sinistre anziché una destra e una sinistra, non perché ognuno non sia libero di comprare le scarpe che vuole, ma perché non esiste un calzolaio che venda due scarpe uguali, anche se lo cercaste dappertutto non lo trovereste mai perché proprio non esiste. Anche se io avessi due piedi identici fra di loro. dovrei calzare una scarpa sinistra e una destra, a meno che non sia tanto ricca da comprarmi due paia di scarpe uguali e poi gettare le due inservibili e calzare le altre due, destre o sinistre che siano; ma certo qualunque calzolaio riderebbe perché da quando mondo è mondo si sono sempre calzate due scarpe diverse, la destra e la sua sinistra, con le punte leggermente divergenti l'una dall'altra.
Quanto agli specchi, non è che ce ne fossero molti nella casa, anzi a dire la verità forse non ce n'era neanche uno, ma certo avevo paura quando me ne trovavo uno davanti e mi toccava ricorrere alla sciroppo. Dubito pero che lo sciroppo servisse a calmarmi; a pensarci non so neppure se fosse uno sciroppo vero e proprio o semplicemente dell'alcool con zucchero. Il fatto é che ogni volta che mi spaventavo sentivo il bisogno di bere da quella bottiglia che tenevo nascosta nella mia stanza. Che mi facesse bene o no, era un piacere per me bere da quella bottiglia ed io bevevo ogni volta che mi spaventavo, o anche quando non mi spaventavo affatto, ma ne sentivo lo stesso il bisogno, e ciò accadeva varie volte al giorno.
Infine mi bastava sapere che i miei libri c'erano, e nascosti in qualche luogo, mi bastava essere sicura che fossero in casa, ,e ciò mi tranquillizzava sufficientemente. Non avevo mai desiderato d'altronde un pianoforte né qualche altra cosa del genere, eppure mi sarebbe stato utile sotto molti riguardi, per esempio per suonare, ma io non l'ho mai desiderato,
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neanche un po'; sapevo che Ulisse non m'avrebbe mai accontentata, « Non ho soldi per queste stupidaggini » avrebbe detto. Ulisse aveva da pensare alla sua sirena, io lo sapevo, non voleva spendere soldi per me; io mi accontentavo dei miei libri; cosi Ulisse non può dire che gli chiedessi troppo spesso di comprarmi il pianoforte, tanto sapevo già che i soldi li spendeva per la sua sirena, ammesso che Ulisse fosse disposto a spendere dei soldi per chiunque sia.
Sempre per via di quel muro che divideva le due stanze, Ulisse non poteva evitare che io udissi la sirena chiedergli dei denari, per il suo bambino. Credo anche di sapere che Ulisse non glieli dava. Quando cominciavano a trattare questo argomento, andava sempre a finire che si picchiavano, non so se fosse lui a picchiare lei o viceversa. Si picchiavano sulla testa e dappertutto, potevo udire il rumore. Con la stessa rapidità con cui avevano cominciato a picchiarsi poi, finivano per baciarsi con suoni di vuoto e di pieno.
Erano i momenti in cui sapevo che mio fratello non mi avrebbe det to « calmati cara » o « cara calmati », cosi stavo tranquilla e aspettavo che tacessero per addormentarmi anch'io. Intanto leggevo il mio libro, quello colorato, o, più spesso, pensavo al progetto del mio tredicesimo libro da aggiungere agli altri dodici che già possedevo.
Da una frase di Ulisse avevo appreso la parola « giocoforza », l'avevo imparata perché trovavo che proprio suonava bene, e la ripetevo fra me. Non sapevo che cosa significasse ma era piacevole, infine credetti di poterla interpretare come una cosa che fa piacere, non un oggetto ma qualche cosa di astratto, come si direbbe felicità o vanagloria. Giocoforza insomma esprimeva una cosa piacevole e forse anche un po' aspra, come quando si soffre e si ha piacere nello stesso tempo.
Ma questo accadeva, credo, all'epoca in cui conobbi Trento, il ragazzo del lattaio, credo di si, perché Trento veniva su tutti i giorni a casa, eccetto la domenica, poco dopo che Ulisse era uscito.
Il solo uomo che conoscevo era Ulisse e non é che mi interessassi molto a lui. Trento non gli somigliava per niente e questo mi piacque, anche perché mi fece pensare che esistono tanti uomini e tutti diversi, ciò mi consolava molto. Con lui non parlavo perché non ce n'era bisogno; al massimo dicevo «giocoforza» perché lui mi faceva pensare all'esatto significato della parola, anzi credo senz'altro che « giocoforza » significasse questo, e Trento non si arrabbiava quando glielo dicevo; credo che non gliene importasse un gran ché, era appena un ragazzo e portava il latte a tutti gli inquilini del palazzo.
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Trento mi fece dimenticare il pianoforte e anche un poco i libri, che adesso cominciavo a lasciare in giro nelle stanze per giorni e giorni senza cambiargli il nascondiglio. Per fortuna Ulisse si disenteressava di questo genere di cose, non credo che avrebbe raccattato un libro neanche se l'avesse pestato con un piede, voglio dire che se ne infischiava anche se lui sapeva leggere ed era perfino andato a scuola.
Non tentavo più di risolvere il problema del tredicesimo libro, non che me ne fossi dimenticata, ma mi premeva di meno, ecco tutto. Probabilmente -perché avevo cominciato a pensare a tutt'altre cose, a cui prima non avevo dato alcuna importanza; per esempio a me stessa come persona, anzi come donna e credo di essere diventata molto furba e maliziosa. Si perché Ulisse non si accorse di niente ed io continuai a vedere Trento tutti i giorni. Non che fosse difficile ingannare Ulisse, a causa del suo disinteresse per tutto ciò che non lo riguardava, o almeno che non riguardava i suoi denari; non mi guardava mai perciò non sapeva se fossi rossa o bianca; era facile, a dire la verità, ingannare Ulisse. Non so poi perché volessi ingannarlo, ma credevo di indovinare che non avrebbe mai approvato ciò che facevo; anzi con molta probabilità avrebbe smesso di bere latte e avrebbe picchiato Trento sulla testa come faceva. con la sirena; lo immaginavo anche se non né ero proprio sicura.
Mi interessai improvvisamente agli specchi, anzi si può dire che li cercavo, ma in casa non ce n'era neanche uno piccolo e così dovetti rinun_ ziare. Non volevo vedere la mia immagine, ho sempre considerato inutile vedere se stessi, non m'interessava; volevo solo osservare ciò che Trento vedeva. Ero molto curiosa, a questo punto devo dirlo, di vedere il colore dei miei occhi perché io vedevo i suoi che passavano con facilità dal giallo al marrone e mi chiedevo come diavolo facesse. Scoprii inoltre che indossavo della biancheria indecente; non che Trento si occupasse minimamente di ciò che avessi indosso o meno, ma la mia maglia di lana era bucata, lo vedevo bene e mi vergognavo; anche se Trento non mostrava di accorgersene. Una maglia con due o tre buchi e delle sfi- lacciature non era poi una cosa grave; Trento non ce l'aveva affatto la maglia, per esempio: ma chissà perché, dal giorno che conobbi Trento cominciai a vergognarmi della maglia bucata, che fino a quel giorno avevo portato con naturalezza, senza minimamente pensare che il fatto di essere bucata potesse togliere qualcosa alla sua utilità.
Di eliminare la maglia non mi venne in mente, probabilmente perché era tutto ciò che portavo sotto il vestito e avrei sentito freddo a togliermela. Così cercavo di non pensarci, ma devo dire che avrei volentieri
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cambiato il mio pianoforte per una maglia nuova. Di chiederne una ad Ulisse non mi azzardavo, tanto sapevo già che avrebbe detto di no; del resto, obbiettivamente, finché durava quella che avevo addosso, che
ragione avevo di pretenderne un'altra? Sarebbe stato come fare un capriccio e Ulisse detestava i capricci, per quello che ne so io, soprattutto in fatto di oggetti nuovi da comprare.
Trento era molto alto. A me dava l'impressione che fosse piccolo, e soprattutto leggero; lo sostenevo come un uccello ancora incapace di volare, e a dire la verità avevo bisogno di contare le sue dita per rendermi conto che fosse proprio li, nel mio letto. Il fatto che fossero dieci, mai una di più o una di meno, mi dava sicurezza, perché quando cominciavo a contare non ero mai del tutto certa di arrivare a dieci. Le contavo con emozione e traevo un sospiro quando arrivavo alla fine. Erano dieci, almeno tutte le volte che le contavo io; non avrei giurato però che lo fossero sempre e ciò mi spingeva a ricominciare da capo. Quando entrava dalla porta della cucina, ecco, allora era alto, come se non avessi mai potuto raggiungerlo a quell'altezza e ciò mi angustiava. Erano i momenti in cui rimpiangevo di non essermi nutrita abbastanza; la mamma diceva che le mie ossa non si erano sviluppate del tutto, e quando diceva ossa guardava la mia testa come per dire che non era colpa mia se ero scema: colpa delle ossa che non si erano sviluppate completamente.
Non lo diceva, ma so che lo pensava perché quando diceva ossa guardava la mia testa e non era uno sguardo allegro, bensì piuttosto di disgusto.
Qualunque cosa dicesse Trento da quell'altezza, ma in genere non diceva niente, ebbene io non lo capivo perché improvvisamente pensavo alle mie ossa poco sviluppate. « Bevi il latte », al massimo ripensavo a queste parole della mamma, « Bevi il latte »; ma io odiavo il latte, l'avevo detto anche a Trento, a lui non importava affatto, ma io glielo dicevo lo stesso perché avevo piacere di conversare con lui e gli parlavo anche dei miei libri che tenevo nascosti; a lui non importava, che io ricordi, ma a me faceva piacere lo stesso.
Avrei voluto che non puzzasse di latte, perché io odio il latte, questo l'ho già detto. Quando Trento mi stringeva, tutto cadeva nel latte, anche la mia bocca, che cercavo di tenere chiusa, si riempiva e in un attimo ero affogata nel latte come una fetta di pane. Per fortuna non durava molto perché Trento si metteva a fumare e l'odore del tabacco assorbiva un poco quello acido del latte.
Mi piaceva vedere il fumo viola che scappava fuori dalle sue narici,
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dagli angoli della bocca semichiusa. Aspettavo che aspirasse di nuovo dal suo cartoccio bianco per vedere il fumo dondolare nell'aria e poi rotolare verso il soffitto.
Lasciavo che chiudesse le imposte anche se ciò non mi permetteva più di vederlo; forse non amava guardarmi, io pensavo, seppure non glielo abbia mai chiesto. Lo pensavo perché chiudeva le imposte con un colpo, piegando insieme i polsi verso il petto e poi si coricava sopra di me; per quanto aprissi gli occhi non riuscivo a vedere che viso avesse. Quello che mi dava noia era il non poter sapere di quale colore fossero i suoi occhi; perché un momento prima che chiudesse le imposte erano grigi, li avevo notati; ma ora potevano essere gialli come viola, e questa incertezza mi faceva stare inquieta. A volere vedere per forza nel buio non guadagnavo niente; me ne accorsi presto; i lineamenti di Trento mi sfuggivano e i suoi colori si annullavano tutti nel nero. In quel momento avrebbe potuto essere un negro ed io non l'avrei saputo; non che mi importasse se era nero o meno, tanto più che non avevo visto un uomo di colore nella mia vita; ma per me Trento era bianco, quasi colore del latte e nel buio non ero più tanto sicura che conservasse il suo colore, ecco tutto. I miei occhi finivano per empirsi di disegni, avrei detto di materia luminosa colorata, o anche bianchi e neri come ombre frettolose lungo un muro. Ricordo le dita gialle e rosa che s'intrecciavano e si snodavano moltiplicandosi all'infinito. Questa immagine mi turbava, ricordo, perché tutte le mie forze cercavano di fermare il movimento delle dita; volevo che per azione della mia volontà cessassero di moltiplicarsi, ma quelle sfuggivano al mio controllo e s'intrecciavano sempre più velocemente, finché non mi veniva da urlare, e allora mi mordevo un labbro e le dita svanivano del tutto per lasciare posto ad altri disegni e ombre lucide nel buio.
Trento si addormentava su di un fianco, potevo vedere la sua bocca aperta e la saliva che colava lungo il mento. Era il momento in cui la sveglia cominciava a farsi sentire; voglio dire che il suo ticchettio, che di solito non udivo, cresceva di volume, fino a riempire tutta la stanza, che pulsava con essa, dilatandosi e restringendosi, aspirando e soffiando come un largo corpo malato seduto sulle nostre persone distese.
Non tentavo di allontanare quel rumore, lo accettavo così com'era, cercando di nascondere la testa sotto il braccio di Trento, ma Trento non voleva essere toccato mentre dormiva e mi spingeva con forza lontano da sé.
Trento respirava basso come una foca affannata, temevo che una
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volta o l'altra facesse scoppiare tutto con il suo fiato dai colpi precisi. La mattina che Trento non venne, non era una mattina di domenica perché la domenica non veniva mai ed io non mi sarei meravigliata della
sua assenza, era mercoledì o giovedì, non importa. Tre o quattro volte
andai alla porta perché Trento aveva suonato ma ogni volta scappava appena andavo ad aprire, o forse non aveva suonato affatto, ed era un
prodotto della mia immaginazione. Ma io andavo lo stesso ad aprire perché sapevo che Trento era dietro la porta e aspettava che gli aprissi. Non venne quel giorno né mai piú.
Il latte lo portava su un altro; mi pare che si chiamasse Trento. Ulisse cominciò a parlarmi, ma non diceva niente di nuovo, erano due parole che già conoscevo, .e non mi facevano più né caldo né freddo, ma solo noia: diceva a calmati cara » o « cara calmati », non so.
Lasciai che parlasse a vuoto, tutt'al più ridevo piano fra me perché mi divertiva il modo con cui Ulisse allungava i denti fuori della bocca per dirmi « cara calmati ». Ma Ulisse non sopportava assolutamente che io ridessi di lui; me lo fece capire, a modo suo, urlando come faceva di solito, ed io lo lasciavo urlare, al massimo ridevo piano fra me.
Lui allora faceva il gesto di tirarmi qualche oggetto ma anche questa era una cosa vecchia e continuavo a ridere fra me, perché tanto sapevo che non avrebbe tirato un bel niente.
Se mi fermavo a guardare la sua gamba, soprattutto quando vestiva quel suo abito a righe bianche distanti l'una dall'altra, mi ricordavo della mamma. Ormai lo sapevo ed evitavo di fissare la sua gamba a righe, ma quelle righe mi attraevano e finivo per guardarle perché era proprio il fatto di non volere guardare che mi invogliava a farlo; avevo notato che questo mi succedeva sempre. Quel giorno che Trento non venne, ecco era martedì, ora lo ricordo; quel giorno pensai alle mani della mamma; ricordai che le fissava perché avrebbe voluto vederle sporche d'inchiostro come quando andava a scuola. Era un pensiero nuovo e lo analizzai volentieri: ecco perché la mamma si guardava sempre le mani con tenerezza, adesso lo sapevo, naturalmente poteva anche non essere vero affatto, la mamma poteva guardarsi le mani per altri motivi, ma era un pensiero nuovo e feci finta che fosse vero, anche se non potevo provare che lo fosse.
Mio fratello tornò dal viaggio; si perché era andato in viaggio con la sirena, non so dove. Tornò totalmente mutato: mi aveva lasciato chiu. sa in casa e quando aprì la porta con la chiave che teneva solo lui, sapevo già che non era più Ulisse, come quando era partito, ma un altro, Gio-
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varani o Amedeo, faceva lo stesso. Aveva perso l'impiego, questo lo so, non perché me l'abbia detto, ma perché non usciva più la mattina né dopo colazione. Con questo non voglio dire che stesse sempre in casa, ma Usciva irregolarmente, con la barba lunga e senza cappello, per cui potevo dedurre senz'altro che la sua mèta non era l'ufficio.
La sirena non venne piú, anche lei come Trento.
Ulisse non metteva il vestito a righe, cosicché non avevo piú occasione di ricordare la mamma. Non osavo girare per la casa mentre c'era pure lui, ma alla fine, vedendo che non usciva quasi mai, mi tolsi le scarpe e vagai per casa come facevo prima quando Ulisse era uscito. Ora mi dicevo « Amedeo é di lá che beve »; non successe mai che mi scoprisse durante i miei giri per le stanze in quel periodo. Oppure mi dicevo « Giovanni è in cucina che beve », e potevo stare tranquilla perché lui sarebbe rimasto li per lungo tempo.
Mi domandavo alle volte come facesse .a bere tanto, una bottiglia dopo l'altra: le allineava tutte in camera sua, sopra la scrivania, quelle vuote, s'intende; perché quelle piene le teneva dentro il letto, proprio sotto le coperte, e le stappava una per volta, con cura.
Ma era una domanda senza risposta, Ulisse stesso ovvero Amedeo non avrebbe saputo rispondermi. Era chiaro, per lui il problema non esisteva: beveva e basta, come io leggevo e non mi chiedevo come facessi, non m'importava. Del resto avevo notato che molto spesso le domande non ottengono risposte; oppure ne ricevon molte una diversa dall'altra, per cui non si sa mai qual é quella esatta.
Che la porta sia aperta o chiusa, é sempre li che gira sui suoi cardini, di questo puoi star sicuro; tosi io sapevo che Amedeo poteva essere nella sua camera, o al bagno o in cucina, ma pur sempre abbracciato alla sua bottiglia, su questo non avevo dubbi. Lo stesso, però, mi rendevo conto che qualcosa non andava. Non era una situazione, insomma che la mamma avrebbe sopportato senza piagnucolare come una gatta, e sbraitare contro di me, anche se io, questa volta, non avevo colpa.
Avrebbe proibito che io leggessi i suoi libri, ma infine la mamma era morta e i libri erano in mano mia.
Non so perché né quando cominciò a picchiarmi; forse lo fece perché non aveva più la sirena con cui sfogarsi, o forse perché gli feci notare che la casa era piena di bottiglie vuote.
La prima volta che alzò le mani gridai a voce altissima perché non me l'aspettavo; ma poi ricordai che quello che mi afferrava per i capelli
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non era Ulisse ma Amedeo o Giovanni; per cui smisi di piangere e lo guardai da sotto, per indovinare se avrebbe continuato a lungo.
Non riuscii ad indovinare perché i suoi occhi non erano più due occhi come tutti gli altri, ma due pozzetti senz'acqua, viscidi e privi di espressione, avrei potuto chiamarli scatole o boccette, senza modificarne in nulla la qualità. La barba gli puzzava di alcol, insomma, tutto dimostrava che Ulisse era ben morto lasciando al suo posto un sacco pieno di vino, che io chiamavo Amedeo, ma dargli un nome era già troppo, era come renderlo vivo.
In seguito imparai a difendermi, cioé mi raggomitolavo su me stessa in modo che Amedeo non potesse farmi troppo male; ma all'inizio non conoscevo ancora questi trucchi. Infatti Amedeo mi ruppe un braccio e poi mi fece sbattere la testa contro lo spigolo del tavolo della cucina. Dopo quella volta non ci vidi più tanto bene, come se una rete avesse avvolto il mio occhio; le immagini urtavano fra loro e si fondevano tutte in un solo cerchio, così che perdevo continuamente l'equilibrio.
In seguito imparai a difendermi bene, come ho già detto: di ogni stanza conoscevo gli angoli più protetti dove riparavo appena Ulisse, no, appena Amedeo si alzava, avendo posato la bottiglia sul tavolo. Anzi posso dire che già sapevo quando mi sarebbe saltato addosso, lo potevo prevedere dal livello della bottiglia, perché finché c'era del liquido dentro, potevo star certa che non si sarebbe mosso, ma appena finiva la bottiglia, appena la posava sul tavolo, ecco, potevo correre al mio angolo perché fra poco mi avrebbe picchiata.
Un'altra volta che voleva battermi, mi ero chiusa nella mia stanza, convinta che non avrebbe mai potuto sfondare la serratura; ma si sarebbe detto che Amedeo fosse felice di trovare un simile ostacolo, come se l'avessero invitato a giocare con le palline. Non ruppe neanche la porta; con dolcezza svitò i cardini e piegò il legno come fosse gomma; senza fracasso scivolò in camera e mi trascinò per i capelli fino alla cucina. « Ho fame », disse e mi batté la testa contro il tavolo. Non credo di essere svenuta perché ricordo il braccio che andava per conto suo; io decidevo di voltarlo a sinistra e il gomito faceva perno a vuoto, mentre l'avambraccio slittava come spinto verso il lato opposto. Mi venne da ridere per questa novità, ma forse fu allora che svenni perché sentii sapore di sangue in bocca e poi più niente. Credo che rimasi li in terra per un pezzo; mio fratello si stancava di me dopo un po', in genere; anche quella volta mi lasciò stare.
Usci e stette fuori due giorni, non so dove andasse. Il secondo giorno
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non mangiai perché in casa non c'era più niente e fuori non potevo andare perché Amedeo chiudeva a chiave la porta quando usciva. Pensai
che sarei morta di fame; preparai i miei dodici libri accanto al letto perché volevo che morissero con me, poi mi addormentai e mi svegliai la mattina dopo al rumore della porta che sbatteva.
Era tornato. « Amedeo », dissi, « sono contenta che tu sia tornato »; ero seduta, anzi sdraiata sul tavolo, nella cucina. Aspettavo che entrasse dalla porta per vederlo bene e reclinavo la testa sulla spalla, spostandomi un poco sul fianco.
Quando entrò, vidi che era Ulisse; aveva la barba rasa e gli occhi rotondi e chiari come quando si svegliava al mattino di buon umore. « Ecco che è tornato Ulisse », pensai; ed ero contenta; gli domandai se avesse portato del caffè.
Ulisse si avvicinò al tavolo e mi mise una mano sotto la gonna. Improvvisamente capii che avevo sbagliato tutto, come al solito. Tentai di alzare la mano destra dimenticando che era quella che non obbediva piú, il braccio tremò un poco e poi si fermò. Ricordai che era rotto e mi faceva male; c'era anche l'altra mano, ora che ci penso, ma ero troppo confusa per ricordarlo e rimasi immobile. Amedeo mi prese in braccio e mi posò sul letto; poi si distese sopra di me senza spogliarsi.
La mamma piagnucolava nella sua sedia a sdraio, la sentivo appena perché mio fratello faceva molto rumore. Notai che non somigliava per niente a Trento; ecco che adesso conoscevo due uomini diversi, ed era strano che in tanti anni non avessi mai pensato ad Ulisse come uomo. Era più forte di Trento, questo si, e sorrisi ricordando che questo lo sapevo giá da prima, da quando mi aveva picchiata per la prima volta ed avevo scoperto che si chiamava Amedeo o Giovanni, fa lo stesso.
Il braccio mi faceva male, molto; come se qualcuno me lo stesse torcendo e piegando fino a fare un nodo più su del gomito. Il treno nel braccio, ecco, c'era un treno che faceva manovre sui binari vivi delle mie vene. « Lascia stare la corda », gridavo. Capii che gridavo perché mio fratello mi tappava la bocca con la sua e mi cacciava le mani nel collo.
Quella notte venne nel mio letto; poi, il giorno dopo, avevo la febbre, questo lo so perché la mamma diceva che si hanno i brividi quando viene la febbre ed io sentivo brividi per tutta la schiena. Il mio braccio gonfiò in quei giorni, fino a tendere al massimo la pelle, poi cominciò a diminuire e un giorno cessò anche di farmi male; credo che fosse guarito. E mio fratello non mi _picchiava piú; di questo gli ero grata e aspettavo che tornasse a casa col pacco di verdura e carne. Faceva così, ogni giorno;
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e mi portava anche la colazione a letto, dato che io non potevo muovermi per via del braccio. Era diventato perfino gentile, per quello che
ne so io della gentilezza. Non diceva mai « calmati cara » o « cara cal-
mati », o simili cose; mi porgeva il vassoio con garbo e poi aspettava seduto accanto alla finestra che io finissi. Quando vuotavo il bicchiere, andava a riempirlo di nuovo in cucina; bevevo tanto in quei tempi,
chissà perché. E di notte sognavo sempre il mare che non avevo mai visto ma conoscevo attraverso i miei libri. « Una massa d'acqua vasta e sconfinata dal colore del cielo », cosi era descritto; ma in altri libri era presentato in altro modo, tanto che io mi chiedevo se non ci fossero più specie di mari.
I diversi autori non parevano d'accordo sul colore, uno diceva che é azzurro, un altro parlava del viola intenso, oppure del verde; io non so tuttora cosa pensare, ma ciò non mi impediva di sognare sempre il mare, come un misto di colori.
In fondo la qualità dei colori non mi interessava, perché il mare era II a farsi bere da me, e amavo il suo sapore, un sapore che non assomigliava a nessun altro.
Infine Ulisse riportava il vassaio in cucina e lasciava che mi addormentassi, con la coperta fin sopra la testa perché la luce mi dava noia. Non speravo di chiudere le persiane fino a che non fossi guarita al braccio e ormai mi ero abituata alla luce. La sola difesa che avessi escogitato era di nascondermi gli occhi sotto le coperte e allora potevo anche avere la sensazione che nella stanza ci fosse buio; cosi mi addomentavo. Era sempre Ulisse che mi svegliava; lo sapevo appena sentivo il contatto freddo della sua gamba che scivolava accanto alla mia. Non piangevo perché Ulisse non voleva. Cercavo di tenere il mio braccio lontano dal suo corpo, perché non lo toccasse; ma finiva sempre per urtarlo col mento o con la spalla ed io mi trattenevo per non piangere. Un giorno che Ulisse era uscito provai a muovere il gomito e vidi che rispondeva come prima. Non sentivo più quel dolore lungo la schiena, i treni si erano fermati, forse ne erano usciti per sempre. Ero contenta e mi alzai per andare a chiudere le persiane; ma poi pensai che non avevo più voglia di stare a letto. Andai in cucina per bere dell'acqua e li trovai Ulisse che dormiva accanto alla sua bottiglia vuota, con la testa appoggiata al tavolo.
Era mezzo nudo e teneva le gambe divaricate sotto il tavolo; la pelle delle sue mani era chiazzata di nero. Notai che avevamo lo stesso colore di pelle, di un bianco quasi disgustoso. Osservai come dormissero im-
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mobili quelle mani sudice accanto alla nuca reclinata sul tavolo; quelle mani bianche come le mie e chiazzate di nero. Ogni giorno mi toccava con quelle mani, sapevo come si muovevano, potevo indovinare il loro calore e il loro peso sui miei seni. Pensai che non le avrei più sopportate. Desiderai tagliarle e farle morire lì, senza sangue. In quel momento udii il respiro di mio fratello e con gli occhi seguii la linea delle sue gambe distese rigide sotto il tavolo.
Dal mio braccio ormai guarito sentii crescere in me una forza immensa. Sapevo che cosa dovessi fare perché Ulisse non entrasse più nel
mio letto e lo feci. Adesso mi rendo conto che adoperai il coltello ma allora non Io sapevo, perché presi la prima cosa che mi capitò fra le mani e colpii finché Ulisse non cadde dal tavolo e sbatté la testa contro il pavimento.
La mamma prese ad inseguirmi per la casa, credo che volesse schiaf_ feggiarmi, ma non mi avrebbe mai raggiunta perché era troppo grassa e si muoveva con difficoltà.
Mai come allora desiderai il mare, perché la mia sete cresceva col passare dei giorni e anche senza sognare, ormai, vedevo la massa d'acqua, viola o verde che fosse, precedermi sempre di pochi passi. E ciò che mi faceva venire il mal di stomaco, era la coscienza di non potere mai raggiungere quel mare.
Quando vennero a prendermi, chiesi che mi portassero al mare, ma non mi ascoltavano; anzi seppi poi che volevano linciarmi, quelli della casa, e anche Trento. Sono certa che ci fosse anche lui perché l'ho visto io stessa lanciarsi contro di me imprecando e tutti gli altri lo seguivano.
Nel trambusto non mi ero accorta che tutta la parte superiore del mio corpo, dalla vita alla gola, era fasciata, di modo che potevo a stento respirare. Chiesi che mi togliessero quell'affare di dosso perché non potevo muovere le braccia; ma anche allora nessuno mostrò di ascoltare ciò che dicevo; in seguito imparai che quella era una camicia di forza. Lo imparai dopo vari giorni che vi ero imprigionata dentro ed ero contenta di averlo imparato perché io voglio sempre conoscere i nomi delle cose. In quel caso, poi, dopo avere dormito due notti abbracciata da quelle fasce, era giusto che io chiedessi e ottenessi la risposta: ecco, ero chiusa nella camicia di forza, in una stanza dai muri imbottiti. Mentre cercavo di addormentrmi rotolando su me stessa, infagottata a quel modo, mi ricordai improvvisamente dei miei libri. Mi alzai a sedere e cercai di appoggiarmi in modo da non cadere all'indietro. Come avevo fatto a dimenticare i miei libri durante quei giorni? Me lo chiesi tante volte,
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ma non trovavo una risposta che potesse soddisfarmi. Infine rinunziai a capire perché mi fossero usciti di mente; la cosa più urgente a questa punto era di scoprire il mezzo di riaverli presso di me.
Per non abbandonare questo pensiero che mi appassionava, non tentai neppure di dormire quella notte. La mattina dopo avevo preso la decisione di tornare a casa subito, per prendere i libri. Se non mi avessero lasciato andare, sarei scappata, ancora non sapevo come, ma ero certa di trovare il modo: mi ero accorta che si occupavano poco di me. Ma era urgente che mi sciogliessero quelle bende, e mi togliessero la camicia. di forza, perché costretta a quel modo non c'era nemmeno da pensare ad una fuga, lo capivo bene.
Venne una donna bianca a parlarmi; come fossi una bambina di pochi anni, ripeteva le parole avvicinando il suo viso al mio e facendo schioccare la lingua contro il palato. La guardai attratta da quei rumori e forse mi misi a ridere perché lei alzò la voce e minacciò di lasciarmi in quella stanza ancora per molti giorni. Questo mi fece ricordare la. fuga che avevo progettato e allora presi a farle domande molto accurate sulle persone che abitavano nei paraggi e come potessi raggiungere la uscita senza essere notata. Ma evidentemente non fui abbastanza prudente perché la donna bianca capì ciò che avevo intenzione di fare e disse con chiarezza che da li non sarei uscita mai, certamente non per mia volontà_ Questo concetto lo ripeté varie volte come per imprimerlo bene nella mia mente. Le risposi che non ero scema; mi guardò con tenerezza ma nello stesso tempo si teneva lontana da me come se temesse che potessi graffiarle il viso. Il suo bel viso di donna bianca che forse doveva ricordarmi la mamma, ma non trovai nessuna somiglianza per quanto cercassi. Le dissi che non somigliava alla mamma. Lo dissi perché si era creato un silenzio nella conversazione e cercavo un argomento qualsiasi per continuare a chiacchierare. «Lei non somiglia alla mamma », dissi_ Lei sorrise come un angelo, o almeno credo che volesse apparirmi tale sebbene a me non importasse niente che sorridesse oppure no. Disse che era venuta per togliermi la camicia; siccome le ero sembrata buona, continuò, avrebbe chiamato senz'altro il suo compagno per aiutarmi a togliere la camincia. Usci dalla porta da cui era entrata, una porta nascosta dalla tapezzeria dei muri, ragione per cui io non l'avevo notata prima„ tornò poco dopo col suo compagno. Vidi subito che era Trento, ma non dissi niente perché lui faceva finta di non conoscermi e, pensai, se agiva in quel modo, aveva le sue ragioni: forse era venuto a liberarmi_ Cosi mi limitai a guardarlo, senza fissarlo troppo apertamente però„
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e aspettavo che mi rivolgesse uno sguardo d'intesa, o una parola sottovoce, come « ci sono qua io », oppure « zitta per carità », « fai finta d~ non conoscermi ».
Le mie braccia erano di nuovo libere; notai che il polso rotto si era gonfiato ma non mi faceva più male, così finii per non pensarci piú. Trento recitava così bene la sua parte che la donna non si accorse di niente; quasi la dava a bere pure a me.
Mi fecero salire le scale e traversare corridoi. Vidi altre donne bianche come quella dal sorriso d'angelo, e tutte sorridevano come lei, verso Trento, verso me, o verso i muri. Camminavano sulla punta dei piedi
e passavano rasentandoci senza quasi farsi notare, non emettendo alcun
rumore.
Nella stanza in cui mi portarono c'erano già quattro ragazze più
• meno giovani di me, come vidi subito alla prima occhiata; loro per) erano vestite di grigio, con i capelli tagliati o raccolti dietro la testa. Subito capii che anch'io avrei vestito di grigio come loro e capii pure che fra noi ragazze e le donne bianche dal sorriso d'angelo c'era una grossa differenza : nessuno ci avrebbe chiesto di sorridere come loro.
Devo confessare che ancora una volta dimenticai i miei dodici libri per dedicarmi alle quattro ragazze che stavano nella stanza con me.
Adesso sentivo crescere in me una gioia profonda, e se da principio non avrei saputo dire da che cosa derivasse, poi scoprii che ero felice proprio per via di quelle quattro ragazze, tanto da dimenticare improvvisamente i miei libri per i quali prima avevo desiderato di fuggire.
Allora la mia più grande paura fu che mi togliessero di li. Guardai la mia accompagnatrice cercando di indovinare i suoi progetti nei miei riguardi, avrei voluto pregarla che mi lasciasse in quella stanza con le quattro ragazze, ma poi decisi di stare zitta, perché avevo già imparato che nella mia situazione era più saggio tacere: qualunque cosa io dicessi mi guardavano allarmati e i loro visi non promettevano niente di buono. Strinsi con le dita la spalliera di ferro del letto che mi stava di fronte e attesi che qualcuno parlasse; strinsi tanto forte il ferro da sentirmi dolere fino alla cima delle palpebre, ma non dissi una parola, sebbene lo desiderassi. La donna bianca non mi parlò, ma dai suoi gesti compresi che quel letto mi era destinato e che quindi io sarei rimasta in quella stanza con le quattro ragazze vestite di grigio.
Quando ebbe finito di preparare il letto, prima di andarsene, mi prese le mani e mi disse un'infinità di cose, non importa quali; ciò che volevo sapere l'avevo capito da me quindi lasciai che parlasse, annuendo
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con la testa quando lo ritenevo opportuno. Lei parve contenta di me e si avvicinò alla porta senza però lasciare le mie mani che continuava a stringere fra le sue. Disse ancora qualcosa a proposito della bontà; parlava proprio come un angelo e le sue mani erano calde e morbide. Credo che finii per sorridere anch'io.
Imparai subito che le campane erano molto importanti in quell'istituto e che se non si ubbidiva al loro segnale c'era da rimanere senza cena o addirittura di buscare la frusta sulle gambe. Io dovevo fare uno sforzo per ricordare cosa volesse dire quel suono; mi prendeva sempre alla sprovvista, perciò i primi giorni non sapevo mai cosa fare. Ma bastava che seguissi le altre giù per il corridoio, che loro mi guidavano; finivo per fare sempre così senza rendermi conto se fosse l'ora di cena. o della messa. Non m'importava molto perché ero occupata a meditare tutti questi fatti nuovi che si accumulavano nella mia vita e che non avevo il tempo di esaminare perché sempre altri si aggiungevano ai precedenti.
Nei primi giorni ero stata così assorbita dallo studio delle quattro ragazze che occupavano la mia stanza, da dimenticare tutto il resto_ Mi ero incantata a seguire i movimenti di Coccoletta, che passava il tempo abbandonata sul letto a cantare, muovendo solo le mani nel folto dei capelli. Non avevo mai visto capelli così lunghi e biondi, li paragonavo mentalmente ai miei, neri e lisci, e pensavo che doveva essere piacevole passare le mani fra quei capelli sparsi sulla coperta, ciondolanti. sul bordo del letto.
Aveva il corpo piccolo e piccoli i tratti, ma i capelli più lunghi delle braccia. Cantava canzoni di cui inventava le parole mano a mano che svolgeva il motivo, ma non alzava mai troppo la voce. Non so perché fosse li né glielo chiesi mai, amavo pensare che fosse una regina e la guardavo con curiosità ma anche ammirazione. Lei non guardava mai nessuno in faccia e si voltava verso il muro ogni volta che qualcuno entrasse nella stanza.
Tutto il giorno giocava con i propri capelli e la notte si agitava nel letto come se avesse caldo; una volta ricordo di avere sentito il battito dei suoi denti.
Mi accorsi presto che qualcun altro la guardava così attentamente come la guardavo io: era la spia, la ragazza che dormiva nel letto accanto al mio. Mi disse Lode, con cui feci subito amicizia, che la spia era innamorata di Coccoletta e cercava sempre di avvicinarsi al letto di lei.
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Lode insisteva per raccontarmi la storia di tutte le ragazze che incontravamo anche casualmente per i corridoi. lo mi annoiavo ad ascoltarla, forse perché parlava troppo in fretta e diceva quasi sempre le stesse cose. Allora brontolavo di avere un dolore alla testa che non mi faceva respirare e nascondevo la faccia sotto il cuscino. Lei rimaneva silenziosa per un po', ma poi riprendeva a parlare ed io andavo al gabinetto per sfuggirle e vi rimanevo finché non sentivo la campana del pranzo o la voce della suora che chiamava dal corridoio.
La finestra del gabinetto era quasi sotto il soffitto ed io non avrei• mai potuto raggiungerla, ma mi bastava sapere che era li a creare un contatto fra me e l'esterno. A volte potevo sentire il ruggito continuo dei tram, a volte lo scoppio di un'automobile come una pietra gettata nell'acqua; più spesso il grido sordo di un'altra, che poteva anche essere un pipistrello o anche la voce di una delle «malate». Io sapevo bene che erano pazze ma non l'avrei detto per nulla al mondo; seguivo l'esempio delle donne angelo e quando volevo alludere a quelle ragazze in grigio che si rotolavano sui letti, dicevo, « le ammalate »; al massimo lanciavo un'occhiata a Lode che era la sola con cui osavo parlare in termini chiari.
Fu Lode che mi raccontò che la Bambina dormiva con la cerata sotto le lenzuola, perché se la faceva addosso ogni notte; « Ha ventotto anni e piange come se ne avesse cinque », mi spiegò Lode; e la sentii anch'io, due notti dopo, che ingoiava lagrime affrettando sempre più il respiro, e piangeva senza forza, lamentosa, come una bambina assonnata. Di giorno giocava col cuscino, abbracciandolo e cullandolo come se fosse una bambola di pezza. Rideva per niente, ma se le si chiedeva qualcosa spalancava gli occhi spaurita e non riusciva ad aprire bocca. Ogni mattina Lode si sedeva accanto a lei per intrecciarle i capelli e poi sorrideva soddisfatta, guardando verso di me; « ecco pronta la Bambina » diceva, e le carezzava la fronte.
Non sapevo cosa pensare di Lode perché sembrava gentile e generosa con tutti, ma poi si divertiva a raccontarmi qualunque segreto di cui per caso si trovasse in possesso, e quando raccontava mi guardava con la bocca piena di saliva, l'espressione estatica, non peritandosi di rivelare le cose più orribili su coloro che poi abbracciava in altri momenti.
Mi disse che la spia era lesbica: « Lo sai cosa vuol dire »? « No », dissi. Fu contenta di spiegarmelo con una gran quantità di parole inutili. « È innamorata di Coccoletta » disse ridendo, « la desidera perché
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é bella, e poi, quei capelli... un giorno o l'altro le salterà addosso » mi sussurrò. E credo che non aspettasse altro.
Ero stata così presa da questi fatti che non avevo pensato affatto a me; da allora mi abituai a scappare più spesso al gabinetto per liberarmi di Lode e li meditavo su tutte le novità della mia vita.
Evitavo di pensare ad Ulisse perché più di una donna angelo mi aveva spiegato la gravità di ciò che avevo fatto. E parole come fratello, figlio dei Signore, morte dell'innocente, erano entrate nella mia mente e la loro presenza mi dava fastidio.
A Trento avevo rinunciato: dopo il suo ultimo tradimento e abbandono, lo avevo dimenticato; o forse cercavo di farlo senza riuscirvi del tutto, ma pensavo a lui molto poco. Questo era bene perché altrimenti avrei sofferto di stare in quella casa, mentre in realtà non mi dispiaceva affatto, anzi avevo cominciato ad affezionarmi a Lode, e come lei, prendevo gusto a tormentare la Bambina, seguivo il movimento delle mani di Coccoletta e gli sviluppi dell'amore della spia per lei.
Nella buona stagione ci portarono fuori ed io conobbi per la prima volta un giardino. Dimenticai del tutto i miei libri e Trento; né mi sovvenni più di Ulisse.
Coccoletta si scopriva i seni con la scusa del caldo; si riparava all'ombra degli alberi con un . ciuffo di capelli in bocca e la gonna arrotolata sulle ginocchia. La spia si accovacciava non lontano da lei, giocava con le pietre é le buttava via con rabbia. Le suore la tenevano d'occhio perché non si avvicinasse troppo a nessuna di noi; ma di non poterci avvicinare poco importava alla spia; le sarebbe bastato potersi accostare solo a Coccoletta.
Io mi ero tanto abituata alle chiacchiere di Lode che potevo udirla parlare ininterrottamente senza percepire una frase.
Chissà perché i miei libri non mi avevano rivelato l'esistenza di un giardino, un vero giardino, come quello in cui trascorrevo le mattinate accanto a Lode che mi raccontava gli ultimi pettegolezzi della notte. A sentir lei, quel pezzo di terra non era degno di chiamarsi giardino, in quanto del giardino non aveva neanche l'aspetto; ma per me andava bene e pensavo con terrore alla stagione fredda che ci avrebbe costrette in quelle stanze buie del piano superiore.
Ero sicura che la finestra del nostro gabinetto desse sul giardino, ma non sono mai riuscita a provarlo, perché dalla finestra del gabinetto non potevo guardare; d'altra parte, viste da sotto, tutte le finestre sembravano uguali e non avrei mai saputo quale fosse quella del ba-
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gno. Ma amavo pensare che fosse così come io volevo e, quando ero nel gabinetto, mi consolavo all'idea che la finestra sopra il mio capo, in cima al soffitto, dominasse il giardino, anzi osavo quasi immaginare, che una volta affacciati alla finestra, si potessero scorgere al di là di essa delle montagne, dei campi, e chissà, forse anche il mare. Il giardino era poco più grande del nostro refettorio, alcuni lo chiamavano cortile, ma naturalmente sbagliavano perché non ho mai visto né sentito che in un cortile crescessero degli alberi, come avveniva nel nostro. E poi, in certe giornate calde, spuntavano le violacciocche lungo i muri, ed io dico che il luogo dove crescono le violacciocche si può senz'altro chiamare giardino, e così lo chiamavo parlandone con Lode, sebbene lei tirasse fuori la lingua in segno di disprezzo.
Nel giardino c'erano tre alberi, ma i posti all'ombra erano regolarmente occupati dalle ragazze del secondo reparto che scendevano con l'anticipo di pochi minuti rispetto a noi. Solo Coccoletta riusciva a mettersi al riparo dai rami, non so se fosse per merito della sua bellezza di regina che incuteva rispetto o per merito della spia, di cui tutte noi avevamo paura. Fatto sta che Coccoletta trovava sempre un posto libero sotto il suo albero preferito, il carrubo che cresceva nell'angolo a sud 'del giardino. E c'era da meravigliarsi perché quello era l'albero piú ricercato per la sua freschezza, dovuta ai folti rami che dondolavano sopra il muro e per la sua altezza che dava a chi vi stava sotto una sensazione di sicurezza e di forza, e forse anche alimentava i desideri di libertà elevandosi così in alto, fuori da tutte le regole della casa, quasi si ribellasse alla prigionia con la sua forza di legno.
Sia Lode che io avevamo rinunciato a quei posti privilegiati che ormai spettavano dì diritto alle ragazze del secondo reparto che scendevano prima di noi e si accovacciavano sotto i rami.
Noi potevamo usufruire delle panchine che erano sparse un po' dappertutto lungo i muri, ma nessuno aveva simpatia per quei sedili che finivano per essere occupati dai gatti e dalle formiche. Era risaputo che i gatti e altri animali del genere non avevano alcun diritto di occupare le panche, anzi credo che fosse proprio proibito, ma nessuno di noi amava sedersi su quelle assi di legno smaltato; e così finiva che vi si accoccolavano i gatti e le formiche si divertivano a correre da un capo all'altro delle assi nella smania di scoprire qualche guscio di scarafaggio che però non trovavano mai. Lode ed io avevamo scovato un tappeto puliscipiedi di rete di ferro, con palline bianche che formavano un disegno, o almeno noi immaginavamo che fosse un disegno, per
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ché quando lo trovammo fra le immondizie, portava incastrate si e no dieci palline che luccicavano in mezzo alle maglie arrugginite, e furono proprio quelle palline ad attirare la nostra attenzione. Lo adoperavamo per sederci sopra, appoggiando la schiena contro il muro di mattoni; da li potevamo vedere i quattro muri che si intersecavano, gli alberi non molto discosti fra loro, e un pezzo di cielo simile a un coperchio posato sui quattro muri di uguale altezza.
Quando le nuvole correvano basse, si aveva l'impressione che i muri non stessero più in equilibrio e crollassero addosso a noi. Lode aveva paura e diceva che non voleva guardare, io pure avevo paura ma ero affascinata da quel movimento e buttavo la testa indietro, fino a sentire con la nuca l'attaccatura delle spalle. Alle volte Lode approfittava di questa mia posizione per farmi il solletico al collo e allora non la potevo sopportare, anzi la odiavo e pensavo di ammazzarla come avevo ammazzato Ulisse; ma bastava che lei sorridesse con i suoi denti all'infuori, che cessavo immediatamente di odiarla. Rideva tirando fino a farle diventare pallide, le labbra sui denti troppo numerosi e sporgenti per la sua bocca. Mi diceva in un orecchio che ero la sua sola amica, e secondo lei avrei dovuto essere contenta perché prima o poi lei mi avrebbe fatto uscire di li. « Come farai? » le chiedevo, tanto per parlare, sapendo già che erano chiacchiere inutili; « Vedrai », mi sussurrava soffiando dentro l'orecchio, e prendeva ad aggiustarsi la gonna sopra le ginocchia aguzze, sporgenti dalle gambe magre e storte.
Quando aveva finito di parlarmi della vita e delle nostre compagne, inventando storie complicate ed inverosimili, di cui rendeva protagoniste le ragazze che aveva più in antipatia nel nostro reparto, decideva di insegnarmi dei giochi che era solita fare al suo paese.
Il gioco dei papaveri piaceva anche a me. Bisognava scommettere se il colore del fiore fosse rosso o bianco; poi si apriva il bocciolo, e se i petali si spiegavano polverosi e rossi, aveva vinto uno, se si mostravano bianchi, vinceva l'altro. Era appassionante.
Vinceva quasi sempre Lode ed io mi accanivo per prendere la rivincita, ma presto ci stancavamo per la completa mancanza di papaveri nel giardino. Lode diceva che al suo paese c'erano dei campi addirittura rossi, come macchie di sangue, per la grande quantità di papaveri di quel colore. Io non sapevo se crederle o meno perche cono,-scevo la sua capacità di inventare storie che non avevano niente di vero; ma per giocare a quel gioco sarebbe stato molto comodo un intero cam-
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po di papaveri e, pur rimanendo diffidente, mi lasciavo sedurre da quell'immagine.
Il gioco della biscia era molto più complicato e non saprei mai ripeterne il meccanismo, sebbene Lode me l'abbia ripetuto tante volte; forse perché non avevo mai visto una biscia in vita mia e poi Lode conosceva la campagna per averci passato la vita, mentre io non sapevo neanche cosa immaginare quando lei parlava di campi, pecore, bisce, e altre cose del genere. Mi veniva in mente il quadro del pastore,
o il mercato vicino a casa; ma erano tutte cose ferme e prive di colori. Del resto non importava perché il gioco della biscia non si poteva fare
e quindi era una scusa di Lode per parlare difilato durante tutta l'ora di ricreazione. Se le dicevo di stare ,un po' zitta, allora tirava fuori la storia delle nipoti, a Sono zia di tre nipoti » diceva, e sorrideva trion- fante come se avesse rivelato di essere madre. Le sue tre nipoti vivevano in campagna e una volta l'anno venivano a trovarla con una ruota di formaggio e delle arance. Venivano con Lilla, la sorella di Lode,
e se ne andavano molto prima che facesse buio per non perdere la corriera.
Un giorno la spia tentò di uccidersi; Lode aveva capito tutto, naturalmente, fin dalla sera prima; fiutava l'aria come se avesse due antenne al posto degli occhi, sensibili e mobilissime; mi aveva detto di stare all'erta che ci sarebbero state delle novità. Infatti, quando ci svegliammo la mattina al suono della campana, la spia non era nel suo letto; ed io non mi meravigliai affatto di scoprire che neanche Lode era nel suo letto: era stata lei a salvare la spia che si era tagliuzzata i polsi nel tentativo di recidersi le vene.
La suora invocava Gesù e Maria, non sapeva cosa fare. Vidi entrare la donna angelo e poco dopo non ci fu più traccia di ciò che era successo: la spia fu portata in infermeria e con poche parole la donna. bianca ci rasserenò; sorridendo come solo lei sapeva fare..
La Bambina non aveva smesso di piangere, però; raggomitolata sotto le coperte ripeteva all'infinito un verso, con ritmo uguale e preciso. Solo Coccoletta non si era voltata per guardare e le sue mani disfacevano con grazia i nodi che si erano formati durante la notte fra i suoi capelli lunghi e fini, simili a ragnatele senza colore. Lode era agitata e rideva per ogni nonnulla; disse che non era successo niente,
quella scema! » ripeté più volte, e indicava il letto ancora macchiato di sangue; ma io vedevo che era pallida e le sue risate continue mi innervosivano.
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Quel giorno in giardino mi park) di Coccoletta: disse che era più bestia di una bestia, disse cosí. « Non pensa che ai suoi capelli e al suo grasso corpo addormentato », disse. Mentre parlava guardava verso il carrubo con le sopraciglia aggrottate. Lontano potevo vedere Coccoletta che si appoggiava al tronco, con le braccia lungo i fianchi, le spalle zb-bandonate su se stesse, e il collo piegato morbidamente sul cuscino dei capelli biondi. Pensai che non sapevo di che colore fossero i suoi occhi, non li avevo mai notati. «Infatti», disse Lode, «è come se non li avesse: Più che occhi sono buchi per vedere, e il colore dei buchi è indefinito, scuro e lontano ».
Mi informò che la spia era quasi guarita. «Non sono grandi ferite le sue », mi spiegò, « ma ha il cervello sconvolto, per lo shock ». Pronunciò questa parola con serietà, soffiando fra i denti; ed io non osai chiederle cosa significasse, sebbene potessi immaginarlo, più o meno.
La spia tornò a dormire nel suo letto dopo pochi giorni, ma se prima era scontrosa, adesso non le si poteva parlare affatto. Non sopportava di essere guardata, odiava tutte noi, eccetto Coccoletta, la quale pareva non si fosse neanche accorta di quei cambiamenti e continuava a pettinarsi i capelli con le dita, interamente voltata verso il muro.
Lode mi aveva detto che un giorno o l'altro sarebbero venuti a prendermi per il processo, ma io non le avevo creduto, e poi me ne ero completamente dimenticata, specialmente al tempo del suicidio della spia. Perciò mi meravigliai quando venne la donna bianca a prendermi e mi disse di infilare il grembiule pulito.
Cercai Lode ma in quel momento non era nella stanza. Non chiesi niente perché della donna angelo mi fidavo poco; tanto sapevo già che mi avrebbe rassicurata con uno dei suoi sorrisi e molte parole buone ma poco chiare e anche poco vere, come avevo avuto modo di constatare altre volte.
La seguii per i corridoi fino alla stanza della direttrice; mi presentò all'avvocato. « Siedi li », disse, « e rispondi con attenzione alle domande che ti farà questo signore ».
Tutti e tre mi guardavano con curiosità; l'avvocato prese a passeggiare e per la stanza, la direttrice disse che ero ana brava ragazza. Par. RI di me come se non fossi presente, dicendo che ero un elemento quieto, disse proprio così, e che con un po' di studio se ne poteva cavare un bel processo. Tanto « l'infermità mentale » é stata riconosciuta. « Rimarrà sotto la nostra tutela », disse senza guardarmi, come se parlasse di uno dei suoi trecento lavandini che andava sturato.
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L'avvocato si fece portare del caffè, intanto rideva di qualcosa con la direttrice. Li guardavo ma non stavo ad ascoltarli per via dei pensieri che si affollavano nella mia mente; in quei cinque minuti erano talmente cresciuti di numero che non sapevo quale prendere in considerazione per prima; mi sentivo confusa. L'avvocato continuava a ridere e pareva starnutisse, tanti versi faceva col naso e con la lingua fra i denti; la direttrice si teneva il petto con una mano e con l'altra nascondeva la bocca, come se avesse avuto vergogna di spalancarla; la donna bianca era sparita senza fare rumore. Notai che la sedia su cui ero seduta cedeva sotto il mio peso facendo scricchiolare le giunture di vimini ormai slegate e rotte; allungando una gamba avrei potuto toccare l'ombrello dell'avvocato che era appoggiato al muro in equilibrio instabile. Se davo un colpo col piede, l'ombrello sarebbe caduto attirando l'attenzione della direttrice e dell'avvocato; avrebbero smesso di ridere e forse mi avrebbero anche sgridata; mi venne voglia di farlo; allungai un poco la gamba. Ma perché mi perdevo in simili pensieri quando avevo tanti problemi da considerare?
Improvvisamente l'avvocato spostò una sedia, vi si sedette in modo che i nostri ginocchi quasi si toccassero e prese a farmi domande su domande. Credo che facesse apposta per confondermi le idee, si perché non mi lasciava il tempo di pensare e mi colpiva con le sue interrogazioni, quasi fossi una macchina che scatta appena si pigia un bottone.
Io guardavo le sue labbra per non perdere le parole che scappavano fuori come gatti infuriati, ma per quanti sforzi facessi rimanevo indietro rispetto alle sue domande e finivo per non capire più niente.
Vidi che la direttrice prendeva appunti su di un foglio che teneva aperto davanti a sé. Una goccia di sudore era sospesa poco sopra le mie orecchie, all'attaccatura dei capelli; aspettavo che scivolasse giù per la guancia, ma pareva che si fosse cristallizzata fra i capelli; così alzai una mano per cessare quella lieve sensazione di solletico; ma poi guardandomi le dita, vidi che erano macchiate di sangue. La direttrice disse che se avessi continuato mi avrebbe cacciato nella camera di sicurezza. « Ti sei rovinata una guancia », disse. Non sentivo dolore e mi meravigliai di quel sangue. L'avvocato da quel momento cambiò modi e divenne gentile nel pormi le domande, quieto nell'attendere le risposte. Credetti di indovinare che avesse preso paura; ecco dunque che sangue e dolore o la parvenza di tutte e due le cose potevano diventare utili per altri scopi, per esempio quello di spaventare l'avvocato, per ricordargli che stava parlando con una malata del manicomio.
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Quando avevo preso quasi gusto a raccontargli della sirena di Ulisse, l'avvocato si alzo, accese una sigaretta, mi fece cenno di tacere e,
appoggiandosi al tavolo della direttrice, parlò con lei sottovoce. Poi apri la porta e scomparve tirandosi dietro l'ombrello a cui si appoggiava camminando sebbene non fosse vecchio e neppure zoppo. L'impugnatura di legno scuro terminava con una testa di cane dagli orecchi d'oro e dagli occhi verdi di pietra preziosa.
La direttrice continuò a fumare e scrivere per un pezzo. Quindi alzò la testa e fissandomi negli occhi prese a parlarmi della mamma. « Era una maestra la tua mamma, nevvero? » mi chiese, «E' morta tanto presto la tua mamma; te la ricordi? ». Io accennai di si e lei sorrise soffiando dolcemente il fumo dalle narici. « Ciascuno ha la sua mamma », disse, « Ed è la persona che più ci vuol bene. Chissà quanto ti amava la tua mamma! E adesso ti guarda dal cielo e piange per te ».
Non so che altro disse sul cielo, sui pianti della mamma e gli sguardi dal paradiso. Io chinavo la testa ad ogni affermazione, perché così mi avevano insegnato, ma avevo voglia di dormire: quell'avvocato mi aveva stancata. Pensai per un momento al corpo della mamma, come io ero solita vederla, dal lato opposto della stanza, sprofondata nella sua sedia a sdraio; ma pensare a lei non mi consolava affatto e cercai di trovare il metodo per abbreviare quel colloquio.
La direttrice però sembrava si fosse abbandonata al caldo suono delle proprie parole; e dalla mia mamma era passata a parlare della madre in generale. Forse anche della madonna che chiamava madre di tutte le donne, o vergine santa del cielo, protettrice delle anime nostre e così via.
Non volevo proprio addormentarmi, sapevo che sarebbe stato poco gentile verso la direttrice, non era mia intenzione, assolutamente no.
La mia testa cadde sulla spalla ed io sentii che la voce premurosa si allontanava sempre piú; faceva caldo dentro la mia gala e le mie dita riposavano le une contro le altre.
Fui subito svegliata dallo schiaffo della direttrice e mi meravigliai tanto di trovarla così vicina a me che feci un salto all'indietro, per cui il mio piede colpi con forza la sua gamba e questo fu l'inizio di tutto. Infatti dopo poco ero già legata e stretta tra quattro infermieri, mentre la direttrice gridava qualcosa e agitava la testa dai capelli ben pettinati; credo dicesse « Ingrata » o forse « Pazza! », non so.
Mentre mi portavano via per il corridoio, mi parve di vedere l'avvocato che camminava appogiandosi all'ombrello con l'impugnatura
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dalla testa di cane; cercai di avvicinarmi a lui per parlargli ancora della sirena, volevo raccontargli come Ulisse la battesse, perché prima non avevo avuto il tempo di dirglielo. Ma l'avvocato fuggi correndo e l'infermiere che stringeva il mio braccio allentò la stretta un attimo per prendere la mia testa con tutte e due le mani e sbatterla contro il muro due o tre volte. Può darsi che preso dall'entusiasmo giocasse con la mia testa per più di un quarto d'ora, ma io sentii solo tre colpi netti, come se assaggiassi il muro con la lingua; e un sapore di calce farinosa si diffuse nella mia bocca; quindi smisi di pensare perché avevo troppo sonno.
Nella camera di sicurezza trovai la spia; le chiesi che cosa facesse li ma lei non rispose. Ciò che mi colpi fu l'odore di gabbia che riempiva la stanza; un odore troppo dolce di bestie sudate e aspro di disinfettante. Cercai una finestra, ma, non trovandola, poggiai la testa contro le mie braccia e cercai di dormire.
Durante la notte vennero a prendermi; pensai che mi portassero nella mia stanza, avevo voglia di vedere Lode per parlarle delle mie avventure di quella mattina. Mi alzai contenta e seguii i due infermieri che mi spingevano dolcemente verso la porta. Invece di salire al primo piano, capii dal freddo che eravamo giunti in giardino. Lode insisteva a dire che quello era un cortile, ma adesso più che mai avrei giurato che era un giardino per via del profumo; perché solo i giardini hanno profumo di foglie e di terra bagnata; ero contenta che mi portassero in giardino.
Uno degli infermieri mi legò all'albero di carrubo, pensai che era matto ma infine bisogna sempre ubbidire agli infermieri, ed io lo lasciai fare.
L'altro tirò fuori un fucile da dietro le spalle e prese la mira, da poco più di dieci passi di distanza.
Indovinai subito che era un fucile per averne sentito parlare da Lode, ed in quel momento pensai che le descrizioni della mia compagna erano molto precise.
Vidi i due buchi della canna che puntavano esattamente contro il mio viso.
Ebbi la coscienza per un attimo che tutta quella scena non fosse vera, fui sul punto di liberarmi di me stessa, ma ripiombai subito dopo nella realtà e recitai la mia parte sino all'ultimo.
Potei appena respirare ancora una volta, poi qualcuno bussò contro il mio ventre; due leggeri tocchi come punture; e mi trovai a terra
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col viso contro la corteccia umida di resina. Scoprii che era quello l'odore che avevo sentito prima, e allungai una mano per toccare la base dell'albero; ma non credo che vi arrivai perché tutto si fermò di colpo in me e il mio corpo era muto come di legno. Potevo pensare cd i pensieri salivano a galla come pesci vivi e mobili sotto la superficie limpida dell'acqua di un fiume.
Pensai che da diversi giorni Ulisse si rivolgeva a me con la stessa frase, « cara calmati » o « calmati cara », « cara malati calmati calanti », non so più; potevo prevedere già quando lo vedevo che avrebbe fatto saltare quella corda e non un'altra. La sirena muggiva sotto il braccio di lui, nella notte, ed io portavo il mio libro colorato dentro il letto perché non potevo dormire per via di quelle bestiole nella stanza accanto.
Lo lasciai parlare.
Era la mia storia che tornava e colava giù dai buchi del cervello perdendosi in mezzo all'erba e ai sassi; e la terra la succhiava con la stessa avidità con cui assorbiva la resina dell'albero.
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Testata/Serie/Edizione Nuovi Argomenti | Prima serie diretta da Alberto Moravia e Alberto Carocci | Edizione unica
Riferimento ISBD Nuovi argomenti : Rivista bimestrale. - N.1 (1953)-. - Roma [distribuzione Torino] : [s.n., distribuzione Einaudi], 1953-. - v. ; 23 cm (( La periodicità è variata più volte: la prima serie esce con periodicità irregolare, dal 1976 trimestrale. La prima serie si conclude con il n.69/71 (Luglio-Dicembre 1964 ma pubblicato nel marzo 1965), nel 1966 inizia la nuova serie che termina con il n.67 68 (1980), nel 1982 la terza serie che termina con il n.50 (apr. giu. 1994) ed inizia la quarta serie con il n.1 ... {Nuovi argomenti [rivista, 1953-]}+++
Data pubblicazione Anno: 1958 Mese: 7 Giorno: 1
Numero 33
Titolo KBD-Periodici: Nuovi Argomenti 1958 - 7 - 1 - numero 33


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