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tipologia: Analitici; Id: 1472440


Area del titolo e responsabilità
Tipologia Periodico
Titolo Giacomo Debenedetti, Ultime cose su Saba
Responsabilità
Debenedetti, Giacomo+++
  autore+++    
Saba, Umberto+++
  • ente ; ente
  autore+++    
Area della trascrizione e della traduzione metatestuale
Trascrizioni
Trascrizione Non markup - automatica:
NUOVI ARGOMEN TI
N. 30 Gennaio-Febbraio 1958
ULTIME COSE SU SABA (1)
Alla fine del '47, Saba scriveva a un suo critico: « tu che - se non sei stato proprio il mio De Sanctis, poco — molto poco, ti c'é mancato ». Queste parole mettono a nudo un sogno che Saba probabilmente coltivò per tutta la vita: trovare, per il Canzoniere, un critico come il De Sanctis. Oggi, se dovessimo deporre un fiore sulla tomba del nostro amico, gli diremmo che il suo De Sanctis non gli occorreva piú: l'aveva già trovato, e proprio nella persona di Francesco De Sanctis. Perché Saba verifica, a suo modo, l'augurio e l'ammonimento che il De Sanctis, negli ultimi tempi del proprio lavoro, rivolgeva alla poesia italiana: di liberarsi dall'ideale, dal non so che, di risolversi una buona volta a diventare una poesia tutta cose. Naturalmente, il nostro fiore non dovrebbe rimanere un tributo soltanto affettivo, convenzionale, come una lode da epitaffio. Perciò soggiungeremmo che il De Sanctis, se per miracolosa longevità fosse vissuto fino a poter leggere il Canzoniere, forse non vi avrebbe trovato la poesia che raccomandava. Toccava a noi di trovarvela, e solo perché abbiamo imparato a leggere, anche se molto meno bene del De Sanctis, tanti anni dopo di lui.
Adesso però il nostro turno di critici, con Saba, pare concluso; ormai ci converrebbe di cedere la parola. Noi abbiamo accompagnato, un po' scortato, quella poesia negli anni in cui si apriva al più pieno rigoglio: l'abbiamo aiutata, se non é presunzione, a farsi capire; forse perfino un poco a capirsi, se non é presunzione anche peggiore. Perché era anche una poesia difficile, nella sua estrema facilità di accesso, e durava fatica a vincere il sospetto di quella che in Francia Albert Thibaudet chiamava,
(1) Discorso letto al x Circolo della Cultura e delle Arti » di Trieste per le Celebrazioni di Saba, il 10 dic. 1957.
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con un calembour su un celebre titolo di Benda, la trahison des clairs: il tradimento, non già dei chierici, ma dei chiari. Comunque, i nostri di allora erano discorsi che valevano, più o meno, per il tempo piccolo di un poeta vivo e scrivente. Ora è venuta la volta dei discorsi per il tempo grande di una poesia, che va più lontano di chi l'ha scritta. Che se in questi nuovi discorsi potessimo ancora metter bocca, vorremmo aggiungere che quella di Saba è una poesia assistenziale, nel più alto significato del termine: una poesia che aiuta e illumina gli uomini in ciò che un altro poeta contemporaneo ha battezzato il mestiere di vivere.
Per conseguire un simile risultato, occorreva un uomo capace di esercitare, con una specializzazione quasi paradossale, quel mestiere di vivere. Saba si accollò, o piuttosto subì, per temperamento e per destino, questo compito. Era cresciuto in un tempo, in cui i poeti più in vista si assumevano la specialità di una sorte straordinaria, di un confronto quasi professionale con sentimenti ad alto livello, ad alta frequenza, superlativi, con sempre qualcosa più in su della normale condizione umana: non faceva eccezione nemmeno l'umiltà di Giovanni Pascoli, quella vera e quella ostentata. Saba invece ebbe l'eccezionalità opposta: di rimanere nella media; ma col materiale, di cui gli altri uomini sono costretti a fare la loro prosa quotidiana, riuscì a fare poesia.
La sua biografia, vista nei fatti, ma anche controllata sul Canzoniere, é quella di un piccolo borghese, nato sul finire del secolo scorso e maturato nel nostro. Non presenta punti singolari, anche se talvolta egli volle accentuare i più vivi influssi su di lui dell'amore o, come preferì dire dopo che ebbe imparato la psicanalisi, di eros. Un momento un po' vistoso fu il dramma tra lui e la moglie, registrato e cantato in Trieste e una donna; ma si lascia facilmente ridurre a una di quelle transitorie, per quanto dolorosissime, smentite d'amore, delle quali a un certo punto non si sa più se si é le vittime o i colpevoli e che, in ogni modo, tutte le vite capaci di non fatui amori finiscono più o meno col conoscere. L'altro momento emergente fu la persecuzione negli anni della stretta totalitaria e dell'ultima guerra; ma
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anche qui si tratta di una sorte condivisa, spesso più tragicamente, da milioni d'altri uomini, e non solo appartenenti alle minoranze ufficialmente perseguitate. Un dramma che, per motivi sciagurati, fini col rientrare esso pure in una atroce normalità.
Di suo, semmai, Saba aggiunse a quel dramma una preesistente, atavica angoscia di perseguitato: di uomo che automaticamente abbozza il gesto di ripararsi dal diluvio, anche quando il cielo è ancora sereno. E questo era un tratto più suo, che merita di essere segnalato al di fuori delle singole vicende, perché spiega i trascoloramenti di confidenza e di allarme che si susseguono, e talora si fondono, nella sua poesia. Spiace di fare appello ai ricordi, perché costringono a parlare in prima persona. Ma insomma, il primo ricordo che conservo di lui, un Saba 1923, presentatosi con un vestito blu e un berretto da ciclista all'uscio di una casa di Torino, dove era venuto a conoscere un suo critico « vergognosamente giovane » (come poi scrisse), mi riporta l'immagine di un uomo dallo sguardo limpidissimo, pronto a passare dalla dolcezza all'aggressività; e tuttavia in quello sguardo la pupilla aveva improvvisi guizzi sfuggenti, come di chi si guardi le spalle. Erano gli automatismi di quell'angoscia da perseguitato ? Poteva anche essere un umano ritegno per risparmiare all'interlocutore il disagio di sentirsi decifrato troppo in fondo. Ma perché proprio allora, quando la sua fama a lungo aspettata cominciava a salire; quando la pienezza dei suoi giorni (« un lago cristallino - è la maturità - una sosta, una pace ») venuta a coincidere con la breve, ma generale e contagiosa distensione del primo dopoguerra, l'aveva incoraggiato a tessere gli episodi più felicemente scorrevoli del Canzoniere, a mutare la « serena disperazione » della prima età adulta nelle ilari, giocose, sollevate malinconie dell'Amorosa spina e di Preludio e Canzonette, perché proprio allora Saba confidava agli amici di voler scrivere un'autobiografia in prosa, nella quale avrebbe confessato un cupo, sgomentevole segreto e che si proponeva di intitolare « Memorie di un uomo malnato » ? Doveva, dunque, trattarsi di un riflesso quasi biologico, provocato da una cronica diffidenza
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per i momenti favorevoli, per i piccoli, benigni incerti del mestiere di vivere. Fatto sta che egli metteva il broncio di fronte a ciò che doveva allietarlo, ed effettivamente lo allietava. Aveva paura della gioia che pure confessò con umile gratitudine in alcuni soliloqui lirici ? Quella commedia ingenua del fastidio, dell'insofferenza, quasi della rivolta e dell'ira per le buone fortune era probabilmente una forma di scongiuro da parte di chi per costituzione temeva dalla vita il male e l'offesa. Un gesto inconsapevolmente ereditato dai suoi vecchi del Ghetto, che si lamentavano gemevano piangevano miseria e disdetta, nel momento che avevano combinato l'affare lucroso. Qualcosa, del resto, che Saba fini col confessare nei giorni della liberazione 1945:
Avevo Roma e la felicita.
Una godevo apertamente, e l'altra
tacevo per scaramanzia.
In un uomo così dedito alle scaramanzie, nel quale la componente del tremore era sempre così all'erta, tutto si sarebbe potuto prevedere fuorché la grazia e il talento di trasformare il mestiere di vivere nella buona canzone di Saba. Un'impresa, per di più, che si presentava difficile poeticamente oltre che umanamente. Il tremore insegna anche l'astuzia, i ben dissimulati con- formismi. Con un minimo di astuzia, Saba — se valessero i nostri calcoli astratti — avrebbe tentato una via del tutto diversa.
Viveva a Trieste, e a Trieste, tramite una Vienna che fran- ceseggiava con delizia, giungevano gli oracoli di Parigi. Per la poesia, l'oracolo era stato pronunciato pochi anni prima dal Mallarmé quando con insolita chiarezza aveva posto il dilemma: poesia che suggerisce, o poesia che nomina; e lui aveva scelto quella che suggerisce, impegnando i destini della poesia futura. Saba invece, con quasi bambinesca innocenza, con provvidenziale sordità, scelse l'altra direzione: tranquillo, ispirato, dolcemente cocciuto si mise a scrivere una poesia che nomina. Certo a lui parve un atto di remissività; certo agli osservatori poté e può ancora sembrare l'accettazione di una poesia minore e di provincia; in
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breve per() quella remissività doveva diventare, senza istrionici eroismi, una prova di coraggio.
Basta già, a comprometterlo con tutto il suo domani, la prima quartina che di lui conosciamo. In quell'andare un po' lezioso, gentile, con un controluce quasi arcadico, dove la tragica luna leopardiana a cui il pastore errante volgeva la propria doman- da si scorpora nei vapori di una graziosa nuvoletta:
Che fai nel ciel sereno
bel nuvolo rosato,
acceso e vagheggiato
dall'aurora del dì?
fin da quella prima quartina Saba vince la liquefazione musicale con un suo urtarsi, timido ancora, contro le case che nomina: il suo cantare è un cantar canzonettando, coi piedi per terra. Fin da allora egli mette, ignaro, la sua ipoteca sulle conseguenze che trarrà da quella poetica del nominare destinata, nelle sue mani, a divenire una poetica delle cose. E' un punto assodato, ma vale la pena di precisarlo ancora. Fin dagli esordi di Saba, in taluni pensieri ancora incerti e divagati, pensieri che ancora sembrano fantasticherie, l'attenzione alle cose comincia a prescriversi come un obbligo morale: «Poco invero tu stimi, :tomo, le cose - il tuo lume, il tuo letto, la tua casa - sembrianc poco a te... ». E viceversa...
S'intende che Saba non sospettava neppure i due grandi pericoli che potevano nascere, per un poeta del suo stampo, da una simile dedizione alle cose: in primo luogo, che le cose prendessero il vizio di schierarsi sulla pagina in meri elenchi impressionistici, paghe del loro fascino di apparizione; in seconda luogo che, maturando il poeta frammezzo alle conquiste liriche del suo tempo, quelle cose im- parassero a organizzarsi in aggregati diversi dall'ordine naturale, a comporre stemmi o analogie di ci() che le parole non sanno dire, o il poeta rifiuta di confidare. Ma Saba possedeva, per motivi che accenneremo, una congenita immunità contro quei pericoli.
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Nella sua poesia le cose, rimanendo fedelmente identiche a se stesse, articolano subito un discorso del tutto esplicito, che pronunzia e sillaba tutti i suoi nessi: cioè i nessi delle cose tra loro, e delle cose col nostro sentimento, nonché il modo come queste cose entrano a far parte dei nostri eventi, divenuti essi stessi cose da toccarsi con mano. Un cantare, dunque, che è anche un discorrere, perché in Saba le cose che si fanno poesia non sono soltanto viste o sentite. Sono anche pensate, come occorre per ogni discorso sensato. Qui però bisogna ammettere il grave paradosso, dimostrato sperimentalmente vero dal Canzoniere: sono pensate si, ma pensate col cuore. E il cuore, senza offesa per il cervello, antico depositario della facoltà di strappare l'assenso, rimane l'organo più sicuro per ottenere il consentimento.
***
Saba aveva in uggia la critica per dissertazioni. Preferiva che si esprimesse per immagini. Se ora egli ci regalasse un po' della sua grazia d'autore di raccontini e favolette, noi potremmo restituirgli la sua storia di poeta racchiusa in un apologo. Terremmo dietro al salmone che, per andare a compiere il suo atto più vitale: l'amore fecondante, intraprende un cammino opposto al corso delle acque: dal mare ai fiumi ai torrenti ai laghi di montagna, fin quasi alle sorgive. Descriveremmo quel muso che si allunga e si affila e par che cerchi, e ha già trovato, la sua inverosimile strada; quel nuoto che si tende contro i vortici, i salti, inventa meravigliosamente un itinerario negli ingorghi rilucenti tra i sassi, supera in salita la spinta avversa delle cateratte, evita i mulinelli impraticabili, e in quel guizzo é già più a monte.
La prima e più interessata morale dell'apologo è che i buongustai preferiscono il salmone di fiume perché, nello sforzo di risalire la corrente, si é fatto più sostanzioso. Di questa morale accetteremo soltanto la parte positiva, che allude ai pregi acquistati da Saba nel cammino contro la corrente. Respingiamo la
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parte negativa, cioè il confronto con gli altri che in apparenza sarebbero andati con le acque o rimasti nel gran mare. Quelli di loro che contano hanno trovato, anche in mezzo al salso, le scaturigini pure. I lettori di poesia sono naturalmente passionali, si coltivano l'autore prediletto con una parzialità settaria, come i fanatici di un campione sportivo. E sia pure: guardiamoli come campioni sportivi, i tre grandi dei nostri giorni, Saba Montale Ungaretti, insieme con tutti quelli che in altre nazioni mostrano come il nostro secolo, a furia di credersi impoetico e rissoso, stia dimenticandosi di essere un ragguardevole secolo di poesia. Ma nelle gare tra poeti vale questa sacrosanta ingiustizia: che chiunque taglia il traguardo é un primo arrivato. Forse la morale del nostro apologo ci ha deviato in una parentesi che però era utile aprire, proprio perché ci si augurerebbe di poterla chiudere per sempre.
Torniamo all'itinerario di Saba, che era il succo più vero dell'apologo. Supponiamo che il Canzoniere capiti nelle mani di un lettore di tra due o trecent'anni, armato di alcuni strumenti della stilistica, ma privo di qualunque scheda biografica. Costui conchiuderà, soprattutto sulle prime parti, che quella é l'opera di un poeta del secondo Ottocento, emerso con doti più meritorie dalla costellazione dei maestri minori che, a fatica, con risultati stridenti, cercarono di tenere in caldo la poesia italiana negli anni di eclissi seguiti alla morte del Leopardi. Forse farà i nomi del-l'Aleardi, del Praga, del Prati, un po' del Tommaseo, parecchio del Betteloni: proprio di coloro che Saba più sdegnosamente rifiutò come antecedenti o come vicini. Forse a quel lettore dell'avvenire non verranno in mente altri maestri molto più inconfessabili, certi efficaci cattivi esempi che tra poco vedremo di identificare. Ma fac- ciamo ora che egli ritrovi la scheda biografica: cascherà dalle nuvole nell'accorgersi che Saba cominciò a poetare durante l'apogeo di Carducci, Pascoli, D'Annunzio. Al postero stupefatto noi vorremmo far giungere, valga quel che valga, il nostro verace e impertinente apologo: Saba aveva già cominciato il viaggio del salmone.
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* * *
Ma da dove poté venire, a quel ragazzo di diciassette o diciott'anni, stranito e solitario, ingombro di vita ancora informe, l'iniziativa di una tale avventura? Gli impulsi ci paiono soprattutto due, che si sommano con mirabile coincidenza di direzio- ne e di risultati. L'uno veniva da Trieste; l'altro, come é giusto, dai connotati personali di Saba.
Trieste, ha spiegato Saba, era allora una città « periferica »: rispetto, si capisce, alla cultura del resto d'Italia. Ma noi ne trarremo conseguenze diverse da quelle che deduce Saba. La posizione dislocata della città, insieme coi tanti malesseri, le dava almeno un vantaggio: certi movimenti di idee e di gusto, che il resto d'Italia aveva già logorati, a Trieste arrivavano come nuovi, con una suggestività, una fruttuosità da spunti appena nati. Così fu, ad esempio, per il verismo. Nella penisola esso si era bruciato coi capolavori di Verga, sublimi tradimenti alla scuola verista. A Trieste, dal contatto del verismo col grande naturalismo europeo, scoccarono ancora i due primi romanzi di Svevo: libri che da soli basterebbero a riscattare tutti gli infortuni di quella scuola, e non soltanto in Italia. Nella penisola il verismo non era riuscito a mettersi d'accordo con la poesia, a meno che non si vo- glia considerare il Pascoli come l'ultimo verista provinciale e dialettale, tesi ingegnosa ma discutibile. A Trieste il verismo arrivò ancora in tempo a trovare il ragazzo Saba, già per conto suo disposto a una poetica delle case.
Accantoniamo, per un momento, le prime vaporosità delle Poesie dell'adolescenza: sono in parte gli esercizi di canto di una voce nell'età della muda. Fu la tromba di una caserma salernitana a sonare la sveglia alla poesia di Saba. Ne usci una poesia verista, nel miglior senso della parola. Prima dei Versi militari sarebbe stato difficile trovare, in una lirica italiana non burlesca o matta, una notazione come quella che dipinge il compagno durante una marcia: « Mezza lingua fuori - gli pende come a macellato bue ». Gli eventuali e prossimi precedenti di una
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poesia così (si scusi il gioco) fuor dei denti obbedivano a una vanità, a un'ostentazione dello scandalo (il caso più ovvio e vicino era stato quello di Stecchetti). Con Saba, quei tratti rientrano in una specie di, naturalezza poetica. Una materia classicamente spregiata esibisce la carta dei suoi diritti di cittadinanza nella poesia. Si tratta di una fase inevitabile del verismo. Anche nella narrativa esso aveva dovuto accettare il confronto col vero più miserabile e disgustoso per convincersi della narrabilità di un vero non romanzato; Saba accettò un confronto analogo per dimo- strarsi la canta'bilità di un vero non idealizzato.
Ma il suo verismo è più sostanziale: non innova soltanto la materia delle immagini, é esso medesimo a suggerire con che mondo Saba deve cimentarsi. A noi quei soldati dei Versi militari, e il soldato Saba tra loro, paiono esattamente i commilitoni di Turiddu o di 'Ntoni Malavoglia. Perché la vita militare sia sta. ta un tema elettivo del verismo é un piccolo indovinello letterario che porta la sua soluzione tra le righe. Verga si limitò a farci sentire l'eco degli anni di caserma, i suoi giovanotti ce li mostra quando tornano congedati; Saba si mette dentro alle giorna- te in uniforme, elimina l'aneddoto alla De Amicis, afferra gli scorci: e dove un narratore farebbe bozzetti, lui poeta riesce a fare sonetti coi dovuti requisiti lirici.
Qualche anno dopo, l'altra tappa decisiva del Canzoniere é Trieste e una donna. Anche qui, chi volesse cinicamente ridurre l'episodio centrale (la storia del momentaneo abbandono della Lina) al fatto nudo e crudo, troverebbe una trama da bozzetto verista. Dipenderà soltanto da un nostro vizio di lettori quel veder riaffiorare qua e là la presenza di un Verga, al quale Saba forse non ha mai pensato? In alcuni versi, che egli era contento di avere scritti: « Non veduta una tua lacrima cade - sulla tovaglia macchiata di vino », il movimento appartiene senza dubbio alla Lina, protagonista della poesia; ma potrebbe essere anche di Santuzza o della Mena. E in quale punto, divenuto irreperibile, di Nedda o di Vita dei campi avevamo sentito prorompere questa rabbia d'amore: « quante lacrime m'ero ribevute - alla salute del mio vile cuore! », di una platea-
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litá veramente rusticana, che riesce a portarsi in una limpida, insperata posizione di canto?
Ma Saba, appunto perché introduceva, lui per il primo, un verismo genuino nella poesia lirica, doveva garantirsi che ne venisse fuori una poesia di quella buona, con le carte in regola. I dati di cui disponeva (la sua cultura, le sue letture, le ha raccontate lui a più riprese negli scritti in prosa) non gli offrivano che una possibilità: controllare se quella ispirazione era capace di ricostruire le forme esemplari della poesia italiana. E allora, eccolo arruolato nel suo tradizionalismo di stampi metrici, di ossequi linguistici. Una poesia di cose, che lo ha vincolato a una ortodossia passatista di forme: due grandi spinte per il viaggio contro corrente. Fin qui abbiamo visto come gli siano venute da Trieste, che gli aveva messo a disposizione un verismo ancora tutto utilizzabile.
***
Guardiamo adesso come abbiano lavorato gli impulsi provenienti dal suo interno. Ci sono artisti che non capiremmo mai del tutto, se non sapessimo donde sono usciti. Kafka, per esempio, o Chagall non si possono spiegare senza il Ghetto, o i residui del Ghetto. Negli anni che Saba chiama « meravigliosi », prima delle due guerre, girarono per l'Europa due tipi messi in circolazione dal romanziere Zangwill: i figli del Ghetto e i sognatori del Ghetto. Saba fu per lo meno un nipote del Ghetto. Al Ghetto triestino, che per() era aperto da molti decenni, lo ricondusse la madre, abbandonata dal marito e costretta a vivere a carico della famiglia (« Per me, per lei, che il dolore struggeva - trafficavano i suoi cari nel Ghetto »). Quella madre espiò la colpa, certamente rinfacciatale, di un matrimonio « misto » e subito fallito, con una dignità orgogliosa che dovette irrigidirsi in una specie di rigorismo. Nella sua casa i sorrisi, gli abbandoni espansivi parvero probabilmente trasgressioni a una meritata penitenza, qualcosa di vietato perché peccaminoso. Una specie di
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ulteriore clausura nel relativo senso di clausura rimasto appiccicato ai muri del Ghetto. (« Sono essi stessi le porte dei loro Ghetti », diceva Zangwill degli ebrei rimasti in quei loro borghi, dopo che gli statuti liberali avevano dato la libera uscita). Non facciamo però il quadro troppo nero: quella cittadella ebraica, ormai chiusa soltanto da recinti immaginari, era una rocca di teneri e soccorrevoli affetti; era un benevolo, protettivo riparo dopo i confronti col mondo, per gli ebrei ancora abbastanza nuovo, in cui vigeva più aperta, quindi più minacciosa, la libera concorrenza umana.
Vale la pena di perdere il filo del discorso per ricordare un piccolo fatto che mostra quanto Saba serbasse viva in sé quella idea del Ghetto come asilo. Al tempo delle cosiddette leggi razziali, egli aveva preso un treno per Parigi, che era ancora mondo libero. Ma arrivato a Torino, fece una sosta: andà nella casa di una signora ebrea, dove anni prima gli era parso di riconoscere abitudini, gerghi, usanze, che erano stati anche della sua gente, nelle loro case di Trieste. Sperò, appunto, di ritrovare per un attimo il rifugio del Ghetto, quelle sere che rimettevano il cuore in pace. Quanto gli occorreva, almeno, per riprendere forza e rimettersi in cammino. Visto che abbiamo perduto il filo, approfittiamone per osservare che la condizione di Saba era, allora, di quelle in cui uno ha bisogno di calarsi nel fondo di se stesso, per capire il senso apparentemente assurdo del proprio destino: deve scendere, come si dice, a interrogare le Madri. E caratteristico di Saba, caratteristico anche della sua poesia, che lui andò invece a conversare con la madre personale, con una signora che in quel momento, per una proiezione abbastanza spiegabile, valeva a simboleggiargli la madre, o la zia Regina « benefica ed amata - quanto la madre ».
Per tornare al ragazzo Saba, si indovina come, nelle condizioni che abbiamo accennate, dal nipote del Ghetto si sia su-bito sviluppato il sognatore del Ghetto, e come per tempo egli abbia messo in moto la fabbrica dei sogni. Solo una grande riuscita poteva rimediare a tutta la tristezza che aveva d'intorno: e
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i suoi furono sogni di successo, di ricchezza, di gloria. Tornare a Trieste con una nave carica di tesori da Mille e una Notte, e farne dono ad amici e parenti: una fantasia che trapela ancora dai suoi versi giovanili. 0 emulare l'esempio citato da tutti, l'uomo che aveva fatto fortuna nell'Inghilterra della Regina Vittoria e che bastava, col solo suo nome, a fornirgli un perfetto endecasillabo:
Baronetto Sir Moses Montefiore
O, se non altro, conseguire la fama di sapiente come il suo prozio Samuel Davide Luzzatto, l'insigne Sciadàl: gran rabbino, gran dottore, grande letterato orientalista e perfino in certe ore poeta, ma poeta col contrappeso di una solida dottrina. Lui invece non riusciva che a fare dei suoi sogni altri sogni, cioè poesie. Era la gran paura della sua mamma e della zia Regina. Forse anche la sua; nell'abbandonarsi alla poesia, il ragazzo Saba la temeva oscuramente come una trasgressione. Bisognava riscattarsene, facendo della poesia una cosa solida, onesta, sicura come una moneta d'oro. E, a un tribunale ancora più interno, poter rispondere che anche la poesia era severa come una legge: con la sua metrica, le sue strafe, i suoi versi, l'inderogabile ricorrere delle rime. Il giovane Saba mette quasi una superstizione, un obbligo rituale nell'osservanza delle forme più chiuse e simmetriche. Le licenze che spesso contrabbanda, e di cui continua a chiedere perdono, possono perfino parere una compensazione a quell'obbedienza un po' coatta. Gli occorrerà mezza la vita per giungere, sia nella pratica del suo mestiere, sia nel parlarne con gli amici, alla certezza che la rima liberàmente fiorita dal verso, e non imposta dalla regolarità della strofa, ha il sovrappiù di
dolcezza egli diceva — dell'acino di zibibbo nella pasta del
panettone. Ma intanto, agli inizi, i suoi meccanismi interni lo avevano spinto anch'essi al viaggio contro corrente, al ricupero della tradizione. Cioè, avevano operato su di lui in precisa concordia e parallelismo con le suggestioni trasmessegli da Trieste, città periferica.
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Però, un problema abbastanza simile a quello di Saba si era già presentato a certi facitori di versi, per lo più quasi innominabili nel consorzio dei veri poeti. Anche quelli dovevano nominare cose, mostrare fatti, muovere azioni nelle strafe più martellate, spesso di strettissimo giro e implacabilmente corredate di tutte le rime. In quell'irritante e adorabile, infantile e sapientissimo libro che è la Storia e Cronistoria del Canzoniere, Saba non li ha del tutto sconfessati; perciò niente ci vincola a tacerne il nome. Sono i librettisti di melodrammi. Dovevano anch'essi trovare, come che fosse, una conciliazione tra quel realismo di fondo, che fece la gloria del melodramma, e una certa nobiltà, anche se balorda, di eloquio e di verseggiatura, che non sfondasse troppo sguaiatamente la linea del canto. Un lustro di parole che stava alla materialità del contenuto come lo sfarzo e stravaganza dei costumi alla psicologia elementare, schematica dei personaggi. Ma Saba, con ben altre responsabilità, non doveva lui pure ottenere una conciliazione tra la prepotenza quasi autonoma delle cose che gli premeva di nominare e le misure del canto che aveva bisogno di adeguare ? Niente di straordinario che dalla sua memoria di antico e appassionato frequentatore di teatri d'opera, i librettisti si siano riaffacciati ad ammiccargli, a dargli qualche consiglio del tutto generico. Nessuno si scandalizza che Dostojevski abbia imparato certe manovre del romanzesco dai suoi dilettissimi Misteri di Parigi, o certe ricette di sceneggiatura dalle pochades francesi. Nella qualsiasi misura in cui i libretti d'opera possono avere fornito a Saba un malvagio e servizievole modello, rimane la differenza che i librettisti alzavano più o meno goffamente i loro versi a reggere la musica futura, mentre la poesia di Saba, dove é più lei, ci appare come staccata in quell'attimo dalla linea invisibile di una musica non scritta, ma di cui l'aria serba la presenza e l'impronta.
Non ci saremmo permessi questo accostamento ai libretti d'opera, se non ci richiamasse a una parentela ben più rivelatrice del Canzoniere. Oggi ci pare — ci dispiace solo che la strettezza
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del tempo non ci consenta di darne tutte le prove necessarie — che Saba abbia veramente adempiuto il suo compito di poeta proprio perché, senza saperlo, senza proporselo, é riuscito a comporre, con le sole parole e la musica delle parole, un vasto e trascinante melodramma. Lui parlava piuttosto di « romanzo ». Ma il romanzo presuppone certe coerenze di sviluppo, un giuoco di cause e di effetti tra il prima e il poi. Il melodramma invece, proprio nei suoi esemplari più grandiosi, può permettersi perfino un andare assurdo, bislacco della trama; pensiamo ai melodrammi più melodrammi, al Trovatore, alla Forza del Destino: non molti di noi saprebbero riassumerne le storie, ma non ce ne importa. Quei grossi garbugli devano funzionare come macchine, come dinamo costruite di vecchio ferrame e tuttavia capaci di fare esplodere momento per momento situazioni, gesti, gridi, che non si dimenticano piú. Dunque, una specie di indifferenza, di trascurabilità della vicenda rispetto a ciò che essa genera o scatena. Ma anche nel Canzoniere il tenue filo, quel dipanarsi di una vita d'uomo senza nulla di intrecciato o di avventuroso, passa in seconda linea, potrebbe anche contraddirsi, perdere la coerenza, e forse non ce ne accorgeremmo neppure. Quella che conta é invece l'irresistibile caratterizzazione fisionomica dei singoli episodi: ognuno col suo colore e il suo divenire. Ascoltiamo con rapimento e insieme vogliamo sapere quel che vien dopo, la prossima aria, la prossima romanza di quell'episodio. Il Canzoniere ci mette in un atteggiamento da spettatori di melodramma.
Ma anche la sua linfa vitale, quando si mostra allo scoperto, ha la densità e l'empito di una sostanza di melodramma. Sono quasi simbolici, a questi effetti, il gesto che virtualmente apre e quello che effettivamente chiude il Canzoniere. Il primo è la chiamata di Saba alla poesia, come è ricordata in uno dei sonetti autobiografici. Il ragazzo, che sognava giacendo in riva al mare, ha avuto quella visione e promessa di gloria, e balza in piedi, e veramente squilla:
E' possibile, o Ciel, che questo sia?
i
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Con un moto simmetrico, e tanto più significativo perché senza dubbio involontario, il poeta si congeda dal suo libro. Ormai è anziano; ma in quel momento, come sorretto da un « tutti » dell'orchestra, perdutamente canoro, ritrova l'antico squillo:
Ho in cuore di una vita il canto
dove il sangue fu sangue, e il pianto pianto.
Para. troppo teatro d'opera. E certo Saba non va cercato qui, dove la sua generosa persuasione di comunicare, la sua prodigalità umana lo travolgono a un eccesso di fiducia. Prendiamolo allora in uno dei suoi punti più sicuramente alti, l'inizio dell'Appassionata:
Tu hai come il dono della santità
nacque con te, ti segue ove ti porta la passione...
Si accolgono questi versi come se già da alcuni attimi una orchestra, scandendo il ritmo su cui si articolerà la melodia, abbia incantato l'aria, ne abbia influenzato la disponibilità acustica a ricevere, a ospitare proprio quel disegno sonoro; abbia già avviato i nostri cuori a battere in concordia con quegli accenti.
Ma anche dove il Canzoniere tende a segni più epigrammatici, a definizioni più, come si dice, di essenze, ad un cantare più spoglio e rasciugato, troveremo ancora movimenti come questo: « Muto - parto dell'ombre per l'immenso impero ». Si arriva a supporre che l'ascendente esercitato su di noi da quel gesto, che rischia e sventa un minimo di fatalità scenica, si prevalga di una eco non ben localizzabile, ma quasi sicuramente emanata da qualche accento del Re Filippo nel Don Carlo verdiano.
C'è stato addirittura un momento in cui Saba ha sottoposto a una prova cruciale il suo istintivo ricreamento delle strutture del melodramma. Fu quando scrisse, senza nemmeno sospet tarlo, la propria « arte poetica ». Si proponeva semplicemente di
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comporre un'altra delle sue poesie, forse la più audace che avesse mai tentato prima delle Fughe; e siccome in quel periodo le cose che più lo ispiravano erano cose viventi, erano figure, egli prese ad argomento, né più né meno, che tutt'intera la vita di un uomo. Stiamo parlando, come è chiaro, del poemetto L'Uomo. Sulla vita di quel suo personaggio - un popolano, un lavoratore che impersona la media dei lavoratori in una città di traffici e di industrie — Saba operò come sempre aveva fatto anche sulla propria vita per ottenerne i vari episodi del Canzoniere. Controllò se nel flusso dei giorni si potessero condensare alcune situazioni tipiche, proverbiali, quasi emblematiche: il momento in cui l'uomo vive le proprie esuberanze adolescenti, quello in cui si mette a lavorare, e poi quando sposa, e via di seguito fino alla vecchiaia e alla morte. Un tentativo che si era già visto in certi drammi espressionisti: senonché quelli schematizzavano tali momenti per esasperarne la nuda, contratta apparizione in risonanze sinistre e angosciose. Saba invece andò a vedere se quelle varie situazioni sapevano colmare, con l'intima e disagevole poesia del quotidiano, le misure del canto. Ogni situazione una strofa, ogni strofa un grande arioso, un ampio pezzo d'opera. Ma questa era proprio il «metodo» con cui egli personalmente aveva cavato dal decorso della propria vita gli episodi del Canzoniere: situazioni che diventavano libretto, libretto che diventava poesia. Di quel metodo L'Uomo era dunque la prova spe- rimentale e in vitro. Saba sperava di uscire da se stesso, di raggiungere le cose senza la mediazione della propria persona, di darsi una nuova e diversa misura della sua partecipazione alla « calda vita » di tutti. Invece chiedeva, a occhi bendati, un responso esplicito e diretto alla propria sorte, come se interrogasse un'indovina: quasi che avesse voluto sapere, attraverso l'esito di quell'oratorio o melodramma, se i suoi procedimenti poetici fossero giusti. La risposta, come sempre in questi casi, fu sibillina. Ancora nella Storia e Cronistoria, tanti anni dopo, Saba continuava a domandarsi se L'Uomo era o no una poesia interamente riuscita: caso che non lo fosse — diceva — « anche i mo-
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menti più belli, gli episodi più ispirati... non basterebbero a salvare l'insieme: e tutto — il bello e il brutto — sarebbe ugualmente destinato a perire ». In realtà la sorte, sotto apparenze ambigue, gli aveva dato un responso molto saggio: non gli rimaneva se non di andare avanti per la sua strada, e sulla felicità dei risultati avrebbe sempre meglio accertato la plausibilità del suo « metodo » : che era, appunto, il metodo del melodramma.
***
Se, arrivando adesso a Trieste, ci fosse dato ancora di incontrare Saba, se potessimo passeggiare con lui per una via scelta a caso, e il caso per noi avesse scelto proprio la via che si chiamerà Umberto Saba, forse tenteremmo di raccontargli le cose che qui abbiamo cercato di dire. Potrebbe darsi che a tutta prima Saba si sdegnerebbe per i possibili equivoci della parola « melodramma ». Poi probabilmente farebbe il broncio avverso 'di quando era contento e per la prima volta, forse, nella nostra lunga amicizia, accetterebbe queste nostre ultime conclusioni su di lui. Seppure non se lo disse, egli arrivò molto vicino a sentire di aver battuto la grande via italiana del melodramma, con un'impresa che poteva parere d'altri tempi, e viceversa era nuova e per tanti aspetti anticipatrice nella poesia. Gli parve che la più autentica chiave per capirlo l'avesse data Quarantotti Gambini, quando lo aveva avvicinato a Verdi. Non credo che la sua soddisfazione derivasse soltanto da un paragone che inorgoglirebbe qualsiasi artista dei più grandi. Forse egli gioì soprattutto perché Verdi, oltre ad essere Verdi, é la personificazione del melodramma. Anche a Saba, per quel suo prepotente bisogno di far balzare le cose sotto gli occhi, é capitato suppergiù come a Verdi, per un gran tratto della sua vita: gli intenditori dicevano che non sapeva la musica, che sapeva male la musica. Si dava però che quella musica mal fatta e sommaria, riprovevole e scorretta per i maestri di Conservatorio, saltava le ribalte e mirava al cuore. Anche Saba, proprio e quanto più faceva poesia con tutte le regole, poté per un pezzo essere giudicato come uno che non sapeva la poesia.
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Verdi alla fine si prese la rivincita di dare una lezione ai maestri, senza rinunciare a nulla della sua vena. E Saba fini con poesie capaci di fare le delizie dei più puntigliosi metricola-ghi. Verdi, da ultimo, riuscì nel Falstaff a fabbricare il sorriso, fingendo di sorridere sui più cupi, sarcastici rintocchi che si facciano sentire in una vita d'uomo, che ha creduto nella vita e nell'amore. Saba ha fabbricato, negli Uccelli, i cinguettii di una piccola, portentosa uccelliera, fingendosi una tregua di serenità, sull'orlo di imminenti e certamente temuti squallori.
Ma questi sono ancora paralleli aneddotici, che possono parere artificiosi. Vero è invece che Saba, nel congedare l'ultima delle sue raccolte, disse al lettore:
Se leggi questi versi, e se in profondo
senti che belli non sono, son veri
ci trovi un canarino e TUTTO IL MONDO.
Gli veniva dalla Nave di D'Annunzio, finalmente perdonato, quel « tutto il mondo » scritto in maiuscole? (1). Lasciamo stare: è sicuro invece che la terzina gli veniva da un'altra storia, Dopo soddisfatte, cori una onestà a tutta prova, con una disponibilità di mezzi che nessuno ormai gli poteva contestare, anche le esigenze della « bella » poesia, la sicurezza di avere utilmente speso la propria vita gli era data dalla fiducia, dalla controprova che la sua poesia reggeva al criterio del vero. Il vecchio verista era ormai tranquillo di essere riuscito ad alzare le cose anche al di sopra di ciò che il verismo prometteva: dal vero dell'oggi al vero di tutti i giorni possibili. Si era seduto al tavolo del suo gioco, e gli era parso che tutte le carte fossero contrarie, come dice la poesia Partita. Ma alla fine poteva in buona fede concludere come conclude quella poesia: « Mi levo - tra volti amici, conto il mio guadagno ».
Quel criterio del vero, che gli permetteva di ricapitolare tutto il suo lavoro con uno sguardo ancora più rasserenato, l'aveva
(1) Del D'Annunzio poeta teatrale, il Saba degli anni più polemici soleva dire che avrebbe preferito, semmai, il primo atto della Fedra.
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desunto da uno scritto sul melodramma. Donde gli fosse giunto quello scritto, è inutile dire. Saba lo dichiarò solo in privato, non tocca a noi di renderlo pubblico. Si tratta di una trafila che si ricostruirebbe indagando meglio le ragioni, a Saba certamente chiare, ma a noi rimaste relativamente oscure, per cui l'ultima sua raccolta mutò il titolo progettato di Amicizia in quello di Quasi un racconto. E appurando il sostrato, taciuto ma non erme- tico, di una poesia di quella raccolta che si intitola Invio. (« Do-Po tre anni di silenzio ho scritto - pochi versi. Non posso - mandarli a te, di cui sì cara m'era - (mi sarebbe) una lode... Ma trafitto - mi sento il cuore da una punta acuta - come un rimorso). Quando Saba lesse, appena quarantenne, lo studio di un suo critico che faceva su di lui la prima, grande scommessa della propria vita, rispose, smuovendo una celebre eco: « Un'aurora ha incontrato un tramonto ». Adesso, un tramonto saluta una dipartita. E' giusto che due amici di tutta la vita conservino, per sé soli, un piccolo innocente segreto.
D'altronde, non si defrauda nessuno. La cosa importante, il Canzoniere, é di tutti. E ormai soprattutto di quelli non ancora nati che, del nostro Umberto Saba, dell'uomo che noi vedemmo e ascoltammo vivo nella sua « vendemmiante età », non conosceranno se non le sembianze irrigidite nei monumenti. Forse anche le rondini, prima di migrare, impareranno a posarsi su quelle spalle di marmo per un'ultima sosta. Lassi le saluteranno gli uomini destinati a rimanere nell'inverno:
Quest'anno la partenza delle rondini mi stringerà, per un pensiero, 'il cuore.
GIACOMO DEBENEDETTT
 
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Testata/Serie/Edizione Nuovi Argomenti | Prima serie diretta da Alberto Moravia e Alberto Carocci | Edizione unica
Riferimento ISBD Nuovi argomenti : Rivista bimestrale. - N.1 (1953)-. - Roma [distribuzione Torino] : [s.n., distribuzione Einaudi], 1953-. - v. ; 23 cm (( La periodicità è variata più volte: la prima serie esce con periodicità irregolare, dal 1976 trimestrale. La prima serie si conclude con il n.69/71 (Luglio-Dicembre 1964 ma pubblicato nel marzo 1965), nel 1966 inizia la nuova serie che termina con il n.67 68 (1980), nel 1982 la terza serie che termina con il n.50 (apr. giu. 1994) ed inizia la quarta serie con il n.1 ... {Nuovi argomenti [rivista, 1953-]}+++
Data pubblicazione Anno: 1958 Mese: 1 Giorno: 1
Numero 30
Titolo KBD-Periodici: Nuovi Argomenti 1958 - 1 - 1 - numero 30


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